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I contratti della pubblicità commerciale.

Maurizio  Fusi 



I CONTRATTI DELLA PUBBLICITA’  COMMERCIALE (*)

SOMMARIO: 1. Profili generali. – 2. La nozione di «pubblicità». – 3. Gli utenti di pubblicità. – 4. I mezzi di pubblicità. – 5. Le figure professionali della pubblicità. – 6. Il «sistema» dei contratti di pubblicità. – 7. La «funzione di pubblicità». – 8. Le fonti della disciplina contrattuale.
 

 

1. Profili generali


Con l’espressione «contratti di pubblicità» è ormai consuetudine indicare alcune figure negoziali ricorrenti in questo settore economico, poste in essere da operatori pubblicitari nell’esercizio di attività pubblicitarie o per conseguire scopi o produrre risultati pubblicitari. Ciò che li accomuna non sono i tratti caratteriali o la natura giuridica, ma solo la loro relazione con la pubblicità o, più esattamente, il fatto che sono posti in essere da operatori della pubblicità e diretti a regolare rapporti inerenti alla pubblicità.


Riunire questi contratti sotto un unico titolo come se formassero una categoria unitaria, può essere forse improprio, dal momento che si tratta di negozi eterogenei, alcuni con effetti reali ed altri di contenuto obbligatorio, alcuni ad effetto istantaneo ed altri ad esecuzione continuata o periodica, alcuni riconducibili nello schema di contratti tipici quali appalto, somministrazione, locazione d’opera e di cose, mandato, commissione, altri decisamente atipici ed altri ancora misti.


Tuttavia, l’opportunità di farne l’oggetto di un unico studio ci sembra evidente considerando che, pur nella diversità dei tratti fisionomici, si tratta di negozi che anzitutto sono accomunati dalla medesima funzione socio-economica, e cioè dall’essere finalizzati ad uno «scopo di pubblicità». E che inoltre – attenendo ad un settore decisamente specialistico e risentendo del tecnicismo dei rapporti che sono intesi a regolare – palesano aspetti in un certo senso omogenei, non fosse altro che per la comunanza di nozioni, concetti, situazioni e definizioni, così rendendo pressoché inevitabile la loro collocazione in un gruppo a parte. Non senza dire che, essendo dalla loro esecuzione che nella pratica quotidiana la pubblicità prende vita, gli uni sono di regola complementari agli altri, talché le particolarità di una figura negoziale non potrebbero essere sempre facilmente comprese ove non si conoscessero i meccanismi di quelle che l’hanno preceduta: donde un ulteriore motivo per considerare opportuna una trattazione unitaria.


A ciò si aggiunga poi che le prime strutture pubblicitarie non ebbero origine in Italia ma in altri Paesi, la cui situazione economica più evoluta agevolò lo sviluppo del fenomeno prima che da noi. Cosicché anche gli istituti contrattuali della pubblicità non originano, almeno nella maggior parte, dalla nostra esperienza negoziale, costituendo invece lo sviluppo di pratiche contrattuali sorte ed affermatesi in Paesi di cultura giuridica diversa ed approdate alla nostra realtà economica solo molto più tardi. E anche a motivo di tale genesi comune può comprendersi l’esigenza di affrontarne lo studio in un contesto comune.


Infine si consideri che i contratti di cui qui ci occupiamo rivestono, sul piano economico, una importanza di non indifferente rilievo. I soli investimenti pubblicitari relativi ai cinque mezzi classici di diffusione (la stampa, la radio, la televisione, la pubblicità esterna, il cinema) hanno ormai raggiunto in Italia volumi annui che superano largamente i diecimila miliardi. Ove tali dati siano sommati a quelli degli stanziamenti relativi alla pubblicità sul punto di vendita, alla pubblicità diretta e al direct marketing, alle sponsorizzazioni, alle promozioni, ai concorsi e operazioni a premio, alle manifestazioni fieristiche, nonché a tutto il settore della presentazione dei prodotti industriali, il totale si raddoppia e le proiezioni indicano incrementi ulteriori per il futuro.


Onde non è azzardato ritenere che tali valori incontestabilmente rimarchevoli, i quali confermano che i contratti della pubblicità muovono nel nostro Paese una parte non indifferente del reddito nazionale presentandosi dunque anche sotto il profilo economico come un gruppo negoziale di notevole importanza, potrebbero rappresentare da soli un ottimo motivo per farne oggetto di trattazione in forma unitaria.

 


2. La nozione di «pubblicità»


Lo studio dei contratti della pubblicità postula anzitutto l’individuazione di ciò che si intende per «pubblicità». Il sostantivo, ormai d’uso corrente per riferirsi alla comunicazione commerciale rivolta al pubblico, è di generale comprensione e non dovrebbe prestarsi a fraintendimenti. Tuttavia l’assenza di una definizione normativa a lungo protrattasi, e l’uso non particolarmente attento da parte del legislatore di termini impropri quali, a seconda dei casi, «offerta in vendita», «propaganda», «propaganda pubblicitaria» e simili hanno fatto sì che, almeno fino a qualche anno fa, l’espressione «pubblicità» formasse oggetto, sul versante del diritto, di una incertezza terminologica di non irrilevante portata. La quale scaturiva soprattutto dai diversi significati che a tale espressione vengono attribuiti dal pubblico nel linguaggio corrente o, per converso, dalle imprese e soprattutto dagli operatori del settore nel linguaggio tecnico-operativo.


Nel linguaggio atecnico «pubblicità» designa, in senso indefinito, la comunicazione aziendale diretta ad incrementare la domanda dei beni o servizi che l’impresa offre al mercato. Quanto ai contenuti, vi si suole ricomprendere sia la comunicazione avente specificamente ad oggetto i prodotti (pubblicità di prodotto) sia quella intesa a favorire l’apprezzamento dell’impresa o dei suoi marchi (pubblicità istituzionale). E quanto alle forme assunte ed ai mezzi usati, l’accezione corrente non fa distinzioni, considerando indifferentemente «pubblicità», oltre che i messaggi di tipo classico diffusi attraverso i mezzi di comunicazione di massa, anche quelli veicolati sul punto di vendita, per corrispondenza, con distribuzione a domicilio di campioni gratuiti o buoni-sconto, attraverso iniziative di abbinamento o sponsorizzazione, nell’ambito di attività di pubbliche relazioni.
A tale estesa accezione si contrappone quella più tecnica e ristretta, preferita dagli operatori del settore, che limita la nozione di «pubblicità» (spesso definita anche con il termine inglese «advertising») ai soli annunci «tabellari» veicolati contro corrispettivo dai mass-media classici (stampa, radio, televisione, cinema, affissioni), e definisce invece con i termini «p.o.p.» (pubblicità sul punto di vendita), «promozioni», «pubbliche relazioni», «sponsorizzazioni», ecc. le rimanenti attività, sovente indicate anche con l’espressione «below the line advertising».


Il nostro legislatore ha per la prima volta introdotto nell’ordinamento italiano la nozione legale di «pubblicità» con il d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 in materia di pubblicità ingannevole. Il d.lgs. n. 74/92 definisce all’art. 2.1.a la pubblicità come «qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o di servizi». Definizioni pressoché analoghe sono contenute nella direttiva n. 84/450 CEE a cui il d.lgs. n. 74/92 ha dato attuazione e dalla quale l’ha mutuata, nonché nella direttiva n. 89/552 CEE concernente la pubblicità televisiva.


Non sfuggirà che la definizione prescelta dal nostro legislatore (il quale, successivamente al d.lgs. n. 74/92 ne ha formulate di simili anche in altri testi legislativi) è più prossima all’accezione atecnica d’uso corrente, incline a ricomprendere nel termine pressoché ogni tipo di comunicazione d’impresa, e si distacca invece sensibilmente da quella, decisamente restrittiva, preferita dai tecnici del settore. Ma si deve ricordare che già in precedenza, da alcuni testi anteriori al d.lgs. n. 74/92, promananti proprio dagli operatori della pubblicità o comunque desunti dalla realtà dei rapporti a cui danno vita, emergeva una nozione di «pubblicità» altrettanto estesa.


Ci si riferisce in particolare al codice di autodisciplina pubblicitaria (che è espressione delle varie categorie di tali operatori), il quale nel definire cosa debba intendersi per pubblicità vi include, al punto e) delle norme preliminari e generali, «ogni comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali che siano i mezzi utilizzati», mentre comprende nella nozione di messaggio «qualsiasi forma di presentazione al pubblico del prodotto» estesa anche «all’imballaggio, alla confezione e simili». Del pari, le raccolte di usi in materia di pubblicità ufficialmente accertati da alcune Camere di commercio definiscono la pubblicità come «qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi» ed elencano come «principali forme di pubblicità», oltre alla pubblicità di tipo classico (cosiddetta «pubblicità tabellare») anche le promozioni e incentivazioni, le sponsorizzazioni, la pubblicità diretta, le pubbliche relazioni, le fiere e analoghe manifestazioni, l’informazione tecnico-scientifica e persino la «immagine coordinata» (corporate e brand image).


In conclusione, dunque, la nozione consolidata di «pubblicità», così nell’accezione corrente come in quella che anche gli operatori dimostrano ormai di seguire, coincide sostanzialmente con la definizione legislativa. Ed è nozione estremamente vasta, ricomprendendo ogni comunicazione promanante da un’impresa o comunque da un soggetto esercente in forma professionale un’attività economica ed avente una finalità direttamente o indirettamente promozionale, che in qualsiasi modo o forma ed attraverso qualsiasi mezzo venga divulgata fra il pubblico.

 


3. Gli utenti di pubblicità


Dalla definizione legislativa emerge altresì che la pubblicità è un atto d’impresa, giacché il riferimento all’«esercizio di una attività commerciale, industriale, artigianale o professionale» con riguardo alla quale si intenda promuovere la domanda dei beni o servizi prodotti nell’ambito di tale attività, rende evidente che la natura imprenditoriale del soggetto da cui la pubblicità promana è considerato uno degli elementi costitutivi della fattispecie.


Con l’avvertenza, peraltro, che il requisito è da ritenersi non circoscritto alla sola impresa in senso tecnico-giuridico secondo la definizione che ne offre l’art. 2082 c.c.: si è già visto come, nell’ampia nozione fornita dal d.lgs. n. 74/92, la pubblicità sia infatti riferita non solo ai soggetti esercenti un’attività industriale o commerciale in forma d’impresa, ma anche agli artigiani, ossia ai piccoli imprenditori, nonché ai professionisti. Onde questa figura finisce per identificare l’operatore economico professionale in senso lato, coincidendo con la nozione comunitaria di imprenditore fornita dalla giurisprudenza degli organismi europei, che ritiene tale qualsiasi soggetto esercente attività aventi rilevanza economica indipendentemente dalla struttura, societaria o individuale, attraverso cui opera.


Trattandosi dunque di atto d’impresa, è chiaro che la decisione di dar corso ad una pubblicità stanziando a tal fine gli investimenti necessari è di stretta competenza dell’imprenditore. Il quale, dal momento che per le proprie finalità promozionali «usa» la pubblicità, è ormai consuetudine chiamare appunto con il nome di «utente». Il termine, sul piano lessicale, è tutt’altro che bello ma è ormai acquisito nella pratica del settore, pur se, in luogo di «utente», non è infrequente si usino anche espressioni che meglio riflettono la posizione di questi soggetti nei rapporti contrattuali della pubblicità: nell’ambito delle relazioni negoziali con i mezzi, gli utenti vengono spesso definiti come «inserzionisti», e in quelli con le agenzie come «clienti». Più genericamente il d.lgs. n. 74/92 li indica con il termine «committenti».

 


4. I mezzi di pubblicità


In linea di principio, non è impossibile che – come per qualche iniziativa comunicazionale meno importante accade tuttora – l’utente di pubblicità realizzi da sé solo i messaggi e li diffonda in forma diretta, utilizzando esclusivamente la sua organizzazione: e si pensi ai cataloghi, ai volantini e ad altri strumenti analoghi. Ed in tal caso non dovrà porre in essere alcun contratto di pubblicità, giacché l’iter sulla comunicazione si esaurirà nell’ambito della sua struttura aziendale.


Più spesso, tuttavia, non disponendo di nozioni e strumenti convenienti ai fini che persegue, dovrà ricorrere alle prestazioni di soggetti qualificati perché dotati di un particolare know how in tema di comunicazione d’impresa, o perché provvisti di validi veicoli diffusivi, e per potersi avvalere di tali prestazioni dovrà concludere con tali soggetti degli accordi, ossia dei «contratti di pubblicità».


In teoria, poiché l’atto conclusivo della pubblicità è la sua diffusione, il contratto attraverso cui conseguire lo scopo potrebbe essere uno soltanto: quello cioè con il proprietario o gestore di un veicolo diffusionale, onde ottenere, contro corrispettivo, la divulgazione dei messaggi. Ciò, del resto, è quanto accadeva agli albori della pubblicità e tuttora accade per le forme di comunicazione più elementari (ad esempio per gli «annunci economici», per le pubblicazioni dei bilanci, ecc.), in cui è chi gestisce il veicolo a prendersi carico della forma (e a volte anche del contenuto) del messaggio da pubblicare. Nella maggior parte dei casi tale formula oggi non è più usata, ma ciò nulla toglie all’importanza del contratto di diffusione, che è intuitivamente essenziale nel quadro del sistema, non essendo possibile, senza di esso, neppure immaginare la pubblicità.


Il soggetto che attende alla divulgazione della pubblicità è di regola (ma non necessariamente) una impresa di comunicazione, che, disponendo di un mezzo di diffusione, viene anch’essa abitualmente indicata come «il mezzo». Una classificazione ormai acquisita suddivide i mezzi in cinque gruppi, corrispondenti ai cinque settori classici della comunicazione pubblicitaria: stampa, televisione, radio, cinema e pubblicità esterna. Ma, pur essendo incontestabile che tali mezzi siano per volume d’investimenti e numero di persone raggiunte i più importanti, molti altri se ne possono menzionare, quali, a titolo esemplificativo, quelli attraverso cui si realizzano la pubblicità diretta, le azioni di mailing, la pubblicità sul punto di vendita, quella negli stadi, velodromi, teatri ed altri luoghi di spettacolo, nelle fiere ed esposizioni, la pubblicità ambulante, aerea e molti altri. Infatti, lungi dall’utilizzare come supporti diffusionali soltanto i grandi mezzi di comunicazione, la pubblicità utilizza continuamente strumenti di divulgazione sempre nuovi e diversi: si pensi, fra i numerosi esempi, al vasto ricorso alle sponsorizzazioni, nelle quali cose ed avvenimenti in sé sprovvisti di qualsiasi attitudine diffusiva vengono trasformati in altrettanti veicoli per la diffusione della comunicazione pubblicitaria e, più di recente, ai new media informatici che già offrono ampie prospettive quali veicoli pubblicitari per via telematica.


Tale constatazione induce a due osservazioni: anzitutto che in un panorama così vario una elencazione dei mezzi pubblicitari non è possibile in quanto non esistono, se non per alcuni dei mezzi principali, parametri costanti di riferimento su cui basarsi; ed in secondo luogo che, eccezion fatta per taluni casi, la diffusione della pubblicità non costituisce l’attività principale del mezzo, rappresentando solo una forma di sfruttamento marginale di certe sue attitudini: si pensi, ad esempio, alla stampa e alla televisione il cui fine istituzionale è l’informazione, ai cinema e agli stadi la cui destinazione primaria è ospitare spettacoli, ai veicoli di pubblico trasporto la cui funzione è appunto di trasportare persone, e così via, per i quali il farsi strumento di diffusione pubblicitaria costituisce un’attività accessoria alle loro finalità istituzionali e all’oggetto principale della loro impresa.


Tale aspetto particolare rende evidente perché il mezzo affidi quasi sempre la gestione commerciale di questa sua attività marginale ad imprese specializzate, in veste di concessionarie di pubblicità. E mette conto aggiungere che tali imprese, in quanto operanti per i mezzi, vengono spesso impropriamente chiamate anch’esse «mezzi», sostantivo che, nel lessico contrattuale, finisce per indicare il soggetto che gestisce l’attività pubblicitaria e contratta la diffusione della pubblicità con le imprese utenti.

 


5. Le figure professionali della pubblicità


Per poter essere diffusa, la pubblicità deve peraltro essere definita sia nella forma sia nei contenuti. Ed è in questa fase che la pratica conosce alcune figure negoziali attinenti per un verso o per l’altro, alla preparazione dei messaggi e delle campagne. Ne sono protagonisti coloro che possono essere definiti i «professionisti della pubblicità», cioè gli specialisti della comunicazione, la cui funzione è, in definitiva, di consentire che l’investimento pubblicitario dell’impresa possa raggiungere al meglio i propri scopi, così in termini strategici come sul piano formale, o con riguardo alla scelta dei mezzi di diffusione.


Fra questi, il ruolo più importante è assunto dall’agenzia di pubblicità, la cui attività specialistica ha per oggetto la progettazione e la realizzazione di azioni di pubblicità per conto di terzi. Il mercato offre, per ciò che riguarda le agenzie, una vasta gamma di formule: dalle più complesse, con organizzazione ad impresa, a quelle di piccole dimensioni, strutturate come aziende artigiane o studi individuali, ma tutte imperniate sulla figura del «tecnico pubblicitario», cioè della persona dotata delle necessarie conoscenze tecniche attinenti alla programmazione, pianificazione, gestione e supervisione di azioni pubblicitarie. Per l’esercizio della professione di tecnico pubblicitario o per la gestione di un’agenzia, il nostro ordinamento non esige particolari requisiti in qualche guisa paragonabili a quelli richiesti per la maggior parte delle attività professionali, ma, a tale carenza suppliscono le iniziative degli stessi operatori interessati, con l’istituzione, su basi associative, di esami di qualificazione, di albi, di regolamenti autonormativi, ecc., strutturati a somiglianza di quelli propri delle professioni legalmente riconosciute.


La pratica del settore annovera poi numerose altre figure di operatori professionali che in vario modo e con differenti compiti intervengono nell’iter progettuale e realizzativo della pubblicità. Fra questi, in considerazione della notevole componente creativa che caratterizza l’advertising, assumono rilievo particolare gli autori di testi (copywriters) e gli artisti pubblicitari della comunicazione visiva (arts). Né si può omettere di menzionare i produttori di film e degli altri supporti audiovisivi per la pubblicità, a cavallo fra professione intellettuale ed impresa.


Come si dirà nelle pagine che seguono, i contratti per così dire «professionali» occupano uno spazio non irrilevante fra le figure negoziali della pubblicità, presentando aspetti a volte problematici sul piano giuridico sia per la natura tecnico-specialistica della materia sia per l’interferenza con vari istituti e segnatamente con il diritto d’autore.


Né si può non menzionare un’altra figura contrattuale cui si ricorre sovente nello stadio preparatorio della pubblicità onde acquisire il diritto di utilizzare l’immagine o l’interpretazione di persone per la realizzazione di messaggi. Benché su problematiche diverse, anche in questi negozi il coinvolgimento con altri istituti (in particolare in tema di diritti della personalità) offre profili affatto peculiari.


Da ultimo, è intuitivo che numerosi altri rapporti intervengono nelle fasi progettuale e realizzativa della pubblicità: contratti con consulenti di marketing, con istituti di indagini demoscopiche, con specialisti di relazioni pubbliche, di promozioni, di forcing methods, ed altri ancora. Tuttavia, benché anche tali negozi abbiano attinenza con la pubblicità, talché in definitiva potrebbero rientrare fra i contratti della pubblicità, il loro legame con questa è quasi sempre soltanto occasionale onde non pare a noi che sarebbe corretto ricomprenderli fra i contratti tipici del settore.

 


6. Il «sistema» dei contratti di pubblicità


Il breve excursus che precede induce ad alcune considerazioni, forse non inutili per introdurre allo studio dei contratti della pubblicità.


La prima è per sottolineare come la suddivisione degli operatori della pubblicità in tre grandi gruppi, le imprese utenti, i mezzi di diffusione, le figure professionali, risulti recepita dal nostro ordinamento positivo: sia pure al prevalente fine di individuare i destinatari della normativa in tema di pubblicità ingannevole, infatti, l’art. 2, lett. c), d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, identifica gli «operatori della pubblicità» nel committente, nell’autore del messaggio e nel proprietario del mezzo di diffusione, nei quali non è difficile riconoscere le tre categorie di utenti, professionisti e mezzi di cui si è parlato.


La seconda considerazione, che in certa guisa si ricollega alle osservazioni iniziali circa l’opportunità di studiare le figure negoziali della pubblicità in un contesto unitario, è per evidenziare come i vari contratti a cui gli operatori della pubblicità danno vita, lungi dal presentarsi autonomi ed indipendenti, si rivelino strettamente collegati fra loro, sul piano così genetico come dello scopo.


Sotto il profilo genetico, un’analisi storica del percorso attraverso cui gli istituti negoziali della pubblicità si sono sviluppati ed evoluti sarebbe sicuramente interessante ma fuor di luogo in una trattazione, come quella del presente studio, improntata all’essenzialità e al pragmatismo. Si può solo dire che tale analisi rivelerebbe come, alle origini dell’advertising moderno, il solo contratto noto fosse quello di diffusione, assumendo i mezzi a proprio carico anche l’esecuzione dei servizi oggi svolti dagli operatori professionali e segnatamente dall’agenzia di pubblicità e dall’artista pubblicitario. Il che spiega tra l’altro la ragione per cui molte delle figure negoziali per così dire professionali presentino oggi pratiche altrimenti incomprensibili: come ad esempio quella consistente nel rapportare i compensi all’entità degli investimenti sui mezzi e, più ancora, quella della cosiddetta «commissione-mezzi» riconosciuta all’agenzia, la quale non avrebbe giustificazione se non fosse il retaggio della quota del prezzo della diffusione un tempo imputabile alla ideazione e realizzazione dei messaggi quando erano i mezzi a fornire tali servizi.


A prescindere dall’aspetto storico – peraltro importante giacché mostra come la maggior parte degli istituti contrattuali in esame sia germinata dal tronco del contratto di diffusione – l’esame del fenomeno allo stato attuale evidenzia immediatamente un intimo collegamento di scopo fra le varie figure.


Collegamento in primo luogo ravvisabile nel fatto che tutte e ciascuna di esse sono predisposte ad una finalità comune, e cioè alla realizzazione dell’atto d’impresa noto con il nome di pubblicità; ed altresì riscontrabile considerando che ognuno dei contratti in questione si colloca, nell’iter da cui la pubblicità prende vita, in uno stadio che presuppone l’esecuzione del contratto che l’ha preceduto e ne postula uno successivo: sicché nessuno dei negozi è, in definitiva, fine a sé stesso, esaurendo la sua funzione con l’adempimento delle obbligazioni dedotte dalle parti ma non anche lo scopo socio-economico finale per il quale è stato posto in essere, che sarà conseguibile solo al completamento dell’ultimo contratto della serie.


Considerati in quest’ottica, i negozi della pubblicità si presentano come un «sistema» di rapporti contrattuali strettamente interconnessi gli uni con gli altri, del quale il contratto di diffusione costituisce il cardine, come conferma non soltanto la constatazione che, senza diffusione, non vi sarebbe pubblicità, ma altresì il continuo riferimento ai corrispettivi della diffusione per la determinazione dei corrispettivi inerenti agli altri contratti, in un quadro che, sul piano economico, fa perno quasi esclusivamente sull’entità degli investimenti finanziari stanziati dall’impresa utente per la propria comunicazione promozionale.

 


7. La «funzione di pubblicità»


Da ultimo, non sarà inopportuno un accenno alla «funzione di pubblicità» che di queste figure contrattuali rappresenta forse l’aspetto comune più peculiare.


«Funzione di pubblicità» significa non solo che i negozi in questione hanno lo scopo di produrre della comunicazione d’impresa, ma anche e soprattutto che essi tendano alla funzione che è propria della pubblicità, quale riassunta nell’espressione «allo scopo di promuovere la vendita, ecc.» contenuta nella definizione di cui al d.lgs. n. 74/92.


Le finalità promozionali a cui la pubblicità tende e le sue implicazioni sociopsicologiche e tecnico-comunicazionali non possono certamente essere analizzate a fondo in questa sede. Ma deve rilevarsi che la nozione del «promuovere la vendita» non è mero sinonimo dell’«offerta in vendita», tipica dell’atto di commercio, né è circoscritta al semplice invito all’acquisto, ma si estende a tutte le iniziative che in modo diretto o indiretto possono contribuire a creare condizioni favorevoli all’accettazione delle offerte commerciali dell’impresa, attraverso l’illustrazione ed esaltazione tanto delle qualità positive dei suoi prodotti o servizi quanto dell’immagine aziendale in termini di tecnologia, affidabilità, sensibilità alle esigenze del consumo o, più semplicemente, di simpatia.


E non vi è dubbio che da tale funzione di pubblicità i contratti in esame risultino fortemente influenzati, nel senso che, quale che ne sia l’oggetto, il presupposto implicito dell’accordo fra le parti è di produrre un effetto conforme ad essa. Ciò influisce anzitutto sulle caratteristiche delle prestazioni dovute, le quali non potranno ritenersi adempiute ove non siano atte ad esplicare la «funzione di pubblicità», esigenza che assumerà in concreto aspetti diversi, a seconda del tipo di prestazione. Per quanto riguarda i contenuti della comunicazione, ad esempio, dovranno essere elaborati in modo da suscitare nei destinatari la reazione più favorevole con riguardo agli obiettivi che ci si prefiggono, ciò che non di rado richiederà l’intervento di psicologi e di esperti della motivational research. E sul piano formale dovrà essere rispettata la massima accuratezza evitando qualsiasi imperfezione che possa in qualsiasi modo compromettere l’accettazione del messaggio.


Le medesime osservazioni valgono ovviamente anche per l’attività diffusiva, dovendo ravvisarsi inadempienza in tutti i casi in cui dal comportamento dell’obbligato possa derivare un pregiudizio agli effetti promozionali che con l’iniziativa ci si propone di conseguire. Il che è a dirsi non soltanto nei casi di mancato rispetto di «date di uscita», di «posizioni» prestabilite, e comunque di omissione di comportamenti attivi, ma anche quando l’obbligazione consista in un mero pati, laddove la semplice opinione sfavorevole che possa venirsi a creare attorno a chi porge o veicola i messaggi, giustifica, come si vedrà, il recesso ed in taluni casi addirittura l’azione di risoluzione.


Profilo peculiare della «funzione di pubblicità», qui con riguardo alle finalità non soltanto promozionali ma altresì concorrenziali dell’advertising, è altresì quello che potrebbe definirsi «monopolistico», nel senso che solo l’impresa deve poter fruire di quegli elementi comunicazionali il cui sfruttamento da parte di altri soggetti potrebbe quanto meno indebolirne o diluirne l’efficacia. Ed anche tale aspetto influenza in misura notevole i contratti in esame in relazione all’esigenza da un lato di disporre di forme comunicazionali nuove ed originali, e, dall’altro, di acquisirle in regime di esclusiva.


Superfluo aggiungere che la «funzione di pubblicità» che domina questi contratti è determinante anche nell’interpretazione delle volontà negoziali e nella valutazione dei comportamenti delle parti: la valutazione della diligenza negli adempimenti, ad esempio, non potrà essere giudicata senza tener conto della speciale qualificazione comunicazionale, così formale come di contenuti, che la «funzione di pubblicità» richiede, mentre in contratti aventi un oggetto diverso, si sarebbe più inclini, in situazioni similari, a considerare la difettosità della prestazione come non rilevante tenuto conto dell’interesse del creditore; e ancora, sempre in via di esempio, la presunzione di esclusiva, o di cessione totale di determinati diritti, potrà, in vista della ricordata funzione, essere non scorrettamente applicata anche se, per negozi della stessa tipologia ma attinenti ad una differente materia, sarebbe da escludersi.

 


8. Le fonti della disciplina contrattuale


Dei vari contratti della pubblicità che saranno qui passati in rassegna, nessuno è espressamente disciplinato dalla legge come figura negoziale a sé stante. Né il codice civile, nella parte riservata alla speciale disciplina dei singoli contratti più frequenti nella pratica, i cosiddetti «contratti tipici», né alcun altro testo legislativo se ne occupano, con le sole eccezioni del contratto di commissione di cartelloni e lavori artistici affini, disciplinato da una vecchia ordinanza c.d. corporativa, il d.m. 14 dicembre 1942, n. 1485, e di quello avente ad oggetto l’affissione di manifesti che è regolato, sotto il profilo pubblicistico-fiscale, dal d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507. Di qui, intuitivamente, problemi circa l’individuazione delle discipline applicabili, essendo inoltre dubbio, a seconda dei casi, se tali negozi abbiano a considerarsi atipici, oppure misti, o ancora riconducibili, sia pure con qualche anomalia, a figure negoziali tipiche già legislativamente regolate.


Per taluni di questi contratti, una importante, pur se secondaria, fonte normativa è oggi costituita dagli usi. Per molti decenni, gli operatori della pubblicità hanno seguito, nei loro rapporti, determinate regole, molte delle quali si sono consolidate in veri e propri usi negoziali, a ciò notevolmente contribuendo anche i contratti-tipo divulgati dalle varie associazioni professionali del settore.


Un primo tentativo di raccogliere gli usi pubblicitari fu fatto nel 1953 dalla Federazione italiana della pubblicità (FIP) la quale aveva pubblicato un «codice» di usi e consuetudini, noto come «codice FIP», ma numerose riserve erano state espresse circa la sua rispondenza agli usi realmente all’epoca esistenti, sembrando essa piuttosto riportare le condizioni contrattuali unilateralmente praticate in quegli anni da alcuni operatori della pubblicità .


L’accertamento di una serie di usi negoziali del settore relativi alla provincia di Milano fu effettuato in forma ufficiale per la prima volta nel 1988 dalla Camera di commercio di Milano per ciò che riguarda i contratti di agenzia pubblicitaria, i contratti per la creazione di opere pubblicitarie, per la produzione di films pubblicitari, per la cessione pubblicitaria dell’immagine di persone e, più sinteticamente, i contratti di diffusione. Similare accertamento veniva successivamente compiuto, per le relative provincie, dalle Camere di commercio di Torino, di Bari e di Vicenza.


E benché la vigenza di tali usi esplichi efficacia limitata, operi esclusivamente in ambito provinciale e sia inoltre suscettibile di prova contraria, la loro rilevanza è notevole, considerando che l’attività pubblicitaria italiana fa soprattutto capo alla metropoli lombarda e in parte anche a quella piemontese e che gli usi accertati per le singole provincie non divergono fra loro in modo sensibile, ciò che testimonia la sostanziale uniformità di queste pratiche negoziali nelle varie aree geografiche della penisola.


Da ultimo, pur se sarebbe inappropriato riferirvisi quale «fonte» della disciplina giuridica di questi contratti, non si può fare a meno di ricordare il complesso di regole, generalmente derivanti da iniziative di stampo associativo, che alcune organizzazioni di operatori pubblicitari (ed in particolare quelle che raggruppano gli utenti e le agenzie) hanno espresso esercitando una rilevante influenza anche in campo negoziale. Nel settore, caratterizzato dalla pressoché totale assenza di riconoscimenti legislativi delle varie categorie professionali, l’associazionismo ha infatti, come già si è osservato, colmato molti vuoti normativi, dando luogo, oltre che ad elenchi o albi privati ed a disciplinari circa l’esercizio delle varie professioni, anche a regole che, direttamente o di riflesso, incidono sulla materia contrattuale.


Esaminare analiticamente le varie iniziative non sarebbe possibile in questa sede. Può essere sufficiente, a titolo di esempio, menzionare le regole promananti dalle più importanti associazioni di agenzie, e contenenti principi comportamentali che spesso incidono anche sulla materia contrattuale, o ancora la formazione del cosiddetto «Albo ufficiale delle organizzazioni di tecnica pubblicitaria», l’iscrizione al quale condiziona il riconoscimento della «commissione mezzi», o ancora le intese interassociative per i controlli delle audiences televisive e dei dati di readership della stampa, o, infine, i numerosi listini e tariffari editi dalle varie associazioni, il cui rilievo in ambito negoziale, almeno nei casi in cui la legge vi fa rinvio, è intuitivo. E di maggior rilievo ancora sono, come più sopra si è osservato, le iniziative consistenti nella pubblicazione di «contratti tipo», la cui adozione viene suggerita dalle singole associazioni ai propri membri.


Una menzione particolare merita infine quella che può considerarsi la più importante fra le iniziative interassociative del settore e cioè l’autodisciplina pubblicitaria. Nel 1966, in considerazione della pressoché totale assenza di norme di legge in materia, le associazioni del settore adottarono un corpo di regole comportamentali, noto come «codice di autodisciplina pubblicitaria», che si rivolge a quanti, direttamente o per tramite delle proprie associazioni, si sono impegnati alla sua osservanza. Secondo quanto dispongono i vari statuti associativi, sono oggi tenuti al rispetto del codice di autodisciplina quasi tutti gli operatori della pubblicità, dai professionisti (agenzie, tecnici pubblicitari, creativi, ecc.) alle imprese di mezzi (editori, emittenti radiotelevisive, concessionari, ecc.) fino agli utenti. Una disposizione fa obbligo ai soggetti aderenti di inserire nei propri contratti una speciale clausola di accettazione del codice e delle decisioni degli organismi autodisciplinari, con l’effetto di vincolare al rispetto del codice anche chi non vi aderisca direttamente.


L’istituzione fa capo all’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, di cui fanno parte, come membri costituenti, associati o semplicemente aderenti, pressoché tutte le organizzazioni associative della pubblicità. Il compito di far osservare le regole del codice e di conoscere le relative vertenze è affidato ad un Giurì, con funzioni giudicanti in unica istanza e ad un Comitato di controllo, esplicante soprattutto attività inquirente con particolare riguardo alla tutela dei consumatori. Dalla sua istituzione l’autodisciplina pubblicitaria ha svolto un’attività assai intensa, ha acquisito notevolissima autorità anche al di fuori dello stretto ambito associativo da cui promana ed è considerata come il più interessante sistema di autonormazione italiano.


Poiché il codice è soprattutto inteso a disciplinare il contenuto e le forme della comunicazione pubblicitaria e non i rapporti fra gli operatori del settore, la sua influenza sulla materia contrattuale non è particolarmente rilevante. Ma alcune disposizioni (ad esempio sulla clausola di accettazione, sul deposito dei progetti pubblicitari o sul «diritto di rifiuto») possono assumere rilevanza anche nei rapporti negoziali. Del resto, l’adesione al codice e l’accettazione delle pronunce del Giurì risultano recepite come usi accertati nelle varie raccolte delle Camere di commercio onde possono ritenersi acquisite ai contratti anche in assenza di pattuizione espressa (segue ).


(*) Omesse le note di riferimento bibliografico ,queste pagine trascrivono una parte di capitolo della monografia di cui si riproduce l’indice sommario
 

I contratti della pubblicita’ commerciale Giappichelli editore, Torino
CAPITOLO I

CENNI INTRODUTTIVI

1. Profili generali 1
2. La nozione di «pubblicità» 2
3. Gli utenti di pubblicità 4
4. I mezzi di pubblicità 5
5. Le figure professionali della pubblicità 7
6. Il «sistema» dei contratti di pubblicità 8
7. La «funzione di pubblicità» 10
8. Le fonti della disciplina contrattuale 11


CAPITOLO II
I CONTRATTI DI DIFFUSIONE
DELLA PUBBLICITÀ TABELLARE

1. Le imprese di mezzi 15
2. I contratti dei mezzi classici 18
3. La conclusione del contratto 19
4. La consegna dei materiali e il diritto di rifiuto 21
5. Il corrispettivo della diffusione e lo sconto di agenzia 24
6. L’inserimento degli annunci 25
7. Il «posizionamento» degli annunci 26
8. Il «calendario» delle uscite 29
9. Mancata o parziale diffusione 29
10. Readership e audience 31
11. Il contratto di diffusione nel d.lgs. n. 507/93 33
12. La clausola di accettazione dell’autodisciplina pubblicitaria 35
13. La natura del contratto di diffusione: le varie ipotesi 37
14. Il contratto di diffusione come appalto 39


CAPITOLO III
I PRINCIPALI CONTRATTI DI DIFFUSIONE
DELLA PUBBLICITÀ BELOW THE LINE

1. La pubblicità below the line 41
2. I contratti di telepromozione 42
3. I contratti per vendite televisive 45
4. I contratti di pubblicità redazionale e di product placement 47
5. I contratti di telesponsorizzazione 50
6. I contratti di sponsorizzazione: nozione 51
7. I diversi tipi di sponsorizzazione 53
8. Gli elementi ricorrenti nei contratti di sponsorizzazione 55
9. Natura giuridica dei contratti di sponsorizzazione 58


CAPITOLO IV
I CONTRATTI DI CONCESSIONE PUBBLICITARIA

1. Mezzi e concessionari 63
2. Il contratto di concessione 65
3. La raccolta e la gestione degli ordini di pubblicità 66
4. La quota del concedente. I minimi garantiti e le anticipazioni 67
5. L’esclusiva 69
6. L’esecuzione della pubblicità da parte del concedente 70
7. Il mantenimento qualitativo del mezzo 72
8. Durata e cessazione del contratto 72
9. Natura giuridica 73


CAPITOLO V
I CONTRATTI DI AGENZIA PUBBLICITARIA

1. Origine e struttura 77
2. La fase precontrattuale 79
3. Le gare 82
4. La conclusione del contratto 84
5. L’oggetto del contratto 85
6. Lo stanziamento 86
7. Le prestazioni tipiche dell’agenzia 88
8. L’agenzia nei rapporti con i mezzi e i fornitori 89
9. L’obbligo di diligenza 92


10. Il divieto di concorrenza. Il segreto 95
11. La remunerazione dell’agenzia: la commissione 96
12. (Segue) Il fee 98
13. La commissione-mezzi 100
14. La «creatività» 103
15. L’esclusiva in favore dell’agenzia 108
16. Durata e scadenza. Il recesso 110
17. Natura giuridica del contratto: problemi inerenti 114
18. (Segue) L’intellettualità delle prestazioni 115
19. (Segue) La struttura dell’agenzia 117
20. (Segue) La posizione dell’agenzia verso i terzi 119
21. (Segue) L’intermediazione. La disciplina delle «agenzie di affari» 120
22. (Segue) Conclusioni 123
23. La recente evoluzione del rapporto 126
24. I contratti delle centrali-media 127


CAPITOLO VI
I CONTRATTI DI COMMISSIONE DI OPERE
PER LA PUBBLICITÀ

1. Profili generali 129
2. La disciplina applicabile: il codice civile e il r.d. n. 1485/42 130
3. La proprietà dell’opera 133
4. I diritti di utilizzazione: il quadro normativo, dottrinale e giurisprudenziale 135
5. (Segue) Le conseguenze della tesi oggi dominante 139
6. (Segue) Natura e funzione dell’opera pubblicitaria 141
7. (Segue) I rimedi per prevenire le utilizzazioni pregiudizievoli per il committente 145
8. (Segue) La soluzione proposta 147
9. (Segue) La dubbia applicabilità del regime alle opere non tutelabili con il diritto d’autore 151
10. (Segue) Le opere pubblicitarie e il diritto d’autore 152
11. Conclusione del contratto 155
12. Il contratto di produzione di film pubblicitari: tratti differenziali rispetto
alla commissione d’opera 156
13. (Segue) L’individuazione del «produttore» 157
14. (Segue) La pratica contrattuale 159
15. (Segue) Il corrispettivo 161
16. I contratti per l’utilizzazione pubblicitaria di opere già esistenti 162



CAPITOLO VII
I CONTRATTI PER L’UTILIZZAZIONE
PUBBLICITARIA DELL’IMMAGINE

1. Varietà contrattuali 165
2. Il contratto per il solo utilizzo pubblicitario dell’immagine o del nome 166
3. Il contratto per prestazioni pubblicitarie e utilizzo dell’immagine 167
4. La prassi contrattuale 169
5. I limiti del consenso e l’uso prevedibile 171
6. Il consenso prestato da terzi 172


Indice analitico 177