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Globalizzazione dell'economia e globalizzazione del degrado ambientale


Stefano Osualdella
 


Fino a non molto tempo fa, prima che, con gli attentati terroristici sul suolo americano e i conseguenti interventi bellici in Afghanistan e Iraq, avesse inizio il periodo di forti tensioni internazionali che ha caratterizzato i primi anni del XXI secolo, il fenomeno che catalizzava l'attenzione di tutti era la globalizzazione. Nonostante questi tragici episodi abbiano messo in dubbio la natura stessa di questo fenomeno, dando in parte ragione a chi, da un lato, l'ha sempre contestata (movimenti No-Global o New-Global1) o a chi, da un altro, più di recente, ritiene sia prossima ad esaurirsi2, la globalizzazione è verosimilmente un processo con il quale dovremmo imparare a convivere. È infatti ineluttabile che in futuro, al di là di momentanei passi indietro dovuti a momenti contingenti, lentamente ma inesorabilmente i confini nazionali perderanno parte del loro valore, le persone si muoveranno sempre più facilmente facendo diventare il mondo sempre più piccolo. Del resto la globalizzazione, in un certo qual modo, fa ormai parte della forma mentis delle nuove generazioni e soprattutto si inserisce perfettamente in un contesto in cui, grazie alle nuove tecnologie ICT, la terra ha sempre meno frontiere, soprattutto dal punto di vista culturale.


In ogni caso, con l'avvento, a partire dagli anni '80, di questo dirompente fenomeno, ha preso avvio un processo di integrazione delle attività economiche, dell'informazione e della comunicazione, degli scambi e delle istituzioni, che vede coinvolta buona parte dei Paesi del mondo. Il fenomeno ha assunto tuttavia connotati più netti nel momento in cui al suo fianco si è inserita una variabile nuova ma dalla significativa portata innovativa: il progresso tecnologico. Si è venuto così a determinare un circolo virtuoso tra l'espansione economica mondiale - con l'apertura di nuovi mercati, l'integrazione più stretta di aree economiche sempre più ampie (in Europa, nel Nord America, nel Sud Est asiatico), la libera circolazione di capitali e merci, il passaggio di grandi gruppi industriali dalla proprietà pubblica a quella privata - e lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e delle telecomunicazioni (ICT), che ha dato il via ad una serie di significative rivoluzioni nelle modalità di lavoro, di organizzazione e di comunicazione, ponendo le basi per nuovi business prima impensabili.


Da una parte, con la volontà di assecondare questo processo per fare propri i relativi vantaggi, in numerosi Paesi sono state adottate politiche neoliberiste che hanno assegnato ai mercati e alle imprese il ruolo di protagonisti dello sviluppo mondiale. In questo quadro, gli scambi commerciali internazionali hanno registrato un incremento senza precedenti e le multinazionali hanno visto crescere il proprio peso nel più ampio contesto internazionale3.


Secondo molti tutto ciò avrebbe dovuto avvantaggiare i Paesi meno fortunati consentendogli un'accelerazione utile a ridurre il gap che li separava dalle floride economie sviluppate. Un segnale in tal senso sembrava delinearsi nell'accresciuta importanza assunta da alcuni Paesi asiatici, in primo luogo Cina, Taiwan e Corea, e nella crescita significativa degli investimenti diretti esteri (passati da 202 miliardi di dollari nel 1990 a 1.270 miliardi nel 2000) e del numero dei destinatari di queste ingenti risorse finanziarie. Malgrado ciò, a distanza di tempo, il dominio del mercato globale è ancora saldamente nelle mani dei Paesi della Triade - USA, Europa e Giappone - e la maggior parte degli investimenti resta concentrata in alcune aree del mondo, lasciandone altre - in primo luogo l'Africa - praticamente escluse4.


Dall'altra parte, l'impetuoso sviluppo tecnologico concretizzatosi sul finire degli anni '90, ha svolto un ruolo determinante nel rendere percepibile, ai più, la globalizzazione. La portata innovativa delle nuove tecnologie dell'informazione e degli strumenti di accesso alla rete internet, travalicando i confini geografici ed abbattendo barriere e distanze, è stata tale da determinare una nuova fase economica e sociale, globale appunto, e fondata sulle reti e su fattori per lo più immateriali.


Purtroppo, però, anche su questo fronte, i benefici di questo processo si sono manifestati, nel mondo, in maniera tutt'altro che uniforme, determinando un sostanziale incremento, e non una riduzione, del gap tecnologico tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo5.


Nonostante questi risultati piuttosto deludenti, in termini generici non si può non concordare sul fatto che gli ultimi decenni siano da considerare come una fase di crescita senza precedenti dell'umanità e ciò sia in ambito economico che in quello sociale e culturale. Numerose sono infatti le stime che attraverso indicatori sintetici sono in grado di dimostrare questo consistente passo avanti: la prospettiva di vita dei bambini di oggi, ad esempio, è di 8 anni superiore rispetto a quella degli adulti, l'analfabetismo è un fenomeno che ormai colpisce un quarto della popolazione mondiale, quando soltanto nel 1970 interessava la metà degli adulti dei Paesi in via di sviluppo, le persone che hanno accesso all'acqua potabile nelle aree rurali si sono quintuplicate.


Peraltro, passando ad un'analisi attenta a non compensare peggioramenti e miglioramenti e soprattutto consapevole del fatto che il mondo è un insieme di Paesi, aree geografiche e classi sociali, la situazione si presenta sostanzialmente differente. In tale ottica emerge infatti come questi progressi siano stati ottenuti a prezzo di crescenti ineguaglianze, se non addirittura arretramenti di alcuni Paesi. Come riporta il Rapporto UNDP (United Nations Development Programme - Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite) sullo sviluppo umano del 20026, al sostanziale progresso raggiunto negli ultimi dieci anni a livello di sviluppo umano in alcuni Paesi corrispondono tragiche eccezioni in aree del globo quali l'Europa centrale ed orientale, l'ex Unione Sovietica e l'Africa sub-sahariana, che dispongono, oggi, di un reddito inferiore al passato (vedi Tabella 1).


In termini assoluti, dunque, il divario tra i Paesi ricchi ed i Paesi poveri si è notevolmente allargato7.

 

Tabella 1 - Paesi aventi nel 2002 reddito inferiore rispetto al

1975

1976-80

1981-85

1986-90

 

Giamaica

Madagascar

 

Angola

Arabia Saudita

Bolivia

Ciad

Costa D’Avorio

El Salvador

Gabon

Ghana

Guatemala

Haiti

Honduras

Iran

Kuwait Rep. Isl.

Mali

Mauritania

Namibia

Nicaragua

Niger

Nigeria

Rep. Centrafricana

Senegal

Togo

Venezuela

Zambia

 

Albania

Algeria

Comore

Congo

Etiopia

Gambia

Georgia

Paraguay

Perù

Filippine

Rwanda

Sierra Leone

Sud Africa

Trinidad/Tobago

 

Armenia

Azerbaigian

Bahamas

Belarus

Bulgaria

Camerun

Croazia

Estonia

Fed. Russa

Giordania

Kazakistan

Kenya

Kirghizistan

Lettonia

Lituania

Macedonia, TFYR

Moldavia Rep.

Mongolia

Romania

Tagikistan

Turkmenistan

Ucraina

Uzbekistan


Fonte: UNDP, Human Development Report 2002. Deepening democracy in a fragmented world, Oxford University Press, New York, 2002.


Il progresso, insomma, sembra essersi realizzato in una sola parte del mondo, a scapito dell'altra8. La globalizzazione dei mercati e dei flussi di capitale pare essere stata condotta secondo regole che hanno favorito soltanto alcuni Paesi, incrementando ulteriormente la loro quota di ricchezza. A questo stato di cose ha contribuito l'accresciuto potere contrattuale delle grandi multinazionali che ha determinato, nel corso degli ultimi due decenni, un notevole declino dei prezzi delle materie prime, sia in termini assoluti che in relazione ai prezzi dei prodotti industriali. Oltre agli enormi guadagni ottenuti da questi grandi gruppi con tali politiche di prezzo, da ciò ne sono conseguiti per la gran parte dei Paesi in via di sviluppo, forti esportatori di materie prime, un peggioramento delle ragioni di scambio ed una riduzione della loro disponibilità di ricchezza, rendendo incerte le prospettive di reddito e deprimendo gli investimenti.


Le conseguenze della globalizzazione non hanno però tardato a farsi sentire anche su altri piani, primo fra tutti quello ambientale. L'odierno sistema di mercato, regolato com'è da logiche capitalistiche, operando svincolato dal calcolo dei costi sociali ed ambientali delle attività economiche, contribuisce in maniera determinante all'inarrestabile degrado ambientale. L'attuale modello di sviluppo porta con sé uno smisurato sfruttamento delle risorse, un enorme consumo di energia, una sovrapproduzione di rifiuti e di inquinamento tali da rendere il bilancio degli effetti ambientali della globalizzazione economica costantemente in perdita. Come dimostra il continuo aggravarsi delle problematiche ambientali - dalla crisi energetica, alla crisi climatica, idrica, agricola, alla deforestazione, alla desertificazione -, l'uso delle risorse naturali, disancorato da principi di solidarietà e di ragionevolezza, produce effetti allarmanti sull'ambiente. Per questi motivi negli ultimi anni le conseguenze dirette della globalizzazione sulla qualità dell'ambiente sono state oggetto di numerose discussioni.


Un aspetto preoccupante della situazione che si è venuta a determinare risiede in quella che potrebbe essere definita "esportazione del malessere", una tendenza che si sostanzia nella sempre più intensa migrazione dei processi produttivi verso quelle aree in cui, oltre ad un basso costo del lavoro, sono pressoché inesistenti controlli e misure di protezione ambientale. In questo modo i Paesi sviluppati riescono a trasferire altrove tecnologie obsolete con le loro esternalità negative: pericolosità, inquinamento ambientale, scarti di lavorazione. Così, oltre ad ottenere evidenti risparmi in termini di minori costi di produzione o di maggior sfruttamento di macchinari ormai ammortizzati e soprattutto incompatibili con le più rigide norme di sicurezza presenti in Occidente, assumono anche le vesti di "benefattori" nei confronti dei Paesi meno fortunati. La verità è che purtroppo, in alcuni casi, queste scelte hanno contribuito al peggioramento delle condizioni di vita in diverse aree del mondo facendo aumentare la distanza esistente tra Paesi ricchi e Paesi poveri.


A questo fenomeno se ne sovrappone, poi, uno, per certi versi, ancora meno nobile: l'esportazione di rifiuti tossici nei PVS, un fenomeno nato come conseguenza dei più restrittivi provvedimenti normativi e fiscali in ambito ambientale, della maggiore sensibilità dei consumatori e della tendenza a delocalizzare le produzioni industriali più inquinanti verso i PVS. In questo modo nei Paesi sviluppati è stata realizzata una riduzione dei carichi ambientali a scapito degli ecosistemi dei Paesi poveri dove il degrado ambientale continua ad aggravarsi. Se nei Paesi industrializzati il carico inquinante si riduce e l'ambiente recupera in parte le sue funzionalità, in tutti i Paesi in via di sviluppo le emissioni inquinanti aumentano notevolmente: si pensi che la crescita delle emissioni da attività industriali, in molti Paesi, ha un tasso superiore a quello della crescita economica.


Particolarmente rilevante è l'impatto inquinante sulle risorse idriche: nei Paesi poveri, i processi di alterazione delle condizioni ecologiche delle acque hanno conosciuto una forte accelerazione nel corso degli ultimi decenni. I livelli di inquinamento sono in costante crescita ed il loro impatto sanitario è aggravato dal fatto che gran parte della popolazione si approvvigiona direttamente dalle acque superficiali o da quelle sotterranee, che risultano anch'esse sempre più inquinate dagli scarichi e dai rilasci agricoli.


Ma in questi Paesi cresce anche l'inquinamento atmosferico e, più in generale, crescono tutti i principali fattori di impatto ambientale: consumo di pesticidi, consumo di sostanze dannose per la fascia di ozono, erosione del suolo.


Ancora una volta emerge come il miglioramento delle condizioni di vita realizzato in alcune aree del mondo è stato ottenuto sulla scorta del peggioramento in altre. Questo stato di cose dovrebbe far riflettere su quanto, poi, la globalizzazione sia effettivamente un fenomeno lontano dall'esaurirsi. Il mondo infatti si presenta sempre più come un sistema globale ed integrato, dotato di risorse finite, nel quale non è più possibile ragionare in termini nazionali, ma occorre prestare attenzione al fatto che il vivere meglio da una parte significa costringere qualcuno da un'altra a vivere peggio.


Tuttavia, se è vero che l'impatto dei processi in atto sulla qualità e disponibilità delle risorse si sta rivelando devastante, è altrettanto vero che ad oggi questo stato di cose non è irreversibile. La prospettiva di ridurre i costi ambientali delle attività economiche e di ripartirne più equamente il carico è infatti verosimile, ma richiede un brusco cambio di orientamento nelle politiche e nelle coscienze.

 

1Sul punto si vedano ANDREATTA M. - DELLA PORTA D. - MOSCA L. - REITER H., Global, Noglobal, newglobal, Laterza, Bari, 2003; MOLINARI M., No global?, Laterza, Bari, 2003; DE MICHELIS D. - FERRARI A. - MASTO R. - SCALETTARI L., No Global: gli inganni della globalizzazione sulla povertà sull'ambiente e sul debito, Baldini & Castoldi, Milano, 2003.
2Cfr. DEAGLIO M., Post-global, Laterza, Bari, 2004.
3Si consideri che, nel 2000, il valore delle esportazioni realizzate dalle multinazionali era pari al 10% del prodotto lordo mondiale ed al 50% del valore delle esportazioni mondiali, mentre nel 1990 era pari a poco più del 25%.
Il fatturato totale delle 200 più grandi imprese multinazionali equivale al 27,5% del prodotto lordo mondiale; il valore combinato dei fatturati di queste 200 imprese è superiore al prodotto lordo mondiale al netto delle 10 più grandi economie nazionali.
L'Institute for Policy Studies (URL: www.ips-dc.org), nel 2000, ha dimostrato che, mettendo insieme i fatturati delle imprese e il prodotto interno lordo delle nazioni, tra le 100 più grandi economie mondiali si contano 51 imprese multinazionali e 49 Stati nazionali.
4Così nel 2000 il flusso di investimenti esteri concentrato in USA, Europa e Giappone è stato pari all'80% del totale dei flussi, mentre i Paesi in via di sviluppo hanno nello stesso anno raggiunto il livello più basso dal 1990, con una quota di investimenti esteri persino più bassa rispetto alla loro quota dell'export mondiale e alla loro quota sul totale degli investimenti interni. Considerando inoltre che gli investimenti diretti esteri sono per la maggior parte, oltre il 90%, finalizzati ad operazioni di fusione e acquisizione, emerge con chiarezza come nel breve periodo non implichino la creazione di nuove imprese ma solo il controllo di imprese già esistenti e la creazione di concentrazioni oligopolistiche. Cfr. BIANCHI D., La Globalizzazione: effetti economici, sociali, ambientali, introduzione a Ambiente Italia 2002, a cura di Legambiente, febbraio 2002, URL: www.legambiente.com/documenti/2002/2002glob.pdf.
5Si pensi che nel 2000, mentre negli Stati Uniti vi erano 35 computer ogni cento abitanti, in Africa erano solo 5 persone su 1000 ad utilizzare Internet e vi era 1 computer ogni 100 abitanti. Addirittura in nessun Paese dell'America latina si raggiungeva una densità di 10 computer ogni 100 abitanti e in Asia, dove alcuni Paesi hanno conosciuto un forte sviluppo (in Corea,Taiwan, Malesia l'utilizzo di Internet e del pc supera il 10% della popolazione, in Corea è maggiore di vari paesi europei), solo lo 0,5% della popolazione indiana, l'1% di quella indonesiana e il 2% di quella cinese aveva 1 pc. Cfr. BIANCHI D., La Globalizzazione: effetti economici, sociali, ambientali, cit.
6UNDP, Human Development Report 2002. Deepening democracy in a fragmented world, Oxford University Press, New York, 2002.
7Secondo il citato rapporto UNDP 2002, p. 2, il 10% della popolazione più benestante degli Stati Uniti (25 milioni di persone) ha un reddito equivalente al 43% della popolazione mondiale (più di 2 miliardi di persone) e l'1% della popolazione mondiale più ricca (50 milioni di persone) ha un reddito equivalente al 57% della popolazione più povera (2,8 miliardi di persone).
A conferma dell'inasprimento delle disuguaglianze tra le varie aree del mondo, l'UNPD, confrontando l 'andamento dei redditi procapite delle varie aree tra il 1960 e il 1999, ha rilevato che solo per l'Asia Orientale, dove risiedono le economie più dinamiche, si è ridotta la distanza con il reddito procapite dei Paesi OCSE, passato da 1/10 a 1/5; nell'Asia meridionale, che negli ultimi due decenni ha recuperato il peggioramento degli anni '60 e '70, il rapporto 1/10 è rimasto invariato; per l'America latina si è registrato un leggero peggioramento, con un reddito che rimane circa 1/3 di quello dei Paesi ricchi. Per l'Asia Orientale, la differenza assoluta di reddito procapite (in valori costanti) rispetto ai Paesi ricchi è passata dai 6.000 dollari del 1960 ai 13.000 dollari del 1998.
8Sul processo di "occidentalizzazione" CASELLI M., Globalizzazione e sviluppo: quali opportunità per il sud del mondo?, Vita e Pensiero, Milano, 2002; GALLINO L., Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2000; LATOUCHE S., L'occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell'uniformazione planetaria, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 (tit. orig. L'occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l'uniformisation planétaire, Editions La Découverte, Paris, 1989).