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ATTO ILLECITO E DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE
PER DANNO AMBIENTALE. (*)
Pier Giuseppe Monateri
La dottrina italiana si è molto interessata al tema, nonché ai problemi di valutazione, e assicurabilità di questo tipo di danno. In passato la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di edificare una responsabilità per danno ambientale su molteplici presupposti.
Innanzitutto si è cercato di fare riferimento alla disciplina delle immissioni come strumento per attuare tale tutela
La S.C. affermò la configurabilità di un diritto soggettivo all’ambiente salubre. Sulla scorta di tale suggestione le Corti di merito hanno talvolta tentato una simile lettura degli artt. 2043 e 844 c.c. . Si è cercato di costruire questo diritto come diritto della personalità . Secondo questa prospettazione si possono individuare varie norme di rango costituzionale (artt. 9, 32, 41, 2° co., 42, 2° co.) che possono fondare il diritto all’ambiente come autonomo diritto della personalità, e non come estrinsecazione del diritto alla salute o di altro diritto .
Ora il legislatore è intervenuto nel 1986 con la l. 349, art. 18 riconoscendo l’ambiente come oggetto di tutela diretta, affidata al giudice ordinario, indipendentemente dalla lesione di qualsiasi altro diritto soggettivo .
Secondo tale norma: «Qualunque fatto doloso o colposo… che comprometta l’ambiente […] obbliga l’autore del fatto al risarcimento del danno nei confronti dello Stato […] Il giudice ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino, e del profitto conseguito dal trasgressore […] Il giudice […] dispone, ove possibile, il ripristino dei luoghi a spese del responsabile».
La definizione del contenuto di tale diritto, ed i criteri di valutazione del danno sono però, come si vede, demandati alle corti.
L’attuale disciplina italiana è, in realtà, un capitolo particolare di un più generale fenomeno di circolazione dei modelli. Infatti la legislazione concernente la valutazione di impatto ambientale è nata negli Stati Uniti con il National Environmental Policy Act (NEPA) dell’inizio degli anni settanta. Solo negli anni ottanta le soluzioni americane sono state recepite come modello dalla CEE. In questo modo il modello è giunto anche in Italia. Oltre a tale transplant legislativo la dottrina americana aveva da tempo cominciato a stingere su quella tedesca , ed anche su quella italiana.
La natura della responsabilità per danno all’ambiente è stata oggetto di una importante pronuncia della Corte Costituzionale: Tavanti, Greco et alii c. Proc. gen. Corte dei conti .
La pronuncia è stata originata da una ordinanza delle sezioni riunite della Corte dei Conti. Tale Corte in linea con le proprie declamazioni degli anni passati con cui asseriva di essere, o comunque di voler diventare, il giudice tutelare degli interessi diffusi, ha sospettato di incostituzionalità l’art. 18, 2° co., perché attribuiva alla giurisdizione del giudice ordinario l’intera materia del risarcimento del danno ambientale, salva la giurisdizione della Corte dei Conti in alcune limitate ipotesi di responsabilità amministrativa . Nel motivare la infondatezza di tali censure la Corte Costituzionale ha ribadito alcune considerazioni di particolare rilevanza . Ritenuta, infatti, conforme alla Costituzione la giurisdizione del giudice ordinario la Corte ha osservato come l’ambiente sia da considerarsi un «bene immateriale unitario», protetto come «elemento determinativo della qualità della vita». L’ambiente è, quindi, un «bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme».
Esso non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva «di tipo appropriativo», ma appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli.
La Corte apparenta l’inserimento della tutela dell’ambiente nello schema aquiliano a ciò che essa stessa ha fatto nel caso Saporito c. Manzo inserendo in tale schema la tutela costituzionale della salute. E a tale proposito la Corte fa una affermazione della massima importanza quanto alle funzioni della r.c.: «Si è così in grado di provvedere non solo alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ma anche di prevenire e sanzionare l’illecito. Il tipo della r.c. ben può assumere, nel contempo compiti preventivi e sanzionatori» (enfasi aggiunta).
Per quanto attiene all’ingiustizia la Corte osserva: la sanzione risarcitoria è conseguenza della lesione della situazione giuridica tutelata. E l’illecito è fatto consistere nella violazione della norma e dei provvedimenti adottati in base ad essa.
Per quanto attiene al danno esso «è certamente patrimoniale sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé».
La Corte ha rilevato come «la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali… determina una economicità e un valore (di scambio) del bene».
Pertanto tale bene «si presta ad essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo» (enfasi aggiunta). In tal modo si riconosce un valore «economico», anche ai beni per i quali non esiste un prezzo corrente di mercato.
Occorre, quindi, notare come ai sensi dell’art. 18, l. 8 luglio 1986, n. 349, la tematica del danno ambientale sia stata pienamente inserita nello schema classico della r.c. ex art. 2043 c.c. Perciò, proprio in quanto la lesione ambientale rientra de plano in tale schema della responsabilità aquiliana, si dovrà necessariamente tenere conto anche dell’eventuale concorso di colpa del danneggiato .
Per quanto concerne la legittimazione attiva essa è attribuita dalla legge allo Stato ed agli enti territoriali minori. Secondo la giurisprudenza le associazioni di utenti e di consumatori sono titolari di un mero potere di denuncia: per il vittorioso esperimento dell’azione risarcitoria i privati devono provare la sussistenza di tutte le condizioni di cui all’art. 2043 c.c. .
Naturalmente, infatti, nella tutela della vivibilità dell’ambiente possono ben concorrere le ragioni di tutela della salute, ed anche della proprietà, mediante azioni volte ad ottenere sia il risarcimento dei danni già patiti, sia la cessazione del comportamento antigiuridico o l’adozione delle cautele necessarie atte ad impedire il perpetuarsi del danno .
Si deve, infine, notare come le ragioni ambientali possano fungere anche da esimenti della responsabilità. Infatti in Union Plast c. Soc. Mc Cann Erickson it si è stabilito che è legittima la campagna pubblicitaria che miri, sull’innegabile presupposto della intrinseca indistruttibilità dei sacchetti di plastica, a convincere gli utilizzatori della necessità di non lasciarli in giro, pena un irreparabile degrado ambientale. Tale fattispecie non configura un gratuito attacco alla qualità o all’uso dei sacchetti medesimi.
I criteri di risarcimento.
Secondo la nostra giurisprudenza nella prova del danno ambientale bisogna distinguere tra danno ai singoli beni, di proprietà pubblica o privata, o a posizioni soggettive individuali, che trovano tutela nelle regole ordinarie, e danno all’ambiente considerato in senso unitario .
La S.C. ha fatto propria l’impostazione della Corte Costituzionale che abbiamo visto stabilire in Tavanti c. Corte dei Conti , ammettendo che in questo tipo di r.c. rileva particolarmente il profilo sanzionatorio. Ciò comporta, nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale, un accertamento che non è quello del mero pregiudizio patrimoniale, bensì della compromissione dell'ambiente, vale a dire della lesione «in sé» del bene ambientale .
Ne segue il pieno riconoscimento che nella materia ambientale una prova completa e minuziosa del danno è obiettivamente impossibile . Innanzitutto perché alcuni effetti pregiudizievoli, pur costituendo un pregiudizio certo, si evidenziano solo con il tempo, in secondo luogo perché alcuni sono di difficilissima dimostrazione . Poiché il principio accolto è quello per cui chi inquina non può avvantaggiarsi delle difficoltà di quantificazione del danno ambientale, si trae la conseguenza per cui eventuali incertezze probatorie possano essere considerate dal giudice nel suo prudente apprezzamento .
Non è quindi escluso che in determinati casi la perdita derivante dall’illecito ambientale possa ritenersi in re ipsa nella lesione .
Per la concreta determinazione del quantum il giudice può avvalersi della facoltà, conferitagli dall’art. 1226 c.c., e dal 6° co. dell’art. 18, l. 349/1986, di procedere a una valutazione equitativa del danno, in quanto questo, anche se certo nella sua esistenza ontologica, non può tuttavia essere provato nel suo preciso ammontare . Vedremo in seguito in dettaglio i criteri particolari dettati dalla legge per guidare la valutazione del giudice .
Mi sembra comunque necessario che il giudice, pur facendo ricorso alla valutazione equitativa, debba individuare l’entità degli apporti dei singoli fattori inquinanti nel corso del tempo, onde evitare che il convenuto risponda sia di fatti imputabili a terzi sia di ogni altra concausa, collegabile a fenomeni naturali .
Il danno all’ambiente può ovviamente concorrere con un danno patrimoniale risentito dall’attore . Se l’inquinamento ambientale deriva da un fatto penalmente illecito i danneggiati acquistano il diritto anche al risarcimento del danno morale, e ciò, ovviamente, anche a prescindere dalla sussistenza di un danno biologico autonomamente apprezzabile .
La tutela derivante dall’esperimento dell’azione di risarcimento del danno ambientale ai sensi dell’art. 18, 3° e 8° co. l. 349/1986, non ha solo carattere risarcitorio, ma anche inibitorio, preventivo e dinamico, e consiste nella reintegrazione del patrimonio del danneggiato, oltre che nella sanzione dell’illecito .
Peraltro in Ente auton. Parco naz. d’Abruzzo c. Del Principe la S.C. ha stabilito in via generale la possibilità della reintegrazione in forma specifica a norma dell’art. 2058 c.c, senza che la condanna che inibisca o rimuova le opere del privato, possa trovare limite nella disposizione dell’art. 872 c.c. che si riferisce, per limitare la possibilità della riduzione in pristino, solo ai casi di violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni ed ai danni conseguenti alla violazione delle norme di edilizia, e non a quelli derivanti dalla violazione delle norme di tutela dell’ambiente e delle bellezze naturali .
In realtà questo dell’interpretazione dell’8° co. dell’art. 18, l. 349/1986 e del suo coordinamento con l’art. 2058 c.c. è uno dei problemi ermeneutici più spinosi . Infatti il citato comma stabilisce che «il giudice […] dispone, ove sia possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile», viceversa il tenore letterale dell’art. 2058 suona come segue «il giudice può disporre che il risarcimento avvenga per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore».
Due, quindi, i problemi: a) se il ripristino debba avere carattere prioritario rispetto al risarcimento, e b) se debba o meno valere la limitazione del ripristino ai soli casi in cui esso non risulti eccessivamente oneroso per il convenuto.
La legge prevede in ordine lessicografico prima il risarcimento per equivalente, e poscia la reintegrazione in forma specifica. Gli interpreti sovvertono volentieri tale ordine lessicografico per cui il ripristino deve avere carattere prioritario rispetto alla condanna per equivalente .
La S.C. è intervenuta in Maltese c. Turli a Sezioni Unite in sede di regolamento di giurisdizione, per stabilire che l’art. 18, in quanto stabilisce la giurisdizione del giudice ordinario trova immediata applicazione nelle controversie in corso, ove sia ancora in discussione la giurisdizione stessa. Nel corso della motivazione le Sezioni hanno affermato: «La preferenza […] accordata alla misura risarcitoria in forma specifica rispetto a quella per equivalente pecuniario, trae ampia giustificazione dall’intento di favorire una più fattuale coincidenza tra soggetti portatori degli interessi lesi […] e soggetti beneficiari del ripristino». La posizione assunta dalle Sezioni non mi sembra quindi decisiva perché resa obiter in sede di regolamento di giurisdizione. Peraltro essenziale mi sembra il dato per cui i giudici si sono mostrati assai restii a pronunciare condanne di ripristino . Orbene a me sembra che il principio posto dall’art. 2058 c.c. sia l’estrinsecazione di un principio generale rispetto al l’alternativa «risarcimento per equivalente/risarcimento in forma specifica», rispetto al quale non basta la semplice non menzione del legislatore speciale. Se questo voleva discostarsi dal criterio codicistico generale doveva dirlo espressamente, e cioè espressamente menzionare la prevalenza del ripristino sull’equivalente, ed il venir meno della salvaguardia per il convenuto della eccessiva onerosità della condanna al ripristino. Tale argomento mi sembra corroborato anche da considerazioni di efficienza nella tutela ambientale. Le norme draconiane sono raramente efficienti perché inducono piuttosto alla loro disapplicazione .
Per quanto attiene più in dettaglio ai criteri per la valutazione equitativa del danno ambientale si considerino i criteri stabiliti dallo stesso legislatore al 6° co. dell’art. 18 : la gravità della colpa individuale; il costo necessario al ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore.
Il primo criterio della gravità della colpa è in perfetta sintonia con la moderna dottrina della r.c. , e con l’esigenza di modellare in crescendo l’onere risarcitorio in funzione della riprovevolezza della condotta del danneggiante .
Non mi sembra congruente aggiungere che il giudice potrà valutare la gravità della colpa, ma non dovrà superare il danno ambientale ipotizzabile, anche se non esattamente quantificabile nel caso concreto . Non mi sembra congruente per ragioni epistemologiche perché il «danno ipotizzabile non esattamente quantificabile» è per definizione un’incognita, onde ci si chiede come faccia il giudice a non superare una somma che per definizione non conosce? Semmai, il legislatore ha introdotto tale criterio di risarcimento punitivo perché consapevole che non è possibile una esatta quantificazione del danno ambientale, e la funzione della r.c. in questo caso è marcatamente una funzione di deterrenza contro l’incorrere di tali danni.
Taluni ritengono poco agevolmente razionalizzabile la scelta legislativa, poiché il giudice potrà valutare la colpa solo ove non sia possibile il ripristino dello stato dei luoghi . Mi sembra questa una vera e propria inversione logica, infatti la difficoltà deriva dalla asserita, ma indimostrata priorità del ripristino .
In sostanza il giudice deve in questi casi emanare un segnale monetario, in grado di scoraggiare le condotte lesive .
Infatti risulta corretta l’applicazione giurisprudenziale di tale criterio fatta nel caso Ruzza , laddove il giudice, di fronte alla obbiettiva difficoltà di quantificazione del danno, ha commisurato un risarcimento esemplare alla gravità della condotta dolosa di inquinamento di un corso d’acqua in zone densamente popolate.
Il secondo criterio del costo necessario per il ripristino deve essere valutato, ai fini di ottenere un parametro di riferimento, su cui modulare la sanzione finale del risarcimento, rispetto alla gravità della colpa e al profitto conseguito dal trasgressore . Tale criterio è, quindi, quello più legato alla situazione oggettiva determinatasi a seguito della lesione , rispetto alle valutazioni attinenti alla condotta soggettiva del danneggiante. Come tale avrebbe potuto logicamente figurare al primo posto, ma l’enfasi da dare al criterio della gravità della colpa, rispetto all’impostazione tradizionale dei sistemi di civil law può giustificare l’inversione operata nel testo legislativo .
L’ultimo criterio dettato dalla legge è quello del profitto del trasgressore. Si tratta di un criterio tutt’altro che meramente ausiliario, ed invero essenziale alla costruzione del risarcimento da danno ambientale in funzione di deterrenza. È infatti ovvio come la lesione non sia scoraggiata se il guadagno potenziale supera il risarcimento atteso . In nessun caso, quindi, il giudice potrà esimersi dal valutare l’arricchimento ingiusto ottenuto dal danneggiante attraverso la lesione, e dovrà quindi necessariamente condannarlo ad un risarcimento superiore a tale arricchimento.
Direi quindi che la logica può condurre a considerare innanzitutto il costo di ripristino dell’ambiente danneggiato, come base di riferimento, in dipendenza di una consulenza tecnica, in secondo luogo occorrerà considerare l’eventuale maggior profitto conseguito dal danneggiante, onde impedire un suo residuo arricchimento a deduzione del costo di ripristino, ed infine occorrerà considerare se la gravità della colpa nella condotta del danneggiante giustifica l’irrogazione di un risarcimento punitivo in funzione di deterrenza (continua) .
(*) Omesse le note di riferimento bibliografico, queste pagine costituiscono una parte di capitolo del volume ILLECITO E RESPONSABILITA' CIVILE, che è compreso nel Trattato di diritto privato in corso di pubblicazione presso la Casa editrice Giappichelli. La monografia ha i contenuti che risultano dal circostanziato indice del volume che di seguito si trascrive.
INDICE DEL VOLUME
CAPIT0LO I
LA RESPONSABILITÀ PER LE ATTIVITÀ DEI MINORI E DEGLI ALLIEVI
1. Danni di sorveglianza sugli incapaci2. L'infermità di mente
3. La prova liberatoria
4. L'equo indennizzo
5. La sorveglianza sui minori
6. Il requisito della coabitazione
7. Le figure parentali
8. Maestri e precettori
9. Responsabilità solidale e azioni di rivalsa10. La prova liberatoria
CAPITOLO II
LA RESPONSABILITÀ DEI PADRONI E DEI COMMITTENTI
EX ART. 2049 C.C.
1. La natura della responsabilità ex art. 2049 c.c.
2. Il rapporto di preposizione
3. I rapporti di lavoro autonomo e di collaborazione
4. L’occasionalità necessaria
5. Le azioni di rivalsa
CAPITOLO III
LE ATTIVITÀ PERICOLOSE
1. La natura della responsabilità ex art. 2050 c.c.
2. Lambito dell'art. 2050 c.c.
3. La nozione di attività pericolosa
4. La casistica giurisprudenziale
5. l’azione ex art. 2050 c.c
6. Il nesso causale e la prova liberatori
CAPITOLO IV
LE COSE E GLI ANIMALI
I. La natura oggettiva della responsabilità da custodia
2. L'ambito dell'art. 3051 c.c.
3. Custodia, possesso e detenzione
4. Proprietari e locatori
5. La nozione di «cose»
6. La prova liberatoria
7. La responsabilità per fatto degli animali
CAPITOLO V
LA RESPONSABILITÀ DA ROVINA DI EDIFICI
1. La responsabilità del proprietario e del costruttore
2. La nozione di «costruzione»
3. La nozione di rovina
4. Individuazione del responsabile
5. Azione in responsabilità ex art. 2053 c.c.
CAPITOLO VI
LA CIRCOLAZIONE DEI VEICOLI
1. Ambito della responsabilità ex art. 2054 c.c.
2. Natura oggettiva e soggettiva della responsabilità da circolazione dei veicoli
3. L'investimento
4. Lo scontro tra veicoli
5. L'individuazione del soggetto responsabile
6. Il terzo trasportato
CAPITOLO VII
LA RESPONSABILITÀ NEI MASS TORTS
1. Criteri generali
2. Casi particolari
3. La tutela degli interessi diffusi
4. La natura della responsabilità ambientale
5. I criteri di risarcimento
CAPITOLO VIII
LA RESPONSABILITÀ DA PRODOTTI
1. 2043 e responsabilità da prodotti
2. La disciplina speciale: il concetto, di prodotto
3. Soggetti responsabili
4. La nozione di «difetto»
5. La nozione di «messa in circolazione» del prodotto
6. Danni risarcibili
7. L’azione in responsabilità dei prodotti
8. Esimenti e difese speciali
9. La sicurezza generale dei prodotti