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Avocazione delle cave

 
(Nota a sentenza TAR Umbria - 20 maggio 2003 n. 390)

RENATO FEDERICI
 


 

SOMMARIO: - 1. Introduzione; - 2. La sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 1967 n. 20; - 3. Un caso particolare; - 4. L'inerzia del proprietario fondiario e la diffida della P.A.; - 5. Presupposti della domanda di autorizzazione; - 6. Effetti modificativi della limitazione all'apertura di nuove cave sul dettato originario dell'art. 45 della legge mineraria; - 7. Conclusioni.  > Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria - 20 maggio 2003 n. 390 <



1. Introduzione


Prendo spunto da una recente sentenza del TAR Umbria1 per intraprendere un breve studio sopra un tema spinoso: qual è quello della avocazione dei giacimenti della categoria cave. È appena il caso di ricordare che la legislazione mineraria prevede due categorie di giacimenti (le miniere e le cave) e detta due diverse discipline. Una disciplina marcatamente pubblicistica per le miniere; e un'altra solo in parte pubblicistica per le cave. È per questo motivo che i giacimenti della categoria miniere sono considerati beni pubblici, mentre quelli della categoria cave sono considerati come beni privati di interesse pubblico. La qualifica delle cave come beni privati di interesse pubblico, come è noto, risale agli studi illuminanti di Aldo M. SANDULLI2 e costituisce quella più comunemente accettata3.


I giacimenti della categoria cave sono considerati beni privati di interesse pubblico perché la legge mineraria (R.D. 29 luglio 1927 n. 1443 e successive modifiche) prevede l'avocazione del deposito nel caso di inerzia del proprietario del fondo. Ai sensi dell'art. 45 della legge mineraria, i casi in cui l'autorità amministrativa può diffidare il proprietario fondiario sono tre:
a) quando si verifica l'inerzia nell'intraprendere l'attività di estrazione;
b) per conduzione inadeguata dell'attività estrattiva;
c) per sospensione della stessa.


L'autorità mineraria può prefiggere un termine per l'inizio, l'intensificazione o la ripresa dei lavori. Nel secondo e nel terzo caso la diffida ha carattere sanzionatorio e quindi non vale la pena soffermarsi su di essi. Più complesso è risolvere la fattispecie di cui alla prima ipotesi. In questa ipotesi si tende ad escludere il carattere sanzionatorio. L'inerzia può dipendere da tanti fattori. Non da ultimo, dall'incapacità del proprietario di attivarsi per tempo. Quando l'autorità amministrativa diffida il proprietario di un terreno e gli concede un termine entro il quale attivarsi per lo svolgimento dell'attività estrattiva nel proprio fondo, mette quest'ultimo in una posizione ultimativa (oggettivamente difficoltosa) dalla quale non se ne esce facilmente. Se non lo si è già, è ormai troppo tardi per trasformarsi (oltretutto, in breve tempo) in imprenditore minerario.

 


2. La sentenza della Corte Costituzionale 9 marzo 1967 n. 20


La Corte Costituzionale ha riconosciuto la conformità dell'art. 45 della legge mineraria al dettato costituzionale con la sentenza 9 marzo 1967 n. 204.


In particolare, la Corte ha sottolineato:
- la comune ispirazione tra il trattamento giuridico delle cave e delle miniere;
- la comune funzione economico-sociale derivante dalla coltivazione delle stesse.


Le differenze di disciplina, dunque, non possono non essere che di poco conto. Rileva, infatti, la Corte Costituzionale che: "la funzione economico-sociale delle cave, secondo la valutazione fatta dall'ordinamento giuridico, si differenzia solo quantitativamente da quella che svolgono le miniere"5.


"L'attribuzione al proprietario del fondo di un diritto sulla cava… rispecchia la minore intensità del vantaggio generale che le cave possono rendere"6. Intensità che, peraltro, nel corso del tempo, potrebbe mutare. La differenza di disciplina tra il settore delle miniere e quello delle cave si assottiglia di molto, se non si tratta di differenza qualitativa ma unicamente di differenza quantitativa. È così che il potere accordato al proprietario fondiario è considerato "uno strumento d'attuazione del pubblico interesse"; nel senso che l'iniziativa del proprietario fondiario non è un'iniziativa principale ma quella di chi "avrebbe potuto ugualmente attendere alla realizzazione" dell'iniziativa nell'interesse pubblico7.


Il diritto del proprietario fondiario sui giacimenti della categoria cave risponde, dunque, ad un esercizio eventuale. Il diritto sulla cava è attribuito perché con esso il proprietario fondiario possa realizzare un interesse pubblico e non già un interesse privato8.


Il diritto del proprietario del fondo sulla cava non è un diritto di proprietà pieno. Sulla miniera egli non ha alcun diritto, sulla cava ha qualche diritto ma non quello di piena proprietà. Ciò non toglie che questi diritti possano formare oggetto di trasferimento e quindi di contratti minerari9. Per la minore intensità del vantaggio generale, il legislatore ha ritenuto:
- spropositato un trattamento giuridico identico a quello delle miniere, e quindi "una sottrazione originaria" del bene cava al proprietario del fondo;
- congruo "l'assegnazione di un limite al diritto" del proprietario del fondo10.


Si tratta, dunque, di diritto di proprietà conformato (M.S. GIANNINI). Forse, questo diritto non è neanche un diritto di proprietà, avendo il bene cava una rilevanza pubblica. E di ciò dubita anche la Corte Costituzionale quando afferma che "non importa individuare la natura del diritto del privato sulla cava: la proprietà, l'usufrutto o che altro sia"11. La "struttura del diritto, comunque esso si qualifichi", è caratterizzata dalla essenza giuridica del bene e vincolato "indissolubilmente ad un esercizio che svolga quella funzione di interesse generale cui la cava è, di per sé, destinata"12.


Altra questione: l'atto di concessione della cava al terzo ha carattere ablativo?


La Corte Costituzionale risponde che con quest'atto non viene sottratto nulla al proprietario fondiario. Il valore del diritto prevalso non deriva dal diritto sacrificato, ma dall'esercizio dei diritti che sono contrapposti a quelli del proprietario fondiario13.

 


3. Un caso particolare


La fattispecie affrontata dal TAR Umbria è piuttosto complessa. Occorre riassumere brevemente i fatti per capire se la questione vada inquadrata come inerzia del proprietario fondiario nell'intraprendere l'attività di estrazione o in altro modo.


Nella campagna di Perugia, in località S. Orfeto, esiste un giacimento di conglomerati sabbiosi. Il piano regolatore prevede la destinazione ad attività estrattiva solo per una parte dell'area di giacitura del deposito minerario. La proprietà dell'intero giacimento, invece, è suddivisa fra tre diversi soggetti.


La proprietà del fondo dove l'attività estrattiva può essere esercitata è di un soggetto diverso rispetto a quella dei proprietari del giacimento restante.


Un bel giorno (probabilmente dell'anno 2000), essendo in corso la modifica del piano regolatore, la società Ascagnano proprietaria dell'area più estesa (circa 6 ettari e mezzo) presenta osservazioni dirette al cambio di destinazione al fine di inserire il proprio fondo nell'area adibita ad attività estrattiva. Senza che ve ne sia necessità, l'osservazione è presentata congiuntamente alla società Proter s.r.l., proprietaria della parte del giacimento in corso di coltivazione.


L'osservazione, in seguito, sarebbe stata accolta. Tanto che nel giugno 2002, il nuovo piano regolatore estende la destinazione mineraria alla quasi totalità del fondo Ascagnano ed a quella molto più piccola di un altro proprietario (Polidori) che peraltro non aveva presentato osservazioni.


Nel frattempo, i rapporti tra le due società si erano deteriorati: la società Ascagnano credeva di aver trovato un acquirente (a cui vendere i futuri diritti di escavazione) diverso dalla Proter. Quest'ultima, sentendosi esclusa, nell'agosto 2001 propone istanza di concessione alla Regione ai sensi dell'art. 45 della legge mineraria. Di lì a poco, la Regione Umbria espleta un tentativo di bonaria composizione della vicenda, fallito il quale, delibera la "sussistenza dei presupposti per avviare il procedimento" di avocazione14. Questa delibera verrà impugnata insieme agli atti presupposti, connessi e consequenziali. Invero, anche dal comportamento successivo della Regione si evince che in realtà la suddetta delibera è, a tutti gli effetti, il provvedimento di avocazione. Tanto è vero che i proprietari fondiari non vengono diffidati a presentare domanda di autorizzazione ma vengono invitati a presentare un progetto di coltivazione nell'ambito del procedimento di concessione instaurato con la domanda della Proter s.r.l. Nel contempo, infatti, la Regione chiede alla Proter di presentare un progetto per l'intero giacimento.


L'invito rivolto alla Ascagnano e al Polidori di presentare nel termine di 90 giorni15 un progetto di coltivazione e ricomposizione per le parti del giacimento ricadenti nelle rispettive proprietà, dunque, si inserisce nel procedimento concessorio da altri iniziato.


Alla scadenza del termine, una nuova società (alla quale la Ascagnano e il Polidori avevano ceduto i diritti) presenta alla Regione il progetto richiesto e, a titolo cautelativo, ne presenta un altro per l'intero giacimento.


Questa società di nome "Granulati Centro Italia s.r.l." propone inoltre, al Comune di Perugia, domanda di autorizzazione.


Anche la Proter inoltra il proprio progetto.


Cerchiamo ora di comprendere i motivi per i quali la società prescelta dalla Ascagnano e dal Polidori ha presentato un progetto supplementare e la domanda di autorizzazione. Qualunque siano stati i suddetti motivi, la presentazione di un progetto per la coltivazione dell'intero giacimento prova che la coltivazione unitaria costituisce la soluzione migliore sotto il profilo dell'interesse pubblico all'estrazione.


La domanda di autorizzazione come si spiega? Con questa domanda si dà inizio ad altro procedimento, il quale è diretto ad ottenere un provvedimento che solamente il proprietario fondiario (o chi per lui) può presentare. Questa domanda ha un suo corso autonomo, il quale potrebbe bloccare la domanda di concessione avanzata da altri, oppure ritornare utile qualora la concessione, seppur rilasciata, a seguito di impugnazione, venga dichiarata invalida. Infatti secondo la normativa della regione Umbria, il provvedimento autorizzatorio è di competenza comunale, mentre il provvedimento concessorio è di competenza regionale.


A rigor di logica, anziché procedere, la regione avrebbe potuto attendere la pronunzia del comune sulla domanda di autorizzazione. La regione, però, deve aver ritenuto inutile questa domanda, o, comunque, che essa non comportasse la necessità di una sospensione del procedimento concessorio.


In ogni caso, la regione ha indetto una conferenza di servizi nell'ambito della quale l'intera vicenda poteva essere valutata in forma unitaria e in tutta la sua complessità. È proprio per tale funzione di snellimento dei procedimenti che il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento le conferenze di servizi.

 


4. L'inerzia del proprietario fondiario e la diffida della P.A.


Come accertare l'esistenza (non esistenza) dell'inerzia del proprietario? Questo è il quesito centrale.


La sentenza del TAR Umbria 20 maggio 2003 n. 390, considera il provvedimento viziato per avere la conferenza dei servizi "valutato esclusivamente la maggior convenienza della concessione anziché verificare la sussistenza di un'inerzia dei proprietari…"16.


Pur non conoscendo gli atti attraverso i quali il TAR Umbria è arrivato a questa conclusione, si può considerare (come ipotesi di studio) questo giudizio per buono; e quindi lo prendo per buono, anche perché è verosimile e permette di riportare in equilibrio la posizione dei proprietari fondiari. I quali hanno visto avanzare il procedimento concessorio proposto da altri, pur avendo manifestato la volontà di voler esercitare i diritti di estrazione attraverso la presentazione della domanda di autorizzazione.


Allora, i proprietari non sarebbero stati inerti? La loro domanda di autorizzazione, tuttavia, non ha sospeso o interrotto il procedimento di concessione iniziato dal confinante.


Si impongono allora tre considerazioni concernenti:
- la presunta illegittimità della valutazione della maggior convenienza della concessione;
- l'inerzia e l'idoneità (soggettiva e) oggettiva del proprietario fondiario (o di chi per lui) alla coltivazione del giacimento;
- gli effetti prodotti dalla domanda di concessione quando essa anticipa quella di autorizzazione.


A) Prima considerazione. Quello che dalla sentenza è considerato come il vizio fondamentale (l'aver, cioè, l'amministrazione valutato la maggior convenienza della concessione), non è detto che sia un vizio. Basti pensare al ragionamento svolto dalla Corte Costituzionale sulla natura del diritto del proprietario fondiario sulla cava. Un diritto che viene riconosciuto al proprietario per valorizzare nell'interesse pubblico un qualcosa di diverso che è contenuto nel fondo. È un diritto che non viene riconosciuto per le miniere, ma, stante il minore interesse pubblico, viene riconosciuto al proprietario fondiario per le cave. Ciò come sorta di favore nei suoi confronti e sulla premessa che questi sia in grado di valorizzarlo prima e meglio rispetto a terzi. Ma quando questa premessa cade, cade anche il conseguente diritto del proprietario fondiario.


B) Secondo aspetto. La sentenza non si sofferma a sufficienza nell'esaminare l'idoneità della domanda di autorizzazione ad essere accolta. Pare di capire che al giudice sia bastata la mera presentazione della domanda entro i termini di scadenza. Questa, però, è una domanda che deve essere corredata dalla documentazione che, oltretutto, serve a dimostrare la sussistenza della capacità tecnica ed economica del richiedente l'autorizzazione.


Il punto allora è questo: l'inerzia è solo quella di chi non presenta domanda di coltivazione nei termini stabiliti dalla diffida? Essa si verifica anche quando la domanda è inaccoglibile?


L'attivazione sostanziale è profondamente diversa dall'attivazione puramente formale. Perché il proprietario non sia considerato inerte, occorre che la sua attivazione (e quindi, la sua attitudine) sia sostanziale e non già solo formale. Sul punto si tornerà al paragrafo seguente.


C) Terza considerazione. Allorché nelle more della presentazione della domanda di autorizzazione, viene presentata da altro imprenditore domanda di concessione relativa allo stesso giacimento (o parte di esso), l'amministrazione non dovrà scegliere tra due domande che si prefiggono lo stesso scopo. Ma fra le due domande esiste una profonda differenza, infatti, come già riferito, una è di autorizzazione e l'altra di concessione.


La domanda di concessione dovrebbe essere esaminata nell'ipotesi in cui si ritenga non accoglibile la domanda di autorizzazione.


La vicenda, però, non è così semplice quando la domanda di concessione anticipa quella di autorizzazione. Inoltre la domanda di autorizzazione è stata presentata dopo che la regione aveva espletato un tentativo di bonaria composizione della vicenda; e, fallito lo stesso, dopo che l'amministrazione aveva proceduto all'avocazione. Si pone quindi il problema circa la presentazione tardiva della stessa.


È evidente che quel tentativo sostituiva la diffida. Esso era espressione della volontà dell'amministrazione pubblica di invitare le parti a trovare un accordo sulla coltivazione. Qualora, una delle parti avesse avuto a lamentarsi del comportamento dell'amministrazione e del modo in cui essa interpretava la legge (invitando, cioè, le parti dinanzi a se), avrebbe dovuto impugnarlo nei termini. D'altronde la Corte Costituzionale è stata chiara in proposito. La differenza tra il regime delle miniere e quello delle cave non ha carattere qualitativo. E se il legislatore ha ritenuto spropositata una sottrazione originale del bene cava, però ha strutturato il diritto del proprietario fondiario in modo che "svolga quella funzione di interesse generale cui la cava è, di per sé, destinata"17, sottraendogli non pochi poteri nei confronti del bene cava.

 


5. Presupposti della domanda di autorizzazione


Si è già detto che, per evitare il sacrificio non sembra sufficiente una attivazione puramente formale (presentazione della domanda di autorizzazione entro i termini), occorre anche che la domanda sia idonea allo scopo: corredata, quindi, di tutti quei documenti che la rendano accettabile.


La diffida impone una attivazione sostanziale per riacciuffare un diritto che si sta per perdere. Già dal tenore della domanda e dalla presentazione del programma dei lavori, si possono avere indizi sufficienti circa la capacità imprenditoriale del richiedente.


Per farmi capire, mi si permetta un parallelo: se io domando la patente di guida, questa mi verrà rilasciata se io dimostro di conoscere il codice della strada e quant'altro richiesto per superare l'esame di guida. Lo stesso vale per l'autorizzazione dell'apertura della cava. Chi la chiede deve dimostrare all'autorità amministrativa di conoscere la disciplina di settore e di sapere e potere coltivare una cava. Altrimenti, la domanda non può essere accolta.


Sembra invece che il TAR non abbia dato il giusto rilievo agli aspetti sostanziali come si deduce chiaramente da vari passaggi del tenore seguente "… un proprietario che si è comunque attivato…"18. Questo "comunque" assume il significato generico, come se sia sufficiente una qualsiasi forma. Ciò non può essere accettato. L'attivazione di chi non dimostra sufficiente capacità tecnica ed economica non è accettabile.


Ma, ammettiamo che questa capacità (seppur per interposta persona) sia stata acquisita. Esiste infatti un contratto (che postuliamo valido) il quale affida l'attività estrattiva ad una società (che anche qui postuliamo) abbia la capacità tecnica ed economica. Occorre ora dimostrare l'esistenza della capacità oggettiva di presentare la domanda di autorizzazione.


Del carattere soggettivo si è detto. Invece, ancora non si è sufficientemente messo a fuoco il carattere oggettivo.


L'impossibilità oggettiva di presentare una idonea domanda di autorizzazione dipende da un fattore naturale. Il giacimento de quo non è altro che la continuazione dello stesso giacimento che altri stanno già coltivando. Sicché attribuire la coltivazione ad un soggetto diverso da quello che l'ha iniziata di già comporta degli impedimenti di notevole mole come quello di dover rispettare le distanze dai confini con conseguente abbandono in loco (e, quindi, spreco) di risorse naturali. Ciò comporta anche una più difficile risistemazione dell'intera area sotto il profilo del recupero ambientale.


La conferenza di servizi (alla quale hanno partecipato le amministrazioni pubbliche interessate) ha deciso come se avesse ritenuto non proponibile la domanda di autorizzazione. Questa decisione, con ogni probabilità, è stata confortata dalla possibilità di effettuare una comparazione tra i progetti presentati dalle parti contrapposte. Da questa comparazione, è naturale che la Conferenza di servizi abbia tratto elementi che poi l'hanno convinta ulteriormente della non idoneità della domanda di autorizzazione per impossibilità oggettiva al corretto sfruttamento del giacimento se effettuato in forma non unitaria ma disgiunta.

 


6. Effetti modificativi della limitazione all'apertura di nuove cave sul dettato originario dell'art. 45 della legge mineraria


Una delle novità delle legislazioni regionali in materia di cave e torbiere, è stata la sottoposizione delle attività estrattive a pianificazione. Con ciò le regioni si sono obbligate ad emanare i piani delle attività estrattive. Sennonché a distanza di quasi trenta anni dalla previsione di questo strumento, le regioni solo raramente si sono dotate di questo piano. L'attività estrattiva ha potuto continuare soltanto in forza di norme transitorie, le quali consentivano la continuazione delle attività estrattive laddove queste erano iniziate. Non è il caso qui di indagare circa i motivi che hanno impedito alle regioni di emanare questi piani. Per un verso non si è sufficientemente tenuto conto dei costi per la preparazione di essi. I ritardi e l'inadempienza regionale può farsi risalire anche ad elementi patologici come potrebbe essere quello di avvantaggiare le imprese che da tempo svolgono questa attività impedendo ad altri di far loro concorrenza.


Tra le non poche regioni che sono prive di un piano delle attività estrattive vi è l'Umbria.


In assenza del piano delle attività estrattive, si applica necessariamente un regime transitorio in forza del quale si ammette la possibilità di proseguire le attività estrattive in corso anche nei terreni vicini.


Come già rilevato, la legislazione transitoria limita o esclude l'apertura di nuove cave nell'intento di preservare l'ambiente naturale. Laddove, però, un'attività estrattiva è iniziata, si vuole che ivi prosegua razionalmente tanto nell'interesse (pubblico) di fornire all'edilizia e all'industria le materie prime minerarie occorrenti, quanto nell'interesse pubblico alla migliore preservazione dell'ambiente naturale.


Razionalmente significa anche che le lavorazioni devono essere conformi alla posizione e all'estensione del giacimento; per cui, se l'area del giacimento sottostà alla proprietà di più soggetti, e se ognuno di essi volesse svolgere in proprio l'attività estrattiva, si rende necessario un accordo tra questi soggetti per coordinare le attività. Altrimenti, si corre il pericolo (a fronte di risultati industriali poco apprezzabili) di una devastazione dell'ambiente.


Ogni attività estrattiva si deve mantenere ad una distanza di sicurezza dai confini che segnano la propria dall'altrui proprietà. Per effetto di questa disposizione il giacimento verrebbe mordicchiato da più parti seguendo il criterio di suddivisione derivante dalla proprietà fondiaria e non dal naturale posizionamento del giacimento.


L'accordo volontario tra i proprietari fondiari razionalizza l'attività estrattiva. Ma quando questo accordo manca, tocca all'autorità amministrativa indirizzare l'attività di estrazione secondo i preminenti principi di interesse pubblico.


In questa circostanza può accadere che colui il quale non si è attivato per primo, venga a trovarsi in una condizione sfavorevole rispetto ai programmi estrattivi autorizzati dalla pubblica amministrazione e messi in atto dal vicino.


Espansione non significa inizio di una nuova attività ma prosecuzione di una attività già iniziata. Si potrebbe pensare che la disciplina che consente gli ampliamenti venga a creare una sorta di servitù di estrazione a vantaggio del fondo sul quale l'attività legittimamente è iniziata. Se ciò fosse veramente, ci si potrebbe lamentare per un ingiusto sacrificio di una proprietà nei confronti di un'altra.


Quello che potrebbe essere considerato un ingiusto sacrificio, invero, deriva dal fatto del mancato accordo tra i due proprietari vicini. Si può obiettare che il mancato accordo sia dipeso dalla volontà di una parte, quella che prevede di poter ampliare l'attività estrattiva. Invero, come precisato dalla Corte Costituzionale, il diritto del proprietario del fondo oltre che sul terreno, è attribuito anche sulla cava per finalità di interesse pubblico (come certamente è quello della migliore possibilità di eseguire l'attività estrattiva). Ma quando l'interesse pubblico suddetto anziché perseguito in forma migliore, viene (addirittura) ostacolato dal comportamento del proprietario fondiario (mosso esclusivamente dal suo interesse privato), il diritto del proprietario fondiario è destinato a soccombere di fronte all'esercizio del diritto connesso al perseguimento di un interesse pubblico riconosciuto come tale, espressamente, dal legislatore.

 


7. Conclusioni


Non risponde, dunque, al vero assetto costituzionale, quell'assunto della sentenza del TAR Umbria secondo cui non vi sarebbe ragione di sacrificare un proprietario di cava che si è comunque attivato; in quanto si configurerebbe una ipotesi di espropriazione senza indennizzo se l'art. 45 della legge mineraria (che consente l'avocazione delle cave), venisse interpretato con un minor rigore. E la norma cadrebbe in forte sospetto di illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 42 Cost.. Invero, la Corte Costituzionale ha precisato che la fattispecie si inquadra in una disciplina che nulla ha a che vedere con l'espropriazione e con gli atti ablativi. Infatti "l'atto incide sul diritto del privato per l'attivarsi del limite cui sottostava, il che basta a far ritenere che la fattispecie esula dal tenore del terzo comma dell'art. 42 Cost."19.


La Corte Costituzionale ricorda inoltre che il diritto del privato sulla cava è limitato dall'interesse pubblico e che l'agire della pubblica amministrazione a tutela di questo interesse pubblico "è sviluppo naturale o normale del rapporto da cui il diritto del privato trae origine e non induce acquisizione aliena di un valore. Infatti il diritto sacrificato, in tal caso, non contiene il valore di quello prevalso"20.


D'altronde, come chiarisce la Corte Costituzionale, il regime delle cave non può essere troppo diverso da quello delle miniere: "la funzione economico sociale delle cave, secondo la valutazione fatta dall'ordinamento giuridico, si differenzia solo quantitativamente da quella che svolgono le miniere"21. Se le miniere sono beni pubblici, le cave sono beni che si prestano a diventare anch'essi pubblici quando il proprietario fondiario (per impossibilità soggettiva o oggettiva) non riesce a farli suoi. Da ciò consegue che le facoltà riconosciute al proprietario fondiario sono piuttosto limitate nei confronti del bene cava. Ciò a tal punto che l'Amministrazione pubblica può essere portata a non accogliere la sua domanda di autorizzazione per il conseguimento dell'interesse pubblico alla migliore coltivazione ed a scegliere i programmi di sviluppo dell'attività estrattiva iniziati da altri sullo stesso giacimento partendo dalla parte di giacimento insistente su un fondo confinante.


Il potere accordato al proprietario fondiario è "uno strumento d'attuazione dell'interesse pubblico", nel senso che la sua iniziativa è quella di chi "avrebbe potuto ugualmente attendere alla realizzazione" dell'iniziativa nell'interesse pubblico22; senza, cioè, essere né l'unica né la principale.

 

 

* Il testo della sentenza è riportato in calce a questa nota ed è stato tratto dal Sito istituzionale della Giustizia amministrativa: www.giustizia-amministrativa.it. - www.ambientediritto.it
1TAR Umbria, 20 maggio 2003 n. 390, cit..
2A.M. SANDULLI, Spunti per lo studio dei beni privati di interesse pubblico, in Diritto dell'Economia, 1956; ID., Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989, (XV ed ultima edizione) p. 845; V. SPAGNUOLO VIGORITA, Cave e torbiere, in Enciclopedia del Diritto, vol. VI, 1960, p. 668 ss.; M. STIPO, Acque minerali e termali. Cave e torbiere. Artigianato, in Stato e regioni ( a cura di L. GALATERIA ), UTET, Torino, 1976; G. PALMA , Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Jovene, Napoli, 1971.
Per ulteriori riferimenti mi si consenta di rinviare a R. FEDERICI, Contributo allo studio dei beni minerari, Cedam, Padova, 1996; F. FRANCARIO, Il regime giuridico di cave e torbiere, Giuffrè, Milano, 1997.
Si veda inoltre M. SERTORIO, Le miniere e le cave tra Diritto nazionale e regionale, Ed. Il Sole 24 Ore, Milano, 2003.
3Cfr. A. ROBECCHI MAJNARDI e U. FANTIGROSSI, Cave e torbiere, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. II, 1987, p. 529 s.
Sul concetto di cava e di miniere come beni e altresì sulla loro distinzione dai concetti di azienda e impresa mineraria, si veda, R. FEDERICI, Contributo allo studio dei beni minerari, cit., p. 14 ss.; ID., Sulla distinzione tra impresa mineraria e giacimento minerario, in R. FEDERICI (a cura di), L'impresa mineraria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, p. 7 ss.
4Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, in Giurisprudenza Costituzionale, 1967, p. 139 con nota di A. BALDASSARRE, Sulla natura giuridica della sottrazione delle cave alla disponibilità dei privati.
5Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 154.
6Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 154.
7Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 155.
8Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 157 s. sottolinea che "La fattispecie regolata dall'art. 838 c.c., cui la parte privata si è richiamata per dar maggiore vigore alla sua denuncia di illegittimità, è del tutto diversa da quella in esame. In tale articolo si prevede un indennizzo per l'espropriazione di beni che interessano la produzione nazionale e che il proprietario usa in modo da nuocere alle esigenze della produzione stessa; si ha cioè riguardo ad un diritto sui beni che sono utili alla produzione, non che sono ad essa necessari, come i prodotti delle cave, per loro natura insostituibili: in quel caso l'interesse generale è toccato di riflesso dal comportamento del privato, il diritto sul bene non essendo dato perché con esso possa realizzarsi un interesse pubblico, come è invece per il diritto sulla cava".
9Sui contratti minerari vedi M. SERTORIO, I contratti minerari, in R. FEDERICI (a cura di) L'impresa mineraria, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2002, p. 185 ss.
10Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 155.
11Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 156.
12Corte Costituzionale 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 156.
13Così argomenta la Corte Costituzionale: "Nemmeno importa discutere, ai fini della questione da decidere, se la concessione della cava al terzo sulla base della disposizione denunciata sia un atto di carattere ablativo: l'atto incide sul diritto del privato per l'attivarsi del limite cui sottostava, il che basta a far ritenere che la fattispecie esula dal tenore del terzo comma dell'art. 42 Cost. Questo comma contempla l'ipotesi del sacrificio di una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che essenzialmente sta fuori di essa e ad essa si sovrappone: se però l'interesse pubblico è limite della situazione, la sua tutela preferenziale è sviluppo naturale o normale del rapporto da cui il diritto del privato trae origine e non induce acquisizione aliena di un valore. Infatti il diritto sacrificato, in tal caso, non contiene il valore di quello prevalso; e deve stimarsi avendo presente la coesistenza di un altro diritto capace di assorbirlo quindi con detrazione del valore di questo". (Ivi, p. 156 s.).
14Delibera del Consiglio regionale del 19 dicembre 2001 n. 1636.
15Il termine di 90 giorni (o di tre mesi) è diventato usuale, tanto è vero che non se ne discute più la congruità. Per un precedente giurisprudenziale, Consiglio di Stato Sezione VI, 21 dicembre 1965, n. 938 (in Rassegna del Consiglio di Stato, 1965, I, p. 2247 ss.), dove la congruità del termine era stata posta in discussione ma il Consiglio di Stato aveva risposto che trattandosi di valutazione tecnico-discrezionale, questa fuoriusciva dal sindacato del giudice amministrativo.
16Punto 12.3 (verso la fine) della sentenza.
17Corte Costituzionale, 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 156.
18Punto 12.2.1 della sentenza.
19Corte Cost., 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 156.
20Corte Cost., 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 157.
21Corte Cost., 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 154.
22Corte Cost., 9 marzo 1967, n. 20, cit., p. 155.
 



Tribunale Amministrativo Regionale dell'Umbria - 20 maggio 2003 n. 390


PRES. LIGNANI, EST. UNGARI.


RICORSI: GRANULATI CENTRO ITALIA s.r.l. (avv. Rampini); ASCAGNANO s.p.a. (avv.ti Bagianti e De Matteis); POLIDORI (avv. De Matteis) CONTRO: REGIONE DELL'UMBRIA (Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia); COMUNE DI PERUGIA (avv. Cartasegna); PROTER s.r.l. (avv.ti Busiri Vici e Sartorio)


Cave e torbiere - avocazione delle cave - atto ablativo - espropriazione senza indennizzo - concessione delle cave


Non vi sarebbe ragione di sacrificare un proprietario di cava che si è comunque attivato. Se l'art. 45 della legge mineraria (più precisamente, r.d. 29 luglio 1927 n. 1443 e successive modifiche), che consente l'avocazione delle cave, venisse interpretato con un minor rigore, la norma cadrebbe in forte sospetto di illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 42 Cost. in quanto si configurerebbe una ipotesi di espropriazione senza indennizzo.


Per procedere all'avocazione della cava, occorre l'accertamento non equivoco dell'impossibilità di realizzare la destinazione di interesse pubblico.

 

Nota: Sentenza massimata da R. Federici


(Omissis)


FATTO E DIRITTO - 1. La Proter S.r.l. esercita da tempo in località S. Orfeto dell'agro di Perugia attività estrattiva di conglomerati sabbiosi su propri terreni per circa 6,82 ha.


Detti terreni confinano con la proprietà della Ascagnano S.p.a. (circa 6,56 ha), a sua volta confinante con la proprietà del sig. Polidori (circa 1,32 ha), che erano classificati zona agricola sia dal P.R.G. previgente che da quello adottato con deliberazione del C.C. n. 60/1999.


Le società Ascagnano e Proter, in un primo tempo, hanno presentato congiuntamente l'osservazione n. 1839 al P.R.G. in itinere, chiedendo che al fondo Ascagnano, stante le comuni caratteristiche geomorfologiche, venisse estesa la destinazione urbanistica ad attività estrattiva del fondo Proter (anche se con scrittura privata hanno escluso che ciò comportasse un vincolo alla utilizzazione della cava da parte della Proter).


Il Comune di Perugia ha accolto l'osservazione, proponendo, con deliberazione del C.C. n. 118/2000, di classificare l'area D7 (attività estrattiva e/o impianti fissi), tranne che per una piccola porzione boscata.


2. L'approvazione del nuovo P.R.G., disposta con deliberazione del C.C. n. 83 in data 24 giugno 2002, ha recepito la classificazione D7 per le proprietà Ascagnano e Polidori.


Tutavia, nelle more, non sono andate a buon fine le trattative esistenti con la Proter, tanto che:
- i diritti di escavazione sui predetti terreni (dopo un primo impegno contrattuale sottoscritto, a dire della Ascagnano, in data 12 giugno 2001 con la F.lli Casavecchia S.r.l.), sono stati "trasferiti" con contratto in data 8 aprile 2002 da Ascagnano e Polidori alla Granulati Centro Italia S.r.l.;
- dal canto suo, la Proter, con istanza in data 21 agosto 2001, ha chiesto alla Regione l'attivazione del procedimento di cui all'art. 45, comma 2, del R.D. 1443/1927, al fine di ottenere la concessione per lo sfruttamento dei terreni Ascagnano e Polidori.
 La Regione Umbria, dopo aver esperito in data 29 ottobre 2001, senza esito, un tentativo di "bonaria composizione della vicenda":
- con delibera della G.R. n. 1636 in data 19 dicembre 2001, ha dichiarato la sussistenza dei presupposti per avviare il procedimento di cui all'art. 45, comma 2, del R.D. 1443/1927, incaricando il dirigente del Servizio difesa suolo, cave, miniere ed acque minerali dei successivi incombenti;
- con determinazione di detto dirigente n. 585 in data 6 febbraio 2002, ha invitato Ascagnano e Polidori a presentare entro il termine di 90 giorni un progetto di coltivazione e ricomposizione ambientale della parte di giacimento ricadente nelle rispettive proprietà, e la Proter, entro il medesimo termine, un progetto per l'intero giacimento di cava di S. Orfeto (compresa quindi la proprietà dei predetti), riservandosi di provvedere sull'istanza di concessione a norma del Titolo II del R.D. 1443/1927, ed ha invitato altresì il Comune di Perugia ad esprimere il proprio parere al riguardo entro i 30 giorni successivi alla scadenza del predetto termine.


3. La Proter ha presentato in data 13 maggio 2002 alla Regione un progetto di coltivazione inerente l'intera area.


La Granulati Centro Italia invece, nello stesso giorno (ultimo dei 90 prefissi):
- ha presentato alla Regione, a titolo dichiaratamente cautelativo, Regione due progetti alternativi, l'uno (A) comprendente anche l'area già coltivata della Proter, l'altro (B) le sole proprietà Ascagnano e Polidori;
- ha chiesto al Comune di Perugia l'autorizzazione alla coltivazione della cava ai sensi dell'art. 7 della l.r. 2/2002.


Gli elaborati progettuali e l'istanza presentati dalla Granulati sono stati sottoscritti per accettazione da Ascagnano e Polidori.


La Regione ha quindi esaminato i progetti (sulla base del documento istruttorio in data 12 giugno 2002) nell'ambito di una conferenza dei servizi (riunioni in data 13 giugno, 30 luglio e 6-8 agosto 2002), in esito alla quale è stata adottata la determinazione del dirigente del Servizio difesa del suolo, cave, miniere ed acque minerali n. 8024 in data 11 settembre 2002, di concessione di coltivazione della intera area in questione alla Proter.


4. Detti provvedimenti (unitamente ad atti endoprocedimentali ed alla determinazione del dirigente del Servizio programmi per l'assetto del territorio n. 6641 in data 19 luglio 2002, con la quale, durante la conferenza di servizi, è stato deciso di non sottoporre a valutazione di impatto ambientale il progetto di escavazione e ricomposizione proposto dalla Proter), sono stati impugnati dalla Granulati Centro Italia (ricorso n. 185/2002) e dalla Ascagnano (n. 187/2002), che hanno dedotto le censure, sostanzialmente coincidenti, sintetizzabili come appresso indicato.


4.1. Incompetenza della Regione ad esercitare la potestà di cui all'art. 45, comma 2, del R.D. 1443/1927, in quanto rientranti tra quelle attribuite dalla l.r. 2/2000 ai Comuni.


4.2. Mancanza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 45, comma 2, ed eccesso di potere sotto vari profili, in quanto:
- in assenza di una destinazione ad attività estrattiva dell'area (il P.R.G., all'epoca soltanto adottato, non era a tal fine sufficiente), non sussisteva, ai sensi degli artt. 5, comma 1 e 7, comma 2, l.r. 2/2000, la possibilità attuale di sfruttare la cava e quindi non era configurabile alcuna inerzia dei proprietari, né, peraltro, essi proprietari hanno mai ricevuto alcun invito o diffida ad iniziare i lavori.
- la stessa cessione dei diritti di escavazione, configurando attività finalizzata alla realizzazione dell'interesse alla coltivazione della cava (posto che il contratto stipulato tra i ricorrenti prevedeva che la cessionaria predisponesse il progetto di escavazione e lo sottoponesse all'iter autorizzatorio entro termini prestabiliti) e quindi escludeva l'inerzia, ma tali iniziative, sebbene tempestivamente comunicate, non sono state tenute in considerazione dalla Regione.


4.3. Violazione dell'art. 45, comma 2, citato, nonché sviamento, in quanto il tentativo di bonaria composizione deve essere svolto nell'interesse del proprietario della cava per verificare se sia possibile evitare la diffida, mentre invece la Regione, ha utilizzato la fase prodromica per inteferire su rapporti interprivati imponendo di fatto una nuova negoziazione con la Proter a prezzi più bassi.


4.4. Violazione e falsa applicazione dell'art. 45, comma 2, in quanto la Regione ha sostanzialmente accolto la richiesta della Proter, motivata con l'esigenza di garantirsi continuità produttiva ed occupazionale (la cava in essere aveva soltanto un anno di coltivazione utile), aggiungendo a ciò l'esigenza di accorpare e sfruttare i terreni quale sito unitario, mentre la normativa consente la limitazione della sfera giuridica del proprietario dell'area di cava unicamente in caso di inerzia ed al fine di assicurarne la coltivazione (l'art. 45, comma 2, ai fini della concessione, richiama sì le disposizioni del Titolo II del RD 1443/1927, ma l'imposizione di una gestione unica del sito, per la necessità di ottimizzare la coltivazione di un'area appartenente a diversi concessionari, è consentita soltanto per le miniere).


4.5. Viene impugnata anche la deliberazione comunale n. 118/2001, nell'ipotesi che precluda uno sfruttamento autonomo dei terreni da parte delle ricorrenti.


Ulteriori censure, appresso sintetizzate, sono state dedotte con ricorso per motivi aggiunti, alla conoscenza della seconda fase procedimentale.


4.6. Violazione dell'art. 45, comma 2, nonché eccesso di potere per difetto dei presupposti, in quanto:
- il procedimento concessorio, venendo meno ogni ipotetica inerzia a seguito della presentazione dei progetti da parte delle ricorrenti, avrebbe dovuto essere interrotto per permettere la definizione del procedimento autorizzatorio;
- anche qualora si fosse potuto ravvisare il perdurare dell'inerzia, la Regione avrebbe dovuto prefissare un termine per l'inizio dei lavori, ancorandolo all'ottenimento dell'autorizzazione comunale, necessaria per esercitare la coltivazione della cava.


4.7. Violazione del principio di imparzialità e coerenza dell'azione amministrativa, nonché eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità, sviamento di potere e difetto di motivazione, poiché, nonostante quanto previsto dalla stessa determinazione n. 585/2002, la conferenza dei servizi ha esaminato esclusivamente il progetto Proter senza valutare quelli presentati dai proprietari delle aree e senza acquisire su questi ultimi il parere del Comune di Perugia.


4.8.
Contraddittorietà, illogicità e sviamento, nei confronti del comportamento del Comune di Perugia, il quale, dopo aver dichiarato di non voler esprimersi in ordine ai progetti dei proprietari stante il contenzioso in corso sulla legittimità della procedura seguita, ha invece partecipato attivamente alla conferenza formulando parere favorevole sul progetto della Proter.


4.9.
Le soluzioni progettuali dei ricorrenti sono state respinte con motivazioni erronee in punto di fatto o palesemente contraddittorie e pretestuose e comunque in assenza di una compiuta istruttoria.


Infatti:
- il progetto Proter e quelli delle ricorrenti sono stati valutati da soggetti diversi ed in sedi diverse;
- gli aspetti valutati negativamente del progetto Proter hanno dato luogo a prescrizioni modificative, mentre quelli dei progetti delle ricorrenti si sono tradotti in un giudizio negativo inappellabile;
- è stata affermata la carenza di giuridica disponibilità delle aree di cava, in capo alla Granulati, mentre la presentazione dei progetti è avvenuta entro il termine previsto dai contratti stipulati tra i ricorrenti, e comunque i progetti sono stati firmati da tutte le parti interessate, segno evidente che l'accordo tra di esse perdurava;
- viene affermato che il progetto "non appare tecnicamente attuabile per la presenza ed il mantenimento di fronti verticali, vietati dalla legge" e che, al confine con l'area Proter, "… impone la realizzazione di un diaframma di mantenimento delle condizioni di stabilità degli opposti fronti di escavazione; conseguentemente non consente adeguato e sufficiente sfruttamento delle risorse esistenti, né contribuisce al contenimento del consumo del territorio, ed al contempo ipotizza un rapporto troppo sfavorevole tra volume utile estratto e superficie impegnata o denudata", ma ciò non corrisponde al vero.


5. Il sig. Polidori, il quale aveva proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato avverso la deliberazione n. 1636/2001 e la determinazione n. 585/2002, ha poi impugnato dinanzi a questo Tribunale (ricorso n. 430/2002) gli atti della conferenza dei servizi e la determinazione di concessione della cava alla Proter, deducendo (oltre ad una censura di incompetenza della regione ad attivare il procedimento ex art. 45, cit.) censure sostanzialmente coincidenti con quelle sintetizzate ai punti 4.6.-4.9.


6. La Regione Umbria, il Comune di Perugia e la controinteressata Proter si sono costituiti nei giudizi, controdeducendo puntualmente, secondo quanto appresso specificato.


7. Il Collegio ritiene di disporre la riunione dei ricorsi, stante l'evidente connessione oggettiva.


8. Si può subito esaminare l'eccezione di inammissibilità del ricorso n. 430/2002, prospettata dalle difese della Regione e della Proter in quanto diretto verso atti che l'interessato -alla luce del principio di alternatività di cui all'art. 8, comma 2, del DPR 1199/1971 e dell'attuale art. 21, comma 1, secondo periodo, della legge 1034/1971- avrebbe potuto impugnare soltanto in sede di ricorso straordinario mediante motivi aggiunti.


L'eccezione va disattesa.


Il ricorrente Polidori poteva impugnare in sede giurisdizionale la determinazione dirigenziale n. 8024/2002 e tutti gli atti relativi alla conferenza di servizi, in quanto autonomamente lesivi rispetto agli atti gravati in sede straordinaria (come discende dalla considerazione che alla diffida avrebbe anche potuto non far seguito l'avocazione dell'area al patrimonio regionale e la concessione in favore della Proter). Infatti, la regola dell'alternatività implica che non è possibile impugnare lo stesso atto nell'una e nell'altra sede, ma non vieta di impugnare distintamente, in sedi diverse, atti che, pur appartenendo alla medesima vicenda amministrativa, o addirittura alla medesima sequenza procedimentale, siano tuttavia autonomamente impugnabili in quanto autonomamente lesivi. In tale evenienza, è possibile che si determini la contemporanea pendenza di ricorsi aventi per oggetto atti distinti ma connessi, e tuttavia non suscettibili di essere riuniti siccome pendenti in sedi diverse. Va notato che tale situazione si può verificare non solo quando due provvedimenti, l'uno presupposto e l'altro consequenziale, sono stati impugnati rispettivamente con ricorso straordinario e con ricorso giurisdizionale (o viceversa), ma anche quando, pur essendo stati impugnati entrambi in sede giurisdizionale, le impugnazioni sono state proposte a due diversi tribunali amministrativi (senza che in nessuna delle due sedi sia stata sollevata l'eccezione d'incompetenza per territorio); o, ancora, quando il ricorso proposto per primo si trova già in grado d'appello nel momento in cui viene proposto il secondo in primo grado. In tutti questi casi, non essendo praticabile la riunione, entrano in campo le regole sulla pregiudizialità.


Su ciò non incide la novella dell'art. 21, comma 1, disposta dalla legge 205/2000, poiché l'impugnazione mediante motivi aggiunti dei nuovi provvedimenti intervenuti in pendenza del giudizio è oggetto di disposizione dettata da ragioni di economia processuale, e per ciò soltanto non sembra assurgere ad obbligo o ad onere processuale, sanzionabile con l'inammissibilità del nuovo ricorso proposto in forma autonoma. Questa conclusione è rafforzata dalla considerazione che, come già si è accennato, è ipotizzabile il caso in cui l'atto sopravvenuto si rende impugnabile, e viene impugnato, in un momento in cui il ricorso contro l'atto presupposto si trova già in secondo grado. Ciò conferma che l'applicazione dell'art. 21, comma 1 (nuovo testo) non è tassativa e a pena d'inammissibilità.


Posto, dunque, che nella vicenda in esame non vi è luogo ad applicare la regola dell'alternatività, bensì, semmai, quelle della pregiudizialità, si osserva che in concreto non vi è neppure una situazione di pregiudizialità necessaria (sospensione), in quanto i vizi dedotti nel presente giudizio sono autonomi rispetto a quelli dedotti mediante il ricorso straordinario, e pertanto su di essi ci si può pronunciare senz'altro.


9. Prima di esaminare le eccezioni di inammissibilità rivolte dalle difese delle parti resistenti nei confronti del ricorso n. 185/2002, è opportuno puntualizzare il regime giuridico della coltivazione delle cave.


9.1. Le cave sono beni che l'ordinamento, anche prima della Costituzione, considerava geneticamente connotati da un interesse pubblico alla coltivazione, simile a quello insito nelle miniere.


A differenza delle miniere, ed ancorché non siano comprese nel sottosuolo al quale si estendono le facoltà del titolare del diritto reale sul suolo (art. 840 c.c.), le cave sono sottoposte ad un regime di tipo fondiario. Tuttavia, in forza dell'interesse pubblico che sono idonee a soddisfare, il loro godimento riceve un'impronta necessariamente dinamica rispetto all'ordinaria configurazione dei beni di proprietà privata privi di (diretta) rilevanza pubblica.


Così, le cave sono lasciate "in disponibilità" del proprietario del fondo e soltanto qualora questi "non intraprenda la coltivazione della cava o torbiera o non dia ad essa sufficiente sviluppo" sono acquisite al patrimonio indisponibile dello stato, ora della regione (c.d. avocazione) e la loro coltivazione viene concessa a terzi (art. 45 R.D. 1443/1927 ed art. 826 c.c.; cfr. anche artt. 1 D.P.R. 2/1972 e 50 e 62 D.P.R. 616/1977).


Al fine di evidenziare l'inerzia del proprietario, di fronte all'interesse pubblico ad una adeguata coltivazione della cava (che, nella prospettiva accolta dalle disposizioni indicate, costituisce, analogamente a quanto avviene per le miniere, una risorsa strategica per l'economia nazionale), l'art. 45, citato, prevede, al comma 2, la prefissione da parte dell'Amministrazione di un termine per l'inizio, la ripresa o l'intensificazione dei lavori di coltivazione da parte del proprietario, decorso infruttuosamente il quale può essere disposta la concessione (a favore di soggetti in grado di coltivare la cava in modo adeguato).


Nella prospettiva costituzionale della funzionalizzazione della proprietà e della conformabilità dell'iniziativa economica privata, l'evoluzione della disciplina legislativa delle cave ha affiancato, a quello produttivistico della massimizzazione dell'attività estrattiva, interessi di segno diverso.


Oggi, le diverse leggi regionali contengono tutte una disciplina che considera l'attività estrattiva da cava anche e soprattutto quale fenomeno che può determinare cospicui impatti territoriali ed il cui esercizio viene perciò di regola sottoposto, oltre che alla pianificazione territoriale ed urbanistica, ad una pianificazione di settore e ad un regime autorizzatorio, al fine di dare rilevanza agli interessi pubblici connessi al razionale sfruttamento del territorio, alla tutela paesistica ed ambientale.


In Umbria, vige attualmente la l.r. 2/2000, espressione della potestà legislativa concorrente, ai sensi dell'art. 117 Cost. previgente alla l. cost. 3/2001, mentre, non essendo stata definita una legge cornice statale, i principi fondamentali della materia sono rimasti quelli desumibili dal R.D. 1443/1927.


La l.r. 2/2000, al dichiarato fine di assicurare il fabbisogno regionale (di materiali da costruzione e per le utilizzazioni industriali) nel rispetto dell'ambiente e del territorio (art. 1, comma 1), si propone di contenere il prelievo delle risorse non rinnovabili e individua quindi come prioritario, rispetto all'apertura di nuove attività estrattive, l'ampliamento delle attività in essere e la riattivazione delle aree di escavazione dismesse, anche al fine della ricomposizione ambientale, nonché il riutilizzo dei residui, provenienti dalle attività estrattive o di materiali alternativi quali sottoprodotti, scarti e residui di altri cicli produttivi (art. 1, comma 2).


In questa prospettiva, la legge 2/2000 disciplina i poteri di programmazione spettanti alla Regione, comprendenti l'individuazione dei fabbisogni, il censimento dei siti dismessi o in attività e la definizione dei criteri di progettazione, coltivazione e ricomposizione ambientale (art. 3), prevede divieti di localizzazione in aree sensibili (art. 5), demanda agli strumenti urbanistici generali l'individuazione delle zone da destinare specificamente alle attività estrattive (art. 5, comma 1, e, in via transitoria, art. 19) e attribuisce ai Comuni anche le potestà di approvare, mediante conferenza dei servizi (salva la necessità della valutazione di impatto ambientale, laddove richiesta) i progetti definitivi di coltivazione (art. 7) di rilasciare le conseguenti autorizzazioni (artt. 8 ss. e, in via transitoria, art. 19), oltre a quelle di vigilanza e polizia connesse (art. 14).


9.2. Le problematiche relative all'individuazione delle cave e quelle relative all'individuazione del titolare del diritto di coltivazione sono dunque strettamente intrecciate.


Riassuntivamente, alla luce di quanto finora esposto: la programmazione regionale definisce i fabbisogni di materiale da escavazione; la pianificazione comunale localizza i siti (alla luce delle indicazioni della programmazione regionale e delle prescrizioni della pianificazione territoriale, oggi demandata in sede regionale al P.U.T. ed in sede provinciale ai P.T.C.P.); l'iniziativa dei proprietari o, in caso di inerzia, quella sostitutiva della regione, attivano i procedimenti di autorizzazione e, eventualmente, di concessione per la coltivazione della cava.


Non esiste perciò un bene "cava", avente carattere di (sia pur relativa) rarità ed individuabile a priori in base alle proprie caratteristiche intrinseche, a prescindere dalla destinazione di zona attribuita all'area dalla pianificazione territoriale.


Affinché un immobile sia assoggettato al regime giuridico delle cave (inclusa la potestà della regione di attivare, con la diffida, il procedimento di concessione) non basta che quel terreno sia astrattamente suscettibile di essere utilizzato per l'estrazione dei materiali indicati dalla normativa (art. 2, l.r. 2/2000, che richiama il R.D. 1443/1927); è la destinazione di zona che fa diventare cava un terreno, altrimenti utilizzabile, di regola, per le ordinarie attività agricole. Destinazione di zona che viene impressa in considerazione di diversi interessi pubblici, tra i quali quello economico-produttivo, legato alla ottimale utilizzazione delle risorse del terreno, non assume più una importanza assolutamente preminente, ma va contemperato con quelli della tutela paesistica ed ambientale.


9.3. In particolare, secondo l'art. 5, comma 1, della l.r. 2/2000, l'estrazione di materiale di cava "è consentita nelle aree del territorio regionale destinate dallo strumento urbanistico generale comunale ad attività estrattiva, ai sensi del comma 2 dell'art. 2 della legge regionale 21 ottobre 1997, n. 31".


La disposizione impone ai Comuni di inserire nella parte strutturale degli adottandi strumenti urbanistici una specifica ed espressa localizzazione delle attività estrattive (che deve comunque tener conto dei divieti previsti dall'art. 5, comma 2, in relazione alla presenza di matrici ambientali da tutelare, aree naturali protette, zone archeologiche, etc.).


Si è così voluto evitare che l'attività di cava fosse assentibile nelle c.d. zone ad utilizzazione mista e superare gli inconvenienti derivanti dalla compresenza di destinazioni d'uso (che consentirebbero, oltre alle industrie estrattive e cave ed alle residenze, anche edifici a fini produttivi, allevamenti zootecnici ed annessi agricoli) difficilmente compatibili.


La stessa esistenza di una disciplina transitoria, prevista dall'art. 19 della l.r. 2/2000, che consente, fino all'adeguamento dei P.R.G. secondo quanto disposto dall'art. 48 della l.r. 31/1997, l'approvazione piani attuativi per localizzare attività di cava, conferma, peraltro, che quella dettata dall'art. 5, comma 1, è una disciplina cogente e non programmatica.


In altri termini (come già affermato da questo Tribunale nella sentenza n. 269 in data 10 maggio 2002), la possibilità di approvare piani attuativi ai sensi dell'art. 19, esprime sì una discrezionalità dei Comuni, ma nel senso di poter prescindere dall'utilizzare lo strumento offerto dalla disciplina transitoria al fine di localizzare le attività estrattive, non certo in quello di poter autorizzare la coltivazione di cave senza aver prima introdotto specifiche previsioni di localizzazione conformi alle disposizioni (a regime, ovvero transitorie) della l.r. 2/2000.


9.4. E' evidente che la necessità di una specifica destinazione ad attività estrattive non può essere soddisfatta dalle previsioni di un P.R.G. soltanto adottato.


L'efficacia dello strumento di pianificazione generale in itinere, infatti, è pacificamente limitata alla salvaguardia nei confronti di attività difformi, come precisato anche dall'art. 7, comma 6-bis, della l.r. 31/1997.


Questo, per sottolineare fin d'ora che, al momento dell'adozione della deliberazione della G.R. 1636/2001, non esisteva un giacimento unitario, in parte insistente su terreni di proprietà Proter ed in parte sui terreni di proprietà Ascagnano e Polidori, bensì un'area in parte legittimamente coltivata a cava ed in parte non (ancora) coltivabile a cava, stante la insufficienza a tal fine della previsione contenuta nella deliberazione del C.C. n. 118/2000.


La compatibilità urbanistica dei terreni dei ricorrenti è invece l'effetto della definitiva classificazione D7, conseguente all'approvazione del P.R.G. in data 24 giugno 2002.


10. Tornando all'eccezione di inammissibilità del ricorso n. 185/2002, per difetto di legittimazione attiva della Granulati, il Collegio ritiene di disattenderla.


Secondo la difesa della Proter, la circostanza che il contratto con la Granulati sia successivo alla presentazione del ricorso da parte della Ascagnano, l'esistenza di ben quattro condizioni sospensive al cui mancato avveramento consegue la decadenza automatica degli impegni assunti, portano a concludere che esso sia fittizio e strumentale a mascherare la situazione di inerzia nella coltivazione dell'area di cava.


Che addirittura si sia in presenza di mancanza della causa e dell'oggetto del contratto, sembra sostenere la difesa della Regione, in quanto i diritti di sfruttamento della cava non sarebbero suscettibili di essere trasferiti separatamente da quelli sul terreno, e comunque nel caso specifico non avrebbero potuto essere trasferiti in quanto ormai acquisiti dalla Regione stessa per effetto della deliberazione n. 1636/2001.


Le stesse difese sottolineano inoltre come la presentazione dei progetti da parte della Granulati sia avvenuta oltre il termine di adempimento (del 30 aprile 2002) cui era collegata l'automatica risoluzione del contratto.


Il Collegio, al contrario, ritiene che non vi siano motivi decisivi per sostenere la simulazione e che l'esistenza di un formale impegno negoziale sia sufficiente a radicare l'interesse legittimo della Granulati ad impugnare gli atti contrari alla possibilità di ottenere il diritto di sfruttare la cava.


Ciò, a prescindere dalla validità ed efficacia (traslativa, meramente obbligatoria, o anche soltanto produttiva di una aspettativa di diritto sospensivamente condizionato) del contratto datato 8 aprile 2002, che risulta integrato da un atto modificativo datato 2 maggio e consistente nella rinuncia delle parti ad avvalersi della clausola risolutiva espressa originariamente concordata.


In ogni caso, va sottolineato che l'espressione "le cave e le torbiere sono lasciate in disponibilità del proprietario del suolo" dell'art. 45, r.d. n. 1443/1927, viene correntemente e pacificamente interpretata nel senso che il proprietario non solo può esercitare direttamente l'escavazione, ma può anche trasferire il relativo diritto a terzi, sia sotto forma di atto traslativo o costitutivo di un diritto reale, sia di vendita del prodotto dell'estrazione, sia mediante un contratto di affitto o altro negozio lecito (cfr. Cass., 22 dicembre 1988, n. 7012; cfr. anche Cass. SS.UU., 24 novembre 1989, n. 5070; TAR Piemonte, II, 2 marzo 1987, n. 76).


Per quanto concerne poi la disponibilità dei diritti al momento della sottoscrizione del contratto, il Collegio è dell'avviso - per le ragioni che verranno esposte nel prosieguo, al punto 12 - che non si fosse determinato alcun effetto acquisitivo a favore del patrimonio regionale.


11. Si può quindi passare ad esaminare i ricorsi nel merito.


L'ipotesi eccezionale dell'avocazione al patrimonio regionale con gestione della cava in regime concessorio non è prevista dalla l.r. 2/2000, che attribuisce ai Comuni la gran parte delle funzioni concernenti le cave.


Pertanto, la competenza relativa all'art. 45, comma 2, succitato, deve ritenersi rimasta alla regione, cui la materia delle cave è stata interamente trasferita per effetto dell'art. 1 del D.P.R. 2/1972 (dove, al comma, lettera e), viene specificato che il trasferimento riguarda, tra l'altro, le funzioni concernenti "la sorveglianza sull'utilizzazione delle cave e torbiere, la sottrazione al proprietario della disponibilità della cava o torbiera e la concessione a terzi nel caso di totale o parziale inutilizzazione del giacimento") e degli artt. 50 e 62 del DPR 616/1977 (concernenti "tutte le attività attinenti alle cave, di cui all'art. 2, terzo comma, ed al titolo terzo del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443").


Ciò, del resto, è conforme ad una disciplina regionale nella quale, come accennato, alla Regione residuano, oltre ai poteri di normazione tecnica, i poteri in materia di programmazione delle attività estrattive e dei relativi fabbisogni.


Infatti, la potestà sottesa all'art. 45, comma 2, appartiene al medesimo ordine di valutazioni, che richiedono la contemperazione dell'interesse pubblico alla tutela del territorio con quello allo sviluppo delle attività economiche, mentre, al contrario, la dimensione comunale -anche secondo la nuova prospettiva del conferimento delle funzioni e dei compiti amministrativi in applicazione del criterio di sussidiarietà di cui all'art. 118, comma 1, Cost, nella nuova formulazione introdotta dalla l.cost. 3/2001- appare troppo angusta per simili valutazioni.


Ciò evidenzia l'infondatezza della censura di cui al punto 4.1.


12. Risultano invece fondate, nei sensi e limiti sottoindicati, le censure sintetizzate ai punti 4.2., 4.3., 4.4. e 4.6.


12.1. Se, in forza della incompatibilità urbanistica e della conseguente impossibilità di chiedere ed ottenere l'autorizzazione alla coltivazione da parte dei proprietari, al momento dell'adozione sia della deliberazione n. 1636/2001 che della determinazione n. 585/2002, non si era in presenza di una area attualmente coltivabile come cava, ne consegue che non poteva nemmeno ipotizzarsi, a quella data, un'inerzia dei proprietari tale da dare ingresso alla procedura di cui all'art. 45, comma 2, del R.D. 1443/1927.


Fino al 23 giugno 2002, non poteva pretendersi dai ricorrenti alcun comportamento attivo finalizzato alla (eventuale) possibilità di coltivare in futuro la cava.
Pur essendo stata accolta dal Comune di Perugia in sede di controdeduzioni la richiesta dei ricorrenti di destinazione ad attività estrattiva, l'esito del procedimento di pianificazione urbanistica non era affatto scontato.


Infatti, l'approvazione del P.R.G. adottato in senso conforme alle osservazioni recepite dal Comune, era sottoposta alle valutazioni discrezionali di un'articolazione della Regione Umbria -quella avente competenze urbanistiche e di tutela territoriale- distinta dall'articolazione -competente in materia di attività produttive- preposta all'attivazione del procedimento ex art. 45, e soprattutto della Provincia di Perugia, orientate alla cura di interessi pubblici distinti e potenzialmente confliggenti con quelli che avevano condotto all'adozione dei provvedimenti impugnati (cfr. al riguardo, la deliberazione della Giunta Provinciale n. 343 in data 11 giugno 2002, e le stesse premesse della deliberazione del C.C. n. 83/2002).


12.2. Ma, anche prescindendo dal profilo della compatibilità urbanistica, il presupposto dell'inerzia non poteva comunque ritenersi sussistente.


12.2.1. Anzitutto, non può condividersi la diversa prospettazione della difesa della Regione, secondo la quale la diffida ex art. 45, comma 2, oltre ad evidenziare la connotazione della cava e l'interesse pubblico al suo sfruttamento, già farebbe venire in rilievo l'inerzia del proprietario e determinerebbe l'acquisizione dell'area di cava al patrimonio regionale, con la ulteriore conseguenza che, qualora il proprietario ottemperi, egli divenga concessionario ope legis.


Questa ricostruzione comporta, anzitutto, un'evidente forzatura del dato letterale, in quanto (a parte l'incongruità di configurare come concessionario ope legis un soggetto abilitato ad esercitare quei medesimi diritti che, sino alla diffida, gli spettavano quale proprietario) la norma dispone: "Trascorso infruttuosamente il termine prefisso, l'ingegnere capo del Distretto minerario [ora la regione] può dare la concessione della cava e della torbiera in conformità delle norme contenute nel titolo II del presente decreto, in quanto applicabili".


Ciò significa, da un lato, che il regime concessorio ha inizio solo dopo che sia scaduto il termine (e pertanto se il termine non è scaduto, e il proprietario si attiva, egli agisce iure proprio e non nomine alieno); e, dall'altro, che neppure lo spirare del termine produce ope legis l'instaurazione del regime concessorio, mentre l'effetto di quella scadenza è che la regione acquista una potestà che non è detto venga esercitata necessariamente ed immediatamente. Correlativamente il proprietario viene a trovarsi in uno stato di soggezione nei confronti dell'emanando atto di concessione, peraltro incertus an et quando; nelle more, il proprietario non subisce altra privazione o limitazione, sicché è da ritenere che se intraprende la coltivazione dopo la scadenza del termine, ma prima che sia stata data la concessione ad un terzo, rettamente egli agisca uti dominus e venga meno il presupposto dell'atto ablativo.


In tal caso infatti non vi sarebbe ragione di sacrificare un proprietario che si è comunque attivato, realizzando l'interesse pubblico cui è preordinata la concessione. Va notato, invero, che la concessione al terzo, nel sistema dell'art. 45, r.d. n. 1443/1927, non ha una funzione sanzionatoria o punitiva, ma è solamente lo strumento per realizzare l'interesse pubblico, sopperendo all'inerzia del proprietario.


Se l'inerzia è comunque cessata, il rimedio non è più necessario e un atto ablativo risulta illegittimo, in base al principio per cui nessun sacrificio di un diritto o interesse privato è consentito, se non negli stretti limiti in cui ciò è reso necessario dall'interesse pubblico.


L'inerzia del proprietario dev'essere dunque non solo formalmente e univocamente accertata, ma perdurare altresì ancora nel momento in cui viene data la concessione al terzo.


Se l'art. 45 venisse interpretato, quanto alla tutela del proprietario, con minor rigore, la norma cadrebbe in forte sospetto di illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 42 Cost., in quanto si configurerebbe una ipotesi di espropriazione senza indennizzo.


Se è vero, infatti, che il diritto di escavazione spetta naturaliter al proprietario del suolo, tanto che costui può o esercitarlo direttamente (acquistando a titolo originario la proprietà del materiale estratto e lucrando il suo valore) o cederlo a terzi dietro corrispettivo, ciò significa che quel diritto è un bene patrimoniale appartenente al proprietario del suolo; esso, pertanto, in linea di principio non potrebbe essere espropriato senza indennizzo.


Peraltro, l'art. 45, mentre consente alla "mano pubblica" di avocare il diritto di escavazione, non prevede alcun indennizzo o compenso per il proprietario del suolo, a fronte della perdita di quello specifico bene.


L'art. 45, comma 4, prevede soltanto il rimborso del valore degli impianti, dei lavori utilizzabili e del materiale (già) estratto disponibile: la disposizione si riferisce manifestamente ad una ipotesi particolare, che è quella dell'avocazione di una cava della quale il proprietario abbia già intrapreso l'escavazione, successivamente abbandonandola. Essa tuttavia è significativa, perché conferma che non è previsto indennizzo per la sottrazione del valore del materiale non ancora estratto e del diritto di scavarlo.


E' vero che, una volta che abbia avuto luogo la concessione, i rapporti fra il concessionario e il proprietario del solo sono regolati con rinvio alle norme in materia di concessione mineraria, e che pertanto sono applicabili gli artt. 10 e 31 del r.d. n. 1443/1927, a norma dei quali il concessionario deve risarcire al proprietario tutti i "danni". Ed è anche vero che questa norma si può interpretare nel senso che il concessionario debba compensare il proprietario del mancato godimento del fondo, dei frutti non percepiti, della distruzione delle piantagioni e dei manufatti esistenti sul terreno, e ancora della prevedibile scomparsa di ogni futura potenzialità agricola o edificatoria. Ma, di nuovo, neppure per questa via il proprietario viene indennizzato, risarcito o altrimenti compensato della perdita del diritto di escavazione e dell'inerente valore patrimoniale. Quest'ultimo viene trasferito d'autorità ad un concessionario scelto con una discrezionalità quasi illimitata; così come amplissima è la discrezionalità della regione nella scelta del momento in cui formulare la diffida (e attivare così la procedura di concessione) nonché nella scelta del soggetto al quale indirizzarla. Ed invero, data una pluralità di siti ugualmente idonei all'escavazione, appartenenti a soggetti diversi, l'autorità competente decide insindacabilmente se, quando e come attivare la procedura nei confronti dell'uno piuttosto che dell'altro.


In questa luce, l'art. 45, comma 2, può ritenersi costituzionalmente legittimo (invero, non senza difficoltà; cfr., al riguardo, Corte Cost., 20 marzo 1967, n. 20) soltanto se la legittimità dell'atto di concessione (e di sostanziale espropriazione senza indennizzo) viene subordinata all'inequivoco accertamento dell'impossibilità di realizzare la destinazione di interesse pubblico senza procedere all'avocazione.


Di più: è necessario che la mancata attivazione del proprietario diffidato presenti caratteristiche tali di univocità, da poter essere interpretata come una positiva manifestazione di disinteresse e di abdicazione. Solo così si può "salvare", dal punto di vista della costituzionalità, la sottrazione, senza indennizzo, di un rilevante valore patrimoniale.


La tesi che l'effetto ablativo si produrrebbe sin dal momento della diffida, peraltro, non trova conferma neanche nei precedenti giurisprudenziali invocati dalle parti resistenti.


Questi, infatti, affermano sì la immediata lesività che può avere la diffida, ma soltanto quale atto limitativo in ordine al riconoscimento dell'esistenza e coltivabilità della cava ed alla dichiarazione di rilevanza e preminenza dell'interesse pubblico minerario rispetto ad ogni altro interesse privato o pubblico connesso ad un diverso sfruttamento economico del terreno; e, nel contempo, sottolineano il differimento degli effetti costitutivi della diffida (il trasferimento al patrimonio regionale) all'eventuale infruttuoso decorso del termine assegnato al proprietario (cfr. Cons. Stato, VI, 16 novembre 1998 n. 1561, 22 ottobre 1982, n. 503 e 2 novembre 1983 n. 786; TAR Puglia, 25 febbraio 1982, n. 84), così sostanzialmente confermando che prima di tale ultima evenienza non si verifica alcuna avocazione della cava.


Una esplicita conferma della tesi qui accolta, viene invece dalla stessa difesa della Proter allorquando, in una fase processuale precedente alla conclusione del procedimento concessorio ed alle relative impugnazioni, precisa limpidamente che "il provvedimento di prefissione del termine (tale è il provvedimento impugnato) non ha alcun carattere ablativo della proprietà privata; anzi è stimolo a far sì che il proprietario del suolo non resti più inerte a riguardo della coltivazione della cava e ciò nell'interesse pubblico sopra ricordato. La fase prodromica della prefissione del termine non può essere qui mescolata con la fase successiva (ed eventuale) del provvedimento concessorio" (cfr. memoria in data 12 settembre 2002).


12.2.2. Per completezza, può a questo punto osservarsi che l'accertamento in concreto dell'interesse pubblico allo sfruttamento della cava dovrebbe avvenire sulla base degli indirizzi e dei vincoli della programmazione di settore, anche se di tale verifica, nell'istruttoria sottesa alla deliberazione n. 1636/2001, non vi è traccia evidente -profilo, peraltro, che non è stato investito dalle impugnazioni, essendo evidentemente i ricorrenti mossi dall'intento di assicurarsi lo sfruttamento autonomo dell'area e non da preoccupazioni di tutela del territorio.


Nel medesimo senso, va sottolineato che la determinazione dirigenziale n. 6641 in data 19 luglio 2002, con la quale, aperta la conferenza di servizi, è stato deciso di non sottoporre a valutazione di impatto ambientale il progetto di escavazione e ricomposizione proposto dalla Proter, pure formalmente impugnata, non è stata fatta oggetto di specifiche censure.


12.2.3. Alla luce di quanto esposto al punto 12.2.1., poiché i ricorrenti hanno tempestivamente presentato alla Regione ed al Comune i progetti di coltivazione, unitamente alla domanda di autorizzazione ex art. 7 della l.r. 2/2000, deve escludersi che, al momento rilevante (cioè, alla scadenza del termine imposto con la diffida), fosse riscontrabile l'inerzia comportante gli effetti di cui all'art. 45, comma 2.


Né può condurre a ritenere insoddisfatto l'onere di attivazione da parte dei ricorrenti (atto ad evitare che il loro comportamento fosse qualificabile come inerzia) la circostanza che i progetti siano stati formalmente presentati dalla Granulati e che i proprietari dei terreni li abbiano sottoscritti per accettazione.
Tale circostanza dimostra infatti inequivocamente la volontà di coltivare l'area come cava (riguardo, poi, alla sufficienza degli atti prodotti e dei requisiti soggettivi ed oggettivi posseduti, al fine di ottenere l'autorizzazione, si dirà al punto successivo).


12.2.4. Sottolineano, peraltro, le parti resistenti che l'inerzia del proprietario rilevante ai sensi dell'art. 45, comma 2, non è soltanto quella soggettiva, colpevole, ma comprende anche quella oggettiva, le ipotesi cioè nelle quali il proprietario, per limitazioni esterne, non sia in grado di coltivare il giacimento.
Anche volendo seguire tale interpretazione (suffragata da TAR Abruzzo, 2 maggio 1984, n. 221), l'ambito di estensione dell'impossibilità oggettiva di coltivare la cava non può essere dilatato fino a comprendere l'impossibilità di conseguire l'obbiettivo (non del semplice sfruttamento, bensì) dell'ottimale sfruttamento del sito.


A parte la considerazione che vi sarà sempre un soggetto il quale, per la propria capacità tecnica o organizzativa o le risorse economiche e finanziarie di cui dispone, potrà proporsi come concessionario in grado di realizzare una coltivazione "migliore" di quella realizzabile dal proprietario, non è lontano dalla realtà il rilievo secondo cui dall'accoglimento della tesi delle parti resistenti deriverebbe l'effetto paradossale che quasiasi soggetto esercente l'attività estrattiva potrebbe ottenere la concessione per ampliare a dismisura l'area di estrazione, con il solo limite fisico derivante dall'estensione del giacimento, accaparrandosi a costo zero tutte le aree finitime.


E' ben vero che la l.r. 2/2002, al fine di perseguire le finalità di tutela territoriale ed ambientale, privilegia l'ampliamento delle cave esistenti, e pone forti limitazioni all'apertura di cave nuove (in tal senso, peraltro, un divieto vero e proprio è posto dalla pianificazione territoriale della Provincia di Perugia).


Tuttavia, l'applicazione di tale criterio di priorità nelle coltivazioni non può giungere fino al punto di ritenere che l'ampliamento dei versanti di cava in coltivazione debba prevalere per ciò solo sull'apertura di nuovo versanti contigui, di modo che si possa ricorrere al regime concessorio anche in presenza di fondi contigui appartenenti a diversi proprietari che non raggiungano spontaneamente una composizione dei propri interessì.


E' plausibile che, in simili casi, lo sfruttamento autonomo dei versanti impedisca, dato il rispetto delle distanze legali e di sicurezza tra i cantieri, l'ottimale recuperabilità delle risorse estrattive.


Ma tali circostanze, di opportunità economica o tecnica, non possono condurre a sovrapporre al regime fondiario sol che appaia maggiormente conveniente per le ragioni della produzione, il regime ablatorio-concessorio senza indennizzo, che costituisce un'eccezione, giustificata, va ripetuto, soltanto da una dimostrata inadeguatezza del regime fondiario ad assicurare la coltivazione dell'area.


 Allo stesso modo, è plausibile che la stessa necessità di mantenere al termine dei lavori un diaframma tra le proprietà renderebbe più difficile o più onerosa la ricomposizione ambientale.


Anche queste circostanze, se possono (anzi, devono) dare luogo all'imposizione di prescrizioni e cautele nelle coltivazioni, fino a giungere (laddove non vi sia stata la lungimiranza di imporre detti limiti al primo coltivatore, e conseguentemente vi sia la necessità di intervenire su chi si è attivato successivamente) all'ablazione di porzioni di proprietà contigue, per permettere una ricomposizione morfologica completa e senza soluzioni di continuità, non giustificano, in assenza di una espressa disposizione normativa e, ancor di più, alla luce dei principi costituzionali, l'interpretazione estensiva dei presupposti del regime ablatorio-concessorio sottesa ai provvedimenti impugnati.


E ciò a prescindere, in ordine alla necessaria unitarietà del giacimento, dalla convinzione che ne abbia o della prospettazione che ne faccia il proprietario stesso. In questo senso, non rileva che la Ascagnano avesse presentato una osservazione congiunta con la Proter per ottenere la destinazione ad attività estrattiva nel P.R.G. in itinere, sul presupposto che si trattasse di un "giacimento unico".


12.3. La fase procedimentale di esame dei progetti si è svolta sulla base dell'erroneo presupposto che si trattasse di valutare la convenienza della richiesta di coltivazione della cava presentata dall'aspirante concessionario, anziché di verificare la sussistenza del presupposto per poter valutare detta richiesta.


La deviazione dal paradigma normativo inizia con l'attivazione della conferenza di servizi.


La deliberazione n. 1636/2001, richiamato l'infruttuoso tentativo di "conseguire privatamente un bonario componimento della vicenda" e preso atto della mancanza di progetti da parte dei proprietari, ha stabilito il ricorso alla procedura di cui all'art. 45, invitando il dirigente competente all'adozione dei conseguenti atti.


La determinazione n. 585/2002, ha considerato che ricorrevano i presupposti per l'applicazione dell'art. 45.


Fino a questo punto, i provvedimenti hanno fotografato una situazione di inerzia, tale da dare ingresso alla diffida necessaria per qualificarla ai fini dell'eventuale avocazione della cava.


E' all'avvio della conferenza di servizi che viene omessa la fase della verifica della permanenza o meno dell'inerzia dei proprietari e la Regione considera attivato il procedimento concessorio.


Ciò sembra profilarsi fin dalla riunione di apertura della conferenza di servizi in data 13 giugno 2002, il cui verbale individua l'oggetto "… istanza di concessione 21/8/2001 ditta Proter s.r.l.", e nel corso della quale viene puntualizzato (pag. 2) che "il procedimento può essere concluso esclusivamente con una delle seguenti determinazioni: accogliendo l'istanza Proter s.r.l. e quindi conferendo la concessione di coltivazione di materiali di cava sull'intero giacimento ai sensi dell'art. 45 del R.D. 1443/1927; respingendo l'istanza Proter s.r.l. e quindi lasciando al Comune di Perugia la facoltà di autorizzare la Granulati centro Italia s.p.a. ai sensi dell'art. 7 della L.R. 2/2000".


In tale contesto i progetti presentati dalle ricorrenti vengono in rilievo (nel rapporto istruttorio in data 12 giugno 2002, le cui conclusioni sono state fatte proprie dalla conferenza) soltanto come termini di raffronto nella valutazione di convenienza tecnica ed economica del progetto Proter: "Si è ritenuto quindi di dare corso al procedimento provvedendo ad esaminare il progetto Proter e i progetti Granulati, che, pure presentati a titolo cautelativo, costituiscono validi elementi per l'istruttoria del procedimento" (pag. 3).


L'asimmetria tra i contenuti dei progetti richiesti agli interessati e lo stesso esito della conferenza dei servizi -che registra una marcata differenza tra l'attenzione riservata al progetto Proter e la considerazione dei progetti dei ricorrenti, relegati al rango di elemento istruttorio, parametro di valutazione e conferma di validità di quello della Proter, non sono altro che la diretta conseguenza del presupposto erroneo.


E' infatti evidente che la Proter godeva di una posizione tale -per i vincoli relativi alle distanze ed alle modalità di ricomposizione ambientale- da rendere oggettivamente preferibile, sotto il profilo tecnico ed economico (ed alla luce dell'esigenza di ottimizzare la coltivazione), il proprio progetto relativo all'intero sito, rispetto a quelli dei ricorrenti, giocoforza limitati alle aree non ancora coltivate.


Soltanto nella prospettiva erroneamente accolta dalla Regione assumeva rilevanza preponderante l'esigenza di coltivazione unitaria, in applicazione del principio desumibile dall'art. 50 del R.D. 1443/1927 (sulla assoggettabilità ad una gestione unica di miniere contigue, anche al fine di assicurarne una più conveniente coltivazione).


Si deve dunque ritenere che proprio nell'aver valutato esclusivamente la maggior convenienza della concessione, anziché verificare la sussistenza di un'inerzia dei proprietari, risieda un ulteriore vizio che inficia autonomamente gli atti della seconda fase procedimentale, a partire dalla conferenza di servizi.
Va ripetuto che i progetti dei proprietari avrebbero meritato di essere considerati, allo specifico fine di verificare se, eventualmente attraverso la previsione di prescrizioni integrative o modificative, consentissero la coltivazione autonoma e, al termine di essa, la ricomposizione ambientale dell'area di cava sfruttata e di quelle limitrofe.


Solo in caso di esito negativo di tale verifica, sarebbe in ipotesi risultato sussistente il presupposto dell'inerzia dei proprietari (rectius: dell'impossibilità oggettiva di coltivare autonomamanete i terreni dei ricorrenti), necessario per dare ingresso al procedimento di concessione delle aree a terzi. Senza però che detta verifica dovesse risentire di un giudizio di efficienza comparativa della coltivazione realizzabile dai diversi interessati -confronto, questo, che, come verificatosi, non poteva che avere un esito scontato e condurre a conseguenze ablatorie non previste neanche dalla più lata interpretazione dell'art. 45 ipotizzabile.


12.4. Può aggiungersi che, al di là della contraddittorietà soltanto apparente, è proprio il comportamento del Comune di Perugia ad essere coerente con l'impostazione data al procedimento dall'Amministrazione procedente.


Trattandosi di valutare l'istanza di concessione della Proter, infatti, il Comune era tenuto ad esprimere il parere in ordine al progetto di coltivazione presentato, ai sensi dell'art. 12 del D.P.R. 382/1994, mentre nessuna norma prevedeva che in quella sede venisse espresso il parere sugli altri progetti nella prospettiva comparativa nella quale si è in realtà svolta la valutazione.


12.5. In conclusione, deve ritenersi che l'art. 45, comma 2, del R.D. 1443/1927 è suscettibile di applicazione soltanto nell'ipotesi in cui il proprietario di un'area che sia urbanisticamente destinata all'attività estrattiva non la sfrutti, astenendosi dal richiedere o dall'esercitare l'autorizzazione di cui alla l.r. 2/2000, e produce effetti costitutivi consistenti nell'avocazione della cava al patrimonio indisponibile della regione soltanto se, una volta raggiunto dalla diffida regionale, il proprietario perduri nel comportamente inerte alla scadenza del termine assegnatogli.


13. Inammissibile appare invece l'impugnazione della delibera comunale n. 118/2000, proposta dai ricorrenti per l'ipotesi che precludesse la coltivazione autonoma della cava.


Deve condividersi quanto precisato dalla difesa del Comune di Perugia circa il fatto che la deliberazione, rendendo possibile la coltivazione dell'area come cava, rappresenta un atto favorevole ai ricorrenti, mentre non è idonea ad imporre alcuna limitazione circa la titolarità soggettiva del diritto allo sfruttamento.


Nel recepire l'osservazione, il Comune ha espressamente posto a fondamento del declassamento da EA2 (area di particolare interesse agricolo di collina) a D7 (attività estrattive e/o impianti fissi) l'inidoneità del sito ad essere sfruttato come agricolo e quindi attraverso coltivazioni intensive, insieme all'osservazione che la nuova classificazione consentirebbe l'ampliamento delle attività estrattive svolte nel terreni contigui, ma ciò non poteva comportare alcun impedimento alla utilizzazione del terreno in modo autonomo, esulando dai poteri comunali ogni decisione riguardo all'applicazione dell'art. 45, comma 2.


Del resto, anche nei rapporti tra Proter ed Ascagnano, contestualmente alla presentazione dell'osservazione congiunta, era stata sancita la libertà della seconda di cedere i diritti di sfruttamento a terzi (come è desumibile dalla scrittura privata sottoscritta in data 19 giugno 1999, prodotta dalla ricorrente).


14. La fondatezza delle censure esaminate, assorbite le altre, determina, in accoglimento dei ricorsi, l'annullamento degli atti impugnati, nei sensi e limiti suindicati.


Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale Amministrativo dell'Umbria, definitivamente pronunciando, riuniti i ricorsi in epigrafe, li accoglie e, per l'effetto, annulla i provvedimenti impugnati, nei sensi e limiti indicati in parte motiva.


Condanna la Regione Umbria e la Proter S.r.l. al pagamento della somma di Euro 5.000 (cinquemila) ciascuna, in favore di ciascuno dei tre ricorrenti, per spese ed onorari di causa, che invece compensa nei confronti del Comune di Perugia.