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Dalla mutualità alle casalinghe alla tutela previdenziale delle persone che espletano lavori di cura non retribuiti scaturenti da responsabilità familiari.

 

Antonino Sgroi

 

 

La prima forma di tutela previdenziale riguardante le casalinghe è dato ritrovarla nel n. 4 dell’art. 85 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni nella legge 6 aprile 1936, n. 1155.


Questo articolo, inserito nel capo chiamato a disciplinare le assicurazioni facoltative, riconosceva la possibilità di iscrizione presso l’assicurazione facoltativa per pensioni di invalidità e vecchiaia, fra l’altro, a “le donne maritate che attendono alle cure domestiche ed il cui marito sia compreso in una delle precedenti categorie. Possono essere ammesse anche le donne che, con altro vincolo di parentela, accudiscono alle cure domestiche presso persone comprese nelle precedenti categorie, quando risultino che non hanno redditi di alcuna specie per i quali paghino annualmente allo Stato per imposte dirette, una somma superiore a lire 120;”


Il rapporto assicurativo previdenziale era posto in essere su richiesta del soggetto interessato all’iscrizione e senza discrezionalità di sorta da parte dell’ente previdenziale che non poteva far altro che iscrivere.


Successivamente la legge 5 marzo 1963, n. 389 istituì presso l’I.N.P.S. la gestione separata <<Mutualità Pensioni>> avente lo scopo di gestire l’assicurazione volontaria per le pensioni delle casalinghe (art.1).


I soggetti iscrivibili alla gestione erano individuati nelle persone di sesso femminile che avessero compiuto il quindicesimo anno di età e che non avessero superato il 50° anno, o che risultassero iscritte all’assicurazione facoltativa istituita dal citato articolo 85, e in ogni caso, che fossero iscritte a forme previdenziali obbligatorie.


Ai sensi dell’art. 21 della citata legge è stato emanato, con decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1964, n. 665, regolamento per l’esecuzione della gestione separata.


L’articolo 2 del regolamento annoverava nella categoria “casalinghe” le persone, coniugate, vedove, o nubili, che attendono, senza vincolo di subordinazione, alle cure domestiche presso la propria famiglia.


La materia subisce, come noto, un’ulteriore evoluzione con la delega contenuta nel comma 33° dell’art. 2 della legge 8 agosto 1995, n. 335, ove si affida al legislatore delegato il compito di “…armonizzare la disciplina della gestione <<Mutualità pensioni>>…, con le disposizioni recate dalla presente legge avuto riguardo alle peculiarità della specifica forma di assicurazione sulla base dei seguenti principi:
a) conferma della volontarietà dell’accesso;
b) applicazione del sistema contributivo;
c) adeguamento della normativa a quella prevista ai sensi dei commi 26 e seguenti, ivi compreso l’assetto autonomo della gestione con partecipazione dei soggetti iscritti all’organo di amministrazione.”


Il decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565 porta a compimento la menzionata delega e, a decorrere dal 1° gennaio 1997, muta il nome della citata gestione in “Fondo di previdenza per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari” (art. 1, secondo comma).


Il legislatore del 1996, con tecnica utilizzata nel precedente testo normativo sulla materia, individua i soggetti iscrivibili, sempre su base volontaria, al Fondo innanzitutto in quelli, recte quelle, iscritte alla precedente Gestione, e in tutti coloro che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che, allo stesso tempo, non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta.


All’opposto l’iscrizione al Fondo è compatibile con lo svolgimento di un’attività lavorativa ad orario ridotto, anche se prestata con carattere di continuità, tale da determinare la contrazione del corrispondente periodo assicurativo ai fini della determinazione del diritto alla pensione nel regime generale obbligatorio.


Con successivo decreto, del 14 marzo 2001, n. 14486 del Ministero del lavoro e della previdenza, emanato di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica (in G. U., n. 118 del 23 maggio 2001), si è provveduto a determinare gli specifici coefficienti di trasformazione in pensione del montante contributivo per il Fondo.


Successivamente, con circolare n. 223 del 20.12.2001 (in www.inps.it), l’ente previdenziale a cui è affidata la gestione del neocostituito Fondo ha provveduto a impartire le necessarie istruzioni per dare concreta attuazione alla delineata tutela previdenziale.

Il reticolato di tutela nei confronti dei soggetti retro evidenziati si estende alla patologia degli infortuni domestici con la legge 3 dicembre 1999, n. 493, testo legislativo che è finalizzato a promuovere iniziative dirette a tutelare la sicurezza e la salute attraverso la prevenzione delle cause di nocività e degli infortuni negli ambienti di civile abitazione e l’istituzione di una forma assicurativa contro il rischio infortunistico derivante dal lavoro domestico.


L’articolo 7 istituisce l’assicurazione obbligatoria, con Fondo autonomo speciale gestito dall’I.N.A.I.L., per la tutela dal rischio infortunistico per invalidità permanente derivante dal lavoro svolto in ambito domestico, Soggette all’obbligo assicurativo sono le persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni che svolgono in via esclusiva attività di lavoro in ambito domestico.


Si intende per lavoro svolto in ambito domestico l’insieme delle attività prestate nell’ambito domestico, senza vincolo di subordinazione e a titolo gratuito, finalizzate alla cura delle persone e dell’ambiente domestico.


L’ambito domestico è l’insieme degli immobili di civile abitazione e delle relative pertinenze ove dimora il nucleo familiare dell’assicurato e nell’ipotesi che l’immobile faccia parte di un condominio, l’ambito domestico comprende anche le parti comuni condominiali.


Infine l’esclusività del lavoro svolto in ambito domestico è da intendersi come non svolgimento da parte del soggetto assicurato di altra attività che comporti l’iscrizione presso forme obbligatorie di previdenza sociale.


I casi di infortunio garantiti sono quelli avvenuti in occasione e a causa dello svolgimento della citata attività, all’interno dei luoghi come retro evidenziati e dai quali sia derivata una inabilità permanente al lavoro non inferiore al 33 per cento. Sono esplicitamente esclusi gli infortuni verificatisi al di fuori del territorio nazionale.


Il legislatore affida al Ministro del lavoro e della previdenza sociale il compito di accertare se l’equilibrio finanziario ed economico del Fondo medesimo consenta l’inclusione nell’assicurazione dei casi di infortunio mortale e, all’esito di una ricognizione positiva, di emanare i provvedimenti necessari con decreto.


Il decreto ministeriale n. 956500 del 15 settembre 2000 individua i requisiti delle persone soggette all’obbligo assicurativo e il successivo decreto, di pari data, n. 957000 individua, a sua volta, le modalità di attuazione dell’assicurazione.


Quest’ultimo decreto fissa il premio assicurativo, da versare entro il 31 gennaio di ogni anno, pro capite in Euro 12,91 per anno solare, importo non frazionabile ed esente da oneri fiscali.


Nell’ipotesi che il soggetto tenuto al pagamento del premio sia inadempiente è dovuta una somma aggiuntiva non superiore all’ammontare del premio stesso, graduabile in relazione al periodo dell’inadempimento. Quest’ultima disposizione non si applica per un quinquennio a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 493.


Infine, di rilievo la disposizione che esplicitamente e in deroga al principio di automaticità delle prestazioni, principio generale del micro-sistema previdenziale, esclude il riconoscimento della prestazione, rendita vitalizia, nei confronti dei soggetti non in regola con il pagamento del premio e per tutti quegli infortuni accaduti prima del pagamento del premio.


Sotto il versante amministrativo l’I.N.A.I.L. ha emanato la circolare n. 9 del 22 febbraio 2001, in www.inail.it).


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Compiuta la ricognizione dei testi normativi sulla materia può passarsi a una breve disamina del testo legislativo del 1996 con riferimento alla volontarietà dell’iscrizione e agli effetti che l’ordinamento, implicitamente o esplicitamente, connette a tale dichiarazione unilaterale.


L’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 1 del decreto istitutivo del Fondo previdenziale in commento, in perfetta sintonia con il principio fissato dalla lett. a) del comma 33 dell’art. 2 l. cit., prevede che “Al Fondo possono iscriversi, su base volontaria, i soggetti che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta.”


In via di prima approssimazione può affermarsi che il delineato, ancorché sommario, quadro legislativo porta a concludere che il legislatore della riforma previdenziale del 1995 abbia voluto creare, anche a favore di quei soggetti, senza distinzione alcuna di sesso, che svolgono attività lavorativa fra le mura domestiche senza retribuzione alcuna in forza dei vincoli familiari che le legano ai beneficiari, un reticolato di tutela pubblica che conduce a una equiparazione sotto il profilo previdenziale di tali lavoratori agli altri lavoratori provvisti di simile tutela e ciò nonostante la mancanza della percezione di una retribuzione.


Ulteriore suffragio a tale modello ricostruttivo è possibile reperire se, passando dalla previdenza pubblica a quella privata, si pone mente alla modifica intervenuta, in forza dell’art. 17 del decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 47, che ha introdotto la lett. b-ter), nell’art. 2 del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124.


In forza di tale introduzione, fra i destinatari delle forme pensionistiche complementari si annoverano anche “i soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, anche se non iscritti al fondo ivi previsto.”


Il nuovo testo dell’art. 2 del decreto legislativo n. 124 disciplinante la c.d. previdenza complementare, adeguandosi a una scelta di politica del diritto antecedentemente formalizzata nel sistema previdenziale pubblico con il decreto legislativo n. 565, allarga il proprio ambito di efficacia anche nei confronti di soggetti che non potevano essere ricompresi nella categoria “lavoratore”, categoria che è usualmente individuata, utilizzando fra gli elementi che ne costituiscono condizione necessaria e sufficiente di esistenza, la percezione di un compenso.


Antecedentemente alle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 47 del 2000, in favore di questi soggetti non appariva possibile nemmeno l’iscrizione a un Fondo pensione aperto in quanto l’art. 9, al secondo comma, individuava i soggetti che potevano iscriversi al fondo aperto solo nei “…destinatari delle disposizioni del presente decreto legislativo…”.


I destinatari erano individuati dall’art. 2, primo comma e in esso si parlava, sino al 2000, di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, lavoratori autonomi, liberi professionisti e di soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro.


L’elenco di destinatari, anche a non volerlo considerare tassativo ma meramente esemplificativo, si rammenti che il problema della tassatività o esemplificatività permane nonostante le modifiche legislative che sono intercorse o che potranno intervenire medio tempore, poteva in ogni caso condurre a un allargamento dei soggetti destinatari della legislazione.


Elenco, in ogni caso, limitato a soggetti che svolgevano un’attività che consentisse loro di essere inquadrati nella categoria “lavoratore” e non certamente a soggetti che, malgrado lo svolgimento di un’attività, non potevano considerarsi lavoratori secondo il contenuto assegnato generalmente a tale termine.


Il quadro normativo muta con il decreto n. 47 che non solo, come già detto, introduce fra i destinatari dell’art. 2 anche soggetti non lavoratori ma, altresì, con gli artt. 9-bis e 9-ter prevede l’istituzione di forme pensionistiche individuali.


La prima forma pensionistica individuale delineata dall’art. 9-bis si pone in raccordo con il precedente art. 9 che disciplina i fondi di previdenza aperti.


La seconda connette la forma pensionistica alla stipula di contratti di assicurazione sulla vita; questa ultima, anche se non si fosse proceduto all’allargamento della platea dei destinatari dei fondi chiusi e aperti, avrebbe consentito la creazione di un modello di tutela previdenziale privata anche per i soggetti di cui si parla.


Di converso il legislatore ha preferito da un lato introdurre una tutela previdenziale pubblica (sulla correttezza o meno di tale aggettivizzazione ci si soffermerà specificamente nel prosieguo di tale scritto) affidata all’ente pubblico e, dall’altro, parallelamente, riconoscere anche per i soggetti in commento la possibilità della creazione di una posizione previdenziale privata all'interno di un fondo di categoria (fondo esistente, che risulta essere stato autorizzato dalla Commissione di Vigilanza sui fondi pensione in data 28 dicembre 2000 e che ha il nome FONDO FAMIGLIA).


Tale scelta di politica del diritto, che ha escluso una tutela solo privata dei menzionati soggetti, conduce ad affermare che nel nostro sistema la tutela previdenziale è riconosciuta a qualunque soggetto che ha espletato un’attività lavorativa, anche se non retribuita ed è affidata in via principale all’ordinamento statuale a cui si connette e collega un sistema privato di previdenza.


Il collegamento fra previdenza pubblica e privata dianzi delineato nella nostra materia conduce a soffermare l’attenzione su un aspetto rilevante che può essere lessicalmente rappresentato da una proporzione, proporzione sulla cui necessaria veridicità sarà opportuno porre mente locale.


La proporzione è la seguente: “previdenza pubblica : iscrizione obbligatoria = previdenza privata : iscrizione volontaria”.


Come noto la previdenza pubblica è a iscrizione obbligatoria e la sua gestione è affidata a un ente pubblico quale è l’I.N.P.S., sena dimenticare le altre forme previdenziali pubbliche obbligatorie sostitutive di quella gestita dall’ente ultimo citato.


All’opposto la previdenza complementare è a iscrizione facoltativa ed è affidata a soggetti privati specificamente individuati nel decreto legislativo n. 124 del 1993.


Se questo è il quadro legislativo di riferimento ne discende che, se si fa uso consequenzialmente logico dei dati normativi di riferimento suddelineati, o il Fondo di cui si discute è un Fondo di previdenza complementare affidato, in via derogatoria dal legislatore del 1996, all’I.N.P.S., soggetto a cui è istituzionalmente preclusa l’attivazione diretta di fondi di previdenza privata o, all’opposto, il Fondo rientra nel sistema previdenziale pubblico nonostante la volontarietà dell’iscrizione al medesimo.


Appare chiaro che la scelta fra l’una o l’altra delle opzioni delineate è foriera di importanti conseguenze per il sistema previdenziale in sé, comprendendosi in questa espressione il pubblico e il privato e, per il singolo iscritto al Fondo.


Utili in tale ricostruzione appaiono da un lato la stessa disposizione contenuta nel comma secondo dell’art. 1 del decreto legislativo n. 565 del 1996 e dall’altro il dato normativo rappresentato dalla lett. b-ter) dell’art. 2 del decreto legislativo n. 124 del 1993.


Nel primo testo legislativo si disconosce l’iscrizione al Fondo di quei soggetti che:
a) svolgono la medesima attività in maniera retribuita;
b) svolgono altra attività lavorativa in proprio o alle dipendenze di terzi.


In questi casi non vi è bisogno di tutela previdenziale pubblica in quanto l’ordinamento appresta altra e diversa forma di tutela previdenziale pubblica, questa volta a iscrizione obbligatoria, che si pone, pertanto, alternativamente, a quella esaminata in questa sede.


L’impossibilità di iscrizione al Fondo in tale ipotesi depone a favore della tesi che anche in questo caso si è davanti a una forma di previdenza pubblica che non può concorrere con altre forme di previdenza pubblica.


Nel secondo testo il legislatore ha esplicitamente previsto che fra i destinatari dei fondi chiusi di previdenza complementare fossero compresi anche i soggetti individuati dal decreto legislativo n. 565 del 1996.


Ne discende che costoro sono in astratto, stante in entrambe le ipotesi la volontarietà dell’iscrizione, destinatari di due forme previdenziali: una gestita dall’I.N.P.S. e l’altra gestita da tutti quei soggetti dell’ordinamento individuati dal decreto del 1993.


In tale spezzone normativo si riconosce la possibilità di iscriversi a un fondo previdenziale privato anche se non vi sia la parallela iscrizione al fondo previdenziale gestito dall’I.N.P.S.


Da tale possibile doppia iscrizione deve dedursi che le forme di tutela previdenziale apprestate dall’ordinamento a favore di questi lavoratori non retribuiti sono fra loro concorrenti e allo stesso tempo alternative.


Le stesse concorrono nella creazione di un reticolato di tutela qualora il lavoratore si sia iscritto a entrambe; sono alternative nell’ipotesi che il lavoratore abbia volontariamente acceduto a una sola di esse.


Acclarato quest’aspetto deve ora chiedersi se i due fondi, quello del decreto legislativo 565 e quello del decreto legislativo n. 124, gli stessi sono chiamati a operare all’interno del sistema di previdenza privato, ancorché affidati a soggetti differenti – l’I.N.P.S., il primo, i soggetti individuati nel decreto 124, il secondo – o se, all’opposto, i due fondi sono chiamati a operare: l’uno all’interno del sistema di previdenza pubblico, l’altro all’interno del sistema di previdenza privato.


Avallare questa soluzione significa affermare che il sistema di previdenza pubblico non è più connesso all’obbligatorietà o meno dell’iscrizione al sistema di previdenza pubblico, ma è solamente collegato al soggetto a cui il legislatore ha affidato la gestione della previdenza pubblica e cioè all’ente pubblico: I.N.P.S., I.N.P.D.A.P.


E’ chiaro che una ricostruzione di tal sorta può poi ruotare attorno l’affermazione che si è davanti a una deroga al sistema ordinario che prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione alla previdenza pubblica o all’opposto, attorno l’affermazione che si è davanti alla creazione di una nuova regola che ricopre lo stesso ambito di efficacia della precedente.


L'una o l’altra delle affermazioni retro delineate porta con sé la scelta ideologica dell’interprete tesa a restringere o allargare il principio introdotto con la disposizione dell’art. 1, comma secondo, del decreto legislativo n. 565 del 1996 e, ancor prima, dal legislatore delegato del 1995.


In ogni caso le due opzioni ermeneutiche devono risolvere il problema insito nella creazione del Fondo a iscrizione volontaria del decreto del 1996 ponendolo in connessione con il nuovo quadro legislativo in materia di previdenza complementare e decidere se il vulnus afferente la non obbligatorietà dell’iscrizione al sistema previdenziale pubblico sia più o meno deleterio del vulnus che si apporterebbe se si accedesse alla diversa ipotesi ricostruttiva che assimila il menzionato fondo ai fondi privati di previdenza complementare affidato esclusivamente all’I.N.P.S.


La soluzione meno dirompente appare quella prospettata in questa sede, che ritiene essersi davanti a un fondo previdenziale pubblico a cui si accede, contrariamente alla regola generale dell’obbligatorietà, solo in forza di una scelta volontaria del soggetto.


Scelta che condiziona solo l’accesso al fondo ma che non produrrà effetto alcuno per lo svolgimento del rapporto previdenziale, rapporto che rimarrà un rapporto previdenziale pubblico disciplinato dalla normativa previdenziale pubblica.


A questa soluzione appare essere approdato anche l’ente previdenziale laddove nella circolare n. 223 del 2001 afferma, fra l’altro, che “…la prosecuzione volontaria dell’iscrizione ad altro ordinamento pensionistico obbligatorio o l’accredito di contribuzione figurativa connessa alla risoluzione del rapporto di lavoro costituiscono causa ostativa al versamento della contribuzione al Fondo” (prg. 2.1).


Da tale affermazione si inferisce che il Fondo gestito dall’I.N.P.S., nonostante la volontarietà dell’iscrizione, rientri nel sistema di previdenza pubblica.


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Da quest’ultima affermazione ne consegue per il lavoratore iscritto al Fondo la possibilità di utilizzare tutti gli strumenti giuridici previsti nel sistema di previdenza pubblica e connessi al computo integrale dei contributi versati presso altri Fondi o gestioni pubbliche.


Su questo versante appaiono di rilevante interesse le ricadute che si hanno, dall’assimilazione al sistema di previdenza pubblica del Fondo in commento, in tema di ricongiunzione e totalizzazione dei contributi.


La riconduzione nel modello previdenziale pubblico del Fondo conduce ad affermare, in prima battuta, che il lavoratore iscritto allo stesso possa far valere, fra l’altro, la ricongiunzione dei contributi o la totalizzazione degli stessi, non rinvenendosi alcun motivo ostativo all’esperimento di tale procedure all’interno del Fondo medesimo o viceversa.


La ricongiunzione, come noto, consiste nella possibilità di unificare presso una sola forma di previdenza i contributi versati in gestioni diverse, allo scopo di ottenere un’unica pensione.


La totalizzazione è il meccanismo tramite il quale si procede alla riunione virtuale dei contributi esistenti nelle varie gestioni per la verifica dell’esistenza del requisito del diritto alla pensione e che conduce, successivamente alla verifica positiva di cui retro, nella liquidazione di rate di pensione a carico di ciascuna delle gestioni ove risultano accreditati e versati i contributi.


Il primo istituto trova la sua disciplina, per quel che attiene in questa sede, in tre testi legislativi: la legge 7 febbraio 1979, n. 29, la legge 5 marzo 1990, n. 45 e, da ultimo, il decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184.


Il secondo istituto trova la sua formalizzazione nell’art. 71 della legge n. 388 del 23 dicembre 2000 e nel successivo decreto ministeriale 7 febbraio 2003, n. 57 (in G. U., 5 aprile 2003, n. 30).


La ricongiunzione avrebbe dovuto trovare un’unitaria disciplina, al pari del riscatto e dei versamenti volontari, nel decreto legislativo n. 184 del 1997.
Ma lo stesso legislatore, all’art. 1 che disciplina l’istituto in commento, delimita l’ambito di efficacia della disciplina, con tecnica di rinvio formale nel primo caso ed esplicitamente nel secondo, da un lato ai soli lavoratori (1° comma) per i quali i trattamenti pensionistici sono liquidati esclusivamente secondo il sistema contributivo e dall’altro, limitatamente ai liberi professionisti (5° comma) prevede una disciplina derogatoria di quella generale.

Con riguardo al primo profilo derogatorio la legge di riforma del sistema pensionistico 335 del 1995 cd. legge Dini, al comma 6 dell’art. 1 ha introdotto per il calcolo della pensione nell’assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) il sistema contributivo. Ma tale regola generale non trova applicazione nei confronti di quei lavoratori iscritti all’A.G.O. alla data del 31 dicembre 1995 “…e che possono far valere un’anzianità contributiva di almeno diciotto anni…”, nei confronti di costoro il calcolo della pensione avviene utilizzando il precedente sistema retributivo (13° comma, art. 1).
Ancora la regola generale trova un’applicazione mitigata nei confronti di quei lavoratori che alla menzionata data possono far valere un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni; in questi casi si procede alla sommatoria di quanto calcolato utilizzando il metodo retributivo e di quanto calcolato utilizzando il metodo contributivo.


Infine si aggiunga che, ai sensi del ventitreesimo comma del medesimo articolo, è consentito ai lavoratori, ai quali si applica, totalmente o parzialmente, il sistema retributivo optare “…per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo, ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione di cui al comma 19 (pensione di vecchiaia), a condizione che abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni, di cui almeno cinque nel sistema contributivo.”


L’ultimo periodo di tale comma è stato interpretato autenticamente, con il decreto legge 28 settembre 2001, n. 355, convertito con modifiche in legge 27 novembre 2001, n. 417, “…nel senso che l’opzione ivi prevista è concessa limitatamente ai lavoratori di cui al comma 12 del predetto art. 1 che abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni, di cui almeno cinque nel sistema contributivo.”

In forza delle menzionate limitazioni ne consegue con riguardo alla ricongiunzione che vigono contestualmente due modelli:
- uno disciplinato dalle disposizioni antecedenti al decreto legislativo n. 184 del 1997, modello valido per tutti i trattamenti pensionistici liquidati con il sistema retributivo o con il sistema misto;
- l’altro disciplinato dalle nuove disposizioni, valido per i trattamenti pensionistici liquidati con il nuovo modello contributivo.


La questione che bisogna risolvere all’interno del Fondo in commento è se allo stesso possa predicarsi l’applicazione di entrambi i modelli di ricongiunzione o se, all’opposto, nei suoi confronti possa valere solo il nuovo modello ricostruttivo.

La necessità di individuare quale dei due modelli è applicabile al Fondo scaturisce dalla loro differenza contenutistica nonostante l’utilizzo dello stesso termine “ricongiunzione”.


Infatti mentre nella legge del 1979, la n. 29, la ricongiunzione aveva come suo naturale effetto la trasmigrazione di tutti i contributi accreditati a favore dello stesso lavoratore presso più fondi a un fondo e la liquidazione di un’unica pensione posta a carico del fondo destinatario dell’accentramento contributivo (l’art. 1, al primo comma, parla genericamente “…di unica pensione…”). All’opposto nel nuovo modello, quello del 1997, non si ha alcun trasferimento di contributi ma, semplicemente, il riconoscimento, la liquidazione e l’erogazione di quote di pensione da parte di ciascuna delle gestioni previdenziali ove sono costituite le posizioni assicurative del lavoratore, quote calcolate secondo le norme vigenti in ciascuna gestione.

La risposta a tale quesito la si trova nello stesso decreto legislativo n. 565 e, temporalmente ancor più a ritroso, nella legge delega del 1995, laddove entrambi i testi legislativi, l’uno quale principio a cui deve attenersi il legislatore delegato e l’altro quale attuazione del principio fissato dal legislatore delegante, per il calcolo del trattamento pensionistico utilizzano esclusivamente il sistema contributivo (art. 6, primo comma, d. lgs.vo cit. e lett. b), 33° comma, art. 2, l. cit.).


Sulla scorta di tali testi legislativi deve concludersi che il modello di ricongiunzione astrattamente applicabile anche ai soggetti iscritti al Fondo istituito con il decreto legislativo n. 565 è esclusivamente quello delineato nel decreto legislativo n. 184 del 1997.


Da ciò consegue che:
- per i lavoratori a cui è legislativamente o volontariamente applicabile il sistema contributivo (v. retro), in via di logica astratta non rimane che chiedersi, in via ulteriormente gradata, se l’ambito di efficacia soggettiva del decreto ultimo citato comprenda anche i soggetti iscritti al Fondo del decreto n. 565;
- per i lavoratori a cui continua ad applicarsi, in toto vel pro parte, il sistema retributivo rimane irrisolta la questione se per gli stessi, nonostante, il rinvio al modello contributivo, possa trovare applicazione l’istituto della ricongiunzione così come delineato con la riforma del 1997.


Con riguardo a quest’ultima questione, a meno ché non si voglia immaginare un vuoto normativo limitatamente ai menzionati lavoratori, deve riconoscersi con riguardo:
a) ai lavoratori ai quali è applicabile, anche parzialmente, il sistema contributivo (la disposizione in commento, art. 4, parla genericamente di sistema contributivo), che è lo stesso legislatore a riconoscere il possibile utilizzo dell’istituto della ricongiunzione dettato nel 1997;
b) ai lavoratori ai quali è applicabile il solo metodo retributivo che debba riconoscersi il possibile esperimento di tale modello di ricongiunzione pena l’illegittimità costituzionale della disposizione, a meno che non si affermi, all’opposto che, per gli stessi, continui a trovare applicazione la precedente disciplina sul tema e ciò nonostante il richiamo al metodo contributivo operato al primo comma dell’art. 4.


Delle due soluzioni prospettate da ultimo, sub b), quella che appare meno dirompente, per l’intero sistema previdenziale scaturito dalla cd. riforma Dini, è la prima che da un lato consente una tutela integrale nei confronti di tutti i lavoratori, a prescindere dal sistema attraverso il quale si computa il trattamento pensionistico e, dall’altro, assicura la permanenza, quale regola generale del sistema contributivo per il calcolo del trattamento previdenziale all'interno del Fondo in questione.


All’opposto accedere alla diversa soluzione, di permanenza anche per i soggetti iscritti al menzionato Fondo e per i quali si utilizza il sistema contributivo, comporterebbe una rottura del nuovo modello previdenziale e, sotto l’aspetto pratico, implicherebbe una riunione reale di contribuzione presso uno dei Fondi gestiti dall’I.N.P.S., riunione che, all’opposto, con il nuovo modello ricongiunzione mancherebbe.


Il problema sino a ora esaminato però rifluisce nella più generale questione dell’individuazione dell’ambito soggettivo di efficacia del decreto n. 184 del 1997, se cioè lo stesso trovi applicazione in tutte le ipotesi di contribuzione accreditata presso fondi previdenziali pubblici gestiti da enti previdenziali pubblici a prescindere dall’obbligatorietà di iscrizione agli stessi o, se all’opposto, lo stesso possa applicarsi solo all’interno della previdenza pubblica obbligatoria, esulando dal proprio ambito di efficacia quelle forme di previdenza pubblica volontaria, forme di previdenza che, a quel che consta, si riducono solo a una e cioè a quella del decreto legislativo n. 565 del 1996.


Punto di partenza obbligato di questa investigazione è rappresentato dall’art. 1 del decreto n. 184.


Questo articolo parla di “…lavoratori iscritti a due o più forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, che non abbiano maturato in alcuna delle predette forme il diritto al trattamento previdenziale…”.


Orbene se si utilizza il modello interpretativo letterale, ponendo la disposizione al di fuori del reticolato normativo previdenziale ove la stessa è posta, deve ritenersi che la ricongiunzione possa operare limitatamente a:
- lavoratori,
- forme di assicurazione obbligatoria.


Da entrambe le categorie sarebbero pertanto esclusi i soggetti che si iscrivono al Fondo di cui la decreto legislativo n. 565 del 1996 in quanto:
a) non sono stricto sensu lavoratori,
b) si iscrivono a una forma volontaria gestita dalla previdenza pubblica.


La soluzione a cui si è pervenuti, utilizzando l’interpretazione letterale, conduce all’impossibilità per i soggetti iscritti al Fondo del decreto 565 di utilizzare, per il riconoscimento e il computo del trattamento pensionistico nel sistema previdenziale pubblico, tutti i contributi eventualmente accreditati presso altri Fondi o Gestioni (l’ipotesi tipica è rappresentata dal soggetto che antecedentemente ha svolto attività di lavoro subordinata o autonoma versando contributi presso la gestione obbligatoria di pertinenza ma non abbia maturato il requisito minimo contributivo necessario al riconoscimento di una prestazione pensionistica).


Pare però che tale prospettata soluzione porrebbe, senza giustificazione alcuna, in una situazione di mancata tutela proprio quella categoria di persone per le quali il legislatore con il decreto legislativo n. 565 del 1996 abbia voluto apprestare una tutela previdenziale prima mancante.


Se si riconosce che il Fondo in questione rientra nella più ampia categoria dei fondi previdenziali pubblici deve necessariamente riconoscersi che per esso possano e debbano valere tutte le disposizioni vigenti nel micro-sistema previdenziale pubblico nei confronti di tutti gli altri fondi esistenti e, in tale ricostruzione, appare irrilevante la circostanza che l’iscrizione non sia obbligatoria ma sia connessa a un atto di volontà del soggetto beneficiario.


L’atto di volontà, necessario per l’iscrizione non inficia la sostanza del Fondo e, trova una sua ratio nella circostanza che il soggetto iscrivibile non esercita un’attività lavorativa remunerata dalla quale può trarre la necessaria provvista per il pagamento della contribuzione al pari del lavoratore autonomo ma le risorse pecuniarie sono tratte dal bilancio della comunità familiare ove il soggetto iscritto lavora.


Tale dato economico è il sostrato che giustifica l’atto di volontà dell’iscrizione al Fondo ma, una volta effettuata l’iscrizione, deve ritenersi che la vita previdenziale dell’assicurato sia eguale alla vita di qualunque altro assicurato pena: sotto l’aspetto giuridico l’irrazionale disparità di trattamento all’interno del sistema previdenziale e la mancata integrale tutela costituzionale di questi soggetti e, sotto l’aspetto sociale, il mancato decollo del Fondo una volta che si neghi la possibilità di porlo in collegamento con gli altri fondi previdenziali pubblici.


Conclusivamente deve ritenersi che l’art. 1 del decreto legislativo n. 184 del 1997 in tema di individuazione dei soggetti destinatari dello stesso debba essere letto in connessione con il decreto legislativo n. 565 del 1996 dovendosi comprendere fra i soggetti abilitati alla possibilità di cumulo dei contributi anche quei lavoratori - questo sono le persone che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari se si vuole riconoscere che la remunerazione non è sempre elemento necessario per l’esistenza di un lavoro – individuati con una perifrasi nell’art. 1 del decreto ult. cit. e che volontariamente si siano iscritti al Fondo in questione.


Sotto questo ultimo versante deve ritenersi irrilevante ai nostri fini l’obbligatorietà o meno dell’iscrizione a un fondo previdenziale pubblico e ciò in quanto, sempre e comunque, il fine è unico e unitario ed è rappresentato dalla creazione di un reticolato di tutela pubblico nei confronti dei lavoratori, reticolato di tutela che sarebbe illegittimamente limitato se si ponesse il Fondo del decreto legislativo n. 565 al di fuori del modello previdenziale pubblico come se lo stesso rappresentasse un monstrum da sterilizzare e isolare.


Lo stesso discorso può farsi, con le dovute necessarie peculiarità, anche con riguardo all’istituto della totalizzazione introdotto e disciplinato dal nostro legislatore con l’art. 71 della legge 23 dicembre 2000, n. 388.


Come noto il primo comma individua i destinatari dell’istituto nel “…lavoratore che non abbia maturato il diritto a pensione in alcuna delle forme pensionistiche a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, nonché delle forme pensionistiche obbligatorie gestite dagli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509…”


A questo lavoratore “…è data la facoltà di utilizzare, cumulandoli per il perfezionamento dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia e dei trattamenti pensionistici per inabilità, i periodi assicurativi non coincidenti posseduti presso le predette gestioni, qualora tali periodi, separatamente considerati, non soddisfino i requisiti minimi stabiliti dagli ordinamenti delle singole gestioni.”


Dalla lettura della disposizione si inferisce che la stessa è chiamata a coprire quei vuoti normativi di tutela che si creano in forza dell’applicazione dell’art. 1 del decreto legislativo n. 184 del 1997 e, al suo interno, l’individuazione dell’ambito soggettivo di efficacia passa fra l’altro attraverso l’utilizzo delle seguenti espressioni:
a) lavoratore;
b) forme pensionistiche a carico dell’assicurazione generale obbligatorie.


Il contenuto da assegnare alle due espressioni, al pari dell’operazione interpretativa fatta per la disposizione ult. cit., passa attraverso il necessario nesso di collegamento da effettuare fra la norma da interpretare e l’art. 1 del decreto legislativo n. 565 del 1996, ricordando, quale presupposto interpretativo indefettibile, come il Fondo istituito da questa disposizione legislativa si pone all’interno del sistema di previdenza obbligatoria a nulla rilevando, ai nostri fini, che l’iscrizione al Fondo sia volontaria e non obbligatoria.


Se il Fondo rientra nel sistema di previdenza pubblica, all’interno del quale si pongono sia i fondi a iscrizione obbligatoria sia i fondi a iscrizione facoltativa, resta ora da chiedersi se nel contenuto da assegnare al termine lavoratore possano o meno comprendersi quelle persone che sono destinatarie del Fondo del decreto n. 565.


Deve ritenersi, anche in questa ipotesi interpretativa, che nel novero dei soggetti tutelati dal legislatore con l’istituto della totalizzazione si debbano comprendere anche quei lavoratori non retribuiti destinatari della tutela del decreto legislativo n. 565 del 1996.


Concludendo queste brevi digressioni in tema di tutela dei lavoratori iscrivibili al fondo creato con il decreto legislativo del 1996 può affermarsi che:
a) il Fondo rientra nel sistema di previdenza pubblica la cui gestione è esclusivamente affidata all’ente pubblico I.N.P.S.;
b) nei confronti dei lavoratori iscritti al Fondo trova integrale applicazione il reticolato di tutela prevista nel micro-sistema previdenziale pubblico quali, a titolo esemplificativo, la ricongiunzione e la totalizzazione.