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Analisi economica del diritto e disciplina della proprietà. Materiali per una riflessione (*)

 

Guido Alpa, Mario Bessone, Andrea Fusaro




1. Diritto di proprietà, teoria economica, il metodo di law and economics

Delineare in modo esauriente lo scenario di insieme della letteratura in materia di proprietà e analisi economica del diritto non è qui possibile. Ma sembra tuttavia utile offrire una prima serie di indicazioni e materiali antologici per una più approfondita riflessione, precisandosi come si sia sia sviluppato presso gli studiosi di law and economics l’interesse per i problemi di disciplina giuridica della proprietà, specialmente quanto alla questione del conflitto tra massimizzazione del profitto del privato e domanda sociale di tutela degli interessi collettivi.

Forubotn e Pejovich, Property Rights and Economic Theory: A survey of Recent Literature,
in Journal of Economic Literature (1972, pp. 1137 ss.; trad. it. di G. Alpa).

Nel dopoguerra è emersa una tendenza critica della teoria tradizionale della produzione e dello scambio, con una sempre più viva attenzione per le nuove prospettive di analisi che tentano di sostituire il marginalismo classico o di estenderne gli scopi. Nell’ultima categoria si va raccogliendo un corpo di saggi intorno alla nozione di «struttura del diritto di proprietà». In questo settore i contributi sono assai diversi per stile e contenuto, ma sono connotati da una enfasi comune posta nella definizione di alcune idee relative alle interconnessioni dei diritti di proprietà, di incentivi e di comportamento economico. Proposito di questo saggio è di riassumere le linee essenziali di questa tendenza, esaminare alcune aree della sua applicazione e discutere l’assunto, sul quale si basa questo nuovo approccio, che cioè esso consente di intendere meglio i problemi economici.
La letteratura sul diritto di proprietà prende l’avvio dall’assunto che occorre introdurre modifiche alla struttura analitica tradizionale se è necessario elaborare modelli di più estesa applicazione. Pertanto si introducono numerosi e incisivi cambiamenti nella teoria della produzione e dello scambio. In primo luogo, si conferisce una interpretazione completamente nuova al ruolo degli operatori economici individuali che sono all’interno del processo produttivo con compiti decisionali. Non si considera più come fondamentale l’organizzazione di per sé; si ritiene piuttosto che i singoli individui ricerchino il proprio interesse e massimizzino l’utilità soggettiva nei limiti stabilita dalla struttura organizzatoria esistente. In secondo luogo, si tiene conto del fatto che possono esistere più modelli di proprietà e che non sempre è assicurata la massimizzazione del profitto (o della ricchezza). Considerato l’effetto dell’assegnamento dei diversi diritti di proprietà su un sistema di premio-sanzione, diventa possibile una analisi dettagliata delle interrelazioni tra risoluzione istituzionale dei conflitti d’interessi e comportamento economico. In terzo luogo, si ammette che in ogni caso di qualche rilievo i costi transattivi sono sempre superiori a zero. Da un punto di vista tecnico, occorre dire che queste idee trovano una applicazione corretta. Il procedimento corrente è quello di elaborare un modello ottimale che è analogo al caso della tradizionale massimizzazione del profitto, anche se generalmente diverso da esso. In ogni caso, è necessario definire la funzione di particolare utilità che riflette le preferenze di chi compie la decisione, e determinare il ventaglio di opzioni (sanzioni, premi) che si ricollega alle decisioni. Sorge allora il problema formale, e cioè quello di massimizzare la funzione dell’utilità che è assoggettata a tutte le limitazioni opposte dal ventaglio delle opportunità. È evidente che l’utilità di questi modelli dipende dall’abilità con cui si procede alla specificazione della funzione oggettiva e del ventaglio delle opportunità.
Il rifiuto della massimizzazione del profitto come fondamentale postulato comportamentistico, inteso a dare ragione delle decisioni degli operatori del settore economico, costituisce una tappa semplice ma molto importante. Ed infatti lo spostamento verso il criterio dell’utilità apre nuove possibilità di studiare diversi modelli di comportamento manageriale, e permette di osservare meglio le operazioni delle imprese in vari ambienti socio-economici. In altri termini, ciò accade perché anche se non si fa attenzione al numero, al carattere, alla diversità degli scopi stabiliti da un operatore decisionale individuale, gli scopi si possono sempre riguardare come oggetti di discussione in qualche tipo di funzione dell’utilità. E, come si è precisato, la funzione dell’utilità può esser massimizzata se è sottoposta ad adeguati limiti. È significativo il fatto che ogni operatore decisionale è spinto –così si assume– dal suo interesse egoistico e si sposta verso la migliore posizione operativa aperta seguendo il criterio dell’efficienza. Ne segue allora che, alle condizioni indicate, non viene rigettato il marginalismo; le tecniche standard sono semplicemente applicate in modo nuovo.
Per illustrare la funzione dell’utilità con una discussione che sia qualcosa di più di una semplice analisi formale, occorre compiere una interpretazione specifica. I commenti generali di Boulding sulla posizione «soggettivista» la rendono chiara:
«Se l’impresa sacrifica “profitti” (non importa in che modo siano commisurati) per altri scopi, per es. per prestigio, per il bene pubblico, per rapporti di lavoro, per una vita migliore, per liquidità, per sicurezza, o quel che volete, è chiaro allora che l’impresa non sta massimizzando il profitto. E allora se non massimizza il profitto vuol dire che sta massimizzando “utilità”, che poi è semplicemente il modo più sofisticato per dire che sta facendo quel che crede più opportuno. È difficile che questi assunti siano non veridici, ma non sono neppure molto utili, a meno che non li si utilizzi per riempire in qualche modo le funzioni dell’utilità che sono vuote». Con riferimento a questo argomento di discussione, l’approccio ai diritti di proprietà può esser inteso come il tentativo di formulare in modo empirico problemi di ottimalità con qualche significato associando la funzione dell’utilità all’operatore decisionale individuale, e quindi introducendo un contenuto specifico nella funzione. In tal modo, diventa possibile considerare il comportamento dell’operatore decisionale all’interno dell’impresa, dell’ufficio amministrativo governativo, o di simili enti collettivi.
L’altra idea chiave è che la diversa attribuzione di diritti di proprietà conduce a diverse strutture di sanzione-premio, e quindi è determinante per le scelte compiute dagli operatori decisionali. È evidente, allora che qui si cambia punto di osservazione.
Invece di considerare l’impresa come unità di analisi, e di assumere che si conferisce attenzione agli interessi dei proprietari nell’ottica della massimizzazione del profitto, il modello di massimizzazione del profitto pone l’accento sull’adattamento
individuale all’ambiente economico e tenta di spiegare il comportamento dell’impresa e di altre istituzioni, osservando le azioni individuali all’interno dell’organizzazione.In effetti, si offre una base di analisi per esaminare il nesso tra gli obiettivi degli operatori decisionali e le strategie particolari che si impiegano per realizzare quegli obiettivi. L’assunto è che una volta che siano note le motivazioni umane, diventa possibile una migliore allocazione dell’organizzazione e un miglior uso delle risorse.
Non è difficile accettare l’idea che i diritti di proprietà tendono a incidere sugli incentivi e sul comportamento. La letteratura di questo settore, comunque, definisce il concetto di proprietà con precisione e questo uso specifico richiede qualche commento.
Occorre notare in particolare che i diritti di proprietà non si riferiscono ai rapporti tra uomini e cose, ma piuttosto, alle relazioni comportamentali sottoposte a sanzioni che si istituiscono tra uomini e sorgono dall’esistenza di cose e riguardano il loro uso.
L’attribuzione di diritti di proprietà specifica le norme di comportamento con riferimento alle cose, regole che ciascuno deve seguire nei rapporti intersoggettivi, oppure sopportare il costo della loro violazione. Il sistema prevalente in materia di proprietà quindi può esser descritto come l’assetto delle relazioni economiche e sociali che definiscono la posizione di ciascun individuo rispetto alla utilizzazione di risorse di quantità limitata.
Da un punto di vista pratico, il compito fondamentale del nuovo approccio alla proprietà consiste allora nell’indicare che il contenuto dei diritti di proprietà incide sulla allocazione e sull’uso delle risorse seguendo moduli specifici e prevedibili […]. Questo assunto essenziale per il quale esistono rapporti sistematici tra i diritti di proprietà e le scelte economiche è soffuso in tutto il saggio, e ne costituisce il leitmotiv. A questo punto, è necessario mettere in luce con enfasi solo un altro punto. Anche se talvolta lo si dimentica, non ci dovrebbe esser confusione sul fatto che sia il commercio sia la produzione comportano accordi negoziali; e queste attività non esistono tanto per compiere scambi di beni e servizi ma piuttosto per permettere lo scambio di «fasci» di diritti di proprietà. […].
Il valore di ogni bene scambiato dipende, coeteris paribus, dal fascio di diritti di proprietà che si convogliano nella operazione negoziale. Tanto per esemplificare, il valore in case, per un individuo, è relativamente più alto se il fascio di diritti acquisiti comprende il diritto di escludere stazioni di rifornimento di carburante, industrie chimiche, ecc., dall’immediato circondario. Di conseguenza, un cambiamento nel sistema generale delle relazioni proprietarie non può che incidere sul modo nel quale i singoli si comportano e, attraverso questi effetti sul comportamento, l’attribuzione di diritti di proprietà incide sull’allocazione delle risorse, sulla composizione dell’output, sulla distribuzione del reddito, ecc. Al limite, si può dire, con A. Alchian, che: «In essenza, l’economia è lo studio di diritti di proprietà su risorse quantitativamente limitate.[…] E l’allocazione delle risorse in quantità limitate nella società consiste nell’attribuzione di diritti d’uso di quelle risorse […]. La questione dell’economia, cioè di come si determinano i prezzi, è la questione di come si debbono definire e permutare i diritti di proprietà, e a che condizioni».
Questo saggio riguarda particolarmente gli effetti dei diritti di proprietà sulla allocazione e sull’uso delle risorse. Il diritto di proprietà in una società, pertenga esso a privati o allo Stato, si ritiene consistere nel diritto di usare la proprietà, di cambiare la sua forma e la sua sostanza, di trasferire tutti i diritti mediante vendita o alcuni di essi medianti l’affitto. Comunque, anche se questa definizione lascia intendere che il diritto di proprietà è un diritto esclusivo, la proprietà non è – e difficilmente potrebbe esserlo – un diritto illimitato. Il diritto di proprietà è un diritto esclusivo solo nel senso che è limitato solo da quelle restrizioni che sono stabilite dalla legge, così come essa è interpretata nel volgere del tempo. Tali restrizioni possono essere sostanziali ovvero di scarso rilievo. Da un lato vi può essere, per es., il caso assai grave di un diritto di proprietà di un individuo che non può essere trasmesso a un prezzo più alto dell’indice massimo stabilito dal governo; dall’altro lato, c’è il caso del proprietario cui si impedisce di erigere una staccionata a meno di due piedi dal confine. In generale, dunque, si può dire che l’attenuazione di diritti di proprietà di privati e dello Stato, che si ottiene mediante l’imposizione di misure restrittive, incide sulle aspettative del proprietario in ordine agli usi in cui egli può usare la cosa, il valore della cosa per il proprietario e per gli altri, e di conseguenza, le condizioni del suo commercio.
Proprio in ragione di queste sue interrelazioni, il concetto di «attenuazione » è di grande rilievo; in questo saggio è sempre usato nel senso di una qualche restrizione di diversa intensità ai diritti del proprietario relativa a: 1) cambiamento di forma, sostanza, luogo della cosa; 2) trasferimento dei diritti di proprietà ad altri a un prezzo determinato di comune accordo. Per concludere, occorre sottolineare il fatto che la maggior parte delle restrizioni che qui si sono discusse sono imposte dallo Stato. Discutere del cambiamento dei diritti di proprietà significa allora discutere del cambiamento della allocazione delle risorse cui si dia veste legale.
In altre parole, come ha sottolineato Samuels: «Le opportunità di guadagno, cioè di entrate economiche o di altri vantaggi, aumenta per chi può ricorrere ai favori del governo […]. Se la distribuzione del reddito e la allocazione dei rischi è una funzione del diritto (di proprietà) allora il diritto è un oggetto di controllo del guadagno economico o di diversa natura […] si tratti di protezioni tariffarie, di sussidi di diversa natura, ecc.» Ne consegue, allora, che la teoria del diritto di proprietà non è completa senza una teoria dello Stato. Sfortunatamente, non ne esistono, al momento. È pur vero che le ricerche in atto di J. Buchanan, di R. Mc Kean, di W. Niskanen, di D. North e G. Tullock o di altri studiosi promettono di riempire la lacuna, ma questa linea generale di analisi è ancor lontana dal suo compimento.
Sembra importante sottolineare qui che per capire la burocrazia e lo Stato occorre considerare il comportamento della massimizzazione dell’utilità individuale. Il professor North argomenta che lo Stato frequentemente ha commerciato in modo inefficiente i diritti di proprietà (per es., la licenza di operare in un mercato chiuso) per ottenere entrate e nel far così ha strozzato la crescita economica. In realtà si può dire che i cambiamenti nel contenuto dei diritti di proprietà dipendono dalle relazioni tra una scelta di benefici compiuta ex ante a vantaggio della classe dominante, ottenuti da un cambiamento dell’assetto dei diritti di proprietà esistenti, e i costi calcolati ex ante oppure ex post in cui si incorre, per rafforzare la struttura di quei diritti che si è così mutata.

Costi transattivi e disciplina della proprietà: la tesi di Poster.

Negli anni recenti di questa problematica si sono impadroniti i giuristi, studiando gli effetti economici delle norme giuridiche, e le possibili interpretazioni «razionali» in chiave di efficienza economica. Richard Posner è l’esponente più noto della Scuola di Chicago, anche per la chiarezza espositiva dei suoi saggi, e per la fortuna che contrassegna il suo manuale di analisi economica del diritto, ormai giunto alla seconda edizione (Economic Analysis of Law, Boston-Toronto, 1977). È anche l’autore sul quale si sono appuntate le critiche più vivaci nella letteratura nordamericana e in quella italiana (da ultimo vd. Polinsky, Economic Analylis as a Potentially Defective product: A Buyerís Guide to Posnerís «Economic Analysis of Law», in Harvard Law Review, 1974, pp. 1655 ss.; Alpa, Colpa e responsabilità nella prospettiva di una analisi economica del diritto, in Politica del diritto, 1976, pp. 431 ss.; la difesa delle tesi di Posner è efficacemente assunta da Pardolesi, Azione reale e azione di danni nell’art. 844 del Codice civile. Logica economica e logica giuridica nella composizione del conflitto tra usi incompatibili delle proprietà vicine, in Foro it.;1974; le premesse economiche della tesi di Posner sono esaminate da Pulitini, Regole giuridiche e teoria economica, in Politica del diritto, 1977, pp. 297 ss. per alcuni cenni vd. Bessone, Responsabilità civile, assicurazione e costo sociale dell’illecito, ora in Saggi di diritto civile, 1979, pp. 243 ss.).


R. Posner, Economic Analysis of Law (Boston-Toronto, 1977, pp. 20 ss.; trad. it. di G. Alpa).

Gli economisti distinguono tra analisi statica e analisi dinamica. L’analisi statica trascura la dimensione temporale delle attività economiche: essa muove dall’assunto che tutti gli adattamenti per cambiare la situazione preesistente avvengono istantaneamente. Questo assunto, ovviamente, non è realistico, ma può esser utile […]. L’analisi dinamica attenua invece questo assunto, ed è considerata molto più complessa, anche se più moderna, dell’analisi statica. È interessante perciò notare che i fondamenti economici della disciplina della proprietà sono stati individuati proprio nella prospettiva dinamica già dall’inizio. Si consideri una società nella quale tutti i diritti di proprietà sono stati aboliti. Un agricoltore semina del grano, lo cura con fertilizzanti, lo protegge con spaventapasseri, ma quando il grano è maturo il suo vicino lo ruba e se lo vende. L’agricoltore non ha alcun rimedio giuridico nei confronti del vicino che si è comportato in quel modo, proprio perché non è né proprietario della terra, né proprietario del grano. Dopo qualche ulteriore incidente la coltivazione della terra finisce per essere abbandonata e la società si rivolgerà a perseguire metodi di sussistenza (come la caccia) che comportano investimenti futuri meno impegnativi.
Come suggerisce questo esempio, la protezione giuridica dei diritti di proprietà ha la importante funzione economica di creare incentivi per usare in modo efficiente le risorse. Sebbene il valore del grano, nel nostro esempio commisurato alla volontà di acquistarlo da parte del consumatore, possa esser risultato assai alto, eccedendo i costi, in termini di lavoro, materiali impiegati e le altre utilizzazioni della terra cui si è rinunciato, senza il riconoscimento di diritti di proprietà non vi è incentivo ad accollarsi questi costi dal momento che non vi sono assicurazioni certe che essi verranno in qualche modo remunerati. L’incentivo più appropriato consiste nel distribuire la terra in lotti tra i consociati in modo da farli partecipi delle risorse, conferendo loro diritti esclusivi su di esse. Se ogni appezzamento è di proprietà di un singolo soggetto, – in altri termini, se vi è sempre un individuo che può escludere tutti gli altri dall’accesso a un’area determinata – allora gli individui si sforzeranno di massimizzare il valore della terra con la coltivazione e con altri mezzi di sfruttamento.
Tutto ciò è patrimonio della cultura da molti secoli. Per converso, l’analisi statica della disciplina della proprietà è vecchia solo di mezzo secolo. Si consideri un gruppo di agricoltori che possiede dei pascoli in comune. In questa situazione, nessuno ha il diritto di escludere tutti gli altri dall’uso del pascolo. Si può per questo esempio fare un’astrazione, e immaginare che non si è in presenza di una proprietà dinamica, ma che, per es., la terra non è coltivata. Anche così, però, è chiaro che ogni incremento nel numero dei capi di bestiame portati a pascolare su quell’area comporta un costo maggiore per tutti gli agricoltori; le bestie dovranno pascolare in modo ordinato, per poter mangiare tutte la stessa quantità di erba; e ciò ovviamente ridurrà il loro peso. Tuttavia, proprio perché nessuno degli agricoltori pagherà per l’uso del pascolo, non si terrà in conto l’aumento dei costi nel decidere se conviene o no aumentare il numero dei capi; ne conseguirà che si riterrà opportuno aumentare il numero dei capi. (Riuscite a vedere una connessione tra questa situazione e quella della congestione del traffico nelle autostrade?). Il problema cambia se la terra è di proprietà di un soggetto e se questi richiede di esser pagato per il suo uso (per semplicità di analisi, trascuriamo in questo esempio di considerare i costi dei tributi sulla terra). La somma richiesta a ciascun agricoltore includerà allora i costi che gli agricoltori dovranno sopportare perché uno di loro ha aumentato il numero dei suoi capi di bestiame, perché questo costo riduce il valore del pascolo per gli altri e quindi anche il prezzo che essi sono disposti a pagare al proprietario per l’uso del pascolo.
La creazione di «diritti di esclusiva», come negli esempi che si sono enunciati, è una condizione necessaria, piuttosto che non sufficiente per l’uso efficiente delle risorse: i diritti di proprietà debbono essere oggetto di traslazione. Si supponga che l’agricoltore del primo esempio sia proprietario della terra che coltiva ma un po’ pigro; è chiaro che la sua terra potrebbe essere più produttiva nelle mani di qualche altro. La massimizzazione del valore esige che si ponga in essere un meccanismo che induca l’agricoltore a trasferire i suoi diritti ad altri, che ne ricavino un prodotto più alto; questo meccanismo è appunto dato dal diritto di proprietà alienabile. Si consideri l’agricoltore A, titolare di un diritto di proprietà su di un terreno che gli rende 100 dollari l’anno, indefinitamente, in eccedenza rispetto al lavoro e ad altri costi.
Proprio come accade per il prezzo di una cedola azionaria che esprime il valore attuale dei guadagni anticipati cui l’azionista ha diritto, così si può calcolare il valore attuale di un appezzamento di terreno che si prevede rendere un guadagno netto di 100 dollari l’anno; esso è dato dal prezzo minimo che A è indotto ad accettare per cedere il suo diritto di proprietà. Si supponga anche che l’agricoltore B ritenga di esser in grado di usare la terra di A in un modo più produttivo di quanto non faccia A; per es., di esser capace di guadagnare più di 100 dollari netti all’anno, lavorando la terra di A. Il valore attuale del flusso di guadagni sperati di B sarà allora più alto del valore attuale calcolato da A. Si supponga che il valore calcolato da A sia di 1.000 dollari e quello calcolato da B sia di 1.500. Al prezzo di 1.250 dollari A riceverà di più di quanto credeva di stimare la sua terra, e B pagherà 250 dollari in meno di quanto fosse il valore della terra.
C’è pertanto un forte incentivo a indurre le parti a scambiarsi la terra con una somma di danaro; e se B è davvero un agricoltore migliore di A si registrerà anche un incremento nella produzione della terra […] e l’efficienza nell’uso delle risorse economiche è quindi massimizzata. La discussione che si è avviata suggerisce tre criteri di costruzione di un sistema efficiente dei diritti di proprietà. Il primo è l’università. Idealmente, tutte le risorse dovrebbero essere di proprietà di qualcuno, a eccezione delle risorse che sono così abbondanti che ciascuno può consumarne quante ne crede senza ridurre l’accessibilità alle risorse da parte degli altri (la luce del sole è un esempio corretto, ma non perfetto – perché?). In questo caso non emerge alcun modello di uso efficiente delle risorse.
Il secondo criterio – che tuttavia richiede, come si vedrà, un’attenta qualificazione
• è l’esclusività. Negli esempi indicati si è partiti dall’assunto che l’agricoltore può escludere tutti gli altri, oppure che l’agricoltore non può escludere nessuno; ci sono però delle altre possibilità, intermedie: l’agricoltore può escludere gli altri impedendo che essi gli rubino il grano, ma non il governo, in tempo di guerra. Può apparire che più completo ed esclusivo sia il diritto di proprietà, più alto sia di conseguenza l’incentivo a investire la quantità esatta di risorse nello sfruttamento della proprietà. Si supponga che il nostro agricoltore ritenga di poter allevare un maiale del prezzo di mercato di 100 dollari con un costo di soli 50 dollari di lavoro e di altre spese; e che ritenga ancora che non vi siano combinazioni alternative di risorse e uso della terra tali da consentirgli di ricavare un guadagno superiore, dal momento che l’uso migliore della terra potrebbe offrirgli un guadagno netto di soli 20 dolla-ri
• Ma si supponga, ora, che il suo diritto di proprietà sia caratterizzato da due situazioni: e cioè che l’agricoltore non abbia alcuna possibilità di prevenire gli incendi che si potrebbero sviluppare per effetto dello spargimento di scintille che provengono dall’adiacente strada ferrata, e potrebbero distruggere il recinto dove è custodito il maiale e magari ucciderlo prematuramente; e ancora che egli non sia in grado di prevenire la decisione governativa di destinare la zona nella quale è compreso il suo terreno a edilizia residenziale, sì da costringerlo a vendere il maiale a un prezzo inferiore. In presenza di queste circostanze, egli deve senz’altro valutare in modo diverso la sua terra: deve ridurre i 100 dollari prevedendo che potrebbe guadagnare molto meno, forse nulla. E si supponga che dopo aver ridotto questa somma, sia ridotto anche il guadagno che egli si riprometteva di ricavare dalla vendita del maiale, potendone ottenere solo 60 dollari. La conclusione è che non alleverà il maiale, ed egli si rivolgerà a un uso migliore della terra, proprio a quello che in prima analisi aveva ritenuto il peggiore.
Questa analisi, ovviamente, non è completa. Abbandonare l’allevamento del maiale può essere più vantaggioso perché si risolve in un incremento del valore delle aree residenziali circostanti, maggiore della riduzione del valore risentita dalla terra dell’agricoltore. D’altra parte, il costo per prevenire l’emissione di scintille può esser più alto della riduzione di valore della terra quando l’agricoltore passa dall’allevamento di maiali alla coltivazione di vegetali.
Il lettore attento può anche suggerire di lasciar acquistare la terra a chi ne ricaverebbe un utile maggiore di quello che ne ricava l’agricoltore: la società ferroviaria potrebbe acquistare un diritto di servitù per poter liberamente emettere scintille; i proprietari degli appartamenti vicini potrebbero accordarsi con l’agricoltore pagandogli una somma perché rinunci all’allevamento dei maiali; non c’è ragione di non porre limiti al diritto di proprietà dell’agricoltore. Spesso però […] il costo di traslazione del diritto di proprietà – i costi transattivi – sono proibitivi, e se ciò accade, il diritto esclusivo di proprietà può ridurre, anzi che promuovere, un uso efficiente delle risorse.
Il terzo criterio per un sistema efficiente di disciplina della proprietà è quello della traslazione. Se un diritto di proprietà non può esser trasferito, le risorse non saranno amministrate in modo da essere convogliate agli usi migliori mediante trasferimenti volontari. E anche se la traslazione del diritto di proprietà è consentita, il costo del trasferimento può esser così alto da risultare in qualche modo proibitivo, richiedendo quindi la modificazione del criterio della esclusività. […] Uno stabilimento industriale emette fumi delle ciminiere che sporcano la biancheria stesa dai balconi dei palazzi vicini e contribuisce ad aumentare le malattie respiratorie contratte nella zona. Dal punto di vista dell’analisi, la situazione non è molto diversa da quella che si è prima considerata in ordine alle scintille di fuoco: occorre allocare diritti e responsabilità in modo tale da rendere minima la somma dei costi derivanti dal fumo e i costi necessari per prevenirlo. Tra i modi possibili di prevenzione, vi è quello secondo il quale lo stabilimento potrebbe installare un apparecchio di depurazione; oppure, potrebbe essere chiuso lo stabilimento; oppure ancora i proprietari vicini potrebbero a loro volta adoperare depuratori privati, oppure allontanarsi dalla zona inquinata.
La questione che si deve affrontare, e cioè quali di questi metodi sia il più conveniente, è però più difficile da risolvere che non nel caso delle scintille: in primo luogo, perché non si sa molto sull’effetto dell’inquinamento sulla salute umana, e poiché i costi dell’inquinamento sono difficili da calcolare. La scelta dell’assetto iniziale del diritto di proprietà è assai delicata, dal momento che altri costi transattivi possono rendere impossibile la rettifica dell’assetto iniziale, che si è rilevato errato, attraverso successive transazioni di mercato. È ora il momento di indagare più da vicino le cause di altri costi transattivi. Il fattore che di solito è considerato dagli economisti è quello che le parti della transazione siano molto numerose. Ma altri fattori, per es., l’incapacità di intendere e di volere, possono risultare rilevanti in certe situazioni. Ma non si deve neppur credere che il basso numero di parti si colleghi al basso costo delle transazioni. Se vi sono le condizioni per un monopolio bilaterale in una transazione a due – per es., se nessuna parte ha buone alternative per contrattare con l’altra – i costi transattivi possono pur sempre risultare alti.
Le negoziazioni per transigere in un procedimento giudiziario ne sono un esempio. L’attore può accordarsi solo con il convenuto, e viceversa. Vi è sempre una serie di prezzi ai quali ciascuna può preferire di transigere la lite, piuttosto che sopportare gli alti costi del procedimento. Le parti possono sprecare molto tempo e fare molte spese per arrivare a una transazione; ciascuna di esse può sperare di ottenere una porzione più alta di guadagni dalla transazione, e quindi esse non riusciranno mai a mettersi d’accordo.
I costi transattivi sono certamente più alti quando gli elementi del monopolio bilaterale coincidono con un largo numero di parti – una coincidenza certo possibile. Ad esempio, se i proprietari delle abitazioni che circondano la fabbrica inquinante hanno un diritto a non essere inquinati, la fabbrica deve trattare con ciascuno di loro per acquistare il diritto a inquinare. È sufficiente che solo uno dei mille proprietari rifiuti di scendere a patti perché i permessi acquisiti dalla fabbrica trattando con gli altri 999 non abbiano alcun rilievo. E proprio perché l’unico recalcitrante può riuscire a strappare un prezzo molto alto […] ogni proprietario sarà disposto a tergiversare con la fabbrica; e il processo di transazione può essere protratto per un periodo indefinito di tempo.
Se i proprietari non hanno, per contro, alcun diritto, e la fabbrica ha il diritto di inquinare, i proprietari debbono, questa volta, accordarsi per acquisire dalla fabbrica il diritto a non essere inquinati. Anche in questo caso comunque i costi transattivi potrebbero essere alti. Ogni proprietario potrebbe avere l’uzzolo di non scendere a patti con l’impresa. Egli penserà: se rifiuto di corrispondere la mia parte di danaro, vi saranno comunque molti altri disposti a pagare di più (e quindi anche per me) perché più insofferenti dell’inquinamento. La fabbrica sarà allora indotta a far cessare l’inquinamento; e io ne beneficerò come gli altri, ma «a costo zero». Potrebbero esserci molti proprietari che si comportano così, e pertanto i costi transattivi potrebbero essere molti alti, e la transazione addirittura impossibile. In presenza di alti costi transattivi, i diritti di esclusiva, siano essi destinati a far cessare l’inquinamento o no, probabilmente promuovono l’inefficienza. Se la fabbrica ha il diritto di inquinare, e i costi transattivi sono alti, non vi sarà alcun incentivo a ridurre o a far cessare l’inquinamento, anche se questi costi, e pertanto i costi transattivi, potrebbero essere molto altri. I proprietari non avranno alcun incentivo a prendere accordi per far cessare l’inquinamento o per tollerarne un po’, anche se i costi per ridurlo sono inferiori a quelli che la fattoria risente per non potere inquinare.
Nel Common Law si riconobbe sempre il rischio di assegnare diritti di esclusiva agli inquinatori o ai proprietari che ne erano vittima. Secondo i principi che regolano le immissioni (nuisance) o altri diritti connessi all’uso delle acque (water rights), le corti hanno seguito il criterio dell’uso ragionevole. L’inquinamento era ammesso se a livelli considerati ragionevoli con riguardo alle circostanze: ciò significava (approssimativamente, però) che se i benefici ottenuti dall’inquinamento superavano i costi risentiti dalle vittime, l’inquinamento era ammesso, e viceversa […]. Corretto in linea di principio, questo approccio non ha avuto gran successo nella prassi, per due motivi: la difficoltà di individuare i livelli di inquinamento di particolari risorse; l’assenza di un meccanismo processuale per riunire tutte le domande di risarcimento di modestissima entità. Se nessuna delle vittime ha sofferto un danno almeno eguale al costo per avviare un procedimento giudiziario nei confronti dell’impresa, non vi sarà alcuna azione in giudizio anche se la somma di tutti i danni risentiti eccede di gran lunga i benefici risentiti dall’impresa per continuare a inquinare […].
Un’altra possibilità nella soluzione del problema è data dalla disciplina dei danni da boom supersonico. I proprietari di aerei che volano ad altezze modeste sono responsabili per i danni risentiti dai proprietari di cose in superficie per la diminuzione del valore delle loro cose dovuta al fastidioso rumore provocato dal sorvolo, senza riguardo alcuno al fatto che i costi del proprietario eccedano, o no, i benefici del volo. […] Quando il costo dei procedimenti per ridurre o eliminare il rumore è maggiore del danno sofferto dai proprietari in superficie, la società aerea cercherà probabilmente di acquisire un diritto di sorvolo. E se i danni da rumore sono maggiori dei costi per eliminare il rumore, la società aerea cercherà di adottare quelle misure per evitare i rumori.

Costi transattivi e disciplina della proprietà: la tesi di Calabresi e Melamed

Alla tesi di Posner, che riflette la concezione neo-liberista della Scuola di Chicago, si contrappone, pur in una omogenea prospettiva ideologica, la tesi di GuidoCalabresi, docente dell’Università di Yale, assai noto in Italia, sia per le sue origini italiane, sia per i suoi frequenti soggiorni di studio nel nostro Paese, sia (sopratutto) per l’acutezza delle sue indagini. A questo proposito si deve segnalare il fatto che la prima recensione del libro che ha reso famoso Calabresi, comparsa con il titolo Economia e diritto nella responsabilità civile in Politica del diritto,1971, pp. 353 ss., si deve a Pietro Trimarchi, studioso che in via autonoma,e con risultati spesso affini a quelli di Calabresi, ha innovato il metodo di analisi interpretativa in Italia negli anni Sessanta, con un saggio in materia di responsabilità civile (Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961).
Il primo libro di Calabresi, tradotto da A. De Vita, V. Varano e V. Vigoriti, e prefato da S. Rodotà, è stato pubblicato da Giuffrè con il titolo Costo degli incidenti e responsabilità civile (Milano, 1975). L’opera di Calabresi è ricca di intuizioni che uniscono alla finezza dell’interpretazione giuridica la solidità della sua preparazione economica. Ne danno prova le numerose recensioni (tra cui quella preparata da G. Ferrarini al libro che l’A. ha scritto in collaborazione con Bobbit, Tragic Choices, compresa in Politica del diritto, 1978, pp. 85 ss.) e i numerosi riferimenti che si riscontrano nei lavori manualistici (per talune esemplificazioni vd. Alpa e Bessone, La responsabilità civile, Milano, 1980, pp. 214 ss.).

Calabresi e Melamed, Property Rules, Liability Rules and Inalienability: One View
of the Cathedral
(in Harvard Law Reveview, 1972, pp. 1089 ss.; trad. it. di G. Alpa)

È raro che si conducano analisi della proprietà e della responsabilità civile in una prospettiva unificante. Recenti saggi scritti da giuristi con aperture all’analisi economica e da economisti con riferimenti agli strumenti giuridici indicano tuttavia che sarebbe assai utile per chi inizia a studiare diritto, ma anche per gli studiosi più raffinati, un tentativo di integrare gli aspetti assai vari dei rapporti giuridici con l’analisi economica. Svolgendo un concetto di «titolo» (o di «legittimazione») connesso con la disciplina della proprietà, della responsabilità, della inalienabilità dei beni, noi tentiamo, in questo saggio, di offrire un modello di questo approccio […]. Il primo problema che si deve affrontare in ogni ordinamento è quello che si è definito del «titolo» e della «legittimazione». Quando si presenta una situazione nella quale si riscontra un conflitto di interessi tra due o più soggetti, tra due o più gruppi, occorre decidere quale parte deve essere privilegiata. Se non si dovesse compiere questa decisione, l’accesso ai beni, ai servizi, la vita stessa sarebbero decisi sulla base del principio «il potere dà il diritto» – ovvero, che chi è più forte o più scaltro prevarrà sugli altri. Pertanto, lo scopo fondamentale delle regole di diritto è di decidere quali delle parti in conflitto ha titolo per prevalere. La legittimazione «a creare rumori» contro la legittimazione a essere circondati dal silenzio; la legittimazione a inquinare contro la legittimazione a respirare aria pura; la legittimazione ad avere figli contro la legittimazione a non volerne– questi sono i tipi principali di decisioni operate dalla legge.
Operata la sua scelta iniziale, la società deve anche rafforzarla. Il semplice riconoscimento della legittimazione non risolve di per sé il problema che «il potere fa il diritto»; è sempre necessario infatti un minimo intervento dello Stato. Il nostro comune bagaglio culturale ci consente di capirlo agevolmente se esaminiamo questo problema nella prospettiva della disciplina della proprietà privata. Se A possiede un campo di cavoli, e B, che è più grosso e forte, ne vuole uno, se lo prenderà, a meno che non intervenga lo Stato. Ma questa soluzione non è così ovvia se si è scelto l’opposto assetto di interessi, la proprietà collettiva. Se il forte B ha coltivato cavoli nella proprietà collettiva, e vuole negarne l’uso ad A, che è più debole, occorrerà l’azione dello Stato per legittimare A a pretendere parte dei cavoli di proprietà collettiva. E lo stesso modello di rapporti si applica anche al caso di integrità fisica.
Basta considerare la situazione di una debole creatura, un uomo di cinquanta chili,in un ordinamento che nominalmente gli garantisce il diritto alla integrità fisica, ma non interviene per rendere effettivo quel diritto contro gli appetiti vogliosi di una forzuta Giunone. E si consideri ancora il caso di un gracile ometto che desidera spasmodicamente una Giunone indifferente in un ordinamento che nominalmente consente a ciascuno di usare a proprio piacimento il corpo degli altri. L’esigenza di un intervento dello Stato risulta non molto più complicata nel caso di lesioni alla integrità fisica. Se si lascia il danno dove cade, in un sinistro stradale, certo nessuno crede che ciò accade perché Dio ha decretato così. È piuttosto perché lo Stato ha assicurato al danneggiante un diritto di non essere assoggettato a responsabilità, e interverrà per evitare che gli amici della vittima, se sono più forti, possono rivalersi sul danneggiante chiedendogli soddisfazione. La perdita è allocata in modo diverso in altri casi, perché lo Stato può assicurare anche un risarcimento alla vittima, e quindi intervenire per evitare che il danneggiante rifiuti recisamente ogni risarcimento alla vittima stessa.
Lo Stato non deve soltanto decidere sulle legittimazioni, sui titoli e sui diritti; deve anche compiere contemporaneamente un secondo tipo di decisioni. Queste decisioni riguardano il modo nel quale questi diritti sono protetti e se un soggetto può disporre del suo diritto a vantaggio di altri. In ogni conflitto di interessi, per es., lo Stato non deve soltanto stabilire chi prevarrà, ma anche che tipo di tutela occorrerà apprestare al vincitore. È appunto di queste decisioni del secondo tipo – decisioni che modellano i rapporti tra la parte vittoriosa e la parte perdente – che si tratterà in questo articolo. Si considereranno tre tipi di situazioni soggettive attive: quelle collegate alla disciplina della proprietà, quelle collegate alla disciplina della responsabilità civile, quelle collegate alla disciplina dei diritti indisponibili. Queste categorie non sono distinte nettamente; ma usare queste categorie è utile perché ci consente di individuare alcune ragioni che proteggono certe situazioni soggettive in certi modi.
Una situazione soggettiva può essere protetta dalla disciplina della proprietà nel senso che chi intenda acquistare un diritto dal suo titolare deve ottenerlo sulla base di un accordo volontario nel quale il valore economico di quel diritto è fissato dal venditore. Si tratta del tipo di diritti che provoca il minor numero di interventi da parte dello Stato: una volta che si è compiuta la decisione su quel diritto, lo Stato non cerca di imporre i suoi valori. Si lascia alle parti la scelta di determinare il proprio interesse alla titolarità di quel diritto, e al venditore la possibilità di opporre un rifiuto se l’acquirente non offre quanto basta. Le regole sulla proprietà comportano una decisione della collettività su chi deve esser titolare del diritto, ma non su quanto si deve pagare per acquistarlo.
Benché sia consentito che un soggetto possa distruggere la cosa di cui è titolare,e quindi dissolvere il suo diritto di proprietà che insiste su di essa, versandone il corrispettivo per il valore distrutto, il diritto è protetto da una regola di responsabilità civile. E il valore è dato dalla somma alla quale il titolare del diritto avrebbe venduto la cosa. Ma le richieste del titolare ad avere di più non hanno pregio, una volta che si è fissato il valore oggettivo della cosa. È chiaro comunque che le regole di responsabilità comportano uno stadio ulteriore dell’intervento dello Stato: non solo si proteggono i diritti, ma il loro trasferimento o la loro estinzione è ammessa sulla base di criteri di valori determinati da un organo dello Stato piuttosto che non dalle parti medesime.
Un diritto non è trasferibile quando la sua trasmissione tra un compratore che vorrebbe acquistarlo e un venditore che vorrebbe venderlo non è consentita. Lo Stato interviene allora non solo nello stabilire chi è l’originale titolare del diritto, e per determinare il risarcimento che deve essere pagato se il diritto si estingue per opera di terzi, ma anche per proibire il suo trasferimento in presenza di alcune (o di tutte le) circostanze. Malgrado tale normativa, le regole di inalienabilità non solo «proteggono» il diritto; esse si possono anche esaminare nella prospettiva di apporre limiti o restrizioni alla tutela del diritto stesso.
Dovrebbe essere allora chiaro che la titolarità di diritti su cose presenta un assetto assai variegato. La casa di A può esser protetta in una situazione dalla disciplina della proprietà in cui B desidera acquistarla, da una regola di responsabilità quando lo stato intende espropriarla, e da una regola di inalienabilità quando A è ubriaco o incapace. In questo saggio si analizzeranno due questioni fondamentali: 1) In quali circostanze si deve tutelare un particolare diritto? 2)In quali circostanze si deve decidere di proteggere quel diritto ricorrendo a una regola di proprietà, di responsabilità o di inalienabilità?
Quali sono le ragioni per decidere di legittimare i singoli a inquinare o a proibire l’inquinamento, ad avere liberamente figli o a limitare la procreazione, a possedere la loro proprietà o a dividerla con altri? Esse si possono raggruppare in tre ca-pitoli: (A) l’efficienza economica, (B) le preferenze nella distribuzione, (C) e altre considerazioni di giustizia.

L’efficienza economica

Forse la ragione più semplice per attribuire un particolare diritto può esser quella della riduzione massima dei costi di amministrazione della sua titolarità effettiva. Questa era per es. la ragione che diede Holmes quando teorizzò che i costi, negli incidenti, debbono esser lasciati dove cadono, a meno che non si ottenga qualche evidente beneficio sociale nel trasferirli altrove. In sé e per sé questa ragione giustifica soltanto un risultato: quello di lasciar vincere il più forte, perché ovviamente quel risultato renderà minimi i costi di amministrazione. L’efficienza nell’amministrazione può tuttavia esser rilevante nella scelta dei diritti e della loro attribuzione anche quando si considerano altre ragioni. Ciò può accadere per es. quando le motivazioni accolte sono indifferenti quanto ai diritti in conflitto, ed è più conveniente render effettivo un diritto piuttosto che altri. Può anche accadere quando le motivazioni non sono del tutto indifferenti, ma danno solo deboli supporti alla preferenza di un diritto piuttosto che un altro e il primo costa molto di più, nella sua amministrazione, del secondo.
L’efficienza amministrativa è però soltanto uno degli aspetti del concetto più ampio di efficienza economica. L’efficienza economica richiede che si dia un assetto ai diritti individuali in modo che esso conduca all’allocazione delle risorse migliore, che non può più esser massimizzata; in altri termini, in modo che un ulteriore mutamento non migliorerebbe la condizione di coloro che ne hanno tratto profitto, sì da poter compensare coloro che ne hanno tratto svantaggio, e continuare a mantenere una posizione migliore della precedente. Questo sistema è spesso definito «ottimalità di Pareto».Tanto per offrire due esempi: l’efficienza economica richiede quella combinazione di interessi confliggenti che consente di svolgere attività rischiose e nel contempo di sottrarsi ai danni che ne derivano, che conduce al costo più basso degli incidenti e al costo più basso per evitare gli incidenti. E richiede quella forma di proprietà privata o collettiva che comporta il prodotto più alto, comprato allo sforzo per produrlo.
Di recente si è sostenuto che – a certe condizioni, di solito definite in termini di «assenza di costi transattivi», l’ottimalità di Pareto o l’efficienza economica si può ottenere senza avere alcun riguardo alla attribuzione dei diritti. Ma per accogliere questa tesi, l’espressione «nessun costo transattivo» deve esser intesa in senso estremamente lato, nel senso cioè di perfetta conoscenza della situazione e assenza di ogni costo o impedimento nelle negoziazioni. I costi di negoziazione includono, per es., il costo di escludere dai vantaggi che si ottengono nelle contrattazioni di mercato i «portatori immuni». In una società così concepita, senza frizioni, le negoziazioni avvengono finché è possibile allontanare qualcuno dal mercato senza aggravare la posizione di altri. Questa è la necessaria – anche se tautologica – definizione di ottimalità paretiana e di costi transattivi che si è assunta.
Ma questo discorso non conduce di certo al risultato che vi è la medesima allocazione delle risorse anche senza considerare l’iniziale assetto di interessi. La volontà di A di «fare rumore» dipende da quanto è ricco; la volontà di B di pagare per avere silenzio può dipendere dalla sua ricchezza. In una società che attribuisce ad A il diritto di fare rumore e a B la possibilità di pagare per avere silenzio, A è più ricco e B più povero di quanto essi sarebbero se vivessero in una società fondata sull’opposto assetto degli interessi. Proprio perché dipende dal livello di desiderabilità del silenzio da parte di B e del rumore da parte di A, che varia con la loro ricchezza, il diritto di fare rumore condurrà a negoziazioni che comportano un quantum di rumore diverso dal quantum che si potrebbe concordare per il silenzio in altre contrattazioni. Questa variazione della quantità del rumore e del silenzio può considerarsi proprio come un esempio dell’assunto corrente che la soluzione di ottimalità paretiana o di efficienza economica varia con l’iniziale distribuzione della ricchezza. L’ottimalità di Pareto è l’ottimalità data una determinata distribuzione di ricchezza e quindi diverse distribuzioni di ricchezza implicano una propria allocazione ottimale (nel senso paretiano) delle risorse.
Tutto ciò spiega perché diverse forme di distribuzione della ricchezza possono incidere sulle scelte di una società in ordine alla attribuzione dei diritti. Non spiega invece perché l’efficienza economica dovrebbe incidere su quelle scelte, se si assume che non vi siano costi transattivi. L’assunto che non vi sono costi transattivi può essere un utile punto di partenza, come l’assunto che i fisici considerano dell’assenza di frizioni, o come la legge di Say in macroeconomia; è un espediente che ci serve per vedere come, nella misura in cui diversi elementi che sono denominati «costi transattivi» diventano rilevanti, i risultati dell’efficienza economica cominciano a preferire un determinato assetto dei diritti anziché uno diverso.
Poiché uno di noi ha scritto diffusamente intorno al modo nel quale la società, in presenza di vari tipi di costi transattivi, decide l’assetto degli interessi nel settore della responsabilità per incidenti, è sufficiente ripetere qui: 1) che il modello di efficienza economica di per sé indica quell’assetto di interessi che privilegia scelte che riescano a distinguere consapevolmente tra benefici sociali e costi sociali necessari per ottenerli;
2) che in assenza di certezze sul fatto che un beneficio valga il costo cagionato alla società, ciò implica che il costo dovrebbe esser accollato alla parte o a quella attività che meglio è in grado di poter compiere questa analisi costi- benefici; 3) che in particolari situazioni, come gli incidenti o l’inquinamento, ciò significa dover accollare i costi a quella parte che è meglio in grado di evitarli nel modo più conveniente;
4) che in assenza di certezza sulle identità di quel soggetto o di quella parte, i costi dovrebbero essere accollati a quella parte o a quella attività che può agire nel mercato con i più bassi costi transattivi per correggere un errore nell’assetto degli interessi, inducendo la parte che può evitare nel modo più conveniente i costi sociali a operare in questo senso; 5) che dal momento che ci troviamo in un’area nella quale il mercato non opera poi perfettamente, – vi sono infatti costi transattivi – occorre anche spesso decidere se le transazioni di mercato sono in grado di portarci più vicino al risultato ottimale in senso paretiano che il mercato «perfetto» potrebbe raggiungere.
Benché questo riassunto indichi quanto possa essere complessa la scelta di assetto di interessi, in pratica i criteri che essa adopera spesso indicano quale allocazione degli interessi è tale da condurre a valutazioni ottimali di mercato tra il dover usare un’auto extra o andare in treno, tra prendere un cavolo in più e lavorare meno sotto il sole cocente […]. L’efficienza economica, comunque, non è l’unica ragione sulla quale si fondano le scelte di una società, in ordine alla attribuzione di diritti e assetto degli interessi. La distribuzione della ricchezza è un’altra ragione, e quindi occorre rivolgere l’analisi ai modelli di distribuzione per diversi tipi di diritti.

La distribuzione dei beni

Vi sono almeno due modelli di distribuzione che possono incidere sulle scelte di un assetto di interessi. Essi riguardano la distribuzione stessa della ricchezza e la distribuzione di certi tipi di beni, che talvolta sono stati definiti «merit goods». Ogni società ha qualche preferenza per un determinato modello di distribuzione della ricchezza. D’altra parte, i risultati dell’efficienza possono essere discussi in termini di un concetto generale di ottimalità paretiana, di cui si possono sottolineare talvolta le eccezioni, come per es. il «paternalismo». Le preferenze nella distribuzione, poi, non si possono discutere utilmente in un unico modello concettuale. Ci sono infatti preferenze generalmente accettate in modo per così dire «naturale» – per es., le preferenze di casta – in numero più alto delle situazioni di eguaglianza. Vi sono poi preferenze connesse a concetti di efficienza dinamica – chi produce dovrebbe esser compensato perché alla fine ciascuno sta meglio. E vi sono infine miriadi di preferenze individuali assolutamente soggettive in ordine alla questione di chi dovrebbe esser più povero e chi dovrebbe esser più ricco, che non hanno nulla a che fare con l’eguaglianza o con l’efficienza – gli amanti silenziosi dovrebbero esser più ricchi di quelli rumorosi perché lo meritano.
Proprio perché sono così difficili da analizzare, dovrebbe esser ovvio che le preferenze giocano un ruolo cruciale nell’assetto degli interessi. Infatti l’assetto dei diritti ha un effetto fondamentale sulla distribuzione della ricchezza in una determinata società. Non è la stessa cosa se una società desidera l’eguaglianza assoluta –assicurare a ciascuno la medesima somma di denaro, all’inizio. Una società che distribuisce la ricchezza in modo eguale ma dà ai singoli il diritto di fare rumore rende immediatamente il futuro soggetto «rumoroso» molto più ricco dell’eremita che ama il silenzio assoluto. Allo stesso modo, una società che legittima l’acquisto di vantaggi ottenuti con la propria scaltrezza implica una diversa distribuzione del denaro rispetto a una società che chiede a ciascuno di dare secondo la propria abilità ma dà a ciascuno secondo i suoi desideri. E si può andare oltre, considerando per es. che una donna avvenente o un uomo affascinante conducono una vita migliore in una società che riconosce il diritto alla integrità fisica piuttosto che non in una società che dà a ciascuno il diritto di fruire di ogni beltà acquisibile […].
Quante volte una società sceglie un determinato assetto di interessi individuali deve anche decidere se offrirvi protezione con regole di disciplina della proprietà, con regole di responsabilità civile o con regole di inalienabilità. Nel nostro modello, ciò che di solito si considera «proprietà privata» è considerato un diritto che è tutelato da regole sulla proprietà. Nessuno può acquisire un diritto di proprietà dal suo titolare, se questi non intende trasmetterlo volontariamente, e al prezzo al quale egli intende valutare soggettivamente la sua proprietà. Eppure l’immissione che rispecchi un alto interesse pubblico può incidere sulla proprietà, conseguendone il risarcimento ma non la cessazione dell’immissione. In tale circostanza, il diritto di proprietà è protetto soltanto da una regola di responsabilità civile: si fa impiego di un criterio di valore esterno e oggettivo per facilitare il trasferimento del diritto del danneggiato al danneggiante. Per concludere, vi sono casi nei quali non si consente il trasferimento del diritto per nessuna ragione, ed è la situazione che noi talvolta riteniamo esigere limiti di alienazione dei beni.
Perché una società non dovrebbe decidere di allinearsi ai criteri che già abbiamo indicato, e lasciare quindi che ciascuno trasferisca i suoi diritti a chi vuole, sulla base di accordi volontari? Perché, in altri termini, una società non si arresta a considerare esclusivamente l’attribuzione di diritti di proprietà? Per far ciò basterebbe proteggere e rendere effettiva l’attribuzione iniziale di diritti di proprietà proteggendoli da ogni attacco, magari con sanzioni penali, e rendere efficaci i contratti che li trasferiscono. Insomma, che bisogno c’è di regole di responsabilità civile?
In termini di efficienza economica, le ragioni sono molto agevoli da intendere. Spesso il costo che si incontra nel determinare il valore di un diritto attribuito ab initio con un accordo è così alto che anche se il trasferimento potrebbe render vantaggi a tutti gli interessati, esso non avviene. Se invece vi fosse una determinazione autoritativa del prezzo, il trasferimento avverrebbe immediatamente.
Il dominio eminente è un buon esempio. Si consideri un parco che contiene un tratto di terra diviso in 1000 lotti posseduto da 1000 proprietari; queste aree sono così utili agli abitanti della città vicina, che ciascuno di loro (si assuma che siano 100.000) pagherebbe 100 dollari per averne una. Il parco è desiderabile (secondo gli schemi paretiani) se i proprietari di quell’appezzamento di terreno valutano le loro aree meno di 10 milioni di dollari, e a un prezzo unitario di 10.000 dollari per lotto. Si assuma che i lotti siano di eguali dimensioni e che i proprietari li stimino tutti 8000 dollari l’uno. Sulla base di questo esempio, il parco è desiderabile, in parole di efficienza economica, se il valore supera il costo di milioni di dollari ed esso appare appetibile agli acquirenti per 10 milioni. Ma si potrebbe anche non pervenire ad alcun accordo.
Se un buon numero di proprietari vende la propria area per un prezzo superiore ai 10.000 dollari, per avere una quota dei 2 milioni che essi pensano di spuntare in più dai compratori, il prezzo complessivo fissato sarà superiore ai 10 milioni e quindi non si farà alcun accordo. I venditori hanno interesse a nascondere le loro reali valutazioni e il mercato non riuscirà a stabilire il prezzo. Un esempio identico si può fare considerando il lato dei compratori. Si supponga che i venditori del parco si siano accordati tra loro per chiedere un prezzo di 8 milioni di dollari (essi sono tutti parenti e a una festa della famiglia hanno osservato che cercare di chiedere di più significa perdere l’occasione). Non ne segue che i compratori potrebbero alzare il prezzo, anche se ciascuno di essi ha valutato la propria area per 100 dollari.
Qualche cittadino può cercare di fare il «portatore di germi » e dire che essi stimano l’area solo 50 dollari, oppure un centesimo, sperando che gli altri siano in numero consistente per versare il prezzo di 8 milioni. Non vi sono ancora una volta ragioni per credere che il mercato e comunque un sistema di valutazione decentrato può indurre la gente a esprimere le sue vere valutazioni, e ancora credere che tutto ciò che di fatto si è convenuto sia desiderabile. Quante volte ci si trova in una situazione siffatta, vi sono agevoli argomentazioni che militano a favore della scelta di una regola di responsabilità, anzi che di una regola di proprietà. Se la società può rimuovere dal mercato ogni valutazione dell’apprezzamento il terreno, deciderla collettivamente, e imporla, allora si elimina il problema di chi vuol profittare in eccedenza. Allo stesso modo, se la società è in grado di valutare collettivamente il desiderio di ciascuno ad avere un parco e onerarlo di una tassa sui «benefici», si elimina il problema dei «portatori di germi». Se la somma delle imposte è più alta della somma che si chiede a titolo di risarcimento, si farà l’accordo.
È ovvio che si potrebbe pensare a situazioni in cui potrebbe esser più conveniente escludere tutti i «portatori di germi» dal parco o distribuire le parti del parco in modo da assegnarle a chi inizialmente aveva intenzione di pagare. Anche in tal caso il pericolo di richieste eccessive può esser eliminato. Ma queste esclusioni di solito non sono convenienti. E analogamente accade per l’ipotesi che vi siano alcuni venditori che chiedono di più del prezzo medio.
Anche se si possono escogitare espedienti per risolvere questi problemi, vi sono argomentazioni ulteriori per preferire una regola di responsabilità. Si assuma nella nostra situazione ipotetica che i «portatori di germi» possono essere esclusi con un costo di 1 milione e che i proprietari dei lotti possano esser convinti, ricorrendo a un grande cocktail party che costa mezzo milione di dollari, che si potrà addivenire a un accordo solo se si sapranno con certezza i prezzi veri. Dal momento che la somma di 8 milioni più 1,5 milioni è sempre inferiore ai 10 milioni iniziali, si concluderà l’accordo. Ma se la valutazione autoritativa delle aree e dei benefici che ne sarebbero derivati fosse costata meno di 1,5 milioni, sarebbe stato inefficiente aver lasciato la determinazione del prezzo al mercato – un mercato, tra l’altro, che non era in grado di dare buone indicazioni, pur pagandosi molto per ottenerle.
Anche i problemi che si incontrano nell’applicazione delle regole di responsabilità civile sono egualmente concreti. Non si può esser assolutamente sicuri che il proprietario A sta mentendo o realizzando un profitto in eccedenza quando dice che la sua terra vale più di 12.000 dollari, per lui. Il fatto poi che molti vicini vendano la loro area al prezzo di 10.000 dollari non è di grande aiuto; A può avere motivi di affezione per la sua terra. Procedendo con l’esproprio, si potrebbe anche sottovalutare grandemente il valore al quale A avrebbe voluto vendere la sua area, anche si pensa che gli si darebbe il suo giusto prezzo. In pratica, è così difficile determinare il vero valore della terra di A che il procedimento espropriativo gli può garantire soltanto il valore obiettivo della terra, con la piena consapevolezza che quel prezzo può esser considerato da A eccessivo oppure insufficiente. E lo stesso accade dal lato del compratore. Le imposte sui benefici raramente riescono a misurare il desiderio del cittadino per i benefici che si attendono. Esse sono giustificate dal fatto che, anche se non riflettono in modo preciso il desiderio di ciascuno per i benefici indicati, l’alternativa offerta dal mercato sarebbe comunque peggiore. Ad esempio, 50 diversi proprietari possono valutare in modo diverso il valore del marciapiede che costeggia la loro proprietà. Ciò nondimeno si ricorre regolarmente alla imposizione autoritativa per tassare ciascuno con la medesima somma, essendo difficile anche se non impossibile commisurare i desideri di ciascuno di loro.
L’esempio dell’esproprio è semplicemente uno dei numerosi casi in cui la società fa ricorso a regole di responsabilità. Il caso degli incidenti è un altro di essi. Se si volesse evitare che i diritti di proprietà fossero lesi incidentalmente, occorrerebbe chiedere a chi svolge attività che possono ledere gli individui di negoziare con loro prima che l’incidente accada, e quindi pagare per salvare l’integrità di un braccio o di una gamba. Queste negoziazioni da condursi prima degli incidenti potrebbero essere estremamente costose, e spesso lo sono davvero. E renderle obbligatorie significa spesso impedire lo svolgimento di attività dannose ma utili. E poi, dopo l’incidente, chi ha perso un braccio o una gamba potrebbe anche negare di aver voluto venderli al prezzo offerto dall’acquirente. Perciò, se vi sono negoziazioni dopo l’incidente […] lo si deve al fatto che l’alternativa è la valutazione autoritativa del danno. Non è nostro compito in questa sede delineare tutte le possibili situazioni, astratte o concrete, in cui le valutazioni di mercato risultano troppe costose e le valutazioni autoritative sono invece più convenienti. La letteratura economica se ne è occupata molte volte, anche se non sempre ne ha trattato in modo comprensibile ai giuristi. È sufficiente, al nostro proposito, osservare che la ragione ricorrente (e forse la più comune) per fare ricorso a regole di responsabilità piuttosto che a regole sulla proprietà (per proteggere un diritto) consiste nel fatto che le valutazioni di mercato che si possono fare di un interesse sono inefficienti: in altri termini sono troppo onerose se raffrontate alle valutazioni autoritative.

La letteratura successiva

Una prospettiva aggiornata è offerta dal seguente saggio di Robert D. Cooter, Le migliori leggi giuste: i valori fondamentali nella analisi economica del diritto (in Quadrimestre, 1991, 526, di cui si riproducono le conclusioni).

Le migliori regole giuste: una conclusione

L’ordinamento giuridico attribuisce alle persone diritti, obblighi, doveri, responsabilità, ecc., attraverso il Common Law, i regolamenti, le leggi ordinarie e la costituzione. Tutte queste norme sono spesso discusse dalle diverse tendenze e fazioni in termini di giusto e ingiusto. Di conseguenza il creare diritto è un’attività nella quale confliggono diverse idee di diritto.
Esistono scelte politiche significative per le quali le volontà di diverse classi e gruppi entrano in conflitto. Questi conflitti sono reali e non possono essere fatti scomparire grazie all’applicazione della scienza politica e nemmeno possono essere risolti da una scienza pura che sia neutrale tra essi. Una scienza politica può tuttavia individuare settori di accordo e costruire su essi. Perciò l’analisi economica del diritto tenta di rimanere essenzialmente neutrale rispetto alle confliggenti concezioni del diritto, incluse quelle che si riferiscono agli ideali distributivi. Ciò è reso sostanzialmente possibile assumendo l’efficienza paretiana come concetto normativo centrale. I modelli di efficienza paretiana richiedono che una legge debba essere abrogata se può essere sostituita da un’altra che qualcuno preferisce e nessuno stima peggiore. Questo approccio non è neutrale rispetto ai valori, piuttosto è connesso con l’idea che, rispetto al diritto come gli altri beni, la gente debba avere ciò che vuole. Molte concezioni del giusto sono coerenti con un individualismo così generico.
La versione paretiana dell’analisi economica del diritto esprime pertanto un rapporto tra concezioni del giusto e preferenze individuali. Le idee politiche e filosofiche influenzano le concezioni individuali su ciò che è giusto nel diritto e nell’organizzazione pubblica, e l’economia determina ciò che è migliore in funzione delle preferenze individuali. Quando questi due fattori si combinano, il risultato coincide con la nozione delle migliori regole giuste. Le migliori regole giuste sono quelle allocazioni paretianamente efficienti che soddisfano gli ideali distributivi di coloro cui compete la scelta.
Accanto agli ideali distributivi si pone un altro valore che è centrale nella individuazione del concetto di giustizia, quello di libertà. Ho cercato di dimostrare in altra sede che le concezioni della giustizia in cui, come accade nella nostra tradizione giuridica, la libertà assume un valore centrale non sono soltanto coerenti con l’efficienza paretiana, ma sono affidate a essa.
La libertà e l’efficienza paretiana sono logicamente correlate perché entrambe derivano da una filosofia politica che enfatizza il rispetto per gli individui. Oltre a questa correlazione logica tra libertà ed efficienza paretiana, un altro fattore di coordinazione può esser basato sui fatti come la relazione causale tra libero mercato e democrazia, che peraltro non sarà analizzata in questa sede. Le migliori regole giuste, in ogni modo combinano l’efficienza paretiana con la libertà individuale. Il rispetto per i valori individuali fa sì che la gente possa convenire che le regole migliori siano quelle paretianamente efficienti. Tuttavia l’efficienza paretiana fornisce indicazioni limitate al diritto e alla politica del diritto. Tentativi di organizzare il consenso su un determinato insieme di regole potrebbero ritorcersi nel susci-tare disaccordi sulle concezioni della giustizia, che comprende quelle dell’eguaglianza e della libertà. Simili inconvenienti possono capitare quando gli economisti tentino di scivolare dall’efficienza paretiana all’analisi costi e benefici o al bilanciamento di benessere.
Nella misura in cui, per es., i diritti sono assegnati agli individui sotto condizione che i benefici superino i costi, le libertà individuali sono poco sicure. Quanti professori universitari vorrebbero che la loro libertà di parola dipendesse dalla disponibilità della gente a pagare di più per farli parlare piuttosto che per farli stare zitti? In generale l’inflessibile applicazione dell’analisi costi e benefici porrebbe in serio pericolo le libertà individuali. La critica all’analisi costi e benefici è analoga alla critica rivolta all’utilitarismo di non prendere sul serio i diritti individuali, poiché fa dipendere tutte le scelte sociali dalla massimizzazione della somma delle utilità. Le libertà sono scolpite nel Bill of Right proprio per proteggerle da criteri aggressivi di scelta sociale, compreso il principio maggioritario e l’analisi costi e benefici. In questo articolo si sono esaminate le relazioni tra l’analisi economica del diritto e tre valori importanti: l’individualismo, l’eguaglianza e la libertà. Si sono analizzati tre criteri economici per operare le scelte: l’efficienza paretiana, l’analisi costi e benefici e il bilanciamento di benessere (così come io chiamo l’analisi costi e benefici: bilanciamento di benessere). Le correlazioni tra di loro che sono state sino a qui suggerite vengono ricapitolate nello schema seguente, secondo il quale ciascun criterio di scelta è devoto al rispetto delle scelte individuali, mentre solo l’efficienza paretiana è devota alla libertà e solo il bilanciamento di benessere è devoto alla ridistribuzione del reddito per favorire l’eguaglianza.
Criteri economici di scelta e loro connessioni con i valori
individualismo libertà eguaglianza
Efficienza paretiana sì sì no
Costi e benefici sì no no
Bilanciamento del benessere sì no sì
Lo schema indica in quale misura si debbono seguire i criteri economici di scelta in funzione di valori rilevanti per la singola decisione politica. Nella misura in cui la decisione debba essere indirizzata dalle preferenze individuali, tutti e tre i criteri possono applicarsi. Di converso tutti e tre i criteri falliscono ove le scelte individuali non siano decisive. Ad esempio i soci del Sierra Club sarebbero riluttanti ad aderire all’idea che la decisione di proteggere gli ultimi luoghi di nidificazione del condor californiano debba essere rimessa al calcolo di quanto la gente è disposta a pagare per farlo. Per i soci del Sierra Club il fatto che molti individui attribuiscono scarso valore alla preservazione dei luoghi di nidificazione indica solo la debolezza della loro scala di valori.
Presumibilmente i soci del Sierra Club abbandonerebbero il metodo di valutazione individualistico prima di abbandonare i nidi dei condor californiani. Pertanto la decisione sarebbe spinta fuori dalla sfera tecnocratica per entrare in quella della politica.
Analogamente la tabella indica che solo l’efficienza paretiana è devota alla libertà. Una persona fortemente impegnata a favore della libertà non vorrebbe che una scel-ta di politica del diritto che concerne i diritti umani sia decisa attraverso l’analisi costi e benefici. Per esempio le regole di procedura penale spesso generano benefici per l’imputato e impongono costi a un pubblico più vasto, e tuttavia la metodologia dei costi e benefici basata sulla volontà di pagare, può non essere affatto il modo migliore di scegliere tra regole alternative.
Infine il bilanciamento di benessere è il solo criterio di scelta devoto all’eguaglianza economica. Nei settori del diritto il cui perseguimento di obiettivi ridistributivi è un’operazione costosa, l’analisi costi e benefici potrebbe fornire una guida migliore. Nei settori in cui la ridistribuzione è relativamente poco costosa una persona impegnata a favore dell’eguaglianza preferirebbe che la scelta fosse guidata dal bilanciamento di benessere piuttosto che dall’analisi costi e benefici. Essendo una scienza politica, l’economia fa previsioni su come le diverse politiche interagiscono con i valori e in particolare con il valore della efficienza. Questo articolo cerca di spiegare in che modo l’efficienza interagisce con altri valori come l’eguaglianza e la libertà. L’analisi economica del diritto che va e viene come moda, ha attecchito come scienza politica e continua a fornire al diritto modelli di crescente sofisticatezza e ampiezza. I giuristi che vogliono far uso di questi modelli non sono affatto aiutati da sovrasemplificazioni, sia da parte di coloro che la difendono sostenendo che si tratta di una scienza non contaminata da giudizi di valore, sia da parte dei critici che la dipingono come l’ideologia dei plutocrati. Come la sfinge del deserto che non è né una divinità né una roccia come le altre, l’analisi economica del diritto è una costruzione imponente che vale la pena cercare di capire nei suoi stessi termini.

Alcuni ripensamenti

All’incontro «Achievements and Failures of Law and Economics: 35 Year Later », svoltosi all’Università Statale di Milano nei giorni 27 e 28 settembre 1995 P.G. Monateri ha presentato la seguente interessante relazione:

Risultati e regole. (Un’analisi giuridica dell’analisi economica del diritto)
La parabola dei talenti

I dibattiti di Law and economics molto spesso riguardano l’economia ben più del diritto, o peggio troppo spesso riguardano i valori e la giustizia. Argomenti di scarso interesse per il giurista. Tali dibattiti inevitabilmente si aggrovigliano a considerare le assunzioni più o meno implicite di valori che si nascondono dietro l’utilizzo di modelli più o meno neoclassici per la valutazione degli esiti sociali di determinate regole giuridiche.
È facile comprendere la natura politica di tali dibattiti. Inoltre si comprende facilmente che se siamo a favore di una tutela della privacy dobbiamo distribuire dei property rights agli individui affinché questi possano difendersi dalla stampa, mentre se crediamo che il bene «informazione sulle vite private» debba essere prodotto maggiormente, dobbiamo attribuire alla stampa dei diritti sulle informazioni che riesce a raccogliere e distribuire. Non v’è ormai nulla di particolarmente eccitante in tutto ciò, anche se qualche anno fa questi ragionamenti potevano sorprendere e catturare l’attenzione. Insomma si può facilmente sostenere che v’è uno iato tra gli interessi del giurista «normale»e quelli dell’economic analyser of law. Iato che si manifesta nella noia reciproca. Il giurista si annoia, ma anche l’economic analyser si annoia quando deve ascoltare quelli che per lui sono i trucchi ermeneutici di cui vive il giurista.
È interessante, allora, oggi, indagare se questa noia derivi da una opposizione di fondo tra l’analisi economica del diritto e la nostra tradizione giuridica. In senso tradizionale i giuristi pretendono di derivare le regole dai precedenti o dalle norme legislative, e di giustificare queste regole indipendentemente dai risultati concreti e particolari cui esse conducono. Questa pretesa è così radicata in una tradizione secolare da dover avere qualche senso, anche se questo è un ragionamento un po’ à la Burke.
Comunque in questo scritto a me non interessa, come si vedrà, difendere la tradizione giuridica occidentale, ma solo mostrare che esiste una opposizione tra questa tradizione e (almeno) la versione posneriana dell’analisi economica, in quanto propone l’ideale della massimizzazione del benessere come ideale del diritto. Da questo punto di vista io credo che la tradizione giuridica occidentale si trova da un lato, sulla riva opposta si trovano sia l’analisi economica (almeno quella posneriana) che il movimento dei critical legal studies.
Che differenza c’è infatti, dal punto di vista di un giurista «normale», se si risolve un caso sulla base del principio della massimizzazione del benessere, o sulla base di una scelta radicale a favore della classe operaia? Nessuna. In entrambi i casi è il risultato del caso che conta, e l’accettazione di tale risultato dipende dall’impegno, diciamo così, in cui il giurista… è gettato. Peraltro questo modo di concentrarsi sul risultato rende palese il conflitto soggiacente alla sua soluzione, mentre la saggezza tradizionale del diritto è stata quella di nascondere tale conflitto dietro un mantello di affabulazioni ermeneutiche. Non intendo affatto sostenere in generale che il contesto ermeneutico sia un contesto «ideologico», nel senso di falsa coscienza della realtà conflittuale (anche se talvolta ciò è palesemente sostenibile), ma che vi è una grande saggezza(forse necessità) sociale nell’affrontare il conflitto bruto in un contesto ermeneutico tradizionale.
Ciò su cui qui voglio soffermarmi è semplicemente che sia i crits che (almeno) i posneriani affrontano la sostanza di un conflitto giuridico sulla base di un risultato desiderato, e non ragionano in termini di «doctrines» e precedenti e interpretazione di norme.
Questo può essere proprio il loro merito, e io non intendo sostenere che la nostra tradizione sia intoccabile, intendo solo osservare il contrasto, e far notare come entrambi i movimenti siano dei pericolosi avversari dell’atteggiamento tradizionale. A tal fine partiamo pure da un esempio che non fornisca una versione idealizzata della tradizione giuridica occidentale: Roe vs. Wade, ovvero la sentenza con cui la Corte Suprema americana ha affrontato il problema dell’aborto. In quella circostanza era fi troppo chiaro come vi fosse un conflitto tra due visioni del mondo alternative, e come tale conflitto, proprio per la sua asprezza, non potesse venir affrontato dal circuito politico: ogni uomo politico poteva aspettarsi di perdere una parte del proprio elettorato qualsiasi posizione avesse assunto. Nessun politico aveva quindi incentivi a mettere il problema all’ordine del giorno delle assemblee rappresentative federali, che dovevano essere quelle meglio deputate a risolvere un tale problema in senso democratico (cioè nel senso della regola di maggioranza e della rappresentanza politica).
Viceversa l’impasse politico costrinse a risolvere questo problema nel circuito giuridico, cioè «come se»il risultato non dipendesse dalle maggioranze, ma fosse determinato dalle premesse.
Questa logica giuridica del «come se» era essenziale per disinnescare il conflitto sociale in atto.
È noto che la Corte Suprema si trasse d’impiccio sostenendo che la Costituzione federale protegge la privacy, anche se questo non è propriamente scritto in nessuna disposizione della Costituzione, che diritto alla privacy significa diritto a essere lasciati soli, il che può ben essere discutibile, e che la scelta tra avere o meno un bambino (o se preferite tra uccidere o meno un feto) era una questione di lasciare la donna da sola, il che è ovviamente assurdo per molti.
Comunque non vi era più spazio per il conflitto: tutto era contenuto nelle premesse della Costituzione così come essa poteva venire interpretata da alcuni giudici irresponsabili (nel senso delle regole della rappresentanza politica). Questo è proprio diritto (occidentale)al suo meglio.
Perciò, forse, combattere per distruggere questa tradizione potrebbe anche essere un’impresa socialmente commendevole.
Mi sembra comunque chiaro come la medesima logica del «come se»venga applicata in migliaia di casi quotidiani, che vedono opposte le parti contraenti, o inquilini e proprietari, o produttori e consumatori.
Noi amministriamo queste migliaia di casi sulla base della logica (ipocrita) giuridica del derivare regole da precedenti e norme.
<Queste migliaia di casi si trasformerebbero in conflitti sociali insanabili se noi permettessimo ai giudici di dichiarare:
«Bene io preferisco questo (il benessere massimo, o la classe dei lavoratori)e perciò do un rimedio all’attore». Che cosa potrebbe replicare il convenuto «Bene, io preferisco altrimenti, questo è tutto».
Incominciamo quindi la nostra discussione del contratto tra Law and economics e Western Law da un semplice caso: Fontainbleu Hotel corp. vs. Forty-Five Twenty-five Inc. Si trattava del caso di due hotel di lusso sulla costa atlantica. Il Fontainbleu decise di aggiungere una torre di 14 piani al suo complesso alberghiero. L’ombra della torre si estendeva sulla un tempo soleggiata piscina del vicino albergo Eden Roc. Saggiamente la Court of Appeals della Florida risolse il caso senza considerare quale uso delle risorse fosse più economicamente vantaggioso.
Una Corte determinata a eseguire i dettami dell’analisi economica del diritto, e quindi ad allocare le risorse a chi le sa far rendere di più, avrebbe dovuto riconoscere che talvolta il diritto al sole è patrimonialmente valutabile, specialmente in un caso riguardante degli alberghi di Miami. La Corte tuttavia si rifiutò di concedere un rimedio a favore dell’Eden Roc lasciando che l’ombra rimanesse là dove cadeva. A questo punto si deve considerare che se la torre aumentava di 1.000.000 di dollari i profitti annuali del Fontainbleu, mentre riduceva i profitti dell’Eden Roc solo di 500.000 dollari, allora l’utilizzo del terreno edificabile per la torre aumentava effettivamente il valore complessivo delle proprietà costiere di Miami Beach, e quindi che il risultato era economicamente vantaggioso per la società nel suo complesso. Se le cifre sono quelle riportate allora la Corte ha raggiunto un risultato efficiente. Ma quid iuris se l’ombra della torre avesse danneggiato l’Eden Roc per 750.000 dollari all’anno, e la torre stessa avesse reso al Fontainbleu solo 500.000 dollari in più all’anno?
È evidente che se ragioniamo in termini di risultati particolari non abbiamo più nessuna regola, a parte la regola evangelica secondo cui «a chi ha» guadagnato di più «sarà dato» un property right, mentre «ha chi non ha» guadagnato abbastanza «sarà tolto» qualsiasi property right, e dovrà pure pagare i danni. Ma dubito che questo fosse il senso originario della parabola.
Credo che l’esempio mostri quanto l’analisi economica del diritto sia incompatibile con una forte teoria dei diritti.
A sua volta questa considerazione mostra come una decisione giudiziale resa in termini di desiderabilità di un particolare risultato sia al di fuori della nostra tradizione. Eventualmente essa può appartenere a una tradizione socialista del diritto, ma non alla nostra.
Naturalmente vi sono molte teorie dei diritti, ma nessuna può accettare che io abbia un diritto solo se il mio guadagno è superiore alla perdita della controparte.
Èvero che noi contempliamo comunque i risultati a cui conducono le decisioni giurisprudenziali,ma un conto è osservare quali assetti generali esse comportano (piazzare la responsabilità sul produttore piuttosto che sul rivenditore, o l’assemblatore e così via, farla dipendere da una prova concreta della colpa o meno, ecc.), un altro conto è decidere sull’allocazione dei diritti nel singolo caso sulla base del risultato economico di quel singolo caso.
Ciò, quindi che sostengo per ora è che esiste una contrapposizione tra i diritti (anche e anzi sopratutto quelli proprietari) e l’analisi economica, e che vi è una certa saggezza nel modo un po’ ipocrita che noi giuristi «normali»abbiamo di trattare i casi di conflitto. Ma proseguiamo nella nostra analisi.

Coase e i problemi di Amleto

Potremmo immaginare di risolvere facilmente i paradossi prima indicati applicando Coase o Pareto. Due fra i maggiori contributi dell’analisi economica alla riflessione giuridica.
Orbene il costo sociale rappresentato dalla non più assolata piscina dell’Eden Roc non è stato provocato – nei termini di Coase – dalla sola azione del Fontainbleu, ma da entrambe le parti: è questa la natura reciproca del problema del costo sociale sollevata da Coase.
In questa prospettiva dobbiamo assumere che è sempre possibile modificare mediante contratto, nel mercato, le assegnazioni iniziali di diritti fornite dal sistema giuridico. Naturalmente allora se tali transazioni di mercato sono prive di costi, una tale ridistribuzione dei diritti avrà sempre luogo se conduce a un aumento del valore della produzione. In questo modo il risultato finale (che massimizza il valore della produzione) risulta indipendente dalle posizioni giuridiche iniziali se il sistema dei prezzi funziona senza costi.
Coase assume che sia Eden Roc che The Fontainbleu dovrebbero contrattare. Un simile processo in realtà non è indipendente dall’assegnazione iniziale dei diritti. I pay offs delle parti variano in dipendenza vitale assegnazione. È soltanto il risultato netto per la Società che non cambia.
Naturalmente la prima questione, à la Hayek, è chiedersi chi sia questo «essere», la Società? Non si tratta forse di un fantasma evocato dal modo primitivo e antropomorfico di considerare i fatti sociali? La Società esiste? Ha una «sua»funzione del benessere? Sorride?
Orbene in un mondo in cui esistono diritti e corti se Fontainbleu da un diritto di edificare sul suo terreno, non ha alcun bisogno di comprarlo da Eden Roc. D’altro canto se Eden Roc ha un diritto al sole, Fontainbleu deve comprare il diritto di costruire, e così Eden Roc può farsi compensare per il lucro cessante che soffrirà in seguito alla costruzione della torre, e può persino guadagnare da tale transazione, poiché può contrattare fino al prezzo più alto a cui Fontainbleu è ancora interessata a costruire la torre.
Se Eden Roc non ha alcun diritto al sole naturalmente subisce semplicemente una perdita secca.
E’ chiaro quindi che i pay offs delle parti cambiano drammaticamente. È il risultato
netto per la Società che non cambia, ma proprio perché tale risultato è definito come il net balance dei profitti e delle perdite distribuite tra gli agenti. Il Teorema non dice altro se non che «x + o – y è uguale alla somma algebrica di x e y». Non è neanche un teorema, ma la stessa definizione di calcolo algebrico. Che gran risultato analitico: la somma algebrica non cambia mai! Ovvio, per definizione essa non può cambiare.
Naturalmente è banale osservare che un teorema deve necessariamente essere una tautologia. Ma ciò che conta è svelare ancora una volta come in economia il problema non sia mai la dimostrazione matematica, ma sempre l’interpretazione che viene data di un teorema in termini che sembrano riferirsi al mondo reale. In questo caso il problema è l’interpretazione della somma algebrica in termini di Benessere della Società e in termini di processo di definizione dei diritti e delle responsabilità delle parti.
Se ora osserviamo tale interpretazione credo che emerga come esso possa sembrare plausibile solo in termini lockiani, con una confusione abbastanza evidente fra diritti (e riallocazioni dei diritti) e possesso (e riallocazioni del possesso). Dire che anche solo in termini lockiani si giustifica la sua particolare trattazione della reciprocità del problema. Egli assume che il farmer o l’allevatore di mucche abbiano comunque un titolo a ciò che posseggono e che il coltivatore non possa semplicemente abbattere a fucilate le mucche che è dopotutto la soluzione meno costosa, a meno che anche l’allevatore di mucche non possa semplicemente spargere benzina sulla capanna dell’agricoltore e prendersi l’intero campo di grano. L’unico framerwork in cui si assume che gli individui abbiano un titolo al possesso del loro corpo e a ciò che riescono a possedere in virtù di questo possesso iniziale, in cui si assume che vi siano contratti e property rights, ma non corti che rinforzano tali property rights e tali contracts è lo stato di natura di Locke. Ma questo stato di natura non è qualcosa che faccia senso come paradigma. E comunque nessuno, neanche Nozick ha mai offerto una ragione plausibile per accettare di partire da questa stramba situazione iniziale. Il teorema di Coase è quindi un teorema che vale solo nello Stato di Natura di Locke, e la cui validità è quindi troppo limitata per poter giustificare, p. es., la prassi di una Corte di giustizia.
Inoltre lo strano connubio che si crea nella versione posneriana del teorema di Coase è che un tale quadro di riferimento lockiano si sposa con una visione totalitaria della massimizzazione del benessere.
Se crediamo in una teoria dei diritti non possiamo contemporaneamente credere nella necessità di immolare questi diritti a beneficio della massimizzazione del benessere della società.
Io non credo neanche, in termini ontologici, che possiamo parlare di una singola entità, la società, che ha una sua funzione del benessere che deve essere massimizzata. La plausibilità della versione posneriana di Coase deriva dalla assunzione che in un libero mercato privo di ostacoli alla contrattazione, lo scambio volontario allochi i beni in direzione del loro utilizzo economicamente più vantaggioso. Questo è vero per quanto riguarda lo scambio dei «beni»ma mi chiedo quanto sia vero a proposito del processo di definizione dei diritti sui beni.
Il libero scambio alloca il diritto di costruire o meno la torre alla parte che valuta di più tale diritto, ma ciò non ha nulla a che vedere col processo decisionale che consiste nello stabilire se tale diritto esiste e quali ne sono i confini. Credo che vi sia una certa confusione nel mescolare due livelli differenti: uno dello scambio dei diritti, l’altro del processo di definizione dei diritti che le parti possono scambiarsi.
D’altronde questa è una distinzione che si ritrovava con costanza nei teorici del contratto sociale, già secoli prima che Posner fornisse la propria interpretazione del teorema di Coase.
È un tale strano connubio ed è tale confusione che rende il teorema interessante. La famosa proposizione secondo cui in un mondo di costi transattivi pari a zero le parti possono sempre raggiungere un accordo wealth maximizing può essere letta a due livelli.
Livello 1: in uno Stato di natura lockiano in cui ciascuno ha un titolo a ciò che possiede se i costi di transazione fossero nulli allora le parti potrebbero uscire in modo soddisfacente da tale Stato di Natura mediante il contratto. Ma questa è piana e vecchia teoria del contratto sociale.
Livello 2. Se si tratta di scambiare diritti già definiti, una opportuna definizione del mercato in assenza di costi transattivi conduce le risorse a essere allocate a coloro che sono disposti a pagarle di più. E questa è piana e vecchia teoria economica. Insomma il teorema di Coase è interessante perché ha creato confusione, e la confusione, molto più della chiarezza, è sempre intellettualmente eccitante. È come prendere un canovaccio di Kyd, un semplice dramma di vendetta e complicare talmente le cose da costruire un dramma che non sta in piedi ma che è estremamente affascinante: Amleto.

Pareto e un week-end al Metropoli

Se noi ragioniamo in questi termini possiamo vedere come anche il celebre criterio di Pareto sia poco altro che un truismo lockiano. Sia con, che senza compensation. Costruiamo l’ontologia di Pareto. Il mondo è fatto allora di beni distribuiti a caso. Qualcuno nasce bello, e in salute, qualcuno nasce brutto e storpio, qualcuno approda su un’isola deserta e trova una perla di inestimabile valore, qualcuno approda su un’altra isola e trova solo maiali. Ora noi stabiliamo evidentemente in modo arbitrario che ciascuno ha un diritto a ciò che ha ricevuto da un dio minore, e crediamo che ogni cambiamento debba essere tale da far sì che nessuno risulti peggio situato. Cioè noi stabiliamo che occorra sempre il consenso di chiunque sia coinvolto nel cambiamento.
Da questo punto di vista Pareto è una teoria della regola di unanimità, cioè l’assegnazione di un potere di veto a una parte che non voglia essere coinvolta in un cambiamento che la concerne.
Solo che non si vede cosa ciò abbia a che fare con l’efficienza. Efficienza è una bella parola, ma non vedo come essa possa avere a che fare col diritto di veto che possiede una parte che non intende partecipare a uno scambio.
Supponiamo che io e un imprenditore siamo in coda all’aereoporto per andare a New York. Io vado a New York a passare un week end di vizio e lussuria con la migliore amica di mia moglie. Mentre sono in coda ascolto l’imprenditore dietro di me che fra sé e sé molto preoccupato dice. «Come faccio… se non arrivo a New York subito perdo l’ultima chiara opportunità di salvare i miei affari… la mia impresa dovrà fallire, 500 operai saranno messi sul lastrico… un danno almeno da 1.000.000 di dollari». Io sorrido e raggiungo il desk. Quando arrivo l’impiegata dice «Che sfortuna questo è l’ultimo biglietto»e io lo compro. Ora l’imprenditore urla e si dispe-ra, mi fa un racconto pieno di strepito e furore e mi offre 100.000, 200.000, 300.000 dollari (cifre ben superiori a quanto normalmente le corti accordano come risarcimento… per un danno biologico) ma io non mi lascio convincere perché preferisco le lusinghe della mia amante principale. Faccio ciò consciamente ma senza alcun dolo nei confronti dell’imprenditore.
È tutto ciò efficiente?
Bene cosa succede se trasformiamo questo mondo in un mondo di Kaldor-Hicks?
Succede qualcosa di molto simile a un film di Godard.
L’imprenditore non ha dubbi, egli ormai vive à bout de souffle, io non voglio fare lo scambio, allora egli mi prende, mi mena, mi chiude nella toilette dell’aereoporto, mi ruba il biglietto e vola verso New York, tanto poi mi compensa di tutto. Anzi l’imprenditore fa prima, dopo tutto io sono più giovane e prestante, e mi uccide, tanto poi compensa la mia vedova (sempre che – dati i fatti del caso– lei voglia essere compensata per la mia perdita).
Ora il problema è quanto deve darmi come risarcimento. Evidentemente io valutavo il mio week end a New York più di quanto lui era disposto a pagare. Quindi non si vede perché egli debba essere disposto a pagare dopo una somma che non era disposto a pagare prima. Se il criterio del valore è soggettivo è stupido parlare di compensation ex post. Allora il criterio deve essere oggettivo. Egli mi pagherà il biglietto, e le spese mediche, la stanza d’albergo a New York era già pagata dalla mia amante, se mai dovrà risarcire anche lei, ma non complichiamo le cose. Insomma mi esproprierà del mio diritto a prezzi che io considero irrisori, in nome dell’efficienza secondo Pareto-Kaldor-Hicks.
Mi sembra chiaro che il mondo si trasforma completamente passando da Pareto a Kaldor Hicks. Il primo è un mondo ultra lockiano, il secondo è un incubo: un mondo in cui io posso fare qualsiasi cosa agli altri purché guadagni di più del loro danno (a prezzi correnti). Questo è un mondo privo di property rights, nel senso di Calabresi, in cui esistono solo Liability Rules senza puntive or moral damages. Io posso invadere i suddetti purché paghi il prezzo ex ante delle acciaierie Skoda: il governo della Cecoslovacchia non ha nessun claim da avanzare nei miei confronti. Da questo punto di vista Kaldor-Hicks è un criterio perfettamente socialista. Infatti è un criterio che non prevede Property Rules a difesa dei diritti individuali. Kaldor Hicks potrebbe facilmente diventare un manifesto contro la proprietà privata.
Sen, Arrow e la retorica della dittatura
Per essere completi dovremmo ricordarci dell’approccio di Welfare Economics. Poiché nell’EAL abbiamo a che fare con Pareto, qui dobbiamo affrontare sopratutto Sen e Arrow.
Il mondo di Sen è un mondo che si pone strani problemi: vuole aggregare le preferenze individuali secondo una funzione sociale di benessere e vuole distribuire dei diritti soggettivi per operare delle scelte decentrate. Senza che vi fosse alcun bisogno
di un trattamento matematico era intuitivo che questo mondo collassava se uno degli individui con property rights voleva, rispetto alla sua coppia di alternative a disposizione,qualcosa di diverso da ciò che risultava dall’aggregazione delle preferenze individuali. Miracolo da Premio Nobel: se esistono diritti soggettivi la scelta operata dal titolare può essere in contrasto con la volontà generale: questo non è un teorema di impossibilità, ma qualcosa che noi lawyers insegnamo durante le prime lezioni del primo anno. Ciò che però vi è di interessante da notare è la confusione enorme introdotta in questi schemi di public choice dalla definizione di Arro di condizione di non dittatura, e che si riflette nel teorema di Sen e Arrow come Vivaldi ha scritto molte volte la stessa opera, comunque in una qualsiasi versione del suo teorema di impossibilità si ritrova questa definizione: si ha dittatura quando la scelta di preferenza di un solo individuo è imposta all’intera società. Noi generalmente accettiamo questa definizione come pacifica, la sua retorica ci cattura e pensiamo subito a Hitler (o a Renquist) che impone le sue scelte a tutti gli altri e la troviamo un’ottima definizione della dittatura. Senonché ciò che è altrettanto interessante (nel senso inglese del termine) che misleading è che questa è la stessa definizione che da sen del diritto soggettivo. Se j ha un property right sulla scelta tra almeno due stati del mondo alternativi <a,b> evidentemente la sua scelta di «a» a scapito di b viene imposta all’intera società. Ecco così che ci ritroviamo in mano dei modelli, che dovrebbero darci una insight molto più analitica e profonda sul diritto e le scelte sociale, e che confondono il diritto soggettivo con la dittatura. Ci troviamo di nuovo di fronte a dei modelli che possiamo accettare solo se siamo dei veri comunisti: la proprietà privata è un furto, e il diritto soggettivo è una dittatura. Mi chiedo come mai i crits non siano stati i primi seguaci di Pareto, Sen, Arrow e Coase. Se Joseph Mc Carty fosse ancora vivo dovrebbe interessarsi attivamente a questi signori. Ma al di là dei paradossi io seriously question che modelli che esprimono in modo formalmente analogo la dittatura e il diritto soggettivo possano mai dire qualcosa di interessante sul diritto… e anche sul benessere sociale.

Hayek e la favola degli austriaci

Cosa ci rimane in mano allora? Io credo che vi sia molto di suggestivo negli scritti di Heiner, e che sia abbastanza chiaro come questi scritti abbiano la loro radice in Hayek. Il diritto privato, o il Common Law, non hanno alcuno scopo, neanche quello di assicurare la wealth maximization. Certamente non quello di assicurare la wealth maximization della società, visto che per Hayek non esiste un essere chiamato società che tratta gli individui in un certo modo e che ha una propria funzione del benessere. L’intero approccio di Coase è incompatibile con Hayek. L’unico scopo del diritto come diritto dell’overall order, e non quindi come diritto quale insieme di comandi di una singola organizzazione come una impresa o lo Stato (cioè il diritto pubblico), ma il diritto comune, ha il solo scopo di permettere il coordinamento interpersonale tra milioni di individui che non si conoscono e che operano in situazioni concrete note nella loro interezza a loro soltanto. Il diritto ha quindi lo scopo di assicurare un coordinamento astratto tra situazioni concrete non basato su un comando e su un controllo centrali, perché non è possibile accentrare tutta la conoscenza dispersa tra milioni di individui. Come possiamo sfruttare al meglio (qui non è questione di massimizzare perché grazie a dio siamo al di fuori di un paradigma neoclassico)questa conoscenza dispersa?
Assegnando dei diritti soggettivi e permettendo una elevata libertà di contrarre. Non perché il contratto o il property rights o le Liability Rules debbano permettere di raggiungere delle soluzioni ottimali. Ma perché sono le migliori alternative al comando e al controllo diretti. property rights e contracts permettono lo scambio di informazioni, poi gli agenti si adatteranno come meglio credono alle loro situazioni particolari in base alle informazioni che gli arrivano. The main idea è il modo in cui funziona il sistema dei prezzi. Il sistema dei prezzi è sacro in Hayer perché trasmette informazioni. Se noi interveniamo sul sistema dei prezzi per ragioni politiche semplicemente alteriamo queste informazioni, rendiamo più cieca la società. Il sistema dei prezzi si produce in virtù di tre istituzioni diverse: i property rights (ed è ovvio come qui non sia importante come sono distribuiti: che importanza può avere la loro distribuzione rispetto al problema delle informazioni da trasmettere?), la libertà contrattuale, e la moneta, poiché la moneta trasforma le transazioni concrete in segnali monetari astratti che possono essere capiti anche da individui che non sanno nulla delle transazioni che hanno dato origine a quei prezzi. Incidentalmente è chiaro come il sistema di Hayek sia incompatibile anche con qualsiasi tipo di politica monetaria forte, perché tali politiche tendono proprio a interferire con la formazione dei segnali essenziali al funzionamento decentrato della società. Hayek è l’esatto opposto di un Governo Thatcher. E da questo punto di vista le corti sono il modo migliore di amministrare un ordine decentrato. Esse si occupano solo di singoli casi in cui principi generali vengono tradotti in segnali concreti. L’intero sistema dei torts può essere pensato come una simulazione del sistema dei prezzi.
Naturalmente i diritti sono man mano definiti all’interno di questo processo per trial and error. Demsetz era su questa strada.
Mai in Hayek si pone il problema dell’efficienza in modo formalizzato. Hayek come è noto si colloca nella tradizione dei filosofi scozzesi e di Von Savigny. Ma sopratutto si colloca nella tradizione della Western Law perché non si occupa ossessivamente degli outcomes, anzi le sue regole di giusta condotta, in sostanza una generalizzazione delle regole che danno origine al sistema dei prezzi, sono indipendenti dagli outcomes. Forse che il sistema dei prezzi dipende dagli outcomes? In sostanza l’unico scopo del diritto (in quanto distinto dalla legislazione)è quello di assicurare l’ordine generale delle azioni sociali, cioè il diritto in effetti non serve alcuno scopo specifico, ma serve a innumerevoli scopi diversi di individui differenti.
Il diritto provvede semplicemente dei mezzi per il perseguimento di un vasto numero di scopi differenti che nella loro globalità non sono noti a nessuna singola mente. Nel senso ordinario di «scopo»il diritto non è quindi un mezzo per un fine, ma semplicemente una condizione per perseguire un successo con molti scopi diversi. Il miglior ordine spontaneo è quello del sistema dei prezzi, poiché i prezzi contengono informazioni su come individui sconosciuti si sono adattati a condizioni ignote usando la loro peculiare conoscenza della loro individuale situazione concreta. Il sistema dei prezzi, fornendo tali informazioni, permette di sfruttare la conoscenza decentrata nella società, dispersa tra milioni di individui che non hanno bisogno di contattarsi per cooperare.
Perciò permette la formazione di un ordine spontaneo delle azioni. Il diritto è una condizione per il verificarsi di questo coordinamento interpersonale, e impersonale, evidentemente fondato sulla proprietà, il contratto e la responsabilità civile.
Tali situazioni sono importanti non perché massimizzano qualcosa, ma perché non possiamo conoscere in anticipo quale uso gli individui faranno dei loro diritti, e dunque non possiamo sapere quali scopi verranno perseguiti.
Questa peraltro è una ragione del perché il diritto basato sugli istituti «classici»della proprietà, del contratto, e della responsabilità è il diritto della libertà. Infatti, dopo tutto, la Libertà è interessante solo se non possiamo sapere in anticipo che uso ne verrà fatto.
Mi sembra ovvio che come conseguenza il compito dei giudici non sia quello di configurare l’ordine giuridico. Essi trovano sempre un ordine già esistente prodotto da un processo in continua evoluzione in cui gli individui sono in grado di portare a termine con successo i loro piani perché sono in grado di formarsi aspettative corrette circa le azioni degli altri individui. I giudici, nel decidere le dispute che questi individui decidono di portare loro dinanzi, e nel cercare formule e regole di giusta condotta, sono chiamati a correggere i disturbi dell’ordine giuridico che preesiste alla loro azione.
Queste sono tutte ragioni economiche (austriache)per non fondare l’analisi economica del diritto sulla massimizzazione del benessere. Lo stesso sistema dei prezzi è un esempio formidabile di come grandi risultati economici possano venire raggiunti attraverso istituzioni che nessuno ha elaborato consapevolmente per raggiungere risultati di massimizzazione.
In questo senso il raggiungimento di certi risultati particolari può essere lo scopo della legislazione, ma l’articolazione di regole generali, indipendenti da risultati particolari concreti, è lo scopo generale del diritto dei giuristi come ordine complessivo della società.
Forse questa non è che una favola delle api austriache. Ma è un racconto più coerente non solo con la nostra tradizione, ma anche con un’analisi del diritto come ordine spontaneo, molto più dell’idea illiberale della massimizzazione del benessere come criterio per determinare il risultato concreto dei casi di conflitto.


Sul Yale Law Journal, 1990/1991, è poi apparso il saggio di G. Calabresi, The Pointlessessof Parets: Carrying Coase Further, di cui si pubblica la traduzione di LuisaAntoniolli Deflorian (trad. it. L’inutilità di Pareto: ulteriori implicazioni del teorema di Coase), preceduta dalla seguente introduzione di U. Mattei e L. Antoniolli Deflorian.


Quella dell’analisi economica del diritto è una storia relativamente breve: i suoi stessi cultori, fra cui Posner, ne fanno risalire le origini agli Stati Uniti negli anni Sessanta, con la pubblicazione di alcuni fondamentali opere, quali The Problem of Social Costs di R. Coase del 1960 e Some Thoughts on Risk Distribution and the Law of Torts dello stesso Calabresi del 1961 (parallelamente, e in modo autonomo, usciva in Italia Rischio e responsabilità oggettiva di Pietro Trimarchi, pubblicato nel 1961). A partire da quegli anni l’intensità delle ricerche in questo settore si è fatta sempre più incalzante, fino a diventare uno dei paradigmi più importanti della ricerca giuridica d’oltreoceano: tutte le più importanti riviste statunitensi ospitano, almeno saltuariamente, contributi di analisi economica, e corsi in questa materia vengono regolarmente offerti da tutte le law schools. Non si può dire che un’analoga situazione sia rinvenibile nel continente europeo, ove la law and economics è tuttora una disciplina praticata da uno sparuto gruppo di studiosi, e non è ancora riuscita a far stabilmente presa nei curricula universitari e nelle maggiori riviste. Tuttavia, è innegabile che vi sia un rapido aumento di studi giuridici che fanno uso dello strumentario economico, e una corrispondente maggiore attenzione per la letteratura che si occupa di analisi economica del diritto.
Il fenomeno è in parte legato a un generale interesse per tutto ciò che proviene dagli Stati Uniti, considerati un modello culturale da cui attingere spunti e modelli. L’interesse non si esaurisce però qui: l’analisi economica è ben più che una semplice moda, è un modello analitico che, attraverso l’uso interdisciplinare di strumenti forniti da altre branche del sapere (economia, matematica applicata, statistica, econometria, ecc.), permette al giurista di compiere analisi descrittive e prescrittive di grande rigore, che possono fruttuosamente affiancarsi alle tradizionali tecniche ermeneutiche giuridiche. In quest’ottica, l’analisi economica del diritto sembra quindi destinata a ritagliarsi uno spazio ampio e duraturo nel panorama dottrinario europeo, direzione in cui sta già puntando una delle più importanti esperienze, quella tedesca, in cui studi giuseconomici sono ormai diffusi in numerosi settori che vanno dal diritto civile, a quello pubblico e costituzionale. In questo importante articolo, comparso sul Yale Law Journal nel 1991, Calabresi affronta uno dei temi più importanti dell’analisi economica del diritto: l’analisi dei costi transattivi e della loro rilevanza sulle scelte istituzionali.
L’argomento è stato affrontato da tutti i maggiori studiosi che si sono occupati dei rapporti fra economia e diritto, e ha dato via a un dibattito che, sebbene ormai pluridecennale, continua a fornire notevoli spunti di approfondimento e revisione dei risultati acquisiti. L’occasione per rivalutare l’incidenza dell’analisi dei costi transattivi è scaturita per Calabresi da un’occasione celebrativa, il festeggiamento nel 1984 del cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’articolo di Ronald Coase, The Nature of the Firm, vera pietra miliare nella storia dell’analisi economica del diritto; insieme all’altro fondamentale saggio di Coase, The Problem of Social Cost, esso ha costituito la base di tutti i successivi studi sull’efficienza dei sistemi di mercato e di quelli controllati (in primis l’impresa).
L’attenzione di Calabresi, tuttavia, non si accentra in questo lavoro sulla comparazione fra i sistemi di mercato e quelli controllati, dato che fra di essi viene postulata una relazione di simmetria, nel senso che entrambi sono forme esistenti nella realtà sociale, che si influenzano mutualmente e determinano il concreto assetto distributivo. Il fulcro dell’analisi si sposta invece sulle implicazioni del concetto di costi transattivi sui principali criteri di valutazione dell’efficienza economica, quello di ottimo paretiano e quello di Kaldor-Hicks.
Riguardo all’ottimo paretiano, il giudizio di Calabresi è netto e impietoso: se si definiscono gli spostamenti paretiani quegli spostamenti che migliorano la posizione di almeno un soggetto, senza danneggiare nessuno, e senza spostare verso l’esterno la frontiera paretiana (cioè la situazione sociale attualmente esistente), tali spostamenti sono inesistenti: «Sfortunatamente, l’insieme dei mutamenti paretiani positivi che non danneggerebbero nessuno e avvantaggerebbero almeno una persona, è ex ante un insieme vuoto». Questo perché ciascuna frontiera paretiana, cioè ciascuna situazione esistente, è definita con riferimento ai costi transattivi: qualsiasi variazione comporta alternativamente la riduzione dei costi transattivi, e quindi lo spostamento verso l’esterno della frontiera, oppure il miglioramento della posizione di qualcuno a scapito di qualcun altro, cioè uno spostamento lungo la frontiera: «se l’efficienza viene definita in termini strettamente […] di test paretiano, qualunque punto iniziale sarà […] un punto finale efficiente, anche in presenza di costi transattivi. […]
In tali termini: se l’ottimo paretiano significa un luogo in cui nessun miglioramento può essere apportato senza creare ex ante la possibilità che ci siano dei perdenti, allora noi ci troviamo sempre in tale situazione» (pp. x e y). Tertium non datur. Da ciò consegue che non è possibile distinguere in via teorica fra rimozione delle inefficienze e innovazioni, trattandosi in entrambi i casi di modifiche che spostano la frontiera paretiana. Ma sopratutto, ne deriva che il criterio paretiano non fornisce alcuna guida riguardo alle scelte collettive da effettuare: si limita semplicemente a descrivere lo status quo. Il tentativo di aggirare l’ostacolo attraverso l’utilizzo del criterio di Kaldor-Hicks non sortisce secondo Calabresi migliori risultati. Esso, in effetti, evita l’impasse dell’ottimo paretiano postulando l’efficienza di qualsiasi variazione che comporti un vantaggio maggiore per chi vince rispetto alla lesione dei perdenti, a prescindere dal fatto che vi sia un’effettiva compensazione di tali perdite. Tuttavia, l’applicazione dell’analisi dei costi transattivi ci dice che tale conclusione è fallace: se i costi tran-sattivi fossero nulli, gli spostamenti si verificherebbero autonomamente, senza la necessità di coartare coloro che si ritengono, a torto o a ragione, danneggiati dagli spostamenti. In questo caso ottimo paretiano e criterio di Kaldor-Hikcs verrebbero quindi a coincidere.
Se, come avviene concretamente, gli spostamenti ritenuti efficienti non si verificano, ciò significa che i costi transattivi esistono, e rimuoverli significa spostare verso l’esterno la frontiera, e non semplicemente raggiungere una frontiera preesistente. Ancora, il fatto che si effettuino degli spostamenti che comportano delle perdite che non vengono, o vengono solo parzialmente, indennizzate, comporta la necessità di adottare una teoria distributiva, dato che la valutazione della superiorità del guadagno rispetto alla perdita implica necessariamente delle comparazioni interpersonali. Questo è il dato, segnalato da Calabresi come imprescindibile in qualsiasi valutazione di public choice, che mette maggiormente in crisi gli economisti: un’ampia corrente di studiosi ritiene infatti che il punto di forza della scienza economica risieda nella neutralità delle sue valutazioni; efficienza, utilità, costi transattivi, sono tutti concetti che non implicano giudizi «politici», nel senso di giudizi basati su valutazioni discrezionali.
Ritenere, come fa Calabresi, che non è possibile effettuare delle scelte collettive senza fare uso esplicito di una teoria distributiva, mette in crisi questa idea profondamente radicata: la selezione degli spostamenti da effettuare non dipende più da criteri neutrali, ma da opzioni distributive discrezionali, che, proprio perché legate a valutazioni intrinsecamente soggettive, sono inevitabilmente opinabili. Calabresi è conscio delle difficoltà che derivano dalla revisione dei criteri di efficienza, ma ritiene che la discussione delle scelte distributive non possa essere evitata, pena la perdita di scientificità dietro un falso velo di neutralità:«senza uno sguardo concreto alla situazione particolare, seguito dall’applicazione a tale situazione di una teoria distributiva esplicita, il tentativo di rendere l’efficienza di Kaldor-Hicks una guida normativa generale è destinato a fallire. Non può essere nulla più di un tentativo fasullo di convertire una teoria distributiva di dubbia validità in una che ha un’autentica neutralità distributiva».
L’analisi di Calabresi, tuttavia, non si conclude nella pars destruens che nega la possibilitàdi utilizzare i criteri di Kaldor-Hicks e di ottimo paretiano per effettuare dellescelte normative. Dalla consapevolezza che qualsiasi tipo di spostamento comporta necessariamentela possibilità di avere dei perdenti, o di muovere verso l’esterno la frontiera preesistente, e spesso anche di entrambe le cose, discende la necessita di elaborare una nuova tassonomia che permetta di catalogare in modo razionale le innovazioni, per rendere più trasparente e lineare la scelta su quali fra di esse perseguire.
I criteri di catalogazione possono essere i più diversi; Calabresi ne propone a titolo esemplificativo due: la selezione potrebbe avvenire in base alla possibilità di effettuare la compensazione delle perdite (limitando quindi le conseguenza redistributive); oppure si potrebbero raggruppare i tipi di barriere che impediscono le innovazioni, per stabilire quali sono quelli più facilmente eliminabili, o aventi minori costi sociali. Le possibili tassonomie sono comunque numerose, e sono in parte già state elaborate da alcuni studiosi, fra i quali per es. O. Williamson, nei suoi lavori sull’economia dei costi transattivi. Se molto lavoro rimane ancora da fare, ciò che conta è che si sia aperta la strada ad analisi che tengono effettivamente conto dei costi transattivi esistenti, e mirino ad affrontarli sulla base di scelte esplicite. «Prendere sul serio l’intuizione di Coase che tutto, ivi compresi i mercati esistenti e quelli potenziali, ha un costo, significa potersi concentrare su quali tipi di costi si dovrebbe realisticamente tentare di ridurre, e quali sono quelli di cui non ci si dovrebbe per il momento occupare.


G. Calabresi, L’inutilità di Pareto: ulteriori implicazioni del teorema di Coase (trad. it. di L. Antoniolli Deflorian, note omesse):

Circa cinquant’anni fa, in un articolo embrionale dal titolo La natura dell’impresa,un giovane socialista di nome Ronald Coase tentava di spiegare l’esistenza delle imprese,di organizzazioni nel cui ambito il mercato veniva sostituito dalla gerarchia e dall’autorità. Venticinque anni dopo, ne Il problema del costo sociale, Ronald Coase, all’epoca un liberale di mezza età, indicava in che modo i mercati potessero sostituire le strutture gerarchiche e autoritarie, con sensibile beneficio di coloro che li organizzassero. Cinque anni fa, in occasione di una conferenza per il cinquantesimo anniversario de «La natura dell’impresa», il professor Coase ha così descritto l’intuizione che gli ha permesso di spiegare l’esistenza dell’impresa:
«La soluzione fu di rendersi conto che esistevano dei costi derivanti dall’effettuazione di transazioni in un’economia di mercato, e che era necessario incorporarli nell’analisi. Ciò non veniva fatto all’epoca dalla scienza economica – e nemmeno, potrei aggiungere, viene fatto dall’attuale teoria economica».
Forse a causa del socialismo di Coase, «La natura dell’impresa» enfatizzava i costi dei mercati, e sottolineava che nei casi in cui delle strutture non di mercato (cioè autoritarie o gerarchiche) potessero ottenere risultati desiderabili a costi inferiori, la gente si sarebbe organizzata secondo tali strutture – allo scopo di raggiungere questi risultati nel modo migliore. Forse perché Coase era divenuto un liberale, «Il problema del costo sociale» enfatizzava i possibili benefici dei mercati. Egli faceva notare che qualora i costi transattivi non fossero proibitivi, la gente effettuerebbe delle transazioni, creando dei mercati, non solo per aggirare strutture gerarchiche e autoritarie «inefficienti», ma anche per colmare il vuoto determinato dall’assenza di preesistenti relazioni di mercato od autoritarie. Come il professor Coase ha riconosciuto, il punto essenziale implicato è il medesimo . La sua importanza per la teoria economica non è in nessun caso sopravvalutata, e anzi non è stata ancora pienamente compresa.
In questo articolo vorrei riprendere l’intuizione originale di Coase e, partendo da essa, applicarla in un contesto ancora più ampio di quello da lui prescelto circa trent’anni fa ne «Il problema del costo sociale». Vorrei esaminare cosa accade all’intera nozione di efficienza, e specificatamente al concetto di ottimo paretiano, se applichiamo seriamente l’intuizione che «esistono dei costi derivanti dall’effettuazione di transazioni in un’economia di mercato».
La mia teoria può essere riassunta in modo molto semplice. I costi transattivi (ivi compresi i problemi di razionalità e di conoscenza), al pari della tecnologia esistente, definiscono ciò che è attualmente raggiungibile in qualsiasi società – la frontiera paretiana. Ne consegue che ogni società si trova sempre o arriva immediatamente a un punto di ottimo paretiano, dati i costi transattivi. Perciò nessun movimento dallo status quo è possibile senza alternativamente (a) svantaggiare almeno qualcuno (rendendo così inevitabili delle considerazioni distributive); oppure (b) tentare di spostare in avanti la frontiera (anch’esso un processo rischioso e costoso, che normalmente comporta conseguenza distributive). Ne deriva anche che la distinzione che viene spesso fatta fra la rimozione dell’inefficienza (spostamenti verso la frontiera) e l’innovazione (spostamento verso l’esterno della frontiera) è una falsa dicotomia. Una volta che si sia riconosciuto questo, si può focalizzare maggiormente l’attenzione sullo sviluppo di una tassonomia dei possibili tipi di innovazione, e quindi essere in una posizione migliore per decidere quali valga presumibilmente la pena di perseguire.

La simmetria fra i sistemi di mercato e quelli controllati

Molto è stato detto sulle ragioni per cui gli economisti e i giuristi non hanno accettato per molto tempo La natura dell’impresa, mentre hanno accettato Il problema del costo sociale nel giro di pochi anni dalla pubblicazione. Sicuramente La natura dell’impresa sembrava richiedere agli economisti un lavoro che nel complesso essi non amano svolgere. Gli studi sui costi comparati delle forme di mercato e non di mercato non aveva per gli economisti il fascino dell’alta teoria, né, come ha detto Coase, lo hanno adesso. E il mondo di circa cinquantacinque anni fa era tale per cui i giuristi, che avrebbero potuto intravedere un interesse nell’articolo proprio nel tipo di analisi istituzionale comparata di cui si occupa gran parte della dottrina giuridica degli Stati Uniti, non lo lessero.
Perché, allora, Il problema del costo sociale è stato accolto bene? Molti economisti fraintesero l’articolo, ritenendolo una giustificazione del primato del mercato e dell’assenza di necessità di regole giuridiche o comandi. In quanto tale, esso non sembrava richiedere un duro lavoro in materia di istituzioni comparate, ma solamente una maggiore, e più elegante, manipolazione dei processi di mercato. Inoltre, questa volta i giuristi lessero l’articolo. Esso venne pubblicato in una rivista a essi facilmente disponibile, e apparve contemporaneamente ad altri lavori che con esso resero l’economia una materia di primario interesse per i giuristi accademici. E mentre anche la dottrina giuridica non afferrò appieno tutta la sua forza e la sua sottigliezza, lo considerò presto come una giustificazione per i propri studi comparati relativi a quando operino meglio sistemi controllati (regolamentazione o diritto penale), quelli misti (regole di responsabilità civile o contrattuale), oppure i regimi di mercato (libera contrattazione).
Un’ulteriore e più importante ragione per cui i giuristi e gli economisti hanno ignorato La natura dell’impresa è la straordinaria ampiezza dell’intuizione in essa contenuta.
La completa comprensione dei costi e dei possibili benefici dei mercati ci obbliga ad accettare qualcosa che va contro alcune delle nostre più elementari presupposizioni. Richiede che comprendiamo che né le forme organizzative di mercato, né quelle non di mercato sono originarie; piuttosto, si tratta di due approcci che sono correlati in modo stranamente simmetrico, dato che (a) la gente cerca di trovare il modo più efficiente (meno costoso) di strutturare le proprie relazioni, e, dato che entrambi gli approcci sussistono, (b) la gente cerca di usare il potere (ricchezza o autorità) che ciascun approccio le conferisce in modo da derivarne il massimo beneficio.
Naturalmente, tanto i mercati, quanto le strutture controllate comportano delle conseguenze distributive. In un regime di mercato alcuni sono resi più ricchi, e altri più poveri; in una struttura controllata alcuni hanno una maggiore autorità, altri meno. È parimenti chiaro che, in un regime esclusivamente di mercato, la ricchezza comporta autorità, e che, in una struttura totalmente controllata, l’autorità comporta ricchezza. Altrettanto vero, anche se forse meno chiaro, è il fatto che in sistemi misti, quali i nostri, la gente userà il proprio vantaggio distributivo in un mezzo per superare lo svantaggio nell’altro, «alterando» o «corrompendo» tale altro mezzo. L’uso del denaro per influenzare o «corrompere» coloro che si trovano in posizione di autorità è sufficientemente semplice da comprendere, sia esso attuato attraverso la corruzione oppure le contribuzioni per le campagne politiche. Ma altrettanto, se osserviamo bene, è vero il contrario. Il proverbiale poliziotto di ronda, che prende una mela da una bancarella di frutta e non la paga, usa l’autorità per alterare o «corrompere»il mercato. Il poliziotto non è molto ricco, ma è forte dal pun-to di vista dell’autorità, e ne fa uso per ottenere a buon mercato qualcosa che in denaro sarebbe relativamente più costoso. Al contrario, il corruttore è debole dal punto di vista dell’autorità, ma possiede molto denaro, e utilizza la ricchezza per ottenere ciò che è stato allocato attraverso l’autorità, invece che per mezzo dei mercati. La simmetria è ricorrente.
Coase, nei suoi grandi articoli, ha focalizzato l’attenzione sulla simmetria fra sistemi di mercato e sistemi controllati quando l’oggetto era quello di stabilire delle modalità efficienti per raggiungere degli scopi mutualmente desiderati. Nell’ultimo paragrafo ho suggerito che la stessa simmetria esiste rispetto alle questioni distributive. Questa sarà l’oggetto di alcuni articoli futuri, nei quali esaminerò più in dettaglio le conseguenze della simmetria fra approcci controllati e di mercato in un mondo in cui l’ottimo paretiano non fornisce una guida, e le questioni distributive non possono, nemmeno in teoria, essere evitate. In questo articolo mi concentrerò sulle spiegazioni del perché l’ottimo paretiano non possa fornire una guida, e le conseguenze di questo fatto.
Ciò che esiste è ottimale, fintanto che non lo si cambia
Si sente dire che se non esistono costi transattivi, qualunque punto iniziale sarà, o porterà immediatamente con unanime consenso, un punto d’arrivo efficiente. (Questa è la vecchia regola). Alcuni hanno ritenuto che questo sia il significato centrale del lavoro di Coase. Ma, come La natura dell’impresa dimostra, Coase è altrettanto preoccupato di ciò che bisogna fare, data l’esistenza dei costi transattivi. Io vi dico che se l’efficienza viene definita in termini strettamente (o, come si dice talvolta, fanaticamente) di test paretiano, qualunque punto iniziale sarà, o condurrà immediatamente a, un punto finale efficiente, anche in presenza di costi transattivi. (Questa è la nuova regola!).
Cos’è il test paretiano? È un semplice requisito di unanimità. Afferma che una società non si trova in posizione ottimale se esiste almeno una mutazione che migliorerebbe la posizione di qualcuno in quella società senza danneggiare altri. Concludere unanimemente che un mutamento sarebbe preferibile. Queste sono questioni totalmente diverse, sulle quali dirò di più fra breve.
Significa però che il criterio paretiano non può avere un uso generale quale guida normativa.
Le cose sarebbero molto diverse qualora si utilizzasse un criterio paretiano meno rigido. Se si definissero gli spostamenti paretiani positivi come quelli che non danneggiano finanziariamente alcuno e avvantaggiano finanziariamente altri, non ne deriverebbe che la posizione in cui ci troviamo è ex ante un ottimo paretiano. Alcune persone potrebbero trattenerci dal fare tale (pseudo) spostamento paretiano positivo perché, nonostante esso non li tocchi finanziariamente, potrebbero essere lesi moralmente o psicologicamente dal mutamento. Similmente, una variazione che arricchirebbe il ricco ma non impoverirebbe il povero, potrebbe essere bloccata da coloro che condannino l’aumento della «maldistribuzione» della ricchezza. Ed un mutamento che avvantaggerebbe il povero, ma lasciasse il ricco allo stesso livello di prima, potrebbe essere contrastato con successo da coloro che ritengono odioso ogni spostamento verso un maggiore egualitarismo.
Infine, l’invidia potrebbe spingere alcuni a opporsi efficacemente a una variazione che aiuti gli altri, nonostante lasci per il resto inalterata la situazione degli oppositori. Ed altri ancora potrebbero fare lo stesso, perché non obiettare significherebbe rinunciare a una parte del potere di transazione, alla rivendicazione di una parte dei vantaggi che il mutamento rende disponibili. In tutti questi casi, una variazione che molti stimerebbero essere un miglioramento, si verificherà solamente se è possibile convincere o compensare coloro che vi si oppongono. Se si deve obbligarli a ciò, tuttavia, per quanto una tale modifica possa apparire desiderabile per alcuni di noi, non può essere definito uno spostamento paretiano positivo, senza svuotare il concetto paretiano di tutto il suo valore.
In ciascuno dei casi descritti qualcuno perde. Il resto delle persone può credere che la perdita non debba essere tenuta in considerazione, perché è indegna o irrilevante se confrontata con il guadagno dei vincenti. E può anche avere ragione. Ma nel momento in cui siamo disposti ad affermare questo, abbiamo introdotto nello schema un valore non accettato unanimemente, e si apre quindi la stagione di caccia. Per quanto riguarda l’efficienza economica, ci si troverebbe così coinvolti in comparazioni interpersonali, e non esiste alcun motivo basato sull’economia o sull’efficienza per cui alcune comparazioni di questo genere possano essere permesse, e altre escluse.
Si sarebbe con ciò entrati in un mondo completamente normativo, in cui l’identità e il merito dei vincitori e dei perdenti diventerebbero essenziali. Vorrei chiarire. Quel mondo normativo è quello in cui viviamo, e possiamo dire molto su ciò che è meglio e ciò che è peggio in esso. Ciò che non possiamo fare, tuttavia, è nascondere quello che è implicato in un simile mondo al di là di un criterio neutro a livello interpersonale, e agire come se non stessimo dando dei giudizi morali, i cui effetti imponiamo poi ad altri.
L’effetto dei costi transattivi
Ed i costi transattivi? Non ci troviamo nel caso in cui si potrebbe verificare un mutamento che, se fossimo in grado di compierlo, migliorerebbe la condizione di tutti, ma che non riusciamo a scegliere unanimemente perché ciò ci è precluso dai costi transattivi? Coase non affermava proprio questo, letto alla lettera, quando asseriva che, in mancanza di costi transattivi, si raggiungerebbe sempre un punto efficiente, a prescindere dal punto di partenza? Anzi, non si può forse precisare quell’affermazione dicendo che non sono solo i costi derivanti dalle trattative che ci impediscono di migliorare la nostra posizione, ma anche la mancata conoscenza che una mutazione sarebbe effettivamente un miglioramento per tutti, o l’assenza della capacità o della volontà di compensare adeguatamente coloro che inizialmente verrebbero penalizzati dal mutamento, o, infine, un gioco fallito in cui non si trova un accordo sulla divisione dei guadagni, e quindi non si verifica alcuna variazione? Naturalmente Coase chiamerebbe tutte queste barriere costi transattivi.
Inoltre, è certamente possibile che se qualcuno ci forzasse a fare una mossa, potremmo tutti convenire retrospettivamente che nessuno è stato svantaggiato. Non c’è alcun dubbio che l’insufficienza di conoscenza, organizzazione e compensazione spesso ci trattiene dal fare ciò che, se fosse possibile, migliorerebbe la posizione di tutti. Altrettanto vale, bisogna ammettere, per il mancato uso della coercizione. Il criterio paretiano non indica ciò che è chiaramente desiderabile, se solo si trovasse il modo per eliminare, o forse anche solo ridurre, questi impedimenti? La risposta, sfortunatamente, è che non è così.
O meglio, coloro che vorrebbero cercare di usare il criterio paretiano in questo modo non tengono conto del fatto che non c’è alcuna differenza, in teoria o in pratica, fra la riduzione o l’eliminazione di tali impedimenti, e ogni altra innovazione nelle conoscenze o nell’organizzazione che potrebbe migliorare la nostra situazione– un motore che consuma meno energia in attrito, per es.. L’essenza dell’intuizione di Coase è che i costi transattivi non sono diversi da tutti gli altri costi. In quanto tali, per usare un linguaggio tecnico, essi possono aiutare in qualsiasi momento a definire la possibile frontiera paretiana, quella serie di stati sociali che rappresentano il meglio che possiamo fare in un certo momento senza peggiorare la situazione di alcuno. Ma altrettanto vale per il fatto che non disponiamo di un motore che lavora con minore attrito, o che la manna non piove dal cielo. «Perciò l’esistenza dei costi transattivi non ci trattiene dal raggiungere una frontiera che è di fatto alla nostra portata, più di quanto comporti il fatto che oggi un certo grado di attrito sia una realtà della vita, e che al momento la manna non piove dal cielo». Tutti questi elementi svolgono la stessa funzione. Definiscono ciò che è e ciò che non è attualmente fattibile.
Può darsi che un domani i costi transattivi siano inferiori, che le nostre conoscenzee la nostra organizzazione siano migliori, che la nostra invidia diminuisca, che i superconduttori riducano l’attrito, e che la manna piova dal cielo. Sarà forse possibile allora aiutare qualcuno senza colpire qualcun altro. Ma ciascuno di questi casi rappresenta uno spostamento verso l’esterno della frontiera, non la rimozione di un’inefficienza che fino a quel momento ci aveva trattenuto dal raggiungere una frontiera preesistente. Una volta che abbiamo compreso il pieno significato dell’affermazione di Coase che i costi transattivi sono dei costi, una volta che abbiamo compreso che il loro effetto economico è identico a quello derivante dall’esistenza dell’attrito, dalla mancanza della manna, e dalla nostra incapacità di ridurre il primo o di produrre la seconda in modo sufficientemente economico, allora dobbiamo concludere che un avvicinamento alla frontiera o uno spostamento della frontiera sono semplicemente la stessa cosa.
Ciò non implica assolutamente che tutti i costi siano uguali, o che si dovrebbe spendere lo stesso tempo, sforzo o denaro per cercare di superare ognuno di essi. In effetti, come vedremo fra breve, una volta che ci si sia liberati dell’errata opinione che alcune categorie astratte predeterminate di costi sono in un certo senso «irreali »o «semplici inefficienze», ovviamente da superare, mentre altre, ugualmente definite in modo astratto, possono essere conquistate solamente attraverso processi costosi o rischiosi quali le «innovazioni», ci si può occupare del vero compito di decidere quali impedimenti a una vita migliore (quali barriere allo spostamento della frontiera) sembra essere meglio attaccare, e quali, per il momento, non sembrano meritare lo sforzo.
Tuttavia, qualcuno potrebbe dire che sono stato troppo precipitoso nel presupporre l’immaneggiabilità dei costi transattivi, e che spesso si possono effettuare degli interventi collettivi o dei mutamenti giuridici che riducono gli impedimenti alle transazioni, portando così a spostamenti paretiani positivi. Altri sosterranno che ho utilizzato una definizione errata di efficienza, e che il test di Kaldor-Hicks è il criterio più appropriato. Essi aggiungerebbero che è l’effetto dei costi transattivi su tale criterio ciò di cui dovrei discutere. In effetti, ritengo che entrambi questi punti siano già stati respinti implicitamente nella precedente discussione. Ma può essere bene considerarli in modo esplicito.

Interventi collettivi e rimozione degli ostacoli alle transazioni

Non serve affermare che, quando i costi transattivi ci impediscono di raggiungere uno stato in cui alcuni migliorano la propria posizione e nessuno la peggiora, bisognerebbe utilizzare «metodi non di mercato» per raggiungere tale posizione. L’affermazione appare plausibile perché l’esistenza di costi transattivi elevati suggerisce di sostituire dei mercati costosi con forme di organizzazione più economiche non di mercato. Ma La natura dell’impresa fornisce la risposta alla questione. Se si fosse a conoscenza e si disponesse di un metodo non di mercato ex ante superiore in senso paretiano, se ne sarebbe già fatto uso! Questa è precisamente la spiegazione di Coase dei motivi dell’esistenza dell’impresa. Se non si è fatto uso di questa alternativa al mercato, dev’essere perché qualcuno, giustamente o meno, ritiene che verrebbe danneggiato dal suo utilizzo. Cioè, alcuni individui si oppongono allo spostamento verso la struttura non di mercato perché ritengono di cavarsela meglio in una struttura di mercato. E quelli che guadagnerebbero dal mutamento non sono in grado di compensarli per le loro perdite, perché è troppo costoso, o perché gli accordi per la compensazione non possono essere fatti osservare.
L’approccio ideologicamente opposto all’esistenza di costi transattivi elevati può essere respinto esattamente allo stesso modo. Qualcuno sostiene che se i costi transattivi ci trattengono dal fare degli spostamenti paretiani positivi, si dovrebbero rimuovere gli ostacoli alle transazioni. Si dovrebbero, per es., effettuare dei mutamenti giuridici che facilitino le negoziazioni a basso costo e i mercati. Tali variazioni, si ritiene, comporterebbero dei miglioramenti paretiani. Ma, ancora una volta, la risposta si trova nella domanda: chi viene danneggiato dalla rimozione degli impedimenti alle transazioni o dai mercati a basso costo? Se nessuno ritiene di perdere, allora questi impedimenti sarebbero già stati rimossi da tempo. Se qualcuno, giustamente o meno, ritiene di perdere, e la compensazione non è fattibile, la variazione non sarà ex ante un miglioramento paretiano.
Come ho suggerito prima, gli impedimenti teorici agli spostamenti verso strutture non di mercato o alle strutture per ridurre i costi transattivi che porterebbero a supposte variazioni paretiane, come gli impedimenti teorici agli spostamenti che porterebbero direttamente a supposte posizioni paretiane superiori, non sono in questo senso diversi da altri impedimenti. La società non può raggiungere una posizione paretiana altrimenti superiore, perché qualcuno non è disposto a perdere una parte di potere contrattuale (che potrebbe essere scambiato con una parte dei guadagni), perché le parti non sono a conoscenza delle strategie altrui, o, come nel dilemma del prigioniero, perché manca l’organizzazione necessaria per imporre il silenzio a entrambe le parti, e la creazione dell’organizzazione necessaria è troppo costosa o dannosa per qualcun altro(in questo caso il carceriere). Il mio punto di vista in tutto ciò resta lo stesso.
Non nego la possibilità di scoperte, mosse forzate, o variazioni casuali che, in retrospettiva, migliorano la posizione di tutti. E nemmeno affermo che non si possono convincere coloro che temono di perdere (di nuovo, giustamente o meno) che una variazione vada in effetti a loro vantaggio. Infine, non nego certamente che possa valere la pena di pagare delle persone – economisti, per es., o persino gius-economisti – per tentare di convincerci tutti che un mutamento sarebbe universalmente desiderabile. (Dire ciò equivarrebbe a fare la sciocca affermazione che non vale mai la pena di pagare eventuali inventori perché cerchino di scoprire delle cose che migliorerebbero la vita di tutti). Io sostengo che non si possono criticare le sistemazioni esistenti sulla base dell’ipotesi che è disponibile una posizione universalmente migliore. Se lo fosse, e se tutti ne fossimo a conoscenza non ci sarebbe bisogno della critica. Se non tutti la conoscono, la stessa mancanza di conoscenza è un impedimento al miglioramento al pari della mancanza di conoscenza che impedisce miglioramenti prima che un’invenzione o una scoperta dissipi la nostra ignoranza. In ciascun caso, è fuorviante ed errato agire come se uno spostamento paretiano positivo fosse attualmente disponi bile. In ciascun caso, fintanto che le nostre conoscenze o le nostre capacità organizzative non aumentano, il miglioramento non è altro che una pia illusione, o una giustificazione ausiliare al lavoro accademico tendente a fornire le necessarie conoscenze.

Della superiorità paretiana potenziale o di Kaldor-Hicks

Qualcuno può controbattere, tuttavia, che io ho utilizzato una definizione sbagliata di efficienza. La definizione appropriata, si direbbe, è quella fornita dal criterio di Kaldor-Hicks. Questo test afferma approssimativamente che uno spostamento è efficiente ogni qualvolta il vincitore vinca più di quanto il perdente perda, nel senso che se i vincitori compensassero in modo soddisfacente i perdenti, essi si troverebbero comunque meglio rispetto a prima del cambiamento. (Questo test viene talvolta chiamato superiorità paretiana potenziale, perché dispone del potenziale, tuttavia, dipende dalla riuscita della soddisfacente compensazione dei perdenti. Ma il test di Kaldor-Hicks non richiede l’effettiva compensazione, che può anche non essere nemmeno fattibile).
L’affermazione di Coase, per cui in assenza di costi transattivi qualunque punto iniziale porterà a un punto finale efficiente, è sicuramente vera se si fa uso del test di efficienza di Kaldor-Hicks. Molti hanno utilizzato l’intuizione di Coase avendo in mente questo risultato, e non sono andati oltre. Per vedere perché questa non possa essere una conclusione soddisfacente dell’indagine, dobbiamo esaminare perché, in assenza di costi transattivi, qualsiasi punto di partenza porti all’efficienza di Kaldor-Hicks. Saremo quindi capace di comprendere perché il raggiungimento di tale efficienza non altera i problemi e le possibilità sottostanti, che il fallimento del criterio paretiano stretto ci ha lasciato.
In assenza di costi transattivi, nel senso coasiano del termine, la compensazione dei perdenti è possibile in ogni caso. Qualunque spostamento che porterebbe ai vincitori più di quanto toglierebbe ai perdenti, avverrebbe volontariamente, perché esisterebbero sempre le necessarie conoscenze e l’adeguata organizzazione. I perdenti, perciò, saranno in grado di chiedere esattamente la compensazione che li pone in una condizione almeno equivalente a prima, mentre i vincitori sapranno che se non pagano tale compensazione dovranno rinunciare al loro guadagno. I vincitori e i perdenti risolveranno con successo le dispute riguardanti la suddivisione dei guadagni (cioè del surplus), perché l’assenza di costi transattivi significa che essi sperimenteranno tutti i giochi fino a creare la suddivisione dei guadagni che massimizza il surplus.
In altre parole, in assenza di costi transattivi la società effettuerà tutti gli spostamenti positivi di Kaldor-Hicks volontariamente e unanimemente, e in tali circostanze tutto ciò che è superiore secondo il criterio di Kaldor-Hicks lo è anche secondo il criterio paretiano! Questa è semplicemente una banalità. In base alle stessa definizione di efficienza di Kaldor-Hicks la sola cosa che rende gli spostamenti positivi di Kaldor-Hicks solamente potenzialmente positivi in base al test paretiano, invece che effettivamente positivi, è l’assenza di una adeguata compensazione. Ed in assenza di costi transattivi, i vincitori possono sempre effettuare tale compensazione. Ne consegue che, in assenza di costi transattivi, la società raggiungerà l’efficienza di Kaldor-Hicks con un consenso unanime senza eccessivo bisogno di preoccuparsi. Ma, naturalmente, esistono dei costi transattivi tali per cui l’adeguata compensazione dei perdenti non è assolutamente assicurata.
Senza alcun intervento, perciò, è probabile che ci si trovi in posizioni che, sebbene ottimali dal punto di vista pare tiano, non sono efficienti in base al test di Kaldor-Hicks. Avremo a disposizione dei mutamenti che non accadono spontaneamente, e che porterebbero i vincitori a guadagnare di più di ciò che i perdenti perderebbero.
A meno che non si sia disposti a fare delle comparazioni interpersonali, tuttavia, non si può dire che un simile spostamento di Kaldor-Hicks non compensato sia un miglioramento. In questo aspetto cruciale gli spostamenti positivi di Kaldor-Hicks non sono neutri per i soggetti allo stesso modo di quelli paretiani. Esistono, ovviamente, dei modi per aggirare l’ostacolo. Alla fine, però, falliscono tutti. Essi o presuppongono una teoria di equa distribuzione, che in astratto non è migliore di altre possibili teorie distributive; oppure, nel vano tentativo di trasformare la costrizione in consenso, presuppongono accordi che non sono mai avvenuti. Voglio descrivere due di tali tentativi, effettuati da uno dei massimi giuseconomisti contemporanei, Richard Posner.
In alcuni suoi scritti Posner sembra giustificare l’uso della coercizione per raggiungere l’efficienza di Kaldor-Hicks, sulla base del fatto che, dato che non si sa nulla riguardo ai vincitori e ai perdenti, la migliore ipotesi che si possa fare su di loro è che essi si equivalgono. Se questo è vero, almeno in base ai parametri utilitaristici, allora qualunque cosa dà ai vincitori più di quanto tolga ai perdenti è un miglioramento. Il problema di questo approccio, come ho già sottolineato, è che si può supporre che vincitori e perdenti si equivalgono solamente se discutiamo il problema in modo astratto, chiamando A i vincitori e B i perdenti. Nel momento in cui affrontiamo una situazione reale, si sa di più su chi vince e chi perde. Una volta che non si è più ignoranti, qualunque numero di differenze può portare a credere che le perdite o i guadagni di alcuni contano di più delle perdite o dei guadagni di altri. In altre parole, ci troviamo immediatamente in un mondo reale in cui ci si deve confrontare con delle contrastanti teorie di equa distribuzione, e in cui una teoria che afferma che le perdite e i guadagni di ciascuno, ricco o povero, buono e cattivo, a prescindere dai punti di partenza, hanno la stessa importanza sociale, non ha grandi meriti.
Non vorrei essere frainteso. Non sto suggerendo che non si sia in grado di dire nulla a proposito dell’equa distribuzione. La mia tesi è proprio l’opposto, come cercherò di dimostrare per esteso nei prossimi articoli. In effetti, una delle conclusioni di questo articolo sarà che il fallimento del criterio paretiano come guida effettiva rende inevitabile una discussione completa e aperta della distribuzione e delle comparazioni interpersonali. Non voglio nemmeno suggerire che la teoria distributiva di Posner sia sempre errata. Ci possono essere delle situazioni in cui i vincitori e i perdenti sono casuali, o in cui l’incidenza del cambiamento non può essere determinata, di modo che non si può sapere chi sono i vincitori e i perdenti. Quindi, trattare allo stesso modo i vincitori e i perdenti può essere giustificato. Ci possono anche essere delle situazioni in cui un’equa teoria distributiva porta a concludere che è indifferente chi sono gli effettivi vincitori e gli effettivi perdenti, e perciò un cambiamento positivo di Kaldor-Hicks è desiderabile. Ma senza uno sguardo concreto alla situazione particolare, seguito dall’applicazione a tale situazione di una teoria distributiva esplicita, il tentativo di rendere l’efficienza di Kaldor-Hicks una guida normativa generale è destinato a fallire. Non può essere nulla più di un tentativo fasullo di convertire una teoria distributiva di dubbia validità in una che ha un’autentica neutralità distributiva.
Posner stesso sembra riconoscere che gli spostamenti positivi di Kaldor-Hikcs hanno conseguenze distributive non neutrali. In alcuni suoi scritti egli tenta di giustifi-care degli spostamenti coatti verso punti efficienti di Kaldor-Hikcs, suggerendo che in questi casi si può presupporre un consenso ex ante alla coercizione. Egli suppone che, in qualche inesistente contratto sociale, tutti noi abbiamo acconsentito a seguire qualunque mutamento che porti a un miglioramento di Kaldor-Hikcs.
A questo riguardo esistono almeno due problemi. In primo luogo, un simile contratto sociale non è mai stato stipulato. L’equità del risultato non dipende, perciò,dall’unanime consenso, ma dalla plausibilità intrinseca dello pseudo-contratto. Secondariamente, se ci fosse stato un simile contratto, non è affatto chiaro che le parti di esso si sarebbero trovate d’accordo sull’efficienza di Kaldor-Hikcs come obiettivo. In effetti, l’efficienza di Kaldor-Hikcs non è assolutamente l’obiettivo più ragionevole. In assenza di un accordo effettivo, tutti noi avremo le nostre idee di come dovrebbe essere un contratto sociale giusto. Alcuni potrebbero effettivamente presumere che il criterio di Kaldor-Hikcs giochi un ruolo dominante. Ma altri potrebbero allo stesso modo inserire ogni sorta di clausole nel non-accordo, giungendo a effetti distributivi ampiamente diversi. John Rawls, per es., ha compiuto il più rilevante dei recenti tentativi di dare significato a tali inesistenti accordi. La sua nozione di ciò su cui ci si accorderebbe dietro a un velo di ignoranza – il concetto di «maximin»– è molto diverso dal semplicistico patto di accettare qualsiasi cosa che porti a dei miglioramenti di Kaldor-Hikcs.
Un altro problema, alquanto diverso, relativo a qualunque tentativo di conversione degli spostamenti di Kaldor-Hikcs in spostamenti volontari, e quindi paretiani, postulando un precedente accordo unanime di accettare la coercizione, e che anche se la gente avesse in un precedente momento stipulato un simile patto, potrebbe poi essersene pentita. Se le cose stanno così, qualunque mutamento di questo genere creerà dei perdenti. Ancora una volta, sarà impossibile affermare che è avvenuto un miglioramento sociale senza effettuare delle comparazioni interpersonali (decidendo, per es., che coloro che cambiano idea dovrebbero essere ignorati, che le loro perdite non contano).
Mi occupo separatamente di questo problema relativo agli spostamenti di Kaldor-Hikcs perché la questione riguarda anche gli spostamenti paretiani autentici. Esso fa sorgere dei dubbi riguardo alla desiderabilità di quei mutamenti sui quali c’è un effettivo accordo unanime della gente, e che avvengono senza il bisogno di coercizione o di analisi complesse. Anche qui, dopotutto, qualcuno ha accettato la variazione può poi pentirsene. Il problema del ripensamento – delle preferenze ex ante ed ex post – è altamente complesso, e travalica lo scopo del presente articolo. È una questione che dovrò discutere in un successivo lavoro, in cui analizzerò la simmetria teorica fra approcci di mercato e non di mercato, fra processi decisionali individualistici e collettivi. La discuterò in quella sede perché il problema dell’errore e del ripensamento è ugualmente cruciale tanto per gli approcci di mercato quanto per quelli non di mercato.
Per il momento, tuttavia, è sufficiente dire che anche se si postula l’assenza di errori o ripensamenti, o se si è disposti ad accettare una teoria distributiva che ignora le perdite di coloro che hanno sbagliato o hanno cambiato idea, il tentativo di trasformare degli spostamenti forzati di Kaldor-Hikcs in autentici spostamenti paretiani è comunque destinato a fallire. Un conto è affermare che si ignoreranno i danni di coloro che hanno cambiato idea. Un altro è affermare che si ignoreranno le perdite di coloro che non si sono mai detti d’accordo con il mutamento, perché si ritiene che essi avrebbero dovuto farlo! E, alla fine, questo è ciò che è il consenso ex ante di Posner. Per quanto riguarda la teoria distributiva di Posner (quella per cui tut i vincitori e tutti i perdenti si equivalgono), non voglio escludere la possibilità che la sua apparente teoria morale (l’efficienza di Kaldor-Hikcs è l’obiettivo desiderabile di una buona società, e tutti dovrebbero essere vincolati a essa) sia quella giusta in determinate circostanze. Ma non basta affermare che è così. Troppe altre teorie morali sono perlomeno altrettanto ragionevoli.
Al contrario dell’autentico ottimo paretiano che, se volesse dire qualcosa, avrebbe un effettivo ampio valore morale nonostante il problema del ripensamento, l’efficienza di Kaldor-Hikcs non può avere eguale valore. Così ritorniamo ai problemi e alle possibilità presenti in un mondo in cui ciò che esiste è ottimale in senso paretiano (fino a che non lo si cambia), e in cui lo status quo può essere ben lontano da ciò che riteniamo essere il migliore essere il migliore possibile. Può esser ben lontano dal meglio perché potremmo voler effettuare ogni sorta di variazioni se fossimo disposti a compiere dei giudizi distributivi fra vincitori e perdenti. Sarà ben lontano dal meglio anche se riteniamo correttamente che, col debito sforzo, è possibile ridurre i costi transattivi e le altre barriere che ci trattengono dal migliorare la posizione di tutti; se, in altre parole, possiamo spostare verso l’esterno la frontiera per mezzo di innovazioni nella conoscenza, nell’organizzazione e nella scienza, che potrebbero – almeno in teoria – migliorare la posizione di tutti.
Spenderò alcuni momenti per la prima di queste questioni: l’inevitabilità dell’analisi distributiva. Nella restante parte dell’articolo mi soffermerò sulla seconda, facendo qualche titubante passo verso una nuova tassonomia delle barriere – che sia più utile della terminologia paretiana nell’indicare dove dovrebbero essere diretti i nostri sforzi verso il miglioramento.

L’inevitabilità delle analisi distributive

Il fallimento del test paretiano nel fornire una guida pratica significa che in assenza di innovazioni che permetterebbero di migliorare la posizione di ciascuno, tutti i supposti miglioramenti comportano, almeno ex ante, la possibilità di avere dei perdenti. Ex post, si può scoprire di essere stati fortunati, e che ora i perdenti si vantano del mutamento. Ma non si può mai esserne certi in anticipo, e perciò non si può usarlo come una giustificazione generale per effettuare il mutamento. Ne consegue che né la critica dello status quo, né il sostegno a esso, possono essere neutri da un punto di vista distributivo. Il grande tentativo per evitare le comparazioni interpersonali e rendere l’economia ciò che vorrebbe Lionel Robbins – una scienza immune da contaminazioni distributive – deve essere una volta per tutte bollato come un fallimento totale.
Tuttavia questo fatto, lungi dall’essere un disastro, dovrebbe costituire una forza liberatrice. significa che gli economisti e i giuseconomisti non devono indugiare su ogni sorta di ipotesi controfattuali per puntellare il castello che frana. Non hanno più bisogno di postulare che gli individui sanno sempre cosa è meglio per loro; e nemmeno hanno più bisogno, neanche come premessa occasionale tacita di analisi di Kaldor-Hikcs, di postulare che vincitori e perdenti si equivalgono. Gli economisti e i giuseconomisti possono ora tranquillamente accettare nei loro modelli anche il rimpianto e i ripensamenti. Perché se la situazione in cui ci si trova è, per il momento, un ottimo paretiano e, in mancanza di innovazioni, qualunque miglioramento comporta ex ante dei perdenti, allora ci si può disfare di queste «utili»ipotesi miranti a negare l’esistenza dei perdenti. L’analisi distributiva diviene inevitabile e quindi essenziale, e gli economisti devono, per lo meno, essere espliciti riguardo ai giudizi distributivi (o alle congetture) che essi compiono. Coloro che ef fettuano la decisione possono allora accettare o rigettare tali giudizi e congetture, a loro scelta. Ma gli economisti non sono più obbligati a usare i termini in un modo che, anche se involontariamente, può facilmente essere frainteso dai soggetti che devono decidere, i quali possono pensare che essi abbiano un valore normativo indipendentemente dai loro effetti distributivi!
In effetti, ritengo che si possa fare di più. Mi sembra che gli economisti e i giuseconomisti possono avere molto da dire, come studiosi, circa ciò che è desiderabile da un punto di vista distributivo. Non dobbiamo semplicemente rendere palese i nostri giudizi distributivi e lasciare che i soggetti politici decidenti li accettino o meno. Noi possiamo sviluppare delle definizioni dottrinarie delle distribuzioni eque, sia definizioni teoriche che definizioni basate su studi empirici di particolari società. Ma l’ulteriore discussione di tali studi distributivi, come pure la discussione dei parallelismi fra le decisioni di mercato, deve attendere dei successivi lavori. In questo articolo desidero concentrarmi sulla questione della sostituzione del maldestro tentativo di distinguere fra spostamenti efficienti e innovazioni, fra spostamenti verso la frontiera paretiana e spostamenti di tale frontiera.

Verso una nuova tassonomia

La maggior parte degli economisti, se solo si fermassero a pensarci su, riterrebbe scontato molto di ciò che ho detto. Potrebbero non collegarlo, come ho fatto io, all’intuizione di Coase. Ma potrebbero anche affermare che hanno sempre saputo che la superiorità paretiana in senso stretto è un criterio irreale. Tuttavia molti persistono nell’uso del criterio di Pareto come una stampella, come se la sua fondamentale vacuità non importasse. E gran parte di coloro che non lo fanno, usano il test di Kaldor-Hikcs, che è diversamente ma ugualmente viziato. Si tratta di un innocuo sotterfugio della professione, oppure, in effetti, di qualcosa che ostacola ciò che dovrebbero fare gli economisti e i giuseconomisti?
Ovviamente ritengo che usare il criterio di Pareto come una stampella sia effettivamente dannoso. Lo credo non solo perché un simile uso del criterio di pareto tende a occultare l’inevitabilità delle questioni distributive, ma anche perché penso che l’uso della stampella paretiana tenda a impedire una seria analisi del processo di innovazione attraverso cui, talvolta, tutti si ritrovano in una situazione migliore, anche se spesso ciò non accade per tutti.
Come ho già scritto, gli economisti che fanno uso del criterio di Pareto distinguono fra movimenti verso la frontiera paretiana e movimenti che spostano tale frontiera verso l’esterno. I primi descrivono i tipi di spostamenti paretiani positivi che io ho sostenuto non esistere ex ante. I secondi si riferiscono a innovazioni tecnologiche o di altro tipo che rendono possibili dei miglioramenti del benessere che non erano precedentemente fattibili; un grano di qualità migliore, energia solare meno costosa, super conduttori, manna. Ciò che io ho detto è che tutti i mutamenti che ci riguardano sono di uno dei due tipi. In primo luogo ci sono gli spostamenti in cui si hanno dei vincitori e dei perdenti, cioè spostamenti lungo la frontiera. In questi spostamenti i vincitori possono guadagnare più di quanto perdono i perdenti, e ciò che essi hanno vinto o perso. Questi mutamenti possono essere giustificabili solamente se si considera chi sono i vincitori e i perdenti, e ciò che essi hanno vinto o perso.
Questa, ovviamente, è la premessa implicita di molta dell’attuale analisi economica del diritto. In secondo luogo, parimenti importanti, ci sono gli spostamenti della frontiera, che creano dei vincitori e che possono creare o meno anche dei perdenti. Questi sono stati enfatizzati in misura molto minore dall’analisi economica del diritto. Il fatto interessante riguardo agli spostamenti della frontiera è che gli economisti e i giuseconomisti tendono a parlare di quelle innovazioni «tecnologiche» e conoscitive che spetta a loro scoprire e rendere convincenti per gli altri, come se si trattasse «semplicemente» di spostamenti verso la frontiera, di spostamenti verso l’ottimo paretiano. Quelle innovazioni tecnologiche e conoscitive per cui noi paghiamo altre discipline perché ci arrivino (e ce le vendano), d’altra parte, sono descritte come movimenti di frontiera, come esterni al sistema paretiano. Questa classificazione ha portato, a mio giudizio, a un’inadeguata analisi di come si cerca si spostare verso l’esterno la frontiera. Esistono naturalmente delle differenze fra ciò che fanno gli economisti e ciò che fanno gli ingegneri. Ma esistono anche delle affinità. Ed esistono delle notevoli diversità fra ciò che fanno gli ingegneri, i chimici, i farmacologi, i poeti. Qualsiasi tassonomia che metta gli economisti in una classe e tutti gli altri innovatori in un’altra dev’essere prima facie sospetta, sia per le differenze su cui sorvola, sia per le similarità che ignora.
Bisognerebbe invece accettare il fatto che ci si trova sempre sulla frontiera paretiana, e che perciò tutti i mutamenti sono, nel momento in cui si compiono, o a vantaggio di qualcuno e a svantaggio di qualcun altro, oppure sono spostamenti della frontiera (derivanti da innovazioni in ciò che sappiamo, crediamo o possiamo organizzare), o entrambe le cose. Otterremmo probabilmente una classificazione più utile di quella che tratta le innovazioni economiche come interne al sistema, e tutte le altre innovazioni come esterne a esso. Perché questo tradizionale modo di considerare le innovazioni non solo traccia una distinzione arbitraria fra le innovazioni, ma può anche indurre qualcuno a credere erroneamente che ciò che viene descritto come movimento verso la frontiera sia ottenibile più facilmente degli spostamenti della frontiera. E ciò non ha, in effetti, nessuna base. Liberati dalla fantasia di un insieme di «inesistenti» miglioramenti perfetti che sono disponibili in base alle attuali conoscenze, ci si potrebbe rivolgere verso altre e più significative modalità per catalogare le innovazioni.
Si potrebbe dapprima cercare di identificare quelle innovazioni – siano esse tecnologiche, conoscitive, giuridico istituzionali, od altro – che potrebbero, presumibilmente, rendere possibile per tutti di migliorare la propria posizione. Ci si potrebbe concentrare, all’inizio, sulla ricerca di quei cambiamenti che non creano immediatamente dei nuovi vincitori e dei perdenti senza compensazione, distinguendoli da quei cambiamenti in cui lo stesso spostamento della frontiera crea le condizioni che rendono la successiva compensazione costosa o altrimenti improbabile. Ci si potrebbe poi concentrare sulla possibilità di trovare dei modi per evitare che la frontiera si sposti troppo velocemente su situazioni rigide in cui ci sono nuovi vincitori che non compenseranno i nuovi perdenti; per es., potremmo considerare quali tipi di innovazione possono essere collegati ex ante a un requisito di compensazione, che potrebbe esso stesso essere reso parte del processo di mutamento.
In secondo luogo, si potrebbe cercare di concentrarsi su quelle variazioni (implichino esse uno spostamento della frontiera o meno, cioè siano esse basate su nuove conoscenze o meno) che inevitabilmente migliorano la posizione di alcune persone e peggiorano quella di altre. Si accentrerebbe poi l’attenzione sulla decisione di quali fra esse sono probabilmente meritevoli e quali no. La disponibilità di miglioramenti di Kaldor-Hikcs sarebbe certamente un fattore, ma non sarebbe l’unica questione della decisione. L’identità dei vincitori e dei perdenti sarebbe per lo meno altrettanto decisiva.
È importante notare che la maggior parte dei mutamenti tecnologici, come la maggior parte di quelli legali, comportano sia dei vincitori che dei perdenti non compensati. Così, nonostante i migliori sforzi, gran parte degli spostamenti della frontiera comportano generalmente anche dei notevoli movimenti lungo la frontiera. L’invenzione della locomotrice a vapore – che il giudice Frankfurter ha definito il più significativo evento giuridico del XIX secolo – ha causato ogni sorta di vittime di incidenti. La manna dal cielo danneggerebbe senza dubbio la capacità del contadino di vendere i propri prodotti. E non è affatto chiaro che si avrebbe compensazione, anche se ciò fosse teoricamente possibile.
Così, l’oggetto di almeno una delle possibili tassonomie delle innovazioni sarebbe la distinzione fra quegli spostamenti della frontiera che, se raggiunti, permetterebbero la compensazione con relativa facilità, da quelli che la permetterebbero, ma solo con difficoltà. Entrambi potrebbero poi essere distinti da quei mutamenti che neanche a livello teorico possono condurre alla compensazione completa. Altre classificazioni potrebbero forse essere addirittura più importanti. Si potrebbe tentare di catalogare i tipi di barriere che ci impediscono di spostare verso l’esterno la frontiera (sia a beneficio di tutti, sia a beneficio di coloro che si desidera avvantaggiare). Ci si potrebbe, per es., concentrare sul fatto che tali barriere esistono a causa di: a) incapacità tecnologica (per es., quella che ci impedisce di sviluppare un’automobile elettrica capace di percorrere lunghe distanze); b) incapacità organizzativa (cioè il mancato sviluppo di un modo adeguato e accettabile per rilevare le preferenze in situazioni non di mercato, che porta, per es., al problema dei «grandi numeri» in economia, e a molte delle difficoltà relative al risarcimento nella disciplina della responsabilità civile); c) incapacità conoscitive (il che è ovviamente collegato all’incapacità tecnologica, ma quello che intendo con ciò è simile all’incapacità di provare un teorema, dimostrando che uno spostamento allo stato B porterebbe tutti a una situazione migliore rispetto alla condizione A); d) incapacità retoriche o informative, o incapacità di convincere la gente dei propri interessi (per es., le difficoltà, sottolineate dagli economisti, di cercare di convincere le persone che tenere i soldi in un calzino non è il miglior modo di depositarli, o che la richiesta di un salario minimo può danneggiare alcuni dei suoi maggiori sostenitori). Anche se si superasse l’incapacità conoscitiva o tecnologica, l’incapacità retorica potrebbe restare. In questo modo la prova del teorema che dimostra come uno spostamento allo stato B sarebbe desiderabile non garantisce che la gente accetterà la prova. Similmente, se si è sviluppata un’automobile a lunga percorrenza, ciò non significa che la gente creda che funzioni.
La mia lista è estremamente semplicistica e rudimentale. Il processo per classificare utilmente le «barriere» o i «costi» è difficile, anche se ci si rende conto che è ciò che si dovrebbe fare. Questo è il nucleo del lavoro, estremamente innovativo, del Professor Oliver Williamson sull’economia dei costi transattivi. Anche qui il legame con Coase è evidente. Perché il lavoro di Williamson comporta la classificazione e l’analisi proprio di quelle barriere allo spostamento verso l’esterno della frontiera, che Coase ha definito costi transattivi. Il fallimento del test di Pareto elaborato in questo articolo significa che siamo obbligati a impegnarci in analisi williamsoniane, forse su scala ancor più ampia dello stesso Williamson.
Una volta che abbiamo catalogato in modo appropriato le barriere alle innovazioni, possiamo poi decidere quali valga la pena di attaccare e quali no. Ciò com-porta la necessità di ipotizzare o analizzare quali di queste barriere si possano più probabilmente eliminare col minor costo sociale se, per es., si investe in ricerche su come distruggerle. Può valere la pena di eliminare delle barriere perché quando spostano la frontiera, farlo con pochi perdenti, o a costi contenuti, sono state lasciate fuori dal quadro.
Non voglio dire che l’economia e le scienze «pure» non siano altrettanto degne di sostegno della letteratura comparata, o forse anche più di essa. Voglio solamente criticare un modello che, almeno psicologicamente, anche se non necessariamente a livello logico, rende difficile fare realmente attenzione al problema della determinazione di quali barriere a una migliore vita valga la pena di attaccare, e quali no. L’economia neutra di Pareto e Lionel Robbins ci ha portato a focalizzare l’attenzione su quelle situazioni in cui i miglioramenti si sarebbero verificati solamente a certe ipotetiche condizioni: «se non ci fossero esternalità o costi transattivi»; se la gente fosse meno testarda e accettasse ciò che è dimostrato dagli economisti; oppure, «se esistesse una diversa struttura organizzativa o legale – che di fatto non è attuabile». In altre parole, «se il mondo fosse diverso da com’è». Fino a quando ci si sofferma su queste situazioni, tuttavia, è probabile che si perdano delle altre eccellenti opportunità per migliorare la vita.
Talvolta questi miglioramenti preceduti dal «se» rappresenteranno effettivamente il modo più promettente per spostare verso l’esterno la frontiera. Ma altre volte essi saranno completamente immaginari, e il loro raggiungimento impossibile o estremamente costoso. Non si riuscirà, tuttavia, a decidere se siano semplici od impossibili se si considerano tutti in modo analogo, come spostamenti verso la frontiera in un semplicistico modello di ottimo paretiano. Prendere sul serio l’intuizione di Coase che tutto, ivi compresi i mercati esistenti e quelli potenziali, ha un costo, significa potersi concentrare su quali tipi di costi si dovrebbe realisticamente tentare di ridurre, e di quali non ci si dovrebbe per il momento occupare. Questo è il tipo di analisi che l’economia williamsoniana dei costi transattivi ha tentato, con notevole successo, nell’ambito dell’economia. Portare oltre l’intuizione di Coase, fino a negare ogni differenza fra gli spostamenti verso la frontiera paretiana e gli spostamenti di tale frontiera, porta a una più ampia analisi su scala sociale dello stesso tipo. Ciò comporta che ci si chieda di tutti gli sforzi, compresa l’economia, quella penultima domanda: Quali azioni portano più probabilmente, e con i minori costi, a uno spostamento verso l’esterno della frontiera, e chi guadagnerà e chi perderà a causa di tali spostamenti?

Alla fine degli anni Ottanta si traevano i primi bilanci: questa la posizione di Roberto Pardolesi.

L’esperienza accumulata dal 1960 a oggi è sicuramente servita a ridimensionare aspettative sin troppo sbilanciate. Diciamolo pure: illustrare gli apporti della nuova metodologia è impresa assai più ardua di quella volta a inventariare ciò che l’EAL non ha saputo – e, per non tradire le aspettative di «uno sguardo dal ponte»che si legano a ogni conclusione degna di tal nome, non può comunque – metter in fila. È persino scontato ch’essa non avrebbe potuto importare, dalla scienza economica, più certezze di quante quest’ultima riesca a segnare al proprio attivo; e un economista in vena di sincerità (sovvengono qui taluni brucianti commenti di Galbraith) non avrà difficoltà a riconoscere la povertà, pur fervida, di tale patrimonio. Non è un caso, allora, che il mito delle sintesi potenti, capaci di spazzare via, con la sola forza delle idee semplici, montagne di incrostazioni opache, sia scolorito in fretta, inducendo chi abbia a cuore il buon senso a consigli più sorvegliati. Sotto questo profilo, la parabola della responsabilità civile, da sempre al centro dell’interesse dei giureconomisti per le sue dichiarate implicazioni di social engineering, offre un riscontro emblematico. Posta l’impossibilità d’indulgere a una carrellata ad ampio raggio, ci limiteremo a poche battute intorno a taluno dei suoi momenti topici. La formula di Hand, per es..
A tacere l’altro, prometteva al giurista di rendere espliciti (e falsificabili) i criteri in base ai quali parametrare la colpa; e proprio a questa promessa si legavano le virtù efficientistiche che ne avrebbero dovuto caldeggiare, secondo Posner & Co., l’orgogliosa centralità. Senonché, l’immediatezza e – occorre aggiungere – il suo stesso rigore concettuale stanno in piedi solo rispetto a una valutazione ex post: fuori dai denti, se la guida a velocità sostenuta mi porta ad arrotare un pedone, non sarà indifferente che la vittima s’iscriva nella fascia anonima di chi vive ai margini della società opulenta o vanti una carriera di palazzinaro rampante. Al limite (l’esempio è, come si conviene, forzante), la mia responsabilità potrebbe, nell’applicazione concreta di quest’inatteso hindsight test, esser negata nell’un caso e affermata nell’altro. Cosa che non è soltanto aberrante dal punto di vista del giurista, ma tradisce la stessa vocazione dell’EAL a «leggere» il sistema giuridico come complesso di prescrizione atte a orientare ex ante il comportamento dei soggetti economici. Per uscire dal guado, la formula di Hand deve traguardare, con computi attuariali, i valori medi del danno preventivato: processo accettabile quante volte sia in giuoco un’attività capillare, quale quella dell’impresa, ma disperatamente rarefatta in ogni altro frangente.
Una volta sotto l’argine, i complexifiers – per usare il termine, scomodo ma felice, di Ackerman – la faranno da padroni; e non ci sarà modo d’ignorare che la formula di Hand serve, al più, a garantire la misura di diligenza, ma manca di norma l’obiettivo di regolare il livello di attività, che tanta parte ha nella produzione di eventi dannosi. Quanto dire, insomma, che B<PL è ben lungi dal chiudere la partita.
D’altra parte, far tesoro di queste difficoltà per spostare l’enfasi sulla responsabilità oggettiva, che avrebbe il pregio di riaccorpare all’attività (id est, internalizzare) i costi ch’essa proietta all’esterno, è traiettoria rassicurante soltanto a patto di aver le idee chiare su quale attività debba essere onerata: risposta elementare per chiunque meno che per il giureconomista, alle prese – s’è visto – con la reciprocità che trascorre il teorema di Coase. Si è creduto di poter aggirare l’ostacolo puntando sulla ricerca del cheapest cost avoider. Ma, così, l’interrogativo è rinviato elusivamente, e non sciolto: perché l’individuazione dell’assetto ottimale, in vista della riduzione dei costi da incidente, è magari possibile, ma ben poco ci dice su chi, fra danneggiante e vittima, sia in una posizione di vantaggio relativo per conseguire tale assetto. Persino la dove tutto dovrebbe riuscire straightforward – ci riferiamo alla responsabilità per i prodotti difettosi, – ci si ritrova alle prese con l’ovvia constatazione che meglio situato per evitare il danno derivante dall’esplosione di una bomboletta di spray messa a cuocere nel forno è – come dubitarne – l’improvviso consumatore. Col risultato di essere indotti a postulare un correttivo di concorso di colpa (estraneo, di regola, al regime di strict liability).
Mi figuro che, malgrado tanta epidermicità (equilibrata, del resto, dal loro riferimento alla materia s’è registrato il «rodaggio» più intenso), i rilievi svolti da ultimo bastino a rendere ragione del fatto che l’EAL non dispone di ricette facili. Convenire sulla sua inanità a funger da bacchetta magica è, comunque, cosa ben diversa dall’avallare una frettolosa archiviazione dell’intero movimento di pensiero come eclet-tismo privo di sbocchi o, peggio ancora, come moda effimera, destinata a una rapida obsolescenza «the sooner, the better». Da quel che s’è detto dovrebbe ormai risultare evidente – e, se così non fosse, la responsabilità ricadrebbe, una volta tanto senza incertezze, su chi scrive – che la vera forza dell’EAL non sta nelle risposte ch’essa consente eventualmente di ottenere, bensì nelle domande che per il suo tramite siamo spinti a porci. Questa è una sicura acquisizione. E neppure da poco. (R. Pardolesi, Analisi economica del diritto, in Digesto IV, Disc. Priv., Sez. Civ., vol. I, Torino, 1987)

I property rights nell’analisi economica. La prospettiva rimediale

Adolfo di Majo nel suo La tutela civile dei diritti (II ed., Milano, 1993) si è dato carico di ripercorrere gli intrecci tra l’analisi economica e la tutela dei diritti.

La cosiddetta analisi economica del diritto è particolarmente sensibile al problema della tutela. È noto che principale preoccupazione di un tale metodo di indagine è di orientare le soluzioni giuridiche dei conflitti verso obiettivi di efficienza economica e cioè di una buona e ragionevole allocazione delle risorse scarse (Pardolesi). A fronte di una secolare tradizione, specie continentale, che ha coltivato l’illusione giusnaturalistica, secondo cui il riconoscimento dei diritti naturali del singolo sarebbe stato anche il metodo migliore per realizzare obiettivi di promozione della ricchezza sociale, l’analisi economica del diritto si chiede quali siano gli strumenti giuridici più adatti per una allocazione ottimale delle risorse (vd. U. Mattei). Tale allocazione è strettamente legata a un assetto che faccia gravare i costi di una determinata attività e/o iniziativa sul soggetto che meglio è in grado di sopportarli. Ma, a differenza dell’ottica tradizionale, il discorso è incentrato sugli strumenti di protezione (remedy) ossia sulle regole di tutela. È da siffatti strumenti di protezione che può dedursi la conformazione delle situazioni sottostanti (e non viceversa).
Osserva un autore: «non è possibile ottenere alcuna conoscenza del contenuto di una situazione soggettiva prescindendo dall’analisi dei concreti remedies a disposizione del suo titolare» (Mattei). E la decisione sul tipo di protezione da adottare andrebbe presa secondo criteri di efficienza e secondo fini di una razionale distribuzione. Dovrà così distinguersi se la regola di tutela abbia per scopo o finalità di garantire al soggetto l’appartenenza o la fruizione di beni od utilità, impedendo che altri abbia ad approfittarne senza il consenso di esso, ovvero se essa abbia per scopo di mantenere indenne il soggetto dal (peso del) danno subito nel proprio diritto. Nel primo caso si tratterà di regole di proprietà (Property Rules), nel secondo caso di regole di responsabilità (Liability Rules).In entrambi i casi tali regole sono in grado di fondare autonomamente una posizione del soggetto che, nel diritto continentale, si usa definire di diritto soggettivo, mentre, nell’analisi economica del diritto, lo si definisce Entitlement, espressione che meglio rappresenta l’idea di una posizione quale risultante di una regola di tutela. Vediamo di chiarire meglio questo passaggio.
Si può così meglio specificare col dire che, per effetto di una regola di proprietà, il godimento di un bene o di una utilità (l’entitlement anglosassone) è assicurato in forma incondizionata al soggetto, nel senso che nessuno potrà contrastare quel godi-mento senza la volontà di esso. Per effetto invece di una regola di responsabilità quel godimento non viene assicurato allo stesso modo, nella misura in cui chiunque voglia appropriarsi di quel bene od utilità o comunque contrastarne l’appartenenza può farlo ma deve sopportarne il costo, addossandosi il peso del danno subito dal soggetto tutelato. La distinzione tra regole di proprietà (Property Rules) e regole di responsabilità (Liability Rules) è propria di scrittori americani (Calabresi-Melamed), i quali, nel contesto appunto di una cosiddetta analisi economica del diritto, si chiedono in quali circostanze un immaginario giurista deciderebbe di utilizzare, a fini di tutela, una regola di proprietà o una di responsabilità. Essi aggiungono a tali regole una terza regola, definita di inalienabilità (Inalienability Rules) alla stregua della quale un qualsiasi diritto si palesa alienabile solo in presenza di determinate condizioni. L’ordinamento così interviene non solo per proteggere un determinato bene od utilità ma anche per stabilire le condizioni in presenza delle quali quel bene od utilità può essere ceduto.
Qualche riflessione è allora opportuna. Ove la tutela si sostanzi in regole di proprietà, è il segno che l’ordinamento ha di mira la protezione di un assetto distributivo già dato e che si vogliono già a priori scoraggiare o contrastare attività o iniziative in contrasto con quell’asseto. Ove invece la tutela si sostanzi in regole di responsabilità i confini saranno più mobili; attività o iniziative, pur produttive di danni, sono giuridicamente possibili (ed anche lecite), pur se i soggetti debbono sopportarne i costi e ciò in termini di risarcimento dei danni versus i titolari dei diritti o portatori di interessi (incisi).
Premessa dunque la distinzione tra le diverse forme di protezione di un interesse (entitlement), l’analisi economica del diritto ne denuncia la intraducibilità nella categoria, omologante, del diritto soggettivo, giacché, attraverso di questo, verrebbero appiattite situazioni soggettive tra di loro profondamente differenziate e cioè quelle tutelate contro ogni invadenza, senza bisogno di indagare sul comportamento del trasgressore, e quelle invece tutelate solo contro quelle «esternalità» causate da un comportamento riprovevole, fonte di danno.
È il caso allora di chiedersi quando scegliere lo strumento di protezione rappresentato dalla Property Rule rispetto a quello della Liability Rule, postulato che l’ordinamento sia indifferente alla tutela dell’uno o dell’altro degli interessi in conflitto. Risponde l’analisi economica del diritto che, quando si è certi circa la migliore allocazione iniziale delle risorse, non vi sono ragioni di efficienza che inducano ad autorizzare violazioni intenzionali della situazione di vantaggio del soggetto (entitlements), onde vanno preferite le regole di proprietà mentre, in situazioni di incertezza, la regola di responsabilità andrebbe preferita «perché per lo meno consente la sperimentazione dell’efficienza economica di una data proposta di trasferimento di legittimazione » (Calabresi-Melamed).
La prospettazione dunque, che, in punto di tutela, offre l’analisi economica del diritto è indubbiamente degna di interesse. Il merito di essa è di evidenziare come non esistono astratte posizioni soggettive ma posizioni concretamente conformate dai rimedi messi a disposizione dei soggetti. A fronte dei costi che una determinata attività fa sopportare a individui «vicini» si tratta di trovare lo strumento giuridico più adatto per fare in modo che tali costi siano razionalmente distribuiti. Rimedi inibitori e/o risarcitori provvedono a tale scopo, fornendo così una concreta indicazione circa il grado di tutelabilità di un determinato interesse.
Di Majo riprende il tema a margine della distinzione fra tutela reale e tutela personale.

Regole di proprietà e regole di responsabilità

V’è un altro modo di guardare alla distinzione tra tutela reale e personale. Non si tratta tanto di avere riguardo alla direzione della tutela (erga omnes o meno) ma al carattere intrinseco che esibiscono le regole e cioè al modo concreto con cui viene assicurata, dal punto di vista giuridico, la disponibilità di un bene od utilità al soggetto portatore di un interesse.
Dovrà così distinguersi se la regola di tutela abbia per scopo o finalità di garantire al soggetto l’appartenenza o la fruizione di beni od utilità, impedendo che altri abbia ad approfittarne senza il consenso del soggetto, ovvero se essa abbia per scopo di mantenere indenne il soggetto dal peso del danno subìto nel proprio diritto. Nel primo caso si tratterà di regole di proprietà (Property Rules), nel secondo caso di regole di responsabilità (Liability Rules). In entrambi i casi tali regole sono in grado di fondare autonomamente una posizione del soggetto che, nel diritto continentale, si usa definire di diritto soggettivo, anche se con diverso carattere e intensità.
Vediamo di chiarire meglio questo passaggio.
La distinzione proposta, pur riflettendo il particolare angolo visuale che privilegia l’analisi economica del diritto, può essere utilizzata, naturalmente con i dovuti adattamenti, anche in un contesto diverso in cui si adopera la categoria dei diritti soggettivi e si tende a riferire le regole di tutela alla diversa «natura» dei diritti. Essa può essere di estrema utilità per comprendere per es. l’autonomia di cui gode il piano della tutela rispetto al diritto che si tratta di tutelare.
Esempi concreti dell’attualità di tale distinzione non mancano nel nostro sistema. Sembrerebbe un bisticcio ma la stessa proprietà può essere tutelata, oltre che naturalmente con regole proprietarie (A. Gambaro), anche con regole di responsabilità (per es. invocando l’art. 2043 c.c.).
Le regole proprietarie, infatti, se possono efficacemente impedire che altri abbia a definirsi proprietario e a godere della cosa o a disporre della stessa, senza il consenso del proprietario, non possono certamente impedire che, in punto di fatto, altri abbia a distruggere o a danneggiare la cosa. In tal caso debbono intervenire regole di responsabilità, il cui obbiettivo è di addossare il peso del danno subìto dal soggetto proprietario al soggetto che è ritenuto responsabile della distruzione o del danneggiamento. In tal caso i presupposti della tutela saranno diversi. In primo luogo, non dovendosi invocare una regola di proprietà il proprietario danneggiato non avrà bisogno di dimostrare il suo titolo di proprietà ma solo la sua qualità di avente diritto alle utilità della cosa. In secondo luogo, occorrerà individuare il soggetto responsabile del danno in base ai consueti criteri per i quali si può essere ritenuti responsabili (per es. dolo o colpa, o altri criteri).
Lo stesso diritto di credito, come è noto, può essere tutelato, oltre che con regole di responsabilità, che entrano in funzione nel caso di inadempimento imputabile del debitore (art. 1218), anche con regole di diversa natura, ove per es. sia possibile ottenere le esecuzione in forma specifica dell’obbligo rimasto inadempiuto (art. 2930 ss. c.c.). In tal caso si può dire che il diritto di credito riceve una tutela che è simile a quella di cui gode la proprietà, nella misura in cui si garantisce che il creditore ottenga proprio quel bene od utilità cui esso ha diritto (Giorgianni). Ma anche in altri settori la distinzione può trovare applicazione. Nei moderni sistemi sono venute per es. in discussione le forme di tutela cui può essere sottoposto il diritto del lavoratore alla permanenza nel posto di lavoro.
Fino a una certa epoca si è ritenuto che la legislazione vigente consentisse soltanto una forma c.d. di tutela obbligatoria del posto di lavoro. Per tutela obbligatoria si intende un tipo di tutela alla cui stregua risulta sostanzialmente sacrificabile il diritto alla permanenza nel posto (anche se tale sacrificio ha luogo per effetto di atto illegittimo) purché tuttavia il lavoratore sia tenuto indenne dal peso del danno che egli subisce per effetto della perdita del posto. E così, ai sensi del fondamentale art. 8 della legge sui licenziamenti individuali (l. 634/1966), al lavoratore privato del posto di lavoro viene garantito un risarcimento che va da un minimo di cinque mensilità a un massimo di dodici. Si è anche detto che, sotto l’impero di detta legge, il datore aveva l’alternativa o di riassumere il lavoratore o di corrispondere l’indennità. Con lo Statuto dei lavoratori la situazione si modifica sostanzialmente, dacché il diritto al posto di lavoro non è più sacrificabile dal datore di lavoro, sopportandone il costo, nella misura in cui, in caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore ha diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro, oltre al risarcimento dei danni per il periodo in cui non ha lavorato (art. 18 Statuto lavoratori).
Si è passati da una forma di tutela obbligatoria a una reale. Volendosi esprimere con il linguaggio della distinzione regole proprietarie-regole di responsabilità si può dire che il diritto alla permanenza nel posto di lavoro è tutelato da una regola di proprietà nella misura in cui tale diritto non è più liberamente sacrificabile (dal datore di lavoro), sia pure a mezzo (della sopportazione) di un costo (in termini di corresponsione di indennità risarcitoria al prestatore di lavoro).

Il matrimonio tra comparazione e analisi economica

Un approfondimento del tema, da parte del lettore italiano, può utilmente giovarsi della monografia di Ugo.Mattei, Tutela inibitoria e tutela risarcitoria. Contributo alla teoria dei diritti sui beni (Milano, 1987), che qui di seguito si ripercorre offrendone una sintesi.

Introduzione

Lo studio si è proposto di utilizzare gli strumenti offerti dai due più grandi tentativi degli anni recenti, la comparazione e l’analisi economica del diritto rispettivamente, attenendosi alla loro reciproca influenza. In particolare, attraverso la lezione della comparazione – storicizzando i problemi e seguendo l’evoluzione dei concetti – dovrebbe verificarsi il carattere neutro delle categorie coniate dall’analisi economica. La categoria scelta è quella – economico giuridica – di property right che «non traducibile con diritto di proprietà, sarà utilizzata con un significato empirico, e quindi resa idonea allo scopo di comparazione operazionale fra i diversi sistemi positivi, mediante lo studio dell’evoluzione storica di un altro concetto economico, quello delle esternalità negative». Quella di esternalità è, a propria volta, nozione estranea alla problematica giuridica, che «accomuna all’interno di una sola categoria sia attività lecite che illecite, disinteressandosi di un confine tra i più radicati della tradizione giuridica» Di fronte al problema dell’interrelazione fra i comportamenti la reazione dell’ordinamento può, variamente, atteggiarsi in termini di: definizione di regole la cui violazione giustifica la reazione di fronte al danno conseguente; isolamento di una sfera individuale, impermeabilizzata di fronte ad aggressioni esterne; prescrizioni di rimedi attivabili in presenza di determinati presupposti. E «nel mondo delle istituzioni reali, naturalmente i vari modelli stingono l’uno nell’altro, dando luogo alle combinazioni più varie». In questo quadro «il property right si configura come il modello della completa impermeabilizzazione di una situazione soggettiva di fronte all’esternalità.La prima parte dello studio è dedicata a elaborare una nozione di property right fungibile per l’analisi comparata dei sistemi giuridici; nella seconda parte lo schema così elaborato è utilizzato per l’analisi del sistema italiano o di quello americano.

Parte I. Tradizioni di ricerca e schema concettuale

1. Analisi economica e analisi giuridica: le tradizioni di ricerca in parallelo
2.
Le esternalità sono fenomeni noti tra gli economisti come market failures: «il mercato viene meno rispetto alla sua funzione di strumento decentrato di decisione economica ». I giuristi hanno preso a occuparsene solo in tempi recenti, con il teorema di Coase. Possono definirsi come «fenomeno per cui alcuni individui fanno sopportare determinati costi a individui vicini, consumando liberamente una risorsa scarsa e lasciando che il prezzo venga pagato da questi ultimi». Esso comporta, insomma, una divaricazione tra costo privato e costo sociale. Al giurista spettano due compiti: fissare il limite tra l’esternalizzazione rilevante e quella irrilevante; scegliere la risposta istituzionale adatta allo scopo.
L’analisi storica evidenzia la tradizione di una ricerca comune all’analisi economica e a quella giuridica, scienze specializzatesi in tempi relativamente recenti. Ne rappresenta un esempio significativo la teoria del giusto prezzo elaborata dalla tradizione scolastica. E l’uso dello strumento istituzionale per influenzare il sistema economico fu teorizzato dalla corrente mercantilista.
Al giurista offre particolari spunti la tradizione che si è dedicata all’analisi del mercato come «ordine spontaneo». In questo ambito spicca A. Smith, di cui è rimasta nota la concezione del mercato come «mano invisibile» nel perseguimento nell’ottima allocazione delle risorse: «si tratta della concezione secondo cui un individuo, lasciato libero di perseguire i propri interessi, è condotto a promuovere un fine che non si ritrova nelle sue intenzioni». Smith fu giurista, e un sistema giuridico istituzionale fu sempre alla base delle sue opere; inoltre egli fu tributario degli schemi giusnaturalistici penetrati nel Common Law inglese attraverso Blackstone.
Presupposto della sua teoria fu che «il riconoscimento e la protezione di situazioni soggettive in capo a ciascun individuo nei confronti di ogni altro consociato è la condizione indispensabile per l’esistenza di una società organizzata». Queste situazioni soggettive sono i diritti naturali, di cui è consentita la libera disposizione tramite accordi; l’esecuzione dei quali deve essere garantita dallo Stato. In questa prospettiva la distinzione tra proprietà e contratto diviene secondaria, e la situazione soggettiva di vantaggio viene indicata come property right, la cui conformazione «consente il decentramento delle scelte, permettendo così di usufruire della maggiore quantità di informazioni possibili».
L’errore di Adam Smith consistette «nel dare per scontato che, qualora la legislazione positiva non avesse aiutato alcun individuo a uscire dal meccanismo della competizione perfetta, sarebbe stato proprio questo meccanismo che l’avrebbe obbligato a comportarsi in conformità ai precetti dettati dal diritto naturale». La base istituzionale del mercato rimase a lungo un sistema immaginario, nonostante la sua importanza fondamentale nella nascita della teoria della «mano invisibile». Per oltre un secolo si verificò l’allontanamento della tradizione di ricerca economica da quella privatistica, occupandosi la prima del possibile indirizzo del mercato tramite gli strumenti pubblicistici, mentre la seconda tesseva la base istituzionale dei property rights sul terreno del solo diritto privato.
La prima svolta si verificò con la «rivoluzione marginalista» della seconda metà dell’Ottocento,al cui interno possono annoverarsi la scuola austriaca di Merger, quella diLosanna guidata da Walras, quella inglese di Marshall, quest’ultimo particolarmente interessante perché indicò le esternalità come market failure. Nella sua analisi «risultava già chiaro che in determinati casi si verificava nel mondo reale una divergenza fra il costo privato di una azione e il suo costo sociale, tanto nel senso di un maggiore costo sociale (esternalità negativa), quanto in quello di un maggior costo privato (esternalità positive)». Gli autori marginalisti abbandonarono una posizione meramente descrittiva per assumerne una prescrittiva, volta alla correzione delle failures. Gli economisti abbracciarono, quindi, una visione normativa del loro ruolo, predisponendosi a fissare i fini da raggiungere. L’«economia del benessere» è una branca sviluppatasi all’interno del paradigma neoclassico «consistente nella indicazione delle vie da seguire allo scopo di raggiungere il massimo grado di benessere umano, inteso come la massima disponibilità di beni materiali per il maggiore numero di persone». In questo ambito Barone evidenziò che un’efficiente ripartizione delle risorse richiede la concorrenza perfetta, ma non la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Gli economisti del benessere hanno affrontato il tema del «benessere sociale» anche dal punto di vista della giustizia, e ciononostante non si produsse la confluenza con l’esperienza giuridica. La conformazione dei property right della teoria economica classica non consentiva di affrontare il problema delle esternalità, in quanto prendevano a base una proprietà razionalizzata, frutto della giusnaturalistica; e a ciò deve aggiungersi la scarsa dimestichezza degli economisti con la distinzione tra godimento e disposizione. Fu decisiva la revisione della struttura dei property rights. Si stabilì di modificare le insufficienze del mercato, le decisioni degli individui «sbagliate» sotto il profilo dello squilibrio tra costo privato e costo sociale. Di qui la ricerca di un parametro di efficienza nell’allocazione delle risorse. Quello divenuto più famoso fu quello enunciato, nell’ambito della scuola svizzera di Walras, da Vilfredo Pareto secondo cui «l’efficienza sarebbe raggiunta quando non sarebbe possibile migliorare il benessere di alcuno senza peggiorare quello di altri».
In una situazione di Pareto-efficienza «dato un certo numero di risorse da distribuire fra due soggetti, è raggiunto un equilibrio nella massimizzazione del benessere se a ogni guadagno in termini di benessere del primo individuo corrisponde una identica perdita di benessere del secondo individuo».
Tra gli altri criteri di efficienza indicati dagli economisti troviamo quello di J.S. Mill, in termini di incremento di produzione netta. Il primo economista a parlare di effetti esterni fu Marshall, ma lo studio delle esternalità negative è tradizionalmente ricondotto al suo allievo Pigou. Egli le divise in due sotto categorie: la prima «comprendente quei casi in cui si verificava una serie di servizi e disservizi, non retribuiti o risarciti alla generalità dei consociati, causati dalla produzione di qualche bene o qualche servizio», la seconda «riguardante invece quelle situazioni che causano effetti sulle crescite del prodotto di un settore industriale e le conseguenze di tale crescita sulle singole imprese di tale settore nel lungo periodo». L’analisi riguarderà la prima ipotesi, riferendola più in generale a «tutte quelle situazioni in cui un soggetto faccia gravare su di un altro il peso dei priori comportamenti».
La ricetta di Pigou ignorava gli strumenti giuridici: «Egli infatti suggerì di computare il costo sociale mediante una somma aritmetica di tutti i costi diretti e indotti di una determinata attività. Una volta ottenuto questo risultato sarebbe stato sufficiente confrontarlo con il costo di tale attività per il suo autore. Qualora questo fosse superiore a quello si sarebbe provveduto a incentivare l’attività socialmente benefica mediante la concessione di un sussidio. Qualora viceversa il costo sociale sopravanzasse quello privato, sarebbe risultato necessario colpire l’attività socialmente dannosa a mezzo di un’imposta. Tanto il sussidio quanto l’imposta andrebbero computati in maniera tale da riportare a misura identica il costo privato e il costo sociale. Secondo questa teoria il compito di fissare l’ammontare della tassa o del sussidio, così come quello della loro implementazione, sarebbe spettato alla pubblica autorità». L’attenzione del giurista è attirata dalle internazionalizzazioni delle esternalità, fenomeni che – peraltro – si possono ritrovare anche oltre il settore della proprietà, per es. nel campo dei contratti.
Secondo la definizione pigouviana le esternalità negative sono descritte come«quella situazione in cui una parte A, nel rendere un servigio compensato a un’altra parte B, accidentalmente rende pure un disservigio a un’altra persona o ad altre persone in tal guisa che esse non possono essere indennizzate». La struttura dei property rights fatta propria dagli economisti non coincideva con il modello del Code civil nonostante la sua stessa impronta giusnaturalistica – ove fu introdotta la separazione fra la proprietà e la responsabilità, e neppure con il contesto di Common Law inglese. Questo mostra l’erroneità del modello istituzionale di Adam Smith, in quanto non corrispondente ad alcun modello positivo (continua).


(*) Questi materiali antologici sono parte di capitolo del primo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà,casa editrice S.e.a.m, Roma ,dove si trattano gli argomenti enumerati dal circostanziato indice dell’opera

INDICE VOLUME PRIMO

Nozione e rilevanza costituzionale
PREMESSA 7

CAPITOLO PRIMO

Per una definizione della proprietà 9
1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9
1.2 La prospettiva costituzionale 20
1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22
1.4 Le new properties 29

CAPITOLO SECONDO


La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45
2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45
2.1.A) Property 45
2.1.B) Proprieté 66
2.1.C) Eigentum 74
2.2 Lo ius aedificandi 79
2.3 L’espropriazione 92
2.4 Le immissioni 100
2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107
2.6 Il trust 119
2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125
2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140

CAPITOLO TERZO

La prospettiva dell’analisi economica 149
3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149
3.1.A) Introduzione 149
3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:
il teorema di Coase 151
3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161
3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Posner 165
3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:
la tesi di Calabresi e Melamed 170
3.1.F) La letteratura successiva 178
3.1.G) Alcuni ripensamenti 180
3.2 I property rights nell’analisi economica 207
3.2.A) La prospettiva rimediale 207
3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210
3.2.C) In tema di property rights 228
3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235
3.4 Le new properties nell’analisi economica 252

CAPITOLO QUARTO

La funzione sociale della proprietà 257
4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.
I lavori dell’Assemblea Costituente 257
4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262
4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279
4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291
4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297
4.6 L’occupazione acquisitiva 304
4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318
4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320
4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331
4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340

CAPITOLO QUINTO

La proprietà e le proprietà 357
5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357
5.2 La proprietà e le proprietà 365
5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369
5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali e ambientali) 381
5.5 La proprietà edilizia 386
5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386
5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389
5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400
5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409

5.6 La proprietà agraria 412
5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412
5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415
5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:
la riforma agraria 423
5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione
a favore dei coltivatori diretti 426
5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432
5.7 La proprietà dei gruppi 437
5.8 La proprietà fiduciaria 456
5.9 La proprietà-garanzia 465
Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470


INDICE VOLUME SECONDO

CAPITOLO PRIMO

Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7
1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà» del codice napoleonico 7
1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21
1.3 La proprietà nello statuto albertino 25
1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29
1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45
1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche
e i lavori pubblici 55
1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60
1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni del socialismo giuridico 73
1.9 © La legislazione di guerra 83
1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione di Weimar 87
1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo corporativo e la codificazione del 1942 95
1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115
1.13 L’evoluzione successiva 128

CAPITOLO SECONDO

Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149
2.1 Introduzione 149
2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152
2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156
2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171
2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo della crisi del modello tradizionale di proprietà 183
2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207
2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239

CAPITOLO TERZO

L’oggetto del diritto di proprietà 251
3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251
3.2 I limiti all’appropriazione 263
3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263
3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268
3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271
3.2.D) Suolo e sottosuolo 277
3.3 L’ambiente come bene 290

CAPITOLO QUARTO

I limiti temporali al diritto di proprietà 301
4.1 La proprietà temporanea 301
4.2 La multiproprietà 308

CAPITOLO QUINTO

Il contenuto dei poteri del proprietario 323
5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323
5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357
5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357
5.2.B) La facoltà edificatoria 384
5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394
5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414
5.4 La legislazione vincolistica 423
5.5 Immissioni e tutela della salute 430

Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446
448