La comunione dei beni e il regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi
Luciano Bruscuglia *
1. Il concetto di amministrazione nella comunione legale
I beni che costituiscono l’oggetto della comunione legale si
differenziano dai beni personali di ciascun coniuge sotto il duplice profilo
delle regole, che presiedono alla loro amministrazione, e dei limiti entro i
quali essi rispondono delle obbligazioni contratte dai coniugi, congiuntamente o
separatamente, nell’interesse della famiglia ovvero per il conseguimento di
scopi esclusivamente individuali.
Dal primo punto di vista , il legislatore della riforma del
diritto di famiglia – se, da una parte, quanto ai beni personali del coniuge, si
è limitato a richiamare l’applicabilità delle norme del regime di separazione
dei beni (art. 185 c.c.) – dall’altra, per i beni della comunione legale, ha
configurato un complesso di regole giuridiche (artt. 180-184 c.c.), che attua un
delicato equilibrio tra interessi diversi ed esigenze talvolta contrapposte.
Un problema preliminare all’esegesi delle norme è
rappresentato dalla valutazione di adeguatezza del concetto di «amministrazione»
riferito ad un’entità patrimoniale (beni della comunione legale), che non si
appalesa, prima facie, teleologicamente funzionale ad uno specifico interesse
giuridico tipizzato dalla legge ed ontologicamente distinto dal mero utile
patrimoniale dei singoli coniugi. Tecnicamente, infatti, il concetto di
amministrazione evoca figure normative, nelle quali un bene o un complesso
patrimoniale risulta preordinato al soddisfacimento di un interesse «superiore»,
al cui perseguimento è vincolata, conseguentemente, anche la condotta del
soggetto, al quale la legge attribuisce il potere di compiere atti giuridici
incidenti sul bene o sul patrimonio stesso.
Il tentativo dottrinale, esperito sul punto, di presentare la
comunione legale alla stregua di un patrimonio destinato al soddisfacimento dei
bisogni della famiglia si scontra, tuttavia, con i dati normativi, che
dimostrano l’inesistenza di qualsivoglia vincolo di destinazione dei beni
comuni, quali, in particolare, la mancata inclusione (art. 177, lett. c), c.c.),
tra i beni oggetto della comunione legale, dei proventi dell’attività separata
(strumento primario di realizzazione quotidiana dei bisogni familiari), nonché
l’espressa previsione (art. 186, lett. d), c.c.) della responsabilità dei beni
della comunione per le obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi per
cause anche estranee alle esigenze della famiglia 4.
L’impossibilità di configurare la comunione legale in termini
di patrimonio finalizzato ad uno scopo familiare evidenzia, quindi,
l’improprietà terminologica del concetto di amministrazione ed induce a ritenere
che l’attività dei coniugi sui beni della comunione si sostanzia, invero,
nell’esercizio delle normali facoltà (di conservazione, godimento e
disposizione) costituenti il contenuto del diritto soggettivo avente ad oggetto
i singoli beni 5. In questo senso, l’amministrazione dei beni della comunione
legale non si presenta concettualmente e strutturalmente dissimile
dall’amministrazione della cosa comune nella comunione ordinaria (art. 1105 c.c.),
laddove la nozione di amministrazione si riferisce semplicemente alla
conservazione della cosa comune (funzionale al godimento ed alla successiva
divisione) e non anche ad un vincolo eterogeneo rispetto all’interesse dei
singoli contitolari.
L’inevitabile corollario dogmatico di una siffatta
ricostruzione consiste nell’esclusione di ogni profilo di doverosità negli
atti di ciascun coniuge aventi ad oggetto i beni della comunione legale e nella
correlativa affermazione della piena libertà dell’attività di amministrazione
dei coniugi che, in quanto rivolta al perseguimento di interessi loro propri,
non rappresenta altro che la naturale espressione giuridica della situazione di
contitolarità del diritto sui beni in comunione 6.
Il rischio teorico di tale impostazione è rappresentato,
invece, dallo svilimento delle peculiarità distintive della comunione legale
rispetto alla comunione ordinaria, fino al punto da connotare la prima come una
specie della seconda, in quanto caratterizzata soltanto dalla maggiore
incisività dei poteri di disposizione del singolo contitolare e da più
accentuati profili di tutela dell’affidamento dei terzi nelle vicende correlate
alla circolazione dei beni.
Ma è proprio la premessa concettuale, dalla quale occorre
muovere per concludere un simile sillogismo – premessa costituita dal
riconoscimento in capo ad entrambi i coniugi di una situazione di contitolarità
sui singoli beni facenti parte della comunione legale – che necessita di essere
dimostrata, non essendo automaticamente desumibile dalle regole che disciplinano
i meccanismi acquisitivi nell’ambito della comunione. Qualora, infatti, si
dovesse ritenere che l’ingresso di un bene nella comunione legale non produce ex
lege l’effetto della contitolarità sul bene da parte del coniuge che non ha
posto in essere l’atto di acquisto, sarebbe inevitabile concludere nel senso
dell’assoluta irriducibilità della comunione legale a figura rientrante nel genus della comunione ordinaria o, comunque, ad ipotesi speciale di
contitolarità di diritti facente parte della più ampia categoria dogmatica della
comunione.
Abbandonando, invece – come appare preferibile – lo schema
della contitolarità, il profilo dinamico dell’amministrazione dei beni,
caratterizzato dalla regola binaria dell’art. 180 c.c., rinviene il suo autonomo
fondamento dogmatico nell’originale parallelismo tra titolarità (comune o
esclusiva) del diritto e legittimazione (disgiunta o congiunta) all’esercizio
delle facoltà costituenti il contenuto di quel medesimo diritto, pur al di fuori
di quell’ottica di discrezionalità e doverosità propria delle tradizionali e più
diffuse ipotesi di legittimazione straordinaria all’esercizio di un’altrui
situazione giuridica soggettiva.
Il concetto di amministrazione – adoperato, dunque, per
designare la legittimazione di ciascun coniuge al compimento di atti giuridici
sui beni della comunione legale, pur in difetto di titolarità formale su ogni
singolo elemento del complesso patrimoniale – si arricchisce, così, di una
maggiore pregnanza economica e giuridica, non venendo più a connotare
un’attività meramente conservativa o funzionale, ed esprimendo, al contrario,
l’espansione degli ambiti di libertà riservati, nel settore patrimoniale, ai
coniugi in regime di comunione legale dei beni.
2. Gli atti di amministrazione e gli acquisti compiuti separatamente da uno dei coniugi
Le norme in materia di comunione legale non contengono una
tipizzazione degli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione,
limitandosi a dettare la disciplina giuridica del compimento di essi e
rimettendo all’interprete il problema della loro individuazione.
Su tale piano esegetico, si è posta, anzitutto, la questione
relativa al coordinamento tra le norme rispettivamente contenute nell’art. 177,
lett. a), c.c. e nell’art. 180 c.c., allo scopo di stabilire se, tra gli atti di
ordinaria o straordinaria amministrazione, possano ricomprendersi gli acquisti
compiuti dai coniugi. Al proposito, il mero dato letterale dell’art. 177, lett.
a), c.c. – talvolta valorizzato in dottrina 11 per comprovare la tesi contraria
all’inclusione degli atti di acquisto tra quelli sottoposti alla disciplina di
cui all’art. 180 c.c. – non appare risolutivo: si potrebbe ritenere, infatti, in
ipotesi, che la legittimazione del singolo coniuge all’acquisto separato valga
soltanto in relazione ad acquisti di ordinaria amministrazione, mentre, per gli
acquisti di straordinaria amministrazione, la legittimazione congiunta, prevista
dall’art. 180, c. 2°, c.c., si esprima, invece, nel necessario compimento
dell’atto di acquisto da parte dei due coniugi insieme (così come stabilito
nella prima parte dell’art. 177, lett. a), c.c.).
Ma anche gli argomenti di carattere logico-sistematico –
riconducibili, sinteticamente, da una parte, all’esigenza di sottoporre la
decisione di acquistare beni, anche con denaro personale, alla regola generale
dell’accordo tra coniugi nella definizione dell’indirizzo della vita familiare
(art. 144 c.c.), e, dall’altra, alla necessità di rimediare all’apparente
contraddizione tra l’«anarchia» nell’acquisto di diritti reali e l’obbligo, ex
art. 180, c. 2°, c.c., di procedere congiuntamente all’acquisto di meri diritti
personali di godimento – non si rivelano persuasivi.
Quanto al richiamo all’art. 144 c.c., è stato giustamente
osservato come da tale norma, essendo essa parimenti applicabile ai coniugi in
regime di separazione dei beni, non possa trarsi argomento per limitare il
libero compimento di acquisti da parte del singolo coniuge. In ordine, poi,
all’argomento a fortiori – tratto dalla previsione della stipulazione congiunta
dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di
godimento – la dottrina maggioritaria replica considerando impropria
l’inclusione di tali atti tra quelli definiti dalla legge come di straordinaria
amministrazione ed affermando che il significato della previsione normativa si
riduce alla conseguenza che «il locatore – o il comodante o il noleggiatore –
ove abbia stipulato il contratto con uno solo dei coniugi non può in nessun caso
pretendere il pagamento dei canoni (o la restituzione del bene o il risarcimento
dei danni a questo in ipotesi arrecato) dalla comunione (e quindi pure
dall’altro coniuge), neppure qualora il bene sia stato destinato alla – ed
utilizzato dalla – famiglia» . Ma – anche a non voler accedere
all’interpretazione secondo cui la norma concernente l’acquisto dei diritti
personali di godimento «non ha nulla a che vedere con la nozione di atti di
amministrazione della comunione» – occorre comunque considerare che molteplici
possono essere le ragioni, che possono aver indotto il legislatore a richiedere
la legittimazione congiunta dei coniugi nella concessione o nell’acquisto di una
categoria di diritti (diritti personali di godimento) aventi spesso (specie
quando riguardino beni immobili) una significativa pregnanza economica; ciò non
può implicare, tuttavia, che qualunque altro atto giuridico, astrattamente più
incisivo sul piano patrimoniale, debba necessariamente essere sottoposto ai
medesimi limiti di legittimazione. La conseguenza (inaccettabile) sarebbe quella
di ritenere che il coniuge, adottando il regime di comunione legale, perda o
veda menomata la propria capacità di acquisto . Al contrario, la disciplina
normativa dell’amministrazione dei beni della comunione presuppone la formazione
del patrimonio c.d. comune attraverso l’operatività di regole giuridiche
autonome, secondo le quali il coniuge – come espressamente sancito dall’art.
177 c.c. – è pienamente libero di disporre dei proventi e dei frutti propri per
procedere ad acquisti di beni che, automaticamente (effetto, che costituisce il
tratto peculiare di tale regime patrimoniale), entrano nel novero di quelli sui
quali l’altro coniuge può legittimamente compiere atti giuridici con i poteri ed
i limiti di cui all’art. 180 c.c.
Il problema, invero, è anche praticamente insussistente nel
caso in cui l’acquisto sia compiuto dal singolo coniuge con denaro o attività
proprie. Qualora, invece, il coniuge attinga a beni o denari già in comunione
legale, l’applicazione dell’art. 180 c.c. (e dei rimedi stabiliti dall’art. 184)
consentirebbe al partner di reagire ad acquisti sconsiderati o investimenti
dilapidatori.
Il prelievo di beni della comunione costituisce, però, un
atto sempre successivo al contratto di acquisto, alla cui stipulazione si
producono immediatamente i soli effetti del trasferimento del diritto e della
nascita dell’obbligazione avente ad oggetto la controprestazione. Il fatto, poi,
che, per l’adempimento di quest’ultima, il coniuge, che ha posto in essere
l’atto, abbia adoperato denari o beni della comunione, rileva esso sì sul piano
dell’amministrazione, ed in relazione a ciò il coniuge non acquirente potrà
pretendere la ricostituzione della comunione (per equivalente) nello stato in
cui era prima del compimento dell’acquisto (art. 184, c. 3°) ed agire, se del
caso, ex art. 183 c.c., per escludere l’altro coniuge dall’amministrazione dei
beni della comunione in ragione della mala gestio; non potrà, invece, domandare
l’annullamento del contratto di acquisto, posto che quest’ultimo – logicamente e
giuridicamente distinto dal successivo atto solutorio – poteva essere onorato
dal coniuge stipulante mediante l’impiego di denari o beni propri.
Quanto, infine, alla possibilità che l’atto solutorio possa
essere compiuto, dal coniuge stipulante il contratto di acquisto, disponendo di
beni immobili della comunione (ad esempio, permuta o datio in solutum), l’esperibilità
del rimedio di cui all’art. 184, c. 1°, c.c., discende non già dall’indebita
parificazione tra atto di acquisto ed atto di amministrazione, bensì
dall’autonoma qualificazione dell’atto stesso in termini di atto dispositivo e,
quindi, pacificamente, soggetto alla disciplina contenuta nell’articolo citato.
In definitiva, le norme sull’amministrazione dei beni della
comunione legale non limitano la capacità contrattuale individuale dei singoli
coniugi, i quali, pertanto – stante il disposto dell’art. 177, lett. a), c.c. –
possono procedere anche ad acquisti separati di beni immobili o mobili di
rilevante valore. Tuttavia, se – nell’adempimento dei suddetti contratti – il
coniuge stipulante compie prelievi o atti dispositivi di beni della comunione ,
l’altro coniuge ha facoltà di agire per l’annullamento dell’atto o per la
ricostituzione della comunione – secondo le rispettive previsioni dei c. 1° e 3,
art. 184 c.c. – con la conseguenza che, riguardo ai soli beni immobili 20 (o
beni mobili registrati), il positivo esperimento dell’azione di annullamento può
effettivamente condurre alla risoluzione del contratto di acquisto stipulato dal
coniuge separatamente col terzo, ma ciò soltanto come mera oggettiva conseguenza
dell’ineseguibilità dell’attribuzione patrimoniale compiuta dal coniuge quale
corrispettivo dell’acquisto (continua ).
* Queste
pagine sono parte di capitolo di uno dei volumi dedicati alla disciplina del
diritto di famiglia nel Trattato di diritto privato in corso di pubblicazione
presso l’editore Giappichelli