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Sul regime giuridico del danno causato in stato di necessità o per legittima difesa

 

Giovanni Giacobbe



 1. Legittima difesa e stato di necessità: considerazioni generali

La responsabilità civile sorge allorché vi sia un fatto illecito - individuato in un comportamento umano ovvero in una situazione di relazione con l'autore del fatto o con la cosa da cui il danno è derivato - che determina un danno ingiusto. Quest'ultimo consiste nella lesione di un interesse giuridicamente protetto nella vita di relazione, che si pone quale conseguenza immediata e diretta del fatto medesimo.
Può accadere che, pur in presenza dei suindicati presupposti, la legge escluda la sussistenza, in tutto o in parte, dell'obbligazione risarcitoria.
Al riguardo è opportuno, tuttavia, precisare che, in realtà, tale sussistenza è solo apparente, poiché nelle fattispecie disciplinate vi sono alcuni dei requisiti previsti dalla legge ai quali non è possibile attribuire la qualificazione necessaria per definire ingiusto il danno che si realizza.
Le considerazioni che seguono si fondano, come si vedrà, su di una concezione del fatto illecito che tiene conto della mutata realtà sociale ed in particolare di quelle esigenze di contemperamento degli opposti interessi che, in circostanze particolari, inducono a limitare o addirittura ad escludere la stessa responsabilità.
La legittima difesa e lo stato di necessità costituiscono due ipotesi nelle quali vi è un comportamento umano volontario dal quale deriva un danno ad un altro soggetto.
Il codice civile disciplina espressamente le due fattispecie, a differenza del precedente codice nel quale, al contrario, esse non trovavano puntuale regolamentazione.
È interessante notare, proprio a conferma del fondamento sostanzialmente equitativo dei due istituti, che, nella pratica attuazione del diritto, anche sotto il vigore del codice precedente non si dubitava che il danno prodotto in stato di necessità o per legittima difesa dovesse essere regolato in modo particolare, tenendo conto delle peculiarità della situazione nella quale il danno stesso era prodotto.
Invero, per quanto riguarda la legittima difesa, la dottrina ha sottolineato che non può essere qualificato ingiusto il danno arrecato nei confronti di colui che, con il proprio comportamento illecito, ha determinato la necessità di offendere per difendere sé od altri dall'ingiusta aggressione. Tale necessità, infatti, giustifica la reazione dell'aggredito ed esclude che il danno da quest'ultimo prodotto investa, nel caso specifico, un interesse tutelato nell'accezione precedentemente indicata.
Relativamente allo stato di necessità, la valutazione del legislatore si è orientata nel senso di operare un bilanciamento di interessi, ritenuti egualmente meritevoli di tutela.
La fattispecie dello stato di necessità è composta da due fatti giuridici, tra loro collegati, consistenti in una situazione di necessità ed in un comportamento necessitato (c.d. fatto necessitante). Naturalmente, per produrre le particolari conseguenze, di cui si dirà tra breve, entrambi i fatti devono possedere requisiti ben precisi, non sussistendo, in mancanza di essi, le ragioni giustificative del particolare regime giuridico.
Una caratteristica peculiare del danno prodotto in stato di necessità riguarda il soggetto nella cui sfera giuridica il pregiudizio si verifica, soggetto che è del tutto estraneo al rapporto che si crea tra l'autore del comportamento necessitato e colui in favore del quale l'attività è posta in essere (soggetto che, come si vedrà, può essere anche l'autore medesimo). Da tale circostanza deriva l'esigenza di tutelare la posizione di chi si trova, senza sua colpa, a dover subire una lesione nella propria sfera giuridica e, quindi, la ragione per cui si è ritenuto di distribuire tra tali soggetti le conseguenze dannose.
La ratio che ispira la scelta del legislatore si ricava dalla stessa relazione al Re. In essa, infatti, a proposito della legittima difesa si afferma che colui che agisce a tutela di un proprio diritto esercita un potere di reazione che è consentito dall'ordinamento. Di conseguenza, il danno non può qualificarsi ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c..
Diversa è la giustificazione dell'attenuazione della responsabilità relativamente al danno prodotto in stato di necessità. Si precisa, al riguardo, che la sussistenza di una responsabilità, sia pure in forma attenuata, deriva da uno specifico dovere, che incombe sul danneggiante, di contribuire, con il proprio parziale sacrificio, alla salvezza altrui.
Di particolare interesse, ai fini che saranno evidenziati nei successivi paragrafi, è la limitazione del suddetto sacrificio all'ipotesi in cui la salvezza altrui non sia altrimenti conseguibile: proprio tale limitazione sottolinea l'esigenza, che costituisce il fondamento dell'art. 2045 c.c., di distribuire il danno tra i vari soggetti del rapporto.
Dalle delineate caratteristiche delle due situazioni in esame deriva la diversa disciplina che, per ciascuna di esse, è dettata dal codice civile.
L'art. 2044 c.c. esclude, infatti, che l'aver agito per legittima difesa determini alcuna responsabilità in capo all'autore del danno. Al contrario, se quest'ultimo ha agito in stato di necessità la legge non lo esonera completamente dall'obbligo di corrispondere al danneggiato una somma a titolo di riparazione, prevedendo un'indennità la cui misura è affidata all'equo apprezzamento del giudice.
La legittima difesa, peraltro, è consentita a tutela di un qualsiasi diritto - sia esso di natura personale o patrimoniale - mentre la necessità di salvare sé od altri è limitata al pericolo attuale di un danno grave alla persona.
È evidente la ratio della diversa disciplina. Invero, la difesa in tanto è legittima in quanto si rivolge nei confronti di colui che, a sua volta, lede un diritto altrui. Il danneggiato è, quindi, anche il soggetto che ha sostanzialmente dato causa al danno da esso subito. Non vi è ragione, pertanto, di limitare l'interesse tutelato a svantaggio di chi si difende da un'aggressione altrui. L'unico limite, come sarà meglio precisato nei successivi paragrafi, è costituito dalla circostanza in base alla quale la difesa deve essere proporzionata all'offesa 81. Codesta circostanza costituisce logica conseguenza della valutazione di non antigiuridicità che del comportamento dell'aggredito viene effettuata dal legislatore. Tale valutazione ha, infatti, come indispensabile presupposto la sussistenza del fine di difesa - e non di ulteriore offesa o addirittura di ritorsione - che l'aggredito medesimo intende perseguire.
Il danno compiuto in stato di necessità, come si è detto, si verifica a carico di un soggetto del tutto estraneo alla situazione necessitante. Invero, esso si trova in una posizione di terzo danneggiato in relazione ad una fattispecie nella quale l'unico vantaggio deriva in favore del soggetto che compie l'azione necessitata ovvero del terzo che viene salvato. Il legislatore, cioè, di fronte alla scelta tra due posizione giuridiche soggettive - di cui l'una in pericolo, l'altra destinata ad essere pregiudicata per scongiurarare il pericolo stesso - consente che venga posta in essere un'attività pregiudizievole che, ove la situazione necessitante non sussistesse, sarebbe fonte di responsabilità risarcitoria.
È, tuttavia, evidente che il pregiudizio a carico di un terzo estraneo in tanto può essere tollerato, in quanto il pericolo al proprio o all'altrui diritto sia particolarmente grave. Di qui la necessità che si tratti di un pericolo di danno grave alla persona. Peraltro, la qualità di terzo che riveste il soggetto danneggiato ha indotto il legislatore a prevedere, nei suoi confronti, una forma di indennizzo, in quell'ottica redistributiva delle conseguenze pregiudizievoli, di cui si è detto.
Le considerazioni che precedono verranno riprese nei successivi paragrafi, quando verrà affrontato il problema della natura giuridica e della qualificazione del comportamento e del danno nelle fattispecie in esame.
È opportuno, in questa sede, esaminare le caratteristiche principali delle analoghe ipotesi previste dal codice penale che, sul punto, contiene una disciplina più completa e, per certi aspetti, esaustiva.
Il codice civile, infatti, non indica espressamente in quali casi la legittima difesa e lo stato di necessità sussistono.
Il codice penale, al contrario, negli artt. 52 e 54 contiene un'analitica indicazione delle possibili situazioni che si possono verificare nelle fattispecie in esame.
L'art. 52 c.p., infatti, prevede la non punibilità per colui che è stato costretto a commettere un fatto, costituente reato, dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo grave di un'offesa ingiusta. La norma, a differenza di quella civile, prevede espressamente il requisito della proporzionalità.
Il successivo art. 54 sostanzialmente riproduce, nel primo comma, la formulazione civilistica, prevedendo, inoltre, il requisito della proporzionalità.
La norma è più precisa nei commi 2° e 3°, nei quali è espressamente considerata l'ipotesi di colui che ha un obbligo particolare di esporsi al pericolo e l'ipotesi in cui lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia.
Il silenzio del codice civile sul punto ha creato non lievi difficoltà interpretative, di cui si dirà nei successivi paragrafi.
Le differenti formulazioni delle norme penali, rispetto a quelle civili in esame, non escludono che ad esse debba essere attribuito il medesimo fondamento.
Invero, la dottrina penalistica che ha approfondito la relativa problematica ha sottolineato che le cause di giustificazione, quali devono essere definite le fattispecie previste dagli artt. 52 e 54 c.p., presuppongono la sussistenza di un reato completo in tutti i suoi elementi: tipicità, antigiuridicità, colpevolezza. La ragione dell'esclusione della punibilità, in tal caso, deriva da un'operazione di bilanciamento degli interessi individuabili, da un lato, nella lesione del bene tutelato; dall'altro, in un bene che l'ordinamento considera di maggior pregio.
Sotto tale profilo, pertanto, è identica la ratio che ha indotto il legislatore, in un caso, a ritrenere non punibile l'autore del fatto; nell'altro caso, ad escludere ovvero limitare le conseguenze risarcitorie al fatto stesso connesse.
È importante, tuttavia, sottolineare tale ultimo aspetto, e cioè che mentre le fattispecie considerate dal codice penale ricevono disciplina sotto il profilo dell'esclusione della punibilità - nonostante che il fatto costituisca astrattamente reato - le medesime fattispecie acquistano rilevanza, sotto il profilo civilistico, quali cause di esclusione ovvero di limitazione della responsabilità risarcitoria.
Da ciò deriva che, ai fini penali, l'applicazione della norma è condizionata dalla realizzazione del comportamento in quelle determinate circostanze; la fattispecie civilistica si realizza, invece, soltanto nell'ipotesi in cui si determina, in concreto, un danno. In mancanza di esso, infatti, non sorge alcuna responsabilità in quanto non si completa la fattispecie prevista dall'art. 2043 c.c..


La legittima difesa nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie

Come si è detto nel precedente paragrafo, il fondamento giuridico della legittima difesa, quale causa di giustificazione che, in presenza di un fatto costituente reato, esclude la punibilità del suo autore, deve essere individuato nel principio in base al quale chi subisce un'aggressione ingiusta è autorizzato a reagire a tutela della propria situazione giuridica soggettiva.
È noto che sulla ratio di tale principio molto si è discusso nell'ambito della dottrina penalistica. Vi è chi, infatti, sottolinea l'esclusione, nel caso di specie, dell'elemento morale del reato, nel senso che lo stato di legittima difesa inciderebbe sulla libertà del volere di colui che pone in essere il fatto costituente reato. In tale prospettiva, è evidente la ragione per la quale a quest'ultimo non viene applicata la sanzione.
Coloro che, invece, evidenziano la natura di causa di giustificazione dell'esimente in esame, ritengono che l'atto compiuto in stato di legittima difesa non sia obiettivamente antigiuridico, in quanto il soggetto agisce, in via di autotutela, sostituendosi alla pubblica autorità che, in casi del genere, dovrebbe provvedere alla prevenzione e repressione dei fatti costituenti reato. L'autorizzazione si giustifica, in tale prospettiva, con una sorta di collaborazione che si realizza tra il privato e l'Amministrazione. Colui che subisce l'aggressione - o che difende taluno da un'aggressione altrui - è, pertanto, legittimato a tutelare direttamente una situazione nella quale, di norma, dovrebbe intervenire l'Amministrazione.
Naturalmente, una tale autorizzazione in tanto è legittima in quanto, come si è detto, l'interesse dell'aggredito richieda una tutela immediata e sia ritenuto prevalente rispetto a quello dell'aggressore. In caso contrario, infatti, l'azione in via di autotutela non è consentita in quanto la deroga non troverebbe alcuna valida giustificazione.
Parte della dottrina evidenzia, invece, l'aspetto positivo dell'azione compiuta in stato di necessità, sottolineando che chi reagisce ad un'azione illecita, sostanzialmente si oppone alla realizzazione di un evento, anch'esso connotato dai caratteri dell'illiceità.
L'azione del soggetto viene, quindi, vista in chiave di lotta contro il compimento di atti contrari all'ordinamento giuridico.
Non è questa la sede per esaminare analiticamente le varie teorie che, sul punto, sono state prospettate. Ci si limiterà, quindi, ad evidenziare che, qualunque tesi si intenda seguire, è indubbio che l'azione posta in essere per la necessità di salvare sé od altri da un'aggressione altrui deve essere valutata proprio in ragione della finalità che chi la compie si propone di perseguire. In tale ottica si spiegano, come sarà subito chiarito, le limitazioni che la legge prevede per la configurabilità dell'esimente in esame.
Orbene, l'art. 52 c.p. prevede che "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa".
Si deve, innanzi tutto, osservare che, sebbene il citato articolo si riferisca alla necessità di difendere un diritto, la dottrina ritiene più aderente alla ratio della norma considerare, quale oggetto dell'aggressione, un interesse giuridicamente tutelato.
Si determina, cioè, un conflitto tra il titolare dell'interesse che subisce l'aggressione e colui che tale aggressione pone in essere il quale, a sua volta, riceve un pregiudizio.
È evidente che l'ordinamento, dovendo scegliere quale delle due situazioni sia meritevole di tutela, privilegia la posizione dell'aggredito, in omaggio al principio in base al quale deve considerarsi illecito ogni comportamento, offensivo di un interesse altrui, che non sia espressamente autorizzato da una norma dell'ordinamento stesso. Di conseguenza, l'aggredito ha il potere di opporsi all'aggressore, ponendo in essere un comportamento che, in diverse circostanze, sarebbe considerato suscettibile di sanzione penale.
Alla luce della ratio e delle particolari finalità della norma devono essere valutati, si è detto, i requisiti che la norma stessa considera indispensabili perché l'esimente in esame possa trovare applicazione.
Requisiti per tale applicazione sono la necessità di difesa, la sussistenza e l'attualità del pericolo, l'ingiustizia dell'offesa e la proporzione tra la difesa e l'offesa.
Con riferimento all'elemento della necessità, si osserva che esso si traduce nell'alternativa, che si pone all'aggredito, tra reagire o subire l'aggressione ingiusta. Più in particolare, tale alternativa si pone in termini di impossibilità di sottrarsi al pericolo senza arrecare offesa all'aggressore.
La valutazione di tale impossibilità è particolarmente rilevante, poiché essa segna il limite tra il comportamento scriminato rispetto a quello che, al contrario, non sfugge alla qualificazione di illiceità sotto il profilo penale.
Invero, si è detto che il titolare di un interesse giuridicamente protetto può agire a tutela di quest'ultimo. Tuttavia, proprio in quanto un tale potere viene riconosciuto sussistente in virtù di una comparazione tra l'interesse dell'aggredito e quello dell'aggressore, con prevalenza del primo, è evidente che la relativa valutazione non può essere effettuata in assoluto, dovendosi, di volta in volta, accertare se è possibile, nel caso concreto, formulare un giudizio di prevalenza nei limiti indicati.
Una simile valutazione non può prescindere dall'accertamento, di volta in volta, della necessità della reazione offensiva e, quindi, dell'inevitabilità della lesione dell'interesse proprio dell'aggressore.
Ove una simile necessità sia insussistente - perché, ad esempio, l'aggredito avrebbe potuto evitare altrimenti l'offesa, ovvero porre in essere una condotta meno pregiudizievole per l'aggressore - non c'e più ragione di tutelare l'autore della reazione che, in quanto non necessaria, non è legittima e, quindi, non è idonea ad evitare la sanzione.
All'elemento della necessità si collega quello, non espressamente previsto dalla norma, ma pacificamente ritenuto essenziale per l'applicazione dell'esimente in esame, della involontarietà del pericolo.
Si è detto, infatti, che la norma privilegia l'interesse del soggetto aggredito, il quale, ove l'esimente non fosse prevista, sarebbe costretto a subire un ingiusto pregiudizio per non incorrere, a sua volta, in una sanzione. Nel caso in cui, tuttavia, egli accetti la situazione di pericolo o, comunque, ne determini la realizzazione nella consapevolezza dei possibili risultati, non vi è più ragione di prevedere una specifica tutela. La reazione, infatti, non è più giustificata, essendosi il soggetto stesso posto nelle condizioni di commettere un reato.
Sulla base delle suesposte considerazioni la giurisprudenza ha escluso la configurabilità dell'esimente in parola nel reato di rissa, dove i partecipanti alla stessa sono animati dall'intento reciproco di offendersi ed accettano, di conseguenza, la situazione di pericolo nella quale si sono volontariamente posti. Per analoghe ragioni non sussiste una situazione di legittima difesa allorché lo scontro tra due soggetti si inserisca nell'ambito di una sfida, poiché, in tal caso, la situazione di pericolo, da essi volontariamente determinata, non possiede i caratteri dell'inevitabilità .
L'elemento della necessità della difesa è, peraltro, strettamente connesso con l'ulteriore requisito della proporzionalità tra la difesa e l'offesa. Invero, se la liceità della reazione non deve essere intesa in senso assoluto - conformemente allo spirito della norma - nel senso che, ove sia possibile una soluzione meno dannosa, questa deve essere preferita, è chiaro che la difesa stessa non può arrecare all'aggressore un pregiudizio maggiore di quello che potrebbe subire l'aggredito. Trattandosi, infatti, di una ponderazione di opposti interessi, è evidente che ogni singola circostanza, che sugli stessi incide, deve essere presa in considerazione al preciso fine di non creare squilibri tra le varie posizioni, privilegiandone alcune che, in realtà, non sono meritevoli di una maggiore tutela.
Il pericolo che si intende evitare deve essere attuale, nel senso che deve sussistere una situazione di aggressione in corso, la cui cessazione dipende necessariamente dalla reazione difensiva. Si esclude, quindi, che possa legittimare la sussistenza dell'esimente in esame un pericolo futuro o immaginario il quale, tra l'altro, sarebbe in palese contrasto con il requisito dell'inevitabilità del pericolo stesso, di cui si è detto, che costituisce uno degli elementi fondamentali di giustificazione della prevalenza accordata all'interesse dell'aggredito.
Se, infatti, la difesa pregiudizievole per l'aggressore costituisce una extrema ratio per la tutela del proprio interesse, è evidente che, ove quest'ultimo non subisca un immediato pregiudizio, il suo titolare ha la possibilità di scegliere altre vie per impedire la realizzaizone dell'evento dannoso. Si tratta, in sostanza, di valutare se effettivamente la condotta illecita sia l'unico mezzo idoneo ad impedire un fatto illecito di maggiore entità.
La difesa, infine, è considerata legittima ove l'offesa, cui essa si contrappone, sia ingiusta. In caso contrario, infatti, non vi sarebbe ragione per consentire un comportamento causativo di un evento dannoso, qualificabile in termini di ingiustizia ed integrante una fattispecie costituente reato.
La necessaria qualificazione di ingiustizia, che deve connotare l'offesa in questione, esclude che possa invocare lo stato di legittima difesa colui che si oppone ad un'attività posta in essere da un soggetto che esercita un potere, espressamente previsto dalla legge, ovvero agisce nell'esercizio di un dovere. È, infatti, evidente che, nel primo caso, l'attività dannosa è consentita dalla legge, per cui - fermo restando il correlativo potere dell'aggredito di difendere i propri interessi - entrambe le posizioni si trovano su un piano di parità, per cui l'eventuale difesa deve essere contenuta entro i limiti stabiliti dalla legge.
Nell'ipotesi in cui la condotta costituisce, invece, oggetto di uno specifico dovere giuridico, l'aggredito si trova in una posizione di soggezione di fronte all'esercizio del dovere medesimo. Di conseguenza, la reazione non soltanto non è scriminata, ma addirittura potrebbe integrare, per ciò solo, un'autonoma ipotesi di reato.
In entrambe le fattispecie considerate non ricorrono, quindi, gli estremi dell'esimente prevista dall'art. 52 c.p.
Si è detto che colui che agisce in stato di legittima difesa può essere costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio ovvero un diritto altrui. Se, infatti, il fondamento della norma deve essere ricercato nell'esigenza di impedire la realizzazione di un danno ingiusto, è evidente che una simile esigenza non muta quando chi sta per subire il danno è un terzo rispetto a colui che pone in essere la reazione. È necessario, infatti, che quest'ultima si rivolga direttamente contro l'aggressore, non rilevando a tal fine il soggetto nei confronti del quale l'aggressione stessa era diretta.
La previsione della difesa di un diritto altrui, oltre a quello proprio dell'aggredito, offre una conferma alla validità della tesi che ravvisa la ratio della norma in esame nell'esigenza di reprimere gli illeciti. Le considerazioni che precedono consentono, tuttavia, di ritenere non prive di fondamento neanche le altre teorie, che sono state brevemente illustrate, le quali evidenziano il profilo dei limiti che incontra l'ordinamento nel qualificare illecito un fatto realizzato in circostanze specifiche e particolari.


Lo stato di necessità nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie

Lo stato di necessità qualifica, come la legittima difesa, una scriminante che esclude la punibilità di un fatto il quale, nelle ipotesi normali, integrerebbe la fattispecie di reato.
A differenza della legittima difesa, che si dirige nei confronti dell'aggressore, l'azione posta in essere in stato di necessità colpisce un terzo estraneo. Al riguardo, è stato esattamente evidenziato che mentre esiste un diritto di legittima difesa, vi è soltanto uno stato di necessità: l'ordinamento autorizza la prima e si limita a tollerare il secondo.
Il diverso ambito di applicazione esistente tra le due figure incide sulla disciplina che la legge prevede per entrambe, così come sul fondamento giuridico che allo stato di necessità deve essere riconosciuto.
Anche in relazione a tale fattispecie, infatti, molto si è discusso per individuarne la natura giuridica.
Parte della dottrina ha sottolineato l'aspetto soggettivo della particolare situazione in cui si trova colui che commette il fatto per la necessità di salvare sé od altri da un imminente pericolo. Sotto tale profilo, si è esclusa, in ipotesi del genere, la sussistenza della colpevolezza, in quanto l'elemento della necessità eliminerebbe, in capo al soggetto, la volontarietà del comportamento posto in essere.
Sempre sulla mancanza della colpevolezza si sono orientati quegli autori, che fondano la ragione della non perseguibilità del fatto compiuto in stato di necessità sul principio della c.d. inesigibilità. Si ritiene, infatti, che il soggetto è posto nell'alternativa tra subire un danno e commettere un reato, il che, evidentemente, incide sul suo stato psichico e, quindi, sull'elemento soggettivo necessario per la sussistenza stessa del reato.
L'alternativa che si pone è analoga a quella in cui si trova colui che agisce per legittima difesa: diversi, tuttavia, sono gli effetti che dalle rispettive azioni derivano, poiché, nell'ipotesi da ultimo considerata, il danno viene arrecato all'aggressore e non ad un terzo incolpevole, circostanza, questa, che non è priva di conseguenze nella valutazione del legislatore.
La dottrina dominante individua un fondamento oggettivo dell'esimente in esame, consistente nella mancanza di interesse sociale a reprimere la condotta, la quale mancanza si traduce in un giudizio di assenza di dannosità sociale della condotta stessa. Tale orientamento si fonda sul principio del bilanciamento degli interessi - quello in pericolo e quello in concreto pregiudicato - che, da un punto di vista penale, elimina l'antigiuridicità del fatto nell'ipotesi in cui il valore del bene sacrificato sia inferiore rispetto al valore del bene salvato.
Sul piano civilistico, come sarà evidenziato nei successivi paragrafi, le medesime argomentazioni giustificano la previsione di un indennizzo, che il soggetto agente deve corrispondere al terzo danneggiato.
L'art. 54 c.p. prevede che "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commeterlo".
Come si è gia evidenziato in precedenza, la norma è molto più precisa dell'analoga disposizione civilistica, in quanto disciplina espressamente varie fattispecie che, proprio in considerazione della particolare ratio dell'istituto, sono escluse dal suo ambito di applicazione.
Così, chi ha il dovere di esporsi al pericolo non può, al fine di evitarne la realizzazione, sacrificare l'interesse di un terzo estraneo. Invero, se la non punibilità è giustificata da una valutazione che l'ordinamento ha effettuato, in via preventiva, degli interessi in conflitto, è evidente che, ove l'esposizione di uno di essi al pericolo costituisca oggetto di uno specifico dovere, non vi è ragione di sacrificare l'altro. Anzi, l'eventuale sacrificio comporterebbe, a carico di chi è destinatario del dovere, l'applicazione di una sanzione per non aver rispettato il dovere medesimo.
La norma prevede, quali elementi costitutivi, uno stato di necessità, che giustifica la realizzazione del comportamento dannoso; un pericolo attuale, inevitabile e non volontariamente causato; un possibile danno grave alla persona; la proporzione tra il fatto necessitato ed il pericolo.
Già da una prima lettura della norma si evince che le limitazioni all'applicabilità dell'esimente sono maggiori e più puntuali rispetto a quelle previste per la difesa legittima. È, infatti, evidente che il coinvolgimento di un terzo estraneo costituisce l'extrema ratio che presuppone esperiti tutti i tentativi idonei ad evitare il pericolo in altro modo.
La necessità, quindi, costituisce il presupposto indispensabile per l'operatività dell'esimente, solo in presenza della quale il comportamento lesivo è giustificato. Ad essa è intimamente collegato l'elemento dell'inevitabilità del comportamento medesimo, nel senso che l'attività eseguita non deve poter essere sostituibile con altra condotta meno dannosa per il terzo.
Il fatto necessitato, cioè, deve costituire l'unico mezzo idoneo ad evitare il pericolo.
L'elemento dell'inevitabilità, quindi, puntualizza lo scopo fondamentale dell'esimente, che consiste nell'evitare la situazione di pericolo con il minor aggravio per il terzo. Sotto tale profilo, i concetti di necessità ed inevitabilità identificano due requisiti profondamente diversi, in quanto la prima - la necessità - individua la situazione nella quale l'azione, per essere scriminata, si deve realizzare; la seconda - l'inevitabilità - segna il limite di operatività della scriminante stessa.
La necessità si riferisce al pericolo di un danno, pericolo che deve essere attuale e non volontariamente causato.
La ratio dell'attualità del pericolo è evidente: in mancanza di essa, infatti, il rischio sarebbe altrimenti evitabile e, quindi, non potrebbe ritenersi più giustificato il pregiudizio arrecato al terzo.
Si esclude, pertanto, che operi l'esimente in esame ove il pericolo sia futuro ovvero si sia già realizzato l'evento dannoso, salva l'ipotesi in cui da tale evento derivino conseguenze pregiudizievoli, evitabili soltanto con l'attività necessitata.
Poiché lo stato di necessità opera oggettivamente, è indifferente che la situazione necessitante sia determinata dal fatto dell'uomo o dalla natura: chi compie l'atto necessitato, infatti, andrà in ogni caso esente da pena, poiché la particolare situazione rileva in se stessa.
È, tuttavia, evidente che ad analoghe conclusioni non è possibile pervenire nel caso in cui lo stesso autore del fatto scriminato abbia volontariamente dato causa alla situazione necessitante.
Al riguardo, si pecisa che la limitazione non sussiste per la legittima difesa. L'aggredito, infatti - sia pure nei limiti evidenziati nel precedente paragrafo - è scriminato anche nell'ipotesi in cui abbia dato causa all'aggressione. Ancora una volta, le ragioni della differente disciplina devono essere ricercate nei soggetti che subiscono l'offesa, l'aggressore ed il terzo estraneo, soggetti che, per le ragioni esposte, sono destinatari di una differente tutela.
Il pericolo deve essere riferito ad un danno grave alla persona, intendendosi con tale termine, secondo la più recente giurisprudenza, non soltanto il danno alla vita ed all'integrità fisica, sibbene anche quello relativo agli altri beni attinenti alla personalità, quali la libertà, il pudore, l'onore, il decoro.
Il pericolo limitato al pregiudizio grave alla persona, nell'accezione considerata, si spiega con l'incidenza del comportamento dannoso nella sfera giuridica del terzo. Invero, nell'operazione di bilanciamento degli interessi, il legislatore ha ritenuto di sacrificare la posizione del terzo soltanto di fronte ad un interesse particolarmente rilevante, facente capo a colui che si trova in stato di necessità.
È interessante, sotto tale profilo, l'evoluzione giurisprudenziale che, in attuazione dei principi costituzionali posti a tutela dei diritti fondamentali del soggetto - rectius: della persona -, ha operato un progressivo ampliamento dei danni rilevanti ai fini della configurabilità dell'esimente. Tale ampliamento si pone, del resto, in piena armonia con la ratio della norma, ove si consideri che, nell'ambito del bilanciamento degli interessi, è necessario prendere in considerazione tutti quelli che, nella coscienza sociale, sono ritenuti meritevoli di tutela.
Il sacrificio del bene di un terzo estraneo richiede che, nel caso concreto, sussista una proporzione tra il pericolo ed il danno che si intende evitare: anche tale requisito, richiesto espressamente dalla norma, costituisce logica conseguenza del giudizio di bilanciamento degli interessi, cui si è più volte accennato.
È, peraltro, evidente che l'accertamento della proporzione - che, naturalmente, deve essere effettuato in concreto, tenendo conto delle particolarità dei singoli casi - viene condotto in modo più rigoroso rispetto a quanto avviene per l'atto compiuto in stato di difesa legittima. Anche in tal caso, infatti, la difesa deve essere proporzionata all'offesa. Tuttavia, alla luce del modo di operatività delle due scriminanti, è evidente che, ove l'interesse da sacrificare si riferisca ad un terzo, maggiore deve essere la cautela nell'individuazione dei singoli presupposti previsti dalla legge.
La norma prevede, si è detto, che il fatto compiuto in stato di necessità è scriminato, ove il pericolo da scongiurare riguardi sia il soggetto che pone in essere il comportamento, integrante gli estremi del reato, ovvero un terzo. Si realizza, in tale ipotesi, la fattispecie che la dottrina definisce "soccorso necessitato".
La figura in esame ha determinato il sorgere di un ampio ed articolato dibattito in ordine all'ambito di operatività della scriminante rispetto all'autonoma ipotesi di reato, prevista dall'art. 593 c.p., che, come è noto, disciplina l'omissione di soccorso. Infatti, la norma da ultimo citata punisce chi non presta immediata assistenza ad una persona inanimata, ferita o comunque in pericolo. È, quindi, chiaro che tale disposizione impone un preciso dovere, la cui inosservanza è penalmente sanzionata.
Si tratta, quindi, di individuare i limiti entro i quali è consentito, per adempiere al suddetto dovere, arrecare un pregiudizio alla sfera giuridica altrui, ponendo in essere un fatto costituente reato.
Non è questa la sede per affrontare l'argomento.
È opportuno, tuttavia, osservare che, anche nell'ipotesi da ultimo considerata, si tratta di una valutazione che l'interprete deve operare avendo riguardo alla singola fattispecie concreta, con particolare riferimento agli interessi sostanziali coinvolti.


Lo stato di necessità e la teoria dell'inesigibilità

L'inesigibilità indica quella particolare situazione, in base alla quale un soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si trova nell'impossibilità assoluta di ottemperare ad un determinato precetto normativo.
La nozione in esame ha trovato ampia elaborazione nell'ambito della dottrina civilistica, relativamente alla problematica dell'adempimento delle obbligazioni. Nel rapporto obbligatorio, infatti, il rigore delle conseguenze collegate all'inadempimento è mitigato dal principio secondo cui "ad impossibilia nemo tenetur", principio che evidenzia l'esigenza di adeguare il diritto alla realtà effettiva. Sotto tale profilo, è stato evidenziato in dottrina che l'accertamento, in concreto, della sussistenza di una causa di inesigibilità si traduce in una questione di interpretazione della fattispecie e, in taluni casi, di integrazione delle lacune del diritto.
Trattandosi di causa esterna alla volontà del soggetto, l'inesigibilità rileva sotto il profilo della mancanza dell'elemento soggettivo, nel senso che la causa dell'inadempimento deve essere ricercata in eventi che incidono sulla volontà del soggetto, impedendone la libera determinazione.
La dottrina penalistica, infatti, qualifica l'inesigibilità quale causa di esclusione della colpevolezza. In particolare, si sottolinea che essa non esclude l'antigiuridicità del fatto, sibbene la rimproverabilità del comportamento criminoso al soggetto.
Di conseguenza, viene meno l'esigenza di applicare la sanzione, in quanto non può essere formulato un giudizio di riprovevolezza nei confronti del soggetto autore del comportamento.
È interessante notare come la giurisprudenza, nell'applicazione concreta della disciplina penalistica, ricorre al principio di inesigibilità per temperare il rigore delle norme, quando, per specifiche circostanze concrete, l'applicazione della sanzione penale non appare equa.
Così, ad esempio, in una sentenza di merito si è esclusa la configurabilità del reato previsto dall'art. 416 bis c.p., in una fattispecie nella quale alcuni imprenditori si sono trovati a svolgere la propria attività in una zona ad alta densità mafiosa. È stata, altresì, esclusa l'ipotesi di reato nei confronti di un sindaco che aveva gestito una discarica di rifiuti solidi urbani in assenza dell'autorizzazione regionale.
In tali fattispecie il giudizio di non colpevolezza ha trovato fondamento nella considerazione che, in entrambe le ipotesi, il soggetto non si era liberamente determinato a porre in essere il comportamento delittuoso, ma vi era stato costretto dalle circostanze.
Parte della giurisprudenza e della dottrina - pur nella consapevolezza della mancanza, nel nostro ordinamento, di un espresso riferimento normativo all'istituto dell'inesigibilità - ne individua il fondamento nella previsione dello stato di necessità. Si ritiene, cioè, che la ratio della scriminante debba essere ricercata proprio nella posizione, in cui si trova l'autore del fatto necessitato, di non poter scegliere altra condotta all'infuori di quella pregiudizievole per il terzo.
Si deve, al riguardo, osservare che, alla luce delle considerazioni brevemente illustrate, non sembra che all'esimente in esame possa essere attribuito il ruolo di riferimento normativo per la figura dell'inesigibilità.
Altra parte della dottrina, nel tentativo di giustificare una simile prospettazione, ha individuato nella fattispecie dello stato di necessità un fondamento complesso, di cui una componente è costituita dalla figura dell'inesigibilità, la quale si imbatte, tuttavia, nel limite insuperabile dell'esigenza di bilanciamento degli interessi, che trova espressione, in particolare, nel requisito della proporzionalità tra il pericolo ed il fatto produttivo di danno.
Gli sforzi tendenti a considerare la scriminante dello stato di necessità quale riferimento normativo per il principio dell'inesigibilità, si spiegano in quanto un simile inquadramento sistematico consente di applicare, in via analogica, la scriminante stessa a fattispecie ispirate alla medesima ratio.
Orbene, il fondamento oggettivo che deve essere attribuito a tale scriminante non permette di operare una simile assimilazione, soprattutto alla luce della disciplina espressamente prevista dalla legge.
Si è detto, in primo luogo, del requisito della proporzionalità tra il fatto ed il pericolo, requisito che certamente contrasta con un giudizio, squisitamente soggettivo, quale è quello relativo alla sussistenza di un'ipotesi di non esigibilità del comportamento.
Ma anche le altre limitazioni sono incompatibili con un tale giudizio. Così, per quanto riguarda il pericolo, esso si deve riferire ad un danno grave alla persona. Sotto tale profilo, è evidente che, ove la valutazione del comportamento si basi esclusivamente su elementi che incidono sull'elemento soggettivo, non dovrebbe rilevare il tipo di pregiudizio che, in concreto, si realizza.
Per quanto riguarda, invece, la circostanza che il fatto non deve essere volontariamente causato dal soggetto, si osserva che, nell'ottica della non esigibilità, anche un tale requisito non rileva, ove si consideri che, nel momento in cui pone in essere il fatto costituente reato, il soggetto agisce in assenza dell'elemento soggettivo, per cui non si realizza l'ipotesi tipica di reato prevista dalla legge.
In definitiva, se pure nella fattispecie dello stato di necessità la non punibilità deriva dal fatto che colui che commette il reato non aveva altra alternativa, per conseguire il fine, ritenuto meritevole di tutela, di salvare sé od altri da un pregiudizio grave alla persona, non sembra che da tale ipotesi possa desumersi il principio dell'inesigibilità, il quale opera in un ambito diverso ed è volto a perseguire diverse finalità.


La disciplina penale delle scriminanti

Prima di analizzare la disciplina che, sotto il profilo civilistico, la legge prevede relativamente al danno cagionato per legittima difesa ovvero in stato di necessità, è opportuno fare un breve cenno alla specifica regolamentazione che a tali fattispecie riserva il codice penale.
Ciò al fine di chiarire le ragioni poste a fondamento del diverso regime giuridico sussistente nel diritto civile, rispetto a quello penale, diversità dovuta alla differente valutazione che viene operata nelle ipotesi in cui, rispettivamente, si tratta di riequilibrare una situazione patrimoniale pregiudicata ovvero di stabilire se sia necessario, o comunque opportuno, applicare una sanzione.
L'art. 55 c.p. prevede che "quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54 si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo".
La norma individua una fattispecie nella quale, per un errore di valutazione, vengono posti in essere atti o comportamenti sproporzionati rispetto all'entità del pericolo che si intende evitare.
In particolare, il riferimento, contenuto in tale disposizione, ad ipotesi espressamente previste dalla legge, ha indotto la giurisprudenza a ritenere sussistente un intimo collegamento tra l'eccesso colposo e le situazioni scriminanti, cui esso si riferisce, al punto da escludere che la fattispecie descritta dal citato art. 55 c.p. integri un'autonoma figura colposa di reato, distinta dalle previsioni delle singole scriminanti medesime.
Si tratta, pertanto, di una situazione nella quale, pur sussistendo i presupposti per l'applicabilità di una delle esimenti previste dalla legge, tuttavia, per un errore derivante da colpa del soggetto, il fatto trascende le finalità in base alle quali la legge stessa esclude la punibilità di quest'ultimo, con la conseguenza che il danno, da tale fatto derivante, non trova giustificazione nell'ambito dell'ordinamento.
Sotto l'indicato profilo, ben si giustifica la norma in esame, che, in ipotesi del genere, non esclude l'applicazione della sanzione penale, ove il fatto sia previsto come delitto colposo. Invero, in tal caso non si realizza lo scopo per cui il fatto stesso è scriminato e, di conseguenza, trova attuazione la disciplina generale sulla repressione degli illeciti.
La norma, dunque, richiede che l'errore, in cui è incorso il soggetto, sia stato determinato da una sua colpa, cioè da sua negligenza, imprudenza o imperizia.
Si deve, al riguardo, precisare, che l'elemento della colpa è riferibile esclusivamente all'eccesso, il quale costituisce un quid pluris rispetto a quanto sarebbe stato strettamente necessario per porre in essere la condotta scriminata. L'evento, infatti, resta sempre conseguenza volontaria del comportamento del soggetto, per cui il reato rimane, sotto il profilo della struttura, doloso.
Ciò premesso, si osserva che la previsione è logica conseguenza dei principi relativi alla valutazione dell'elemento soggettivo, che, come è noto, rappresenta uno dei requisiti costitutivi della fattispecie integrante il reato. Infatti, nel caso in cui il soggetto abbia deliberatamente posto in essere una condotta eccedente i limiti imposti dalla norma, la fattispecie realizzata acquista le caratteristiche tipiche del reato doloso anche sotto il profilo della volontarietà della condotta, con particolare riferimento ai mezzi utilizzati.
In tal caso, pertanto, la scelta dei mezzi ovvero la prosecuzione della condotta penalmente illecita, deliberatamente effettuate, escludono un qualsiasi collegamento tra la situazione iniziale - che la legge considera determinante ai fini dell'esclusione dell'antigiuridicità del fatto - e l'evento volontariamente perseguito.
L'eccesso colposo deve essere distinto dall'erronea supposizione dell'esistenza di una scriminante. Infatti, mentre nel primo caso quest'ultima effettivamente esiste, anche se, per un errore di valutazione, ne vengono travalicati i limiti, nel secondo la relativa sussistenza è putativa, nel senso che essa esiste soltanto nella mente dell'agente.
La giurisprudenza ha esattamente rilevato, in proposito, che anche nell'ipotesi da ultimo considerata è possibile parlare di eccesso colposo, perché il soggetto sostanzialmente ritiene, per errore incolpevole, che esista una scriminante la quale è, in realtà, insussistente. Il suo comportamento, quindi, è determinato dalla convinzione di agire a tutela di uno di quegli interessi, in presenza dei quali la legge ritiene giustificata l'attività astrattamente illecita.
Tale forma di eccesso colposo è disciplinata dall'art. 59, c. 3°, c.p., il quale prevede che "se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo".
L'ambito di operatività della citata norma è, evidentemente, limitato alle ipotesi in cui l'erronea supposizione dell'esistenza di una scriminante sia fondata su dati di fatto concreti, idonei a giustificare un ragionevole convincimento circa la sussistenza di una situazione di pericolo. Non basta, cioè, un criterio meramente soggettivo che faccia leva unicamente sullo stato d'animo dell'agente, perché ciò contrasterebbe con quell'esigenza di tipicità delle fattispecie costituenti reato, cui è ispirato il nostro sistema penale. Tale considerazione si collega con la particolare natura che deve essere attribuita alle sciminanti, quali elementi estrinseci al reato, la cui sussistenza deve risultare da dati obiettivamente riscontrabili nella realtà.
L'efficacia scriminante delle fattispecie considerate, proprio perché fondata su elementi obiettivi, la cui sussistenza legittima, per ciò solo, la favorevole valutazione da parte dell'ordinamento, sussiste anche nell'ipotesi in cui l'agente ne ignori la ricorrenza (nel caso di specie art. 59, c. 1°, c.p.).
In effetti, tale previsione sembrerebbe contrastare con la considerazione, fatta propria da parte della dottrina, in base alla quale il fine sotteso ad ogni singola ipotesi di scriminante sarebbe essenziale per l'operatività della relativa norma. Di conseguenza, ove il soggetto nulla sappia dell'esistenza della circostanza, ovvero erroneamente la ritenga inesistente, non può agire a difesa di quel particolare interesse che la legge, prevedendo la non punibilità, intende tutelare.
Come sarà chiarito nei successivi paragrafi, la giurisprudenza, affrontando l'analoga fattispecie sotto il profilo civilistico del risarcimento del danno, ha adottato soluzioni equitative, al fine di operare un giusto contemperamento tra gli opposti interessi.
La soluzione offerta dal codice penale appare, invece, più orientata verso una maggiore tutela di colui che realizza la fattispecie costituente reato, ove, per le particolari circostanze obiettivamente sussistenti, non si ritiene necessaria l'applicazione della sanzione (continua).


(*) Queste pagine sono parte di capitolo della monografia di cui si riproduce l'indice indicativo dei contenuti del volume


LEGITTIMA DIFESA E STATO DI NECESSITA' NEL SISTEMA 
DELLA RESPONSABILITA' CIVILE'
Casa editrice Giappichelli


    1. Premessa


2. Presupposti della responsabilità civile: a) il fatto
3. b) l'elemento soggettivo
4. c) il danno ingiusto
5. d) il nesso di causalità
6. Gli atti leciti dannosi nella teoria della responsabilità civile


II


7. Legittima difesa e stato di necessità: considerazioni generali
8. La legittima difesa nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie
9. Lo stato di necessità nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie
10. Lo stato di necessità e la teoria dell'inesigibilità
11. La disciplina penale delle scriminanti

III

12. L'art. 2044 c.c.: caratteri della legittima difesa
13. Segue. I diritti tutelabili
14. Segue. Il pericolo
15. La proporzionalità tra l'offesa e la reazione. L'eccesso colposo di legittima difesa e la provocazione
16. La legittima difesa putativa

IV

17. La previsione dello stato di necessità nel codice civile
18. Il fondamento dello stato di necessità
19. Elementi costitutivi dello stato di necessità: il danno grave alla persona
20. Segue. Il pericolo di danno. Attualità, inevitabilità, involontarietà
21. Segue. In particolare: lo stato di necessità putativo
22. Segue. Il fatto necessitato dannoso
23. Il diritto sacrificato ed il criterio della proporzionalità
24. Il dovere di esporsi al pericolo
25. Il fatto colposo del terzo
26. Il soccorso necessitato
27. L'obbligazione indennitaria: natura e fondamento
28. La rilevanza dello stato di necessità nella responsabilità contrattuale