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Aspetti previdenziali del trasferimento di azienda dopo la cd. Riforma Biagi(1).

 

ANTONINO SGROI

 

 

 


Premessa

I) La Direttiva comunitaria e la sua ricaduta con riguardo alla tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori coinvolti nel trasferimento di imprese, stabilimenti o di parti di imprese o stabilimenti  

II) Il trasferimento di azienda nella dinamica della legislazione nazionale intesa come attuazione dei principi comunitari e degli accordi intercorsi fra il Governo e le Associazioni sindacali

II.1) Effetti del trasferimento di azienda nei sistemi legali di previdenza sociale

II.1.A) Effetti nei confronti dei datori di lavoro

II.1.A.a) Aziende pubbliche, privatizzazione e trasferimento

II.1.B) Effetti nei confronti dei lavoratori

II.2.) Effetti del trasferimento di azienda nei regimi complementari di sicurezza sociale

 



Premessa


Il legislatore è intervenuto a novellare, ancora una volta, l’art. 2112 cod. civ. in materia di trasferimento di azienda, con la legge delega del 14 febbraio 2003, n. 30 e con il successivo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, decreto quest’ultimo che, a sua volta, è stato modificato e corretto con un successivo decreto legislativo n. 25 del 6 ottobre 2004, n. 251, recante disposizioni modificative e correttive del decreto legislativo n. 276 del 2003.

Gli articoli, di ciascuno dei testi legislativi retro citati, chiamati a disciplinare la materia sono:
- l’art. 1, comma 2, lett. p) della legge delega;
- l’art. 32 del decreto legislativo;
- l’art. 9 del decreto legislativo correttivo, che prevede la sostituzione, al secondo comma dell’art. 32, delle parole <<di cui all’articolo 1676>>, con le parole <<di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto 10 settembre 2003, n. 276>>.

Gli interventi legislativi rappresentano il recepimento dell’Accordo (il cd. Patto per l’Italia del 5 luglio 2002) intercorso fra il Governo e la C.I.S.L. e la U.I.L. (è opportuno ricordare che, nel panorama delle sigle sindacali rappresentative dei lavoratori, la C.G.I.L. non firmò questo accordo).


Accordo nel quale, sul nostro argomento, si prevedeva, all’allegato 3, la revisione del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 18, che ha modificato l’articolo 2112 del codice civile in tema di trasferimento di azienda, con il dichiarato fine, fra l’altro, di conformazione integrale della disciplina nazionale alla disciplina comunitaria, anche alla luce del necessario coordinamento con la legge n. 39 dell’1 marzo 2002, che dispone la ricezione, tra le altre, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parte di imprese o di stabilimenti.

L’oggetto del presente scritto, come reso manifesto dallo stesso titolo e nei limiti di una trattazione come quella odierna, sarà limitato ai profili previdenziali del trasferimento di azienda e, altresì, l’esame degli aspetti previdenziali contenuti nella cd. Riforma Biagi saranno limitati a tale versante.


Solo laddove dovesse ritenersi necessario, per una migliore comprensione della questione esaminata, si richiamerà la disciplina previdenziale di altri istituti disciplinati nel medesimo reticolato legislativo.



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L’esame prenderà le mosse dalla disciplina comunitaria al fine di verificare quali sono gli indirizzi vincolanti sul tema, individuabili dall’esegesi della direttiva del 2003.


Indirizzi alla cui completa uniformazione deve tendere la disciplina nazionale secondo i Patti intercorsi fra il Governo e le OO. SS. sindacali firmatarie del Patto per l’Italia. Patti successivamente recepiti nella legge delega n. 30 e concretizzati nel successivo decreto legislativo n. 276.

 

Si procederà successivamente all’esame della disciplina nazionale distinguendo al suo interno fra previdenza obbligatoria e complementare o privata.


Infine, in specie allorché si soffermerà l’attenzione sulla disciplina della previdenza obbligatoria, si verificherà quali siano gli effetti utili e quelli nocivi, che possano derivare dalla constatazione dell’esistenza o meno di un trasferimento di azienda, in capo non solo al lavoratore, ma anche all’imprenditore, sia cedente, sia cessionario.


I) La Direttiva comunitaria e la sua ricaduta con riguardo alla tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori coinvolti nel trasferimento di imprese, stabilimenti o di parti di imprese o stabilimenti.


La ricognizione del testo della Direttiva è opportuno prenda le mosse dai “Considerando” della medesima ove, fra l’altro, si legge che:


- “Occorre adottare disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti” (n. 3);       


- “Sussistono differenze negli Stati membri per quanto riguarda l’entità della protezione dei lavoratori in questo settore e occorre attenuare le differenze.” (n. 4);


- “La Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata il 9 dicembre 1989 (<<Carta sociale>>) riconosce l’importanza della lotta contro tutte le forme di discriminazione, in particolare quelle basate sul sesso, sul colore, sulla razza, sulle opinioni e sulle credenze.” (n. 10).


All’interno di queste intenzioni legislative si colloca, per quel che interessa in questa sede, l’art. 3 (di cui è opportuna in ogni caso l’integrale lettura) che, nel disciplinare specificamente la materia, prevede altresì:


- il trasferimento dal datore di lavoro cedente al datore di lavoro cessionario dei diritti e degli obblighi derivanti da un contratto o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento (primo prg., primo comma);


- l’irrilevanza, ai fini del trasferimento dei summenzionati diritti e degli obblighi dal cedente al cessionario, dell’omessa notifica degli stessi da parte del primo datore di lavoro al secondo (2° prg., secondo periodo);


- l’obbligo in capo al datore di lavoro cessionario di mantenere, dopo il trasferimento, le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo (3° prg., primo comma);


- con disposizione derogatoria della precedente, la possibilità in capo allo Stato membro di limitare il summenzionato obbligo a un periodo non inferiore a un anno (prg. ult. cit., 2° c.);


- l’esclusione, a meno che lo Stato membro non disponga diversamente, delle disposizioni di tutela dei lavoratori contenute nei precedenti paragrafi 1 e 3 “…ai diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari di previdenza professionali o interprofessionali, esistenti al di fuori dei regimi legali di sicurezza sociale.” (prg. 4, lett. a), conseguendone “a contrario” l’estensione dell’ambito delle tutele di cui ai menzionati precedenti paragrafi a tutte le forme previdenziali obbligatorie, nel linguaggio comunitario regimi legali di sicurezza sociale;


- nell’ipotesi che gli Stati membri, non utilizzando la possibilità loro concessa dalla disposizione ult. cit., non abbiano apprestato un reticolato di tutela anche nei confronti delle prestazioni previdenziali scaturenti dall’adesione dei lavoratori a forme di previdenza complementare, l’obbligo in capo ai medesimi Stati di adottare “…i provvedimenti necessari per tutelare gli interessi dei lavoratori e di coloro che hanno già lasciato lo stabilimento del cedente al momento del trasferimento per quanto riguarda i diritti da essi maturati o in corso di maturazione, a prestazioni di vecchiaia, comprese quelle per i superstiti, dei citati regimi di previdenza complementare.” (lett. b), prg. ult. cit.).

Tale breve disamina della Direttiva, limitatamente al versante investigato, può concludersi con la constatazione che il legislatore comunitario consente, come al solito, al legislatore nazionale la facoltà di applicare o introdurre disposizioni più favorevoli ai lavoratori o di permettere l’applicazione di accordi collettivi o di accordi tra le parti sociali più favorevoli ai lavoratori (art. 8), e prevede a carico degli Stati membri l’obbligo di comunicare alla Commissione il testo delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative da essi adottate nel settore disciplinato dalla medesima Direttiva (art. 11).

La necessariamente breve ricognizione del testo legislativo, ivi compresi i “Considerando”, porta a ritenere che:

  1. il legislatore - constatata l’esistenza di differenze in seno alla legislazione degli Stati membri e sentita la necessità di ridurre tali differenze alla luce altresì della espressa importanza della lotta contro tutte le discriminazioni - senza distinzione alcuna, ad eccezione ovviamente di quelle da lui stesso eventualmente introdotte, si pone l’obiettivo di tutelare i diritti dei lavoratori al momento in cui dovesse esservi un mutamento di imprenditore nella gestione dell’impresa ove sono occupati;

  2. la tutela dei diritti previdenziali dei lavoratori scaturenti dai sistemi di sicurezza obbligatoria rientra nella tutela generalizzata e indifferenziata dei diritti scaturenti da contratti o rapporti di lavoro esistenti al momento del trasferimento, restando a tal fine irrilevante la conoscenza da parte del datore di lavoro acquirente dell’esistenza di debiti di lavoro in capo al precedente proprietario dell’azienda;

  3. all’opposto, quale regola generale comunitaria, nessuna tutela è riconosciuta ai diritti previdenziali scaturenti dall’adesione a sistemi di previdenza non obbligatorii e che comportino per il lavoratore l’erogazione di prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti;

  4. la regola generale citata sub c) non ha carattere inderogabile, tant’è che lo stesso legislatore comunitario consente agli Stati di disporre diversamente;

  5. nonostante la regola generale, di cui retro sub c) e anche nell’ipotesi che gli Stati membri non abbiano fruito della possibile deroga alla medesima, lo stesso legislatore comunitario impone ai citati Stati l’obbligo di apprestare un reticolato di tutela degli interessi dei lavoratori in servizio al momento del trasferimento e di quei lavoratori che non sono più in servizio al tale momento, con riguardo ai diritti maturati o in corso di maturazione limitatamente alle prestazioni di vecchiaia e ai superstiti;

  6. è sempre possibile da parte del legislatore nazionale apprestare una tutela superiore, recte più favorevole, a quella apprestata dal legislatore comunitario.

In maniera ancora più concisa può affermarsi:
-  da un versante, quello della previdenza obbligatoria, che la tutela è piena, assoluta e inderogabile;

- da altro versante, quello della previdenza complementare, che, nonostante un’affermazione di sottrazione al reticolato di tutela introdotto dal legislatore comunitario, lo stesso lascia aperta alla legislazione nazionale la possibilità di apprestare un ambito, anche se ridotto, di tutela con riguardo a determinate prestazioni scaturenti dall’adesione a forme di previdenza complementare, e in ogni caso un livello minimo di tutela, con riguardo a un ambito previamente individuato in sede comunitaria, dovrà essere apprestato. Ciò dovrebbe consentire la creazione di disposizioni legislative che, in ipotesi di trasferimento di azienda, garantiscano al lavoratore che abbia maturato il diritto alla prestazione, la sua erogazione, o al lavoratore che stia maturando il diritto alla prestazione tramite i versamenti contributivi al fondo, che quei versamenti sin qui compiuti possano essere utilizzati unitamente ai successivi versamenti compiuti (indifferentemente al medesimo o ad altro fondo) durante la vita lavorativa, per il riconoscimento e la successiva quantificazione della prestazione.

 


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La ricostruzione del sistema legislativo comunitario sul tema sarebbe monca se non si prendessero in considerazione le statuizioni della Corte di Giustizia che, direttamente o indirettamente, hanno affrontato temi rilevanti agli odierni fini, in specie in sede di applicazione della Direttiva in questione.

La Corte ha ritenuto che:

  1. “Come discende dal suo preambolo, soprattutto dal primo ‘considerando’, la direttiva mira a proteggere i lavoratori dalle conseguenze sfavorevoli che potrebbero prodursi in capo ad essi a seguito delle modifiche delle strutture delle imprese conseguenti all’evoluzione economica sul piano nazionale e comunitario, effettuate, tra l’altro, con trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti a nuovi imprenditori in seguito a cessioni contrattuali o a fusioni. Pertanto, non costituisce un <<trasferimento di impresa>>, ai sensi della direttiva, la riorganizzazione di strutture della pubblica amministrazione o il trasferimento di funzioni amministrative tra pubbliche amministrazioni.”;

  2. “Risulta chiaramente dalla lettera dell’art. 3 della direttiva che, fatte salve le eccezioni di cui al n. 3 dello stesso articolo, tutti i diritti e gli obblighi, che risultano per il cedente dal contratto di lavoro o dal rapporto di lavoro esistente con un lavoratore, ricadono nel campo di applicazione del n. 1 dello stesso articolo e sono, di conseguenza trasferiti al cessionario, indipendentemente che la loro attuazione sia o meno legata alla sopravvenienza di un evento particolare, magari dipendente dalla volontà del datore di lavoro”;

  3. “In considerazione dell’obiettivo generale di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese perseguito dalla direttiva,…l’eccezione a tale regola prevista nel n. 3 dello stesso articolo deve essere interpretata restrittivamente. Tale eccezione può quindi applicarsi solo alle prestazioni che in essa sono tassativamente elencate e queste ultime devono essere intese in un’accezione ristretta”;

  4. “…la direttiva è volta a garantire, ai lavoratori coinvolti in un trasferimento d’impresa, la salvaguardia dei diritti loro conferiti dal contratto o dal rapporto di lavoro. Poiché questa tutela è di ordine pubblico ed è pertanto sottratta alla disponibilità delle parti del contratto di lavoro, le norme della direttiva vanno ritenute imperative, nel senso che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori.” (sent. ult. cit., prg. 39);

  5. nonostante la direttiva 77/187 non precisa la nozione di <<prestazione di vecchiaia>>, né nell’art. 3 né in altri punti, alla luce dell’interpretazione restrittiva da dare alle eccezioni di cui allo stesso articolo “…devono essere considerate prestazioni di vecchiaia solo le prestazioni versate a partire dal momento in cui il lavoratore giunge al termine normale della sua carriera come previsto dal sistema generale del regime pensionistico…”;

  6. “Interpretando questa disposizione (art. 3, n. 1) letteralmente nelle varie versioni linguistiche, si evince che essa contempla i diritti e gli obblighi dei soli lavoratori il cui contratto di lavoro o rapporto di lavoro sussiste alla data del trasferimento, non già quelli di coloro che non sono più dipendenti dell’impresa al momento del trasferimento.”;

  7. “La nozione di retribuzione ai sensi del secondo comma dell’art. 119 comprende tutti i vantaggi, in contanti o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.”, con la conseguenza “…che le pensioni versate da un regime professionale privato di deroga convenzionale rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 119 del Trattato.” (Si osservi che un’affermazione di tal fatta traslata in ambito nazionale, senza mediazioni di sorta, condurrebbe alla conclusione che, in fattispecie omologhe alla presente, opera il modello di tutela delineato dall’art. 2112 cod. civ.).
     

Gli approdi della giurisprudenza comunitaria e, ancor più a monte, la legislazione comunitaria di tutela dei diritti dei lavoratori, in specie di quelli previdenziali oggetto precipuo di queste pagine, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda costituiscono necessario polo di riferimento interpretativo e conformativo della legislazione nazionale sul tema, non potendosi immaginare una ricostruzione del tessuto normativo nazionale che obliteri i medesimi, con la conseguenza che la risoluzione dei casi dubbi non potrà avvenire che attraverso modelli ricostruttivi del sistema, armonici al reticolato legislativo comunitario.



II) Il trasferimento di azienda nella dinamica della legislazione nazionale intesa come attuazione dei principi comunitari e degli accordi intercorsi fra il Governo e le Associazioni sindacali.



La novella dell’art. 2112 cod. civ. operata dal legislatore delegato con l’art. 32 può, per comodità espositiva, essere disaggregata in due versanti.


Il primo versante è rappresentato da una disposizione, costituente l’incipit di tutta la disposizione, in forza della quale si conferma che la modifica del testo dell’art. 2112 non altera il rapporto fra legislazione comunitaria e nazionale tant’è che rimangono “fermi i diritti dei prestatori di lavoro in caso di trasferimento d’azienda di cui alla normativa di recepimento delle direttive europee in materia…”.


Il secondo versante, all’opposto, contiene le nuove disposizioni legislative chiamate o a sostituire precedenti disposizioni della citata disposizione codiciale (si ha infatti la sostituzione del quinto comma dell’art. 2112), o ad aggiungere nuovi spezzoni normativi al medesimo articolo (si ha l’introduzione di un nuovo comma, il sesto).

Con riguardo al primo versante non è facile individuare quale possa essere il significato normativo di una dichiarazione d’intenti tesa a riconfermare la tutela dei diritti dei lavoratori alla luce della legislazione comunitaria.


Tutela, si osservi, che, anche in mancanza di tale dichiarazione, non poteva porsi su un piano inferiore a quello assicurato a livello continentale, pena la violazione da parte della legislazione nazionale di quella comunitaria.


Se è vera questa ricostruzione dei rapporti intercorrenti fra i due ordinamenti, discende l’inutilità di un’affermazione che nulla aggiunge e che al più, a volere essere generosi, può rappresentare la presa di coscienza esplicita da parte del legislatore della necessità che l’opera normativa sulla materia non potrà mai deflettere da tale principio e, con riguardo agli operatori del diritto, che costoro dovranno, sempre e comunque, procedere a una ricostruzione del reticolato normativo in materia che sia rispettosa del livello di tutela assicurato dalla legislazione comunitaria, legislazione che costituisce norma imperativa indefettibile da parte dei legislatori nazionali, come affermato dalla Corte di Giustizia.

Con riguardo al secondo versante, rappresentato dai due spezzoni normativi introdotti nel testo dell’art. 2112 cod. civ., può constatarsi, con riguardo al profilo previdenziale, che il richiamo operato dal secondo dei commi dell’art. 32, ora u. c. dell’art. 2112, all’art. 1676 (antecedentemente alla modifica apportata dal decreto legislativo correttivo), anche se con riguardo a una determinata ipotesi di lavoro (stipula di contratto di appalto da parte dell’imprenditore alienante con l’imprenditore acquirente la cui esecuzione comporti l’utilizzo del ramo di azienda oggetto di un precedente trasferimento) comporta un abbassamento dei livelli di tutela che antecedentemente erano stati garantiti ai lavoratori, con riguardo ai diritti di natura previdenziale vantati dallo stesso.


Infatti mentre l’abrogato art. 3 della legge n. 1369 del 23 ottobre 1960 (si ricordi che tale legge è stata abrogata dalla lett. c), primo comma, dell’art. 85), al suo u. c., prevedeva un’obbligazione solidale, fra appaltante e appaltatore, con riguardo a tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza e assistenza; all’opposto la tutela apprestata ai lavoratori dall’art. 1676 è limitata ai soli crediti retributivi e, si aggiunga, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui i lavoratori hanno proposto la domanda.


Di tale limite di tutela ha preso contezza lo stesso legislatore che, come retro evidenziato, all’art. 9 del decreto legislativo correttivo ha previsto la sostituzione del richiamo all’art. 1676, con il richiamo all’art. 29, secondo comma, dello stesso decreto legislativo n. 276, con la conseguenza pertanto che al lavoratore, che abbia svolto la sua attività in un appalto di opere o di servizi, è riconosciuto il diritto, che si perime entro un anno dalla cessazione dell’appalto, al pagamento non solo dei trattamenti retributivi ma anche dei contributi previdenziali dovuti.

Sin qui può dirsi che si sia spinto il legislatore delegato, come si può notare ben poco, con riguardo agli aspetti previdenziali connessi al trasferimento di azienda, ne discende pertanto che, in questa sede, si dovrà procedere a una ricostruzione del tema che tenga conto dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale sul tema antecedente e che appare essere rimasta immutata,
 


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Il dato legislativo di riferimento, con riguardo al versante nazionale, può essere rappresentato dalle disposizioni contenute nei primi tre commi dell’art. 2112, disposizioni in forza delle quali, nell’ipotesi di trasferimento di azienda:


- il lavoratore conserva tutti i diritti che derivano dal rapporto di lavoro precedentemente instaurato con il datore di lavoro cedente (1° comma);


- l’imprenditore di lavoro cedente e cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento (2° comma);


- il cessionario è obbligato ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario, ma tale effetto sostitutivo si produce solo fra contratti collettivi del medesimo livello (3° comma).

Le disposizioni contenute nei primi due commi, se lette avulse dal sistema oggi vigente in materia di tutela dei diritti dei lavoratori a seguito di trasferimento d’azienda, porterebbero all’affermazione che gli unici diritti presi in considerazione sono quelli di natura retributiva, dando a questo termine una valenza che comprende tutti quei diritti che sorgono in capo al lavoratore e che possono essere tutelati solo dallo stesso.


Con la conseguenza pertanto che la tutela dei diritti previdenziali, connessi sempre e comunque al rapporto di lavoro, deve essere cercata altrove e, infine, qualora tale tutela sia affidata a soggetti terzi, quali sono certamente gli enti previdenziali, lavoratori ed enti previdenziali non potranno fruire del reticolato di tutela apprestato nel citato art. 2112 (la valenza di quest’affermazione potrà essere colta nella pienezza del suo significato, nel prosieguo dell’esposizione).

A sua volta la disposizione contenuta nel terzo dei commi citati, contrariamente a quanto affermato per le precedenti, ha un’interferenza immediata con le disposizioni previdenziali in tema di inquadramento di azienda (si rammenti l’art. 49 della legge n. 88 del 9 marzo 1989) e quindi di individuazione della misura della contribuzione previdenziale dovuta dal datore di lavoro acquirente (per la quale il dato normativo di riferimento è rappresentato dall’art. 1 del decreto legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389).


Infatti, e con riserva di ulteriore approfondimento nel prosieguo dell’indagine, se chi acquista l’azienda svolge un’attività che, sotto il versante previdenziale, non è oggetto di diverso inquadramento la misura della contribuzione non cambierà.


All’opposto se l’attività da questa svolta sarà dall’I.N.P.S. inquadrata in un settore diverso da quella ove era inquadrata l’attività svolta dal datore di lavoro cedente, ne conseguirà che la misura della contribuzione previdenziale sarà parametrata alla retribuzione virtuale dovuta in forza di altra e diversa contrattazione collettiva. Pertanto il datore di lavoro cessionario da un lato continuerà ad applicare sotto il versante della retribuzione realmente erogata la precedente contrattazione collettiva, mentre sotto il versante previdenziale individuerà la retribuzione virtuale imponibile, una volta che l’ente previdenziale abbia provveduto a una modifica di inquadramento d’ufficio o su istanza dello stesso datore di lavoro cessionario, a pagare la contribuzione su altro e diverso contratto.
 


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Per una migliore comprensione della non facile materia è opportuno innanzitutto:


- distinguere fra effetti del trasferimento d’impresa sui sistemi legali di previdenza e sui sistemi complementari;


- evidenziare che sul presupposto dell’esistenza o meno di un trasferimento d’azienda l’ordinamento può riconoscere benefici in capo al datore di lavoro o al lavoratore, benefici che con riguardo al primo soggetto possono sommariamente ricondursi al pagamento, in misura ridotta della contribuzione previdenziale, e con riguardo al secondo soggetto possono ricondursi al pagamento di prestazioni assistenziali;


- individuare all’interno di ciascuno sistema previdenziale (pubblico e quindi obbligatorio – privato e quindi volontario), ove possibile, i probabili effetti, positivi o negativi, connessi al trasferimento, e che sorgono non solo in capo al lavoratore, ma anche ai datori di lavoro coinvolti nell’operazione.

Infine è opportuno rammentare come la maggiore valenza economica, oltre che giuridica, a un’ipotesi di genuino trasferimento di azienda sia da connettersi alla posizione del lavoratore dell’azienda trasferita, e solo di riflesso si può avere un aggravamento patrimoniale dei datori di lavoro coinvolti nell’operazione economica. Tale constatata situazione deve condurre necessariamente a un più attento esame della posizione del lavoratore.


II.1) Effetti del trasferimento di azienda nei sistemi legali di previdenza sociale.

Il dato di partenza, che si deve dare per presupposto, è o l’esistenza di un veridico trasferimento di azienda o, all’opposto, l’inesistenza di un trasferimento di azienda. Partendo da tali opposte ipotesi di lavoro sarà possibile individuare e verificare quali siano i possibili effetti positivi o negativi di tipo previdenziale che sorgono in capo ai datori di lavoro, venditore e acquirente, e ai lavoratori.
 


II.1.A) Effetti nei confronti dei datori di lavoro.


Il micro-sistema previdenziale connette, nell’ipotesi che non si rinvenga un’ipotesi di trasferimento di azienda e quindi di continuità dell’attività aziendale (intesa in senso oggettivo), una serie di benefici nei confronti di quei datori di lavoro che abbiano assunto i lavoratori che siano stati espulsi dal processo produttivo proprio in conseguenza della cessazione di precedenti attività e di loro licenziamento.

Il riferimento legislativo primigenio sul punto è rappresentato dalla legislazione in tema di sgravi contributivi.


Infatti l’art. 59 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 riconosce in favore di quei datori di lavoro uno sgravio contributivo, cosiddetto aggiuntivo, in favore di quei datori di lavoro che abbiano assunto lavoratori posteriormente alla data del 30 settembre 1968, assunzione che sia sfociata in un incremento del numero complessivo di lavoratori occupati dall’azienda nei territori del Mezzogiorno alla data medesima.


E’ chiaro che tale beneficio non potrà essere riconosciuto ogniqualvolta si dovesse constatare un mancato incremento dell’occupazione nonostante l’assunzione da parte del datore di lavoro di altri lavoratori.

Tale ultimo profilo, verifica dell’esistenza di una nuova azienda o, all’opposto, della prosecuzione della medesima azienda, ha trovato una sua peculiare applicazione con riferimento ai benefici contributivi riconosciuti ai datori di lavoro con la legge n. 223 del 23 luglio 1991.

Questa legge, chiamata a disciplinare fra l’altro la Cassa integrazione, la mobilità e i trattamenti di disoccupazione, riconosce benefici contributivi, che si sostanziano o in una riduzione della contribuzione previdenziale mensilmente dovuta dai datori di lavoro o nell’applicazione di una disciplina particolarmente favorevole, quale quella dettata dalla legge n. 25 del 1955 per gli apprendisti (si tratta degli artt. 21 e 22 di questa legge, ma anche altresì dell’art. 21 della legge 28 febbraio 1987, n. 56), in favore di quei datori di lavoro che assumono, senza esserlo tenuti, lavoratori disoccupati, prelevandoli dalle liste di mobilità.


Fra l’altro si riconosce in favore del datore di lavoro:


- il pagamento di una contribuzione ridotta, equiparata a quella pagata per i rapporti di apprendistato, nell’ipotesi che si assuma un lavoratore in mobilità con contratto di lavoro di durata non superiore a 12 mesi (art. 8, secondo comma);


- il pagamento di una contribuzione ridotta, anch’essa equiparata a quella pagata per i rapporti di apprendistato, nell’ipotesi che si assuma, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, un lavoratore prelevato dalle liste di mobilità (art. 25, nono comma);


- il riconoscimento di un contributo mensile pari al 50% dell’indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore, nell’ipotesi che si assuma, senza esservi tenuto, un lavoratore in mobilità con contratto a tempo pieno e indeterminato.

E’ oltremodo chiara la circostanza che tutti benefici menzionati hanno una loro giustificazione economica, oltre che giuridica, allorché con essi si aiuti il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori licenziati, mentre gli stessi benefici non hanno il fine di aiutare surrettiziamente quelle imprese che, con operazioni economiche alquanto ardite (e non importa se avallate da altri soggetti), sperimentano degli espedienti tali da consentire la fruizione dei beneficii in questione.



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All’opposto, in via teorica (ovviamente nulla esclude che la legislazione positiva riconosca riduzioni della contribuzione previdenziale), alcuna riduzione contributiva può riconoscersi allorchè sia positivamente provata l’esistenza di un trasferimento di azienda. In questa ipotesi l’acquirente continuerà a beneficiare, ove ancora possibile, delle eventuali riduzioni contributive di cui fruiva il datore di lavoro cedente essendo per lo più neutra, sotto questo versante, la circostanza che il complesso aziendale sia passato di proprietà.

 


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Altri, diversi e opposti riflessi economico-giuridici (non si parla più di benefici ma di obblighi, obblighi che sorgono in capo all’acquirente dell’azienda in forza del trasferimento), con riguardo sempre al versante dei datori di lavoro, da connettersi al trasferimento di azienda, rappresentano la conseguenza logico-giuridica di un sistema che, come retro posto in risalto, tende a tutelare a tutto tondo la posizione del lavoratore che, come forza lavoro, è oggetto di cessione.


L’esame di questo versante sarà compiuto unitamente all’esame della posizione fatta dall’ordinamento, si rammenti sempre sotto il profilo previdenziale, ai lavoratori dell’azienda ceduta.
 



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L’ultimo dei profili a rilevanza datoriale è rappresentato, come preannunciato nelle pagine precedenti di questo scritto, dall’eventuale modifica dell’inquadramentro operata dall’ente previdenziale a seguito del trasferimento di azienda e dagli effetti previdenziali allo stesso connessi.

Sommariamente, è nota la circostanza che l’I.N.P.S. provvede a emanare provvedimenti di inquadramento dei datori di lavoro. Atti che comportano, fra l’altro, l’individuazione della contrattazione collettiva di riferimento sulla quale individuare la cd. retribuzione virtuale, da utilizzare quale base di calcolo della retribuzione previdenziale dovuta.


Orbene può ben ipotizzarsi che il datore di lavoro cedente fosse inquadrato in un settore diverso da quello in cui è inquadrato il datore di lavoro che acquista l’azienda trasferita. Tale difformità di inquadramento potrebbe comportare la circostanza che, dal momento del trasferimento vi sia la contestuale emanazione da parte dell’I.N.P.S. di un provvedimento di modifica di inquadramento (provvedimento assunto d’ufficio o su sollecitazione dello stesso datore di lavoro nuovo proprietario) con riferimento all’azienda ceduta (non potendosi certo immaginare un’estensione automatica dell’inquadramento del datore di lavoro acquirente all’azienda da lui acquisita a seguito di trasferimento), con la conseguenza che da quel momento potrebbe mutare la contrattazione collettiva da utilizzare quale punto di riferimento per il calcolo della contribuzione dovuta.

Dal verificarsi di tale ipotesi consegue:


- l’applicazione contestuale da parte del datore di lavoro cessionario di due contrattazioni collettive, l’una che, in forza del disposto del terzo comma dell’art. 2112 e alla luce della scadenza temporale in esso individuata quale regola generale, consente l’individuazione del trattamento economico e normativo da riconoscere al lavoratore dell’azienda ceduta, l’altra che, in forza delle disposizioni in materia previdenziale, consente l’individuazione della retribuzione imponibile ai fini previdenziali;


- il pagamento da parte dell’ente previdenziale di prestazioni ai lavoratori e di benefici al datore di lavoro connessi esclusivamente all’inquadramento previdenziale operato.

E’ chiaro che, sino a quando la modifica di inquadramento comporta l’applicazione di un contratto collettivo che conduce all’individuazione di un carico contributivo inferiore a quello che si sarebbe pagato applicando il contratto collettivo collegato all’inquadramento di partenza, non vi saranno questioni di sorta.


All’opposto ben altro si deve ritenere sarà il contegno del datore di lavoro acquirente, allorché dall’acquisto dell’azienda scaturirà un carico contributivo diverso da quello precedente, costo contributivo che certamente ha avuto il suo rilievo economico al momento della scelta di acquisto e dell’individuazione del prezzo di vendita.


II.1.A.a) Aziende pubbliche, privatizzazione e trasferimento.

Le questioni connesse al tema della privatizzazione delle aziende pubbliche e all’applicazione della disciplina in tema di trasferimento di azienda, sempre limitatamente al profilo previdenziale possono, per comodità espositiva, essere bipartite e sintetizzate in due domande, precisamente:

  1. se e a quali condizioni sia predicabile l’applicazione della disciplina del trasferimento di azienda, con riguardo alla tutela dei diritti dei lavoratori dell’azienda ceduta, allorché si ha la privatizzazione di un’attività che sino a quel momento era pubblica;

  2. se possano rinvenirsi ostacoli all’applicazione dell’art. 2112 allorché un’impresa, una volta privatizzata, sia ceduta da un imprenditore privato a un altro.



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Con riguardo al primo versante la soluzione generalmente proposta e accettata, utilizzando come metro di riferimento la sola legislazione nazionale, pare essere quella che esclude dall’ambito di efficacia dell’art. 2112 cod. civ. il fenomeno della privatizzazione, senza che si proceda ad alcuna distinzione connessa al tipo di attività esercitata dall’azienda pubblica privatizzata.


Questa tranciante soluzione sconta un mancato collegamento con il diritto comunitario e in special modo, se si vuol preterire l’atteggiamento assunto dell’Avvocatura Generale, con quelle decisioni della Corte di Giustizia che hanno aperto degli spiragli applicativi della direttiva 77/187/CEE anche nell’ipotesi di privatizzazione delle aziende pubbliche.


Resta inteso che se si accede a una ricostruzione del tessuto legislativo nazionale in osmosi con il tessuto legislativo comunitario, nei limiti interpretativi che di quest’ultimo ne ha dato la giurisprudenza comunitaria in specie con riguardo al presente profilo, discenderà l’applicazione dei risultati di cui si è fatto menzione nelle precedenti parti di questo lavoro ogniqualvolta, nonostante l’esistenza di un’azienda pubblica privatizzata, si dovesse riconoscere l’applicabilità della Direttiva ult. cit. a tutela dei lavoratori prima dipendenti dell’impresa pubblica e poi dipendenti dell’impresa privata.
Da ultimo, a questo modello di interpretazione adeguatrice della disciplina nazionale alla disciplina comunitaria accede la stessa Corte di cassazione in alcune decisioni del 2004, precisamente la n. 8270 del 29 aprile e la n. 8054 del 27 aprile (entrambe le decisioni su Banca Dati C.E.D. Cass., rispettivamente rv. 572474 e 572371 e, per esteso in sito web iuritalia.com).


Nella prima di queste decisioni si riconosce il venir in essere di un trasferimento di azienda alla stregua della Direttiva comunitaria n. 187/77, secondo l’intepretazione fornitane dalla Corte di giustizia europea con la sentenza 14 settembre 2000 C-343/98, allorché la gestione di servizi pubblici comunali passi dalla gestione diretta dell’ente locale a quella attuata mediante un’azienda speciale municipalizzata.


Nella seconda delle citate decisioni, sempre in forza di tale adeguamento interpretativo, si riconosce l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ. anche quando “il trasferimento dell’azienda non derivi dall’esistenza di un contratto tra cedente e cessionario, ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della pubblica amministrazione” (si trattava del trasferimento di un impianto di distribuzione di carburanti, la cui gestione era stata assunta dal nuovo titolare in forza di decreto di concessione regionale).



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Il legislatore nazionale, con riguardo al profilo previdenziale, da una ricognizione sommaria della congerie di disposizioni sul tema, allorché ha proceduto alla cd. privatizzazione di enti pubblici economici ha posto in essere una disciplina ad hoc tesa a tutelare la posizione previdenziale dei lavoratori in servizio al momento della privatizzazione (per i lavoratori assunti successivamente ovviamente il problema non si pone e questi saranno iscritti all’I.N.P.S.).


Per questi lavoratori che, come noto, sino a quando erano dipendenti di un ente pubblico economico erano iscritti all’I.N.P.D.A.P., e allorquando l’ente economico ha cambiato pelle, avrebbero dovuto migrare all’I.N.P.S., il legislatore ha generalmente introdotto una facoltà di opzione, da esercitare entro un termine decadenziale, che consente la prosecuzione del rapporto previdenziale con l’I.N.P.D.A.P., come se non vi fosse stata privatizzazione alcuna del datore di lavoro da cui si dipende.


La problematica, che appare di maggior spessore all’interno delle linee ricostruttive sin qui utilizzate, collegata all’evento privatizzazione può così sintetizzarsi: una volta che l’ente è stato privatizzato discende la potestà da parte dell’I.N.P.S. di emanare un provvedimento di inquadramento dal quale scaturisce, fra l’altro, l’individuazione della contrattazione collettiva di riferimento per il calcolo della contribuzione previdenziale dovuta.


Orbene nei confronti dei lavoratori che hanno optato per la prosecuzione dell’iscrizione all’I.N.P.D.A.P. si deve ritenere che la contribuzione previdenziale dovuta dal datore di lavoro sia fissata secondo i medesimi parametri e non secondo i precedenti parametri ancorati alla contrattazione degli enti pubblici economici, a nulla rilevando l’opzione dei lavoratori, opzione che non ha la forza giuridica di individuare quale sia la contrattazione collettiva di riferimento per la fissazione della misura dell’obbligo contributivo.

L’ipotesi solutoria delineata comporta pertanto che, all’interno della previdenza obbligatoria gestita dall’I.N.P.D.A.P., vi siano posizioni previdenziali di lavoratori che, con riguardo alla provvista previdenziale, trovano la legge di riferimento nel sistema previdenziale privato gestito dall’I.N.P.S.

Questo collegamento consente di affermare che con riguardo all’individuazione dell’obbligo contributivo, posto a carico del datore di lavoro ormai privatizzato, passa attraverso le note regole privatistiche sul tema senza rilevare l’eventuale opzione compiuta da uno o più lavoratori in punto ente previdenziale di iscrizione.
 



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Una volta che l’ente pubblico economico è stato privatizzato, e qui si risponde alla seconda delle questioni retro delineate, può porsi, ancora una volta, la possibile applicazione della disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ. allorquando l’azienda facente parte dell’ente privatizzato sia alienato.


In tale ipotesi si rifluisce nelle regole generali sul tema e l’unica peculiarità che si scorge e che, a seguito del trasferimento di azienda, attiene proprio alla posizione previdenziale dei lavoratori, che precedentemente avevano optato per la prosecuzione dell’iscrizione all’I.N.P.D.A.P.


Una volta che vi è stato il trasferimento di azienda automaticamente il lavoratore porta la sua posizione previdenziale dall’I.N.P.D.A.P. all’I.N.P.S., senza che possa esservi ostacolo a tale soluzione l’aver fruito dell’opzione concessa dal legislatore allorché si ebbe la trasformazione da ente pubblico a privato.


II.1.B) Effetti nei confronti dei lavoratori.

Oltremodo complessa appare la posizione previdenziale dei lavoratori a seguito del trasferimento di azienda e da tale complessità scaturisce la difficoltà di individuare soddisfacenti modelli di tutela della stessa.

Le più rilevanti questioni da risolvere possono così sintetizzarsi:


- i diritti previdenziali, esemplificativamente il diritto al versamento della contribuzione dovuta agli enti previdenziali da parte del datore di lavoro cedente e cessionario, sono compresi nella tutela apprestata dall’art. 2112 cod. civ.;


- se i diritti previdenziali sono compresi nell’ambito di efficacia della disciplina codiciale, quali soggetti possono attivarsi per la tutela degli stessi e a quali condizioni.

Entrambe le questioni poste sul tappeto presuppongono l’esistenza, al momento del trasferimento, di un debito contributivo da parte del datore di lavoro e la creazione legislativa di un vincolo di solidarietà per il pagamento dello stesso in capo al datore di lavoro cessionario.



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La soluzione del primo quesito posto, se la disposizione codiciale comprenda nel suo ambito di tutela anche i diritti previdenziali connessi al rapporto di lavoro oggetto del trasferimento di azienda, necessita dell’utilizzo degli approdi legislativi e giurisprudenziali comunitari.

Come evidenziato nelle precedenti pagine di questo lavoro, per il diritto comunitario la previdenza obbligatoria rientra a pieno titolo nel reticolato di tutela apprestato in ipotesi di trasferimento di azienda.

Si è davanti a una norma imperativa comunitaria, che obbligatoriamente conforma le legislazioni nazionali obbligandole a tutelare i diritti previdenziali dei lavoratori, al pari degli altri diritti di cui sono titolari e che trovano la loro ragion d’essere nel rapporto di lavoro.

Da tale vincolo legislativo discende pertanto che l’obbligazione solidale di cui fa menzione il secondo comma dell’art. 2112 riguardi anche i diritti di natura previdenziale esistenti al momento del trasferimento dell’azienda.

La regola qui delineata trova una sua forte applicazione, allorché il datore di lavoro cedente non ha provveduto al pagamento della contribuzione previdenziale, ai presenti fini non importa se in misura integrale o parziale, per periodi di lavoro antecedenti al trasferimento.


Qualora si verifichi questa ipotesi si deve ritenere che il pagamento, si prescinde volutamente in questo momento dall’individuazione del soggetto titolare di questo potere, della contribuzione omessa possa essere indifferentemente richiesto all’uno o all’altro dei datori di lavoro, il cedente o il cessionario.

 


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Problema successivo, ma che può porsi in via gradata solo dopo che sia riconosciuta l’applicazione del cennato vincolo di solidarietà anche con riguardo ai diritti di natura previdenziale, attiene alle condizioni di legge che possano consentire il sorgere dell’obbligazione solidale.

Tale profilo passa dapprima attraverso una lettura integrata della disposizione dell’art. 2112 con le disposizioni dettate dai successivi articoli 2558, 2559 e 2560, successivamente attraverso la verifica del tasso di resistenza della soluzione, così individuata, alla disciplina comunitaria in materia.

Come noto gli articoli 2558, 2559 e 2560 disciplinano i fenomeni della successione dei contratti e dei debiti e crediti relativi all’azienda ceduta.


In specie l’art. 2560, con riguardo alla posizione fatta dall’ordinamento all’acquirente dell’azienda, riconosce una responsabilità di quest’ultimo solo allorquando i debiti “…risultano dai libri contabili obbligatori dell’azienda.”.


In forza dell’interpretazione data dalla giurisprudenza nazionale al reticolato normativo si deve concludere che alcuna tutela, ovviamente nei confronti dell’acquirente dell’azienda, sia apprestata ai diritti tout court vantati dal lavoratore, ivi compresi i diritti di natura previdenziale, allorché i debiti del datore di lavoro cedente non siano contabilizzati nei libri la cui tenuta è obbligatoria.

La soluzione delineata, in linea con una lettura interna della legislazione codiciale, non pare possa passare indenne il vaglio di conformità della stessa alla legislazione comunitaria sul tema.


Legislazione quest’ultima che non subordina la tutela dei diritti dei lavoratori, recte non subordina il sorgere della responsabilità solidale del datore di lavoro acquirente, alla circostanza che i debiti del precedente datore di lavoro siano resi visibili dalla lettura dei libri obbligatori.


Infatti la Direttiva riconosce il sorgere dell’obbligo solidale, ma si rilevi tale regola vale anche per le posizioni attive, anche quando da parte del datore di lavoro cedente vi sia stata l’omessa notifica dei debiti, esistenti al momento del trasferimento, al datore di lavoro cessionario (art. 1, 2°prg., secondo periodo).

Si aggiunga altresì che l’omissione di notifica, di cui parla il legislatore comunitario, sembra rappresentare un quid di contenutisticamente più blando della regola fissata nell’art. 2560 cod. civ., lasciando inferire che per il legislatore comunitario il debito scaturente dal rapporto di lavoro e l’estensione dell’obbligo di pagamento al datore di lavoro acquirente non abbiano alcun collegamento scritturale, potendo essere sufficiente che la notizia del debito sia portata a conoscenza del cessionario attraverso l’utilizzo di un sistema di comunicazione, quale è la notifica degli atti.


Se poi a tale constatazione si connette il noto modello relazionale fra i due sistemi legislativi, ne consegue che la disciplina dettata dall’art. 2560 cod. civ. non può più trovare applicazione nei riguardi dei crediti vantati dai lavoratori. Spia significativa di tale possibilità interpretativa è rappresentata dalla posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità allorché è chiamata a tutelare i diritti dei lavoratori in ipotesi di trasferimento di azienda e nascita dell’obbligazione solidale.


Infatti nei confronti di costoro opera solo ed esclusivamente la norma imperativa generale introdotta proprio dal legislatore comunitario di tutela generale dei diritti vantati dai lavoratori dell’azienda trasferita.


La soluzione prospettata comporta pertanto il diritto del lavoratore di agire per il recupero dei propri crediti anche nei confronti del datore di lavoro cessionario, ancorché dell’esistenza di tali debiti quest’ultimo non abbia avuto conoscenza e restando, ovviamente, in piedi il modello legislativo di ripartizione interna del debito in sede di obbligazioni solidali.

 


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Infine altro e diverso problema riguarda l’eventuale possibilità che per la tutela dei diritti previdenziali possa agire non già il lavoratore, bensì l’ente previdenziale chiamato da un lato a riscuotere la contribuzione previdenziale e dall’altro a erogare la prestazione ai lavoratori.

La questione qui delineata ha assunto una sua rilevanza dal momento che, a quel che consta, gli ultimi precedenti giurisprudenziali (per i quali si v. retro nota n. 27) che hanno affrontato e risolto il tema della tutela dei crediti previdenziali e delle condizioni del sorgere dell’obbligazione in capo al datore di lavoro cessionario, hanno visto coinvolto l’I.N.P.S., mentre assenti erano i lavoratori a danno dei quali era stata posta in essere l’omissione contributiva.

La Cassazione ha:


- nella prima decisione, disconosciuto il diritto dell’ente previdenziale ad agire per la riscossione dei crediti previdenziali anche nei confronti del datore di lavoro cessionario e a sostegno di tale assunto ha argomentato che “Restano esclusi dall’ambito di applicazione della norma (si tratta del 2° comma dell’art. 2112), che riguarda i crediti propri del lavoratore verso il cedente originati dal contratto di lavoro in corso, i crediti di terzi non <<lavoratori>>, ancorché legati nella genesi e nella causa al rapporto di lavoro. Orbene, il credito dell'INPS per l'omesso versamento di contributi previdenziali da parte del cedente è un credito proprio dell’istituto previdenziale, e non un credito del lavoratore, benché trovi la sua origine nel rapporto di lavoro in corso….Di conseguenza, trattandosi di debiti contratti dall’imprenditore nella gestione dell’impresa, di cui costituiscono un costo economico, i debiti previdenziali e assicurativi sono inerenti all’esercizio dell’azienda e, in caso di trasferimento dell’azienda medesima, restano disciplinati dalla norma generale di cui all’art. 2560 c.c., di cui va verificata la sussistenza in concreto dei relativi presupposti di fatto;


- nella seconda decisione, ove non si verteva più dell’applicazione dell’art. 2112 cod. civ. ai crediti contributivi vantati dall’I.N.P.S., ma solo dell’applicazione dell’art. 2560, la Corte, applicando la sua costante giurisprudenza sul punto, disconosceva il diritto dell’ente previdenziale ad agire nei confronti del cessionario, perché il debito non risultava nei libri obbligatori e restando irrilevante la conoscenza aliunde che degli stessi avrebbe potuto avere il datore di lavoro cessionario.

E’ opportuno, prima di progredire nell’indagine, verificare quali siano le conseguenze ultime a cui conducono tali arresti giurisprudenziali.


Con riguardo al lavoratore è certo che egli non potrà agire nei confronti del datore di lavoro cessionario, per il recupero dei contributi omessi dal datore di lavoro trattandosi, come affermato dalla Suprema Corte, di un credito proprio dell’ente previdenziale e non di un credito del lavoratore.


Più correttamente e con maggiore puntualità, il lavoratore non potrà agire per la quota di contribuzione che l’ordinamento pone a carico del datore di lavoro, mentre potrà agire per la quota di contribuzione che l’ordinamento pone a suo carico e che è pagata, si potrebbe dire quale sostituto d’imposta, dal datore di lavoro.


Con riguardo all’ente previdenziale, lo stesso potrà agire in giudizio per la tutela del proprio credito contributivo ma non potrà utilizzare il modello di tutela delineato dall’art. 2112, dovendosi accontentare del modello di tutela delineato nel successivo art. 2560 cod. civ.

Chiariti i risultati ultimi a cui conduce l’applicazione delle regole delineate dalla giurisprudenza, in specie con riguardo alla tutela apprestata dall’ordinamento alla posizione creditoria vantata dall’I.N.P.S. in ipotesi di trasferimento di azienda, è opportuno verificare se tali regole siano conformi alla nota legislazione comunitaria, essendo indubbio che una volta provata un’eventuale non conformità, le stesse dovranno essere modulate adeguandole alla citata legislazione continentale.

Il primo paragrafo dell’art. 3 della Direttiva n. 23 del 12 marzo del 2001 parla genericamente di “diritti e obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento” e fissa il principio che gli stessi sono trasferiti al cessionario.
Il successivo paragrafo 4 espressamente esclude dall’ambito di tutela apprestato dalla disposizione i soli “diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari di di previdenza professionali o interprofessionali, esistenti al di fuori dei regimi legali di sicurezza sociale degli Stati membri.”

Dalla lettura integrata delle citate disposizioni sembra potersi inferire che il legislatore comunitario, con la Direttiva in questione, abbia voluto tutelare, a tutto tondo, la posizione del lavoratore, comprendendo in tale espressione anche i diritti di natura previdenziale scaturenti da regimi legali di sicurezza sociale, espressamente escludendo da tale ambito di tutela i regimi complementari di sicurezza sociale.


Se sono questi la volontà e il fine perseguito dal legislatore comunitario, si rammenti che nelle intenzioni dello stesso tale reticolato di tutela rappresenta il minimo comune denominatore di tutte le legislazioni nazionali, ne discende che l’interpretazione dell’art. 2112 cod. civ. non può essere tale da escludere dal suo ambito di tutela i diritti previdenziali che sono l’altrà metà del cielo del rapporto di lavoro oggetto di cessione.


Una volta assodato che la tutela dei diritti previdenziali è affidata nel nostro ordinamento, al pari di tutti le altre legislazioni degli Stati membri della Comunità, all’art. 2112 cod. civ. diviene un accidente, questo sì affidato alle scelte di ciascuna legislazione nazionale, la circostanza dell’individuazione del soggetto che nell’ordinamento interno è chiamato a tutelare i profili previdenziali del rapporto di lavoro.


Il nostro sistema pertanto si deve ritenere che da un lato comprenda nel reticolato di tutela dell’art. 2112 cod. civ. i diritti di natura previdenziale connessi al rapporto di lavoro. Da altro lato, alla luce delle scelte del legislatore di affidare la tutela del rapporto previdenziale a un soggetto pubblico, che il diritto di agire per la tutela di tale diritto spetti a questo soggetto pubblico.

Il secondo e ultimo dei profili che rimangono da esaminare attiene alla assunta necessaria esposizione dei debiti contributivi nei libri obbligatori affinché scatti la responsabilità del datore di lavoro cessionario e, anche per questo versante, soccorre la Direttiva del 2001.


Come evidenziato nelle pagine precedenti il legislatore comunitario, al secondo periodo del secondo paragrafo dell’art. 3, conferma il sorgere del vincolo di solidarietà in capo al cessionario anche nell’ipotesi che “il cedente ometta di notificare al cessionario i diritti e gli obblighi…”.


Orbene se è questa la scelta, la stessa non può non avere rilievo nel nostro ordinamento allorché si tratti di tutelare i diritti di natura previdenziale, con la conseguenza che, anche a volere ritenere operante per la tutela dei diritti previdenziali l’art. 2560, l’applicazione dello stesso dovrà, nella nostra materia, essere mediata dall’art. 2112 cod. civ. così come riletto alla luce della disciplina comunitaria.


Scilicet se è indubbio che l’art. 2112 cod. civ. ormai comprende nel suo ambito di tutela anche i diritti previdenziali scaturenti dai regimi legali di sicurezza sociale e se si vuole allo stesso tempo continuare ad affermare che, nel nostro ordinamento, essendo la tutela degli stessi affidata a un soggetto terzo, quale è l’ente previdenziale, opera la disciplina dell’art. 2560 discende, dall’incrocio dei dati normativi sin qui delineati, che quest’ultima disposizione con riguardo ai rapporti in questione cede di fronte alla legislazione comunitaria e pertanto l’ente previdenziale potrà agire per la tutela della posizione previdenziale, ovverosia per il recupero della contribuzione omessa dal cedente, anche nell’ipotesi che della stessa non si abbia traccia nei libri obbligatori.


II.2) Effetti del trasferimento di azienda nei regimi complementari di sicurezza sociale.


L’individuazione di un reticolato di tutela con riguardo ai diritti previdenziali scaturenti dall’adesione del lavoratore a un fondo di previdenza complementare, mentre sino al momento di emanazione del decreto legislativo 23 aprile 1993, n. 124, avrebbe potuto rappresentare un profilo recessivo del tema, oggi, in specie anche dopo la legge delega 23 agosto 2004, n. 243, ove si prevede l’applicazione del silenzio assenso per la destinazione del trattamento di fine rapporto ai citati fondi, costituisce un tema di non poco conto sul quale si appalesa necessaria una ricostruzione del sistema che sfoci, anche su questo versante e per quanto possibile, in una tutela la più ampia possibile (si osservi che se non si dovesse approdare a risultati di tal fatta, e quindi si dovesse pervenire, all’opposto di quel che accade nel sistema di sicurezza sociale obbligatorio, a una tutela meno forte delle posizioni dei lavoratori, è gioco forza pensare che anche questo aspetto avrà un ruolo nella scelta dei lavoratori di investire il proprio risparmio in forme previdenziali complementari).

Si osservi infine che lo stesso legislatore, antecedentemente al decreto legislativo n. 124, ha apprestato un modello di tutela con riguardo alla previdenza in questione allorché si dovesse verificare un omesso versamento da parte del datore di lavoro obbligato, si tratta dell’art. 5 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80.



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Punto di partenza obbligato, al pari che per il versante della previdenza obbligatoria, è la nota Direttiva comunitaria.


Direttiva che, esplicitamente, fissa una regola generale di esclusione dal suo ambito di efficacia dei “…diritti dei lavoratori a prestazioni di vecchiaia, di invalidità o per i superstiti dei regimi complementari….” (art. 4, lett. a), ma in ogni caso fatta salva la possibilità da parte di ciascun Stato membro di disporre diversamente.


A questa regola però se ne aggiunge altra che fissa l’obbligo in capo ai citati Stati di adottare “…i provvedimenti necessari per tutelare gli interessi dei lavoratori e di coloro che hanno già lasciato lo stabilimento del cedente al momento del trasferimento per quanto riguarda i diritti da essi maturati o in corso di maturazione, (limitatamente) a prestazioni di vecchiaia, comprese quelle per i superstiti…” (art. ult. cit., lett. b).


La lettura contestuale delle due disposizioni sul tema porta a ritenere che per le prestazioni di vecchiaia e per quelle ai superstiti vi sia, in ogni caso e a prescindere dall’affermazione di principio di non estensione del reticolato di tutela ai regimi di previdenza complementare, un obbligo in capo ai legislatori nazionali di apprestare un reticolato, minimo e indefettibile, di tutela che garantisca:

  1. l’erogazione delle prestazioni di vecchiaia e ai superstiti maturate al momento del trasferimento d’azienda;

  2. in ogni caso, che la contribuzione versata al fondo di previdenza complementare prima del trasferimento non vada persa, ma sia utile per l’acquisizione del diritto alle citate prestazioni (lo stesso modello pertanto non pare che possa operare con riguardo all’individuazione del quantum della prestazione);

  3. in ogni caso, il versamento della contribuzione che si sarebbe dovuta versare ai fondi da parte del datore di lavoro cedente e che non è stata versata.
     

Si proseguirà nella verifica dell’esistenza o meno nel nostro sistema di meccanismi di tutela atti a garantire i lavoratori con riguardo a ciascuno dei tre versanti enumerati, passando prima attraverso la lettura, ovviamente alla luce dei principi inderogabili di natura comunitaria, del citato articolo 2112 e poi attraverso l’esegesi delle disposizioni legislative chiamate a disciplinare specificamente il fenomeno “previdenza complementare” (Sempre che, come evidenziato retro, non si voglia comprendere, al pari della Corte di Giustizia, le prestazioni erogate dai fondi complementari nella retribuzione, la soluzione, allo stato, non pare percorribile).

L’art. 2112, in questa ipotesi, non pare possa offrire la tutela completa e generale che offre allorché si tratti di diritti previdenziali scaturenti dai regimi legali. Stante il fatto che proprio il legislatore comunitario non fa ricadere sotto l’ombrello protettivo della Direttiva i diritti di natura previdenziali che trovano la loro ragion d’essere nei sistemi di previdenza complementare, e affidando per la tutela di questi al legislatore il compito di individuare specifiche forme di tutela come retro evidenziato.


Né pare che si possa procedere a un ripescaggio di tale disposizione codiciale limitatamente a quelle forme di previdenza complementare cc. dd. preesistenti che, mancando di separatezza patrimoniale e quindi rientranti nel bilancio unitario della società – datore di lavoro, potrebbero essere assimilate con riguardo ai rapporti intercorsi con i lavoratori iscritti, a una parte del rapporto di lavoro. Ciò perché, alla luce dell’art. 18 del decreto legislativo n. 124 del 1993, tali forme non hanno più cittadinanza, in via generale, nel nostro ordinamento, dovendosi le stesse adeguare a criteri di separatezza e autonomia validi per tutte le forme di previdenza complementari, preesistenti alla legge delega n. 421 del 1992 e non.


Criteri che pertanto conducono, al pari che nei sistemi di previdenza obbligatoria, all’esistenza di un soggetto terzo, il fondo pensione, dotato di autonomia giuridico-patrimoniale, a cui deve essere versata la contribuzione e che, una volta ricevutala, provvederà a gestirla tramite altri e diversi soggetti.

Le uniche disposizioni codiciali che appaiono pertanto utilizzabili, nonostante tale soluzione possa non apparire di primo acchito soddisfacente, sono quelle che si rinvengono negli artt, 2558, 2559 e 2560, specificamente il primo, in tema di successione di contratti, e il terzo in tema di debiti relativi all’azienda ceduta.


Se e come queste disposizioni possano operare, allorchè vi sia un trasferimento di azienda, con riguardo ai fondi di previdenza complementare, e specificamente ai diritti previdenziali dei lavoratori, ci si riserva di verificare all’interno del sistema di previdenza complementare delineato dal decreto legislativo n. 124 del 1993 e quando si parlerà di questo.

 


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La norma che il nostro legislatore, prima del decreto legislativo n. 124 del 1993, ha introdotto per la tutela dei diritti previdenziali sorti in capo al lavoratore a seguito dell’iscrizione a forme previdenziali complementari è rappresentata dall’art. 5 del decreto legislativo del 1992.


In questo articolo, in realtà, non si appresta una tutela specifica dei lavoratori che sono stati coinvolti in operazioni di trasferimento di aziende, ma si appresta una tutela che riguarda indifferentemente tutti i lavoratori e che pertanto copre anche i lavoratori ceduti con l’azienda.


Tale disposizioni si limita a prevedere l’intervento di un Fondo di garanzia appositamente creato presso l’I.N.P.S.


Fondo chiamato a operare qualora il datore di lavoro obbligato non abbia provveduto al versamento della contribuzione al fondo di previdenza complementare. In questa ipotesi il Fondo di garanzia, alle condizioni previste nel citato articolo, provvede a versare al fondo di previdenza complementare i contributi omessi, e si surroga nei diritti vantati dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

Il modello, succintamente delineato, consente pertanto di affermare che il diritto del lavoratore è in ogni caso fatto salvo e l’eventuale omissione contributiva è socializzata con la creazione anche sotto il versante della previdenza complementare di un modello pieno di tutela, che però passa attraverso altro e diverso reticolato normativo.


Il lavoratore pertanto anche se dovesse riscontrare, dopo il trasferimento dell’azienda, un’omissione contributiva da parte del datore di lavoro cedente non avrà sì alcuna azione nei confronti del cessionario per i debiti del cedente secondo i criteri fissati dall’art. 2112, ma vedrà tutelata la sua posizione di previdenza complementare con l’intervento di un soggetto terzo, quale è il Fondo di garanzia.


Infine, sarà il Fondo che dovrà procedere al recupero dei contributi omessi e tale recupero non potrà che operare nel rispetto delle regole generali, rimanendo pertanto neutra la circostanza che si è davanti a un trasferimento di azienda.
 



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Da ultimo non resta che verificare se il citato decreto legislativo n. 124 abbia approntato una specifica tutela dei diritti previdenziali coinvolti nell’operazione di trasferimento dell’azienda, comprendendo in questa espressione sia il diritto a vedersi accreditata la contribuzione versata nel fondo di previdenza complementare dell’azienda cedente allorché vi sia stata la necessaria migrazione del lavoratore al fondo di previdenza complementare dell’azienda cessionaria, sia il diritto a vedersi liquidate le prestazioni a cui avrebbe avuto diritto se fosse rimasto iscritto al fondo di previdenza complementare dell’impresa cedente.

Le disposizioni che disciplinano gli evidenziati profili sono da rinvenirsi negli articoli 10 e 11.

La prima norma, in realtà, prevede e disciplina in generale l’ipotesi di trasferimento della posizione individuale riconoscendo in generale all’iscritto al fondo pensionistico il diritto alla portability della propria posizione previdenziale.


Si deve ritenere che tale regola sia applicabile anche all’ipotesi di trasferimento di azienda. In questa ipotesi, quale modello generale, opererà il passaggio della posizione contributiva da un fondo all’altro.


Questo non è luogo deputato per chiedersi se tale passaggio sia conseguenza necessaria e immediata della cessione di azienda oppure se, come traspare dall’utilizzo del verbo potere nel secondo comma dell’art. cit., è lasciata alla libera disponibilità del lavoratore iscritto tale possibilità, e cosa accade se si tratta di un fondo aziendale oppure di un fondo chiuso di categoria, piuttosto che di fondi aperti o di piani previdenziali (i cc. dd. pip).

Il secondo dei citati articoli, disciplina, a sua volta, ipotesi patologiche connesse al fondo previdenziale o al datore di lavoro, si tratta nel primo caso di scioglimento del fondo e, nel secondo caso, di cessazione dell’attività.


In entrambi i casi la tutela della posizione contributiva del lavoratore passa attraverso l’intestazione diretta della copertura assicurativa in essere.

Può conclusivamente affermarsi che alcuna disciplina peculiare sia rinvenibile nel decreto legislativo n. 124 del 1993, con riguardo alla posizione dei lavoratori coinvolti in un trasferimento di impresa e pertanto, anche per loro, opereranno le regole generali di tutela nel testo legislativo apprestate, regole che prevalgono sulle regole generali fissate dal codice civile.

 


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(1) Il presente scritto, corredato delle note e dell’apparato bibliografico, è inserito in un’opera collettanea di prossima pubblicazione per i tipi Giappichelli.