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Disciplina del contratto, pratiche interpretative e teorie della <presupposizione> (*).
ANGELO BELFIORE
SOMMARIO: 1. L’oggetto e i criteri della trattazione. – 2. Lacune del contratto, dottrine dell’integrazione, teoria della presupposizione: un quadro di questioni, una strategia d’azione, una valutazione d’insieme.
1. L’oggetto e i criteri della trattazione
Nell’uso corrente, il termine «presupposizione» designa un
criterio di organizzazione dell’esperienza giuridica ignoto al diritto scritto,
ed ha lo specifico compito di segnalare una fattispecie d’invalidità e/o di
risolubilità del contratto (del negozio) non riconducibile (usualmente ritenuta
non riconducibile) in via diretta e puntuale agli enunciati del codice.
È bene allora chiaramente indicare in premessa che, dallo
studio delle varie dottrine, chi scrive non è riuscito a ricavare alcuna ragione
che giustifichi la costruzione di un’autonoma categoria etichettabile come
presupposizione; anzi, se ne è tratta la conclusione che «presupposizione» sia
il nome di un istituto o figura o principio, che condensa e stabilizza modelli
decisionali e pratiche interpretative non razionali, sicché, in questa sede, il
lettore non vedrà neppure avviato il tentativo di elaborarne qualche nuova
variante, né, tanto meno, troverà riproposta, più o meno rivisitata e
aggiornata, qualcuna delle costruzioni già note.
La superiore premessa chiaramente indica l’itinerario della
trattazione: si cercherà di offrire, per un verso, un quadro sufficientemente
rappresentativo degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali e, per
l’altro, gli elementi di giudizio necessari per una valutazione di tali
orientamenti.
All’itinerario indicato verranno qui poste due restrizioni,
rispettivamente attinenti all’oggetto (ci occuperemo soltanto della cultura
giuridica italiana sul codice civile vigente) e alla prospettiva dalla quale
l’oggetto può essere analizzato, sicché pare opportuno meglio chiarire il
criterio guida della trattazione con la considerazione che segue.
Ancora di recente, si è indicato il tratto distintivo della
teoria della presupposizione mediante il rilievo che «tutto è controverso»; in
realtà, se un tratto peculiare si vuole proprio enucleare, si dovrebbe allora
dire – ma è un’iperbole – che tutto è oscuro (confuso), e ciò vuoi per la
ragione che non sempre è agevole – ed anzi è, talora, particolarmente arduo –
riuscire a capire di che cosa parli (di che cosa effettivamente si occupi) la
teoria della presupposizione vuoi per la considerazione che, individuato
l’oggetto del discorso, può tuttavia rimanere oscura la reale ragion d’essere
della teoria (della costruzione) che ne viene fuori.
In questa sede, accantonati sia il modello della mera
rassegna di declamazioni e fatti grezzi sia la prospettiva del vaniloquio sulle
formule in sé e per sé sole considerate, si tenterà di mettere in chiaro, e al
di là delle definizioni e delle dichiarazioni di principio, il tipo di
operazioni, che la teoria della presupposizione effettivamente governa, e il
nucleo problematico delle questioni, che ne vengono in qualche modo risolte,
cosicché sia possibile cogliere il senso reale delle costruzioni attraverso le
quali la vicenda della presupposizione confusamente continua a svolgersi.
2.
Lacune del contratto, dottrine dell’integrazione, teoria della presupposizione:
un quadro di questioni, una strategia d’azione, una valutazione d’insieme
Lo spettro degli interessi, per il soddisfacimento dei quali i privati ricorrono alla stipulazione di un contratto, è indefinibile; di qui un preciso, ovvio problema, quello dell’individuazione dei criteri mediante i quali discriminare, in relazione a ciascun contratto, gli interessi tutelati dall’ordinamento dagli interessi giuridicamente irrilevanti.
Nell’affrontare tale problema è bene prender l’avvio da due sicure, elementari
considerazioni:
a) il codice civile organizza la disciplina dei contratti su
due distinti piani: gli artt. 1470 ss. predispongono modelli dettagliati di
operazioni economiche; gli artt. 1321 ss. (e le connesse disposizioni
sull’obbligazione) pongono regole applicabili in via di principio a qualsivoglia
contratto (art. 1323). Ne segue che, rispetto ad ogni contratto (tipico o
atipico), l’ordinamento si configura, e sia pure in varia misura, come criterio
di selezione degli interessi coltivati dai contraenti;
b) l’art. 1322 riconosce ai privati la facoltà sia di
stipulare contratti atipici che di arricchire e, comunque, riorganizzare i
modelli di già predisposti dallo stesso legislatore. Ne segue che un interesse,
valutato dal legislatore come non meritevole di tutela in via autonoma, può in
concreto divenire giuridicamente rilevante in virtù di un accordo tra le parti
(o viceversa). Anzi, può al riguardo osservarsi come lo stesso ordinamento si
sia curato di predisporre e organizzare vari modelli di giuridicizzazione in
via pattizia di un interesse di per sé irrilevante (ad esempio, il modello
della condizione).
Riassumendo: un interesse può acquisire rilevanza giuridica o in via pattizia, cioè per effetto dell’esercizio del diritto di libertà negoziale, o in via autonoma e, quindi, per così dire, in ragione della sua qualità o, meglio, in virtù di una autonoma valutazione del legislatore circa la meritevolezza di tale interesse in relazione al contesto normativamente considerato.
Sulla base della superiore premessa rivolgiamo, adesso,
l’attenzione a taluni dei problemi che sorgono nell’istante in cui ci si accosti
all’autonomia privata e all’ordinamento quali criteri di selezione della
pluralità di interessi in fatto coltivati dai contraenti.
Per quanto attiene al versante dell’ordinamento, ci si può
chiedere, in primo luogo, se la rilevanza di un interesse in via autonoma sia
subordinata alla esistenza di un enunciato normativo che tale rilevanza
puntualmente preveda; in particolare ci si può chiedere: a) se la rilevanza di
un interesse automaticamente protetto dall’ordinamento debba rimanere confinata
entro l’ambito puntualmente indicato dal legislatore; b) se gli interessi
automaticamente protetti dall’ordinamento (cioè rilevanti in via autonoma)
costituiscano un numero chiuso.
Al fine di un’appropriata impostazione di un’indagine sui
superiori quesiti, è necessario distinguere, e per una pluralità di ragioni, le
due diverse, fondamentali forme di rilevanza del mancato soddisfacimento di un
interesse conosciute dal codice, non vanno cioè unificati i due diversi profili
della possibile rilevanza di un interesse sul piano delle tutele in via
contrattuale e/o sul piano dell’invalidità negoziale.
Operata la superiore distinzione, l’attenzione va qui
specificamente rivolta alla figura dell’annullabilità del contratto viziato da
errore; al riguardo, vanno in particolare segnalate le due seguenti questioni:
a) se la descrizione dei casi di errore essenziale, che si ritrova nell’art.
1429 c.c., debba essere considerata esemplificativa o «tassativa»; b) se sia
annullabile il contratto viziato da errore (essenziale) bilaterale non
riconoscibile.
Al fine della risoluzione delle superiori questioni ci si
dovrebbe chiedere, in primo luogo, se esistano indici univoci circa la volontà
del legislatore di organizzare il sistema degli artt. 1429-1431 come un sistema
normativo chiuso ed autosufficiente, sì da non darsi lacuna del diritto scritto;
qualora si risponda negativamente a tale quesito, ci si può porre l’ulteriore
domanda se esistano delle buone ragioni che giustifichino una qualificazione
della disciplina dell’art. 1428 (annullabilità del contratto) come disciplina
irrazionale o comunque da sterilizzare in base a giudizi di valore (art. 14 disp.
prel.).
Se alle superiori domande si dà una risposta negativa, si
potrà allora porre anche una questione ulteriore e diversa da quelle poc’anzi
indicate ai punti a-b, ci si potrà cioè chiedere se, in relazione ai contratti
con prestazioni corrispettive, debba essere tenuta ferma l’idea che tra la
figura dell’errore essenziale e la figura del dolo tertium non detur o se, al
contrario, sia consentito dare ingresso al meccanismo dell’analogia in relazione
a situazioni marginali, delle quali si dica (più o meno verosimilmente) che
sono state ignorate dal legislatore; in particolare ci si potrà chiedere se sia
valido oppure annullabile il contratto viziato da: 1) un errore non essenziale
(art. 1428), che risulti essere stato determinante del consenso di ambedue i
contraenti; 2) un errore non essenziale che, determinante del consenso di uno
dei contraenti, risulti essere stato il frutto anche delle erronee valutazioni
espresse dalla controparte nel corso delle trattative; 3) un errore non
essenziale noto, ed anche in relazione alla sua portata determinante del
consenso, alla controparte.
È opportuno adesso abbandonare il territorio dell’invalidità
negoziale per rivolgere l’attenzione alla figura dell’interesse automaticamente
rilevante in via contrattuale . Orbene, a tale riguardo, pare sicuro che, almeno
in via di principio, il sistema normativo sia un sistema aperto; non è chiaro,
però, quale sia la tecnica normativamente deputata ad assicurare l’integrazione
del diritto scritto.
Stando al disposto dell’art. 1374 «il contratto obbliga le
parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze
che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità»;
orbene, della locuzione «in mancanza (della legge)» possono darsi due diverse
interpretazioni:
a) si può in primo luogo pensare che per «mancanza della
legge» debba intendersi l’assenza di una precisa disposizione . Accolta questa
interpretazione, si escluderà che il diritto dei contratti si autointegri e si
dirà quindi che il compito proprio dell’analogia (analogia legis; analogia iuris)
spetta all’equità, nel senso, appunto, che compete all’equità decidere circa la
rilevanza giuridica di un interesse che risulti né regolato in via pattizia né
automaticamente protetto (o comunque disciplinato) da «una precisa
disposizione» (art. 12, c. 2°, disp. prel.) ;
b) si può, al contrario, pensare che per «mancanza (della
legge)» debba intendersi l’assenza di una regola imputabile all’ordinamento in
via diretta o in via mediata (analogia legis; analogia iuris) . Questa
interpretazione pare rendere la locuzione in esame intrinsecamente priva di
senso e, comunque, incontra l’ostacolo costituito dalla considerazione che, dato
ingresso al procedimento analogico, non si vede quale spazio residui per il
criterio dell’equità e, ancor prima, per il criterio degli usi. Il nodo diviene
definitivamente irresolubile nell’istante in cui si conducano le disposizioni
circa il criterio della buona fede all’interno del corpo dell’art. 1374 e, al
contempo, si assegnino a tale criterio compiti ulteriori e diversi rispetto a
quelli indicati dal legislatore.
L’interpretazione, poc’anzi illustrata sub a, ha il pregio di
rispettare il tenore letterale dei vocaboli e di conferire, al contempo, un
senso compiuto all’intero enunciato dell’art. 1374 ; ma questo non è, di per
sé, un argomento risolutivo, a meno che si dissolva l’interpretazione di un
testo di legge nella ricognizione del significato dei vocaboli connessi secondo
le regole della sintassi. In altri termini, se si pongono in correlazione
dialettica il testo della disposizione in esame, il contesto dal quale la
disposizione si origina e il criterio di coerenza dell’ordinamento, apparirà
inverosimile l’ipotesi interpretativa secondo la quale l’equità designerebbe un
sistema generale di riferimento, chiamato a coprire il ruolo spettante ex art.
12, c. 2°, disp. prel. al sistema di regole e di principi del diritto
codificato; ma, alla stessa maniera, non si potrà dare credito all’ipotesi
opposta secondo la quale il richiamo all’equità si dissolverebbe in un flatus
vocis, necessariamente privo di contenuto normativo specifico.
La superiore conclusione logicamente comporta che fra i
criteri, normativamente chiamati a distribuire il rischio (il costo) del
silenzio delle parti rispetto a questioni non disciplinate da una precisa
disposizione di legge, vanno annoverate a pieno titolo sia l’equità che
l’analogia. Ciò suggerisce che il tema dei rapporti tra l’equità e l’analogia –
e, in particolare, il problema della ripartizione di competenze tra i due
concorrenti criteri – sia da affrontare sul piano dell’individuazione di due
distinti ambiti problematici ossia disaggregando l’onnicomprensiva (e generica)
figura delle «lacune» del contratto (cioè, delle «questioni non regolate né
dall’accordo, né da una precisa disposizione di legge»), e sia poi da risolvere
operando la distinzione tra lacune del sistema di regole proprie
dell’ordinamento pattizio (ed è qui che è destinato ad operare il criterio
dell’equità) e lacune del sistema di regole proprie dell’ordinamento legale (ed
è qui che è destinato ad operare il criterio dell’analogia).
Si può adesso riprendere il filo del discorso, dal quale
siamo partiti, per ricordare che, riconosciuto all’analogia il compito di
provvedere alle lacune del diritto scritto, potranno porsi due diverse
questioni aventi portata generale.
In primo luogo ci si può chiedere quale sia il punto di vista
(recte, lo spettro dei punti di vista) mediante il quale il sistema normativo
definisce vuoi il quadro degli interessi automaticamente rilevanti in via
contrattuale vuoi l’ambito di rilevanza di tali interessi, e sulla base del
quale, pertanto, l’interprete potrà, se del caso (artt. 12, c. 2°, e 14 disp.
prel.), o qualificare un interesse come automaticamente garantito in via
contrattuale nonostante l’assenza di una puntuale previsione di legge o
ridefinire l’ambito di rilevanza dell’interesse di già protetto.
Risoluta la superiore questione, ci si può porre il quesito
se l’accordo pattizio costituisca l’unico criterio generale di giuridicizzazione
degli interessi normativamente valutati come irrilevanti in ragione della loro
qualità obiettiva e, in particolare, ci si può chiedere se il sistema conosca un
ulteriore criterio, il quale sia in qualche modo partecipe della natura e della
logica del criterio dell’accordo pattizio senza tuttavia identificarsi con esso.
Rivolgiamo, adesso, l’attenzione all’autonomia negoziale
quale criterio di giuridicizzazione di un interesse irrilevante in via
autonoma. Sembra evidente che, a tale riguardo, il problema di fondo risieda
nell’individuazione e definizione delle condizioni in presenza delle quali un
interesse, non garantito automaticamente dall’ordinamento, possa qualificarsi
come giuridicizzato in via pattizia, in ragione cioè della decisione di ambedue
i contraenti di mettere all’opera il diritto di libertà negoziale .
È sicuro che, in relazione ai contratti con prestazioni
corrispettive, i due fondamentali modelli, posti dall’ordinamento a disposizione
dei privati in vista della contrattualizzazione di un interesse irrilevante in
via autonoma, siano da ravvisare nelle due diverse figure dell’obbligazione e
della condizione. Ed è altrettanto sicuro che la rilevanza di un interesse
attraverso lo schema dell’obbligazione non sia subordinata ad un accordo che
disciplini le conseguenze del mancato soddisfacimento di tale interesse, mentre
la rilevanza di un interesse attraverso lo schema della condizione risolutiva è,
per contro, subordinata ad un accordo che comunichi la comune volontà dei
contraenti di non tenere in piedi il contratto in caso di mancato
soddisfacimento di quell’interesse (art. 1353).
Tenute ferme le superiori premesse, l’attenzione del lettore
va adesso richiamata su quella peculiare figura di enunciativa che, in prima
approssimazione, si può designare come «enunciativa contrattuale incompleta»,
cioè su quella figura di enunciativa che, facente parte del testo sottoscritto
dai contraenti (dell’accordo convenuto fra i contraenti), presenti la triplice
caratteristica: a) di essere imputabile ad ambedue le parti; b) di non essere
inquadrabile nello schema dell’obbligazione (né in quello della condizione); c)
di menzionare un interesse che, obiettivamente (cioè sul piano di una
valutazione socialmente tipica), concorre a determinare la logica
dell’operazione economica concordata dai contraenti, e il cui mancato
soddisfacimento risulta non regolato in via pattizia.
Orbene, la controversia, che insorga tra i contraenti in caso
di mancato soddisfacimento dell’interesse menzionato (considerato) nel tipo di
enunciativa sopra descritta, può in astratto essere affrontata attraverso due
vie diverse, vale a dire o rimanendo sul piano dell’interpretazione dell’accordo
o mettendosi alla ricerca del punto di vista dell’ordinamento. Imboccata la
seconda di queste due vie, sarà agevole rendersi conto – ed è questo il profilo
che qui preme segnalare specificamente al lettore – che le caratteristiche del
tipo di enunciativa in discorso si ritrovano in una pluralità di fattispecie
che dovrebbero essere non già unificate, bensì disaggregate in ragione della
diversità del problema che pongono all’ordinamento; il che, per certi aspetti,
può essere rapidamente mostrato attraverso i due seguenti casi: 1) viene
venduta (e consegnata) una cosa determinata verso un corrispettivo il cui
pagamento è regolato da una clausola del seguente tenore: «le parti convengono
che il prezzo sarà pagato entro tre giorni dalla riscossione del contributo
ministeriale di già richiesto dall’acquirente» (e ci si interroghi allora sulle
conseguenze della mancata concessione del contributo); 2) viene venduto (come
cosa di specie) un bracciale che, descritto in contratto come «bracciale di
platino», è in realtà d’argento.
In relazione al primo dei due casi testé descritti, messe da
parte le norme sull’interpretazione dei contratti e accantonata la formula
magica «presupposizione», non dovrebbe essere particolarmente arduo rendersi
conto che si è in presenza di un’enunciativa che, eccentrica rispetto ai modelli
legali, racchiude un contenuto dispositivo inidoneo a determinare compiutamente
la fisionomia dell’interesse giuridicizzato, sicché ci si dovrà porre il
problema se la lacuna del precetto pattizio (mancata o incompleta regolazione
dell’ipotesi di diniego del contributo) debba essere affidata alla tecnica
generale dell’analogia (autointegrazione delle discipline legali) oppure alla
specifica tecnica dell’equità (autointegrazione del regolamento pattizio) .
La situazione muta radicalmente nell’istante in cui si passi
a considerare il secondo dei casi poc’anzi descritti, giacché adesso ci si dovrà
porre la ben diversa domanda se l’enunciazione di una certa qualità della cosa
venduta come cosa di specie («bracciale di platino») si configuri come
enunciativa contrattuale completa (avente, cioè, un contenuto dispositivo
compiutamente determinato) o, all’opposto, come enunciativa irrilevante in via
contrattuale (rilevante, cioè, sul diverso piano dell’invalidità negoziale) . E
la diversità della domanda vieppiù si accentua ove poi si consideri che la
risoluzione dell’alternativa specificamente compete non già all’analogia, né
tanto meno alle tecniche di autointegrazione del regolamento pattizio, bensì
all’interpretazione del testo (qualità «promesse») dell’art. 1497. Condivisa
l’interpretazione che qui si recepisce , si dirà che l’enunciativa in discorso è
un’enunciativa contrattuale completa, poiché il mancato soddisfacimento del
peculiare interesse dell’acquirente, che risulta menzionato in contratto,
rileverà giuridicamente secondo lo schema dell’inadempimento contrattuale
(inesattezza qualitativa della prestazione dovuta), indipendentemente pertanto
dalla presenza o meno di una qualche formula negoziale che lo regoli
specificamente.
Resta, in fine, da porre esplicitamente il problema di quali
siano i compiti dell’equità (art. 1374) e della buona fede (art. 1375) in sede
di determinazione della rilevanza di un interesse non regolato né dalle parti,
né dalla legge.
Nella prospettiva che ci pare appropriata (supra, testo e ntt.
18-27), l’analogia, l’equità e la buona fede si presentano come tre dei diversi
criteri, cui l’ordinamento ha affidato il compito di regolare la distribuzione
del rischio (la sopportazione del costo) del silenzio della dichiarazione
rispetto a questioni non disciplinate da una precisa disposizione di legge.
Pertanto, la ripartizione di competenze fra i criteri in esame esige che si
disaggreghi l’indifferenziata figura delle «lacune» del contratto e, in
particolare, che si introduca la distinzione tra lacune proprie del regolamento pattizio e lacune proprie dell’ordinamento legale, di modo che possa poi
convenientemente essere attuata in termini di specificazione del rapporto
dialettico intercorrente tra «competenza dispositiva privata» e «competenza
normativa legale», vale a dire affidando all’equità e alla buona fede quelle
lacune rispetto alle quali l’esigenza di una razionale disciplina del traffico
giuridico richieda non già l’espansione del sistema di valori dell’ordinamento,
bensì lo sviluppo dello specifico sistema di regole dell’ordinamento pattizio.
In altre parole può dirsi che all’equità e alla buona fede spetti il compito di
governare quel tipo di lacune rispetto al quale è razionale che l’ordinamento
provveda non già a generare valutazioni di merito (è questo il compito proprio
dell’analogia), bensì a statuirne la colmabilità a garanzia specifica della
piena attuazione del criterio della «competenza dispositiva privata» (lacune del
sistema di regole proprie dell’ordinamento pattizio) .
Per quanto attiene all’equità, sembra che il campo di azione
ne debba essere individuato con riferimento a quelle lacune in ragione delle
quali il precetto pattizio risulti non valutabile compiutamente dall’ordinamento
e, perciò, esposto anche al rischio di rimanere improduttivo di effetti
(enunciative aventi un contenuto dispositivo che, incompiutamente determinato
dalle parti, non sia completabile in forza dei modelli legali). Ne segue che le
regole generate dall’equità, a differenza delle regole generate dall’analogia o
dal criterio della buona fede, saranno funzione, per un verso, della logica
dell’accordo pattizio che integreranno e, per l’altro, dell’esigenza che sia
equilibratamente ripartito su entrambi i contraenti il costo della comune
imprevidenza, cioè di un’imprevidenza imputabile a pari titolo ad ambedue le
parti .
Nell’ottica che qui pare appropriata, non ha senso
discorrere di ineffabilità del criterio dell’equità, giacché l’identità di tale
criterio risiede non già nella concreta statuizione del giudice, bensì nel
riconoscimento, e in via generale, del potere del giudice di completare la
regola che le parti hanno concordato di darsi, cioè di determinare compiutamente
l’identità o la «misura» di un interesse disciplinato pattiziamente (di un
interesse che le parti abbiano convenuto di giuridicizzare) .
Ciò ovviamente significa che il criterio dell’equità
attribuisce al giudice tutt’altro potere che quello di riscrivere la legge o
l’accordo; ma significa pure che il campo di azione dell’equità – delimitato, da
un canto, dalle dettagliate discipline dell’obbligazione e dei contratti (o,
eventualmente, dagli usi) e, dall’altro, dalla regola generale dell’art. 1418
(nullità del contratto o della clausola, il cui oggetto non sia determinabile) –
è, oggi, pressoché inesistente.
Con riferimento al profilo della «misura», si può pensare al
patto di prelazione (o alla clausola condizionale o al divieto di alienazione),
nel quale non risulti indicata la durata del vincolo (la durata massima della
fase di pendenza della condizione), né tale durata sia ricavabile attraverso la
messa all’opera degli artt. 1362 ss. .
Con riferimento al profilo dell’«identità», può risultare
appropriato affidare all’equità l’accordo che giuridicizzi un peculiare
interesse dei contraenti secondo uno schema ignoto all’ordinamento e al tempo
stesso inidoneo, poiché lacunosamente organizzato, a definire compiutamente la
fisionomia dell’interesse dedotto in contratto, sicché il giudice, esaurito il
procedimento di interpretazione e qualificazione della dichiarazione, verrebbe
altrimenti a trovarsi dinanzi all’incongrua alternativa di dover o pronunciare
la nullità dell’accordo o dare ingresso alla tecnica della finzione ossia
procedere o a fittizie ricostruzioni della volontà negoziale o a fittizie
espansioni delle logiche interne al sistema delle discipline legali .
In fine, rivolgendo l’attenzione al criterio della buona
fede, pare evidente che la disposizione dell’art. 1375 riguardi unicamente il
profilo dell’attuazione del regolamento che le parti hanno organizzato ; si può
allora dire che la disposizione in esame consente di conferire rilevanza
giuridica ad una pretesa non regolata soltanto se tale pretesa sia priva di
autonomia rispetto all’interesse disciplinato in contratto e, perciò, si
configuri come meramente strumentale-accessoria al soddisfacimento di quell’interesse
.
In relazione al tipo di pretesa in discorso, sarebbe
incoerente con la stessa logica interna al ceto degli operatori economici (o
tout court insensato) vedere in via tipica nel silenzio delle parti, anziché una
lacuna dell’accordo pattizio, una tecnica di disciplina, cioè un indice della
comune volontà dei contraenti di escludere la rilevanza della pretesa non
regolata. Qualificato il silenzio delle parti come lacuna dell’accordo pattizio,
apparirà ovvio l’ingresso (e, quindi, il ruolo) dell’art. 1375, giacché è ovvia
l’osservazione che soltanto un irrazionale antagonismo con il criterio
dell’autonomia negoziale potrebbe indurre un legislatore ad equiparare il
peculiare tipo di lacuna in discorso alle lacune del diritto scritto, cioè ad
affidare tale lacuna alla tecnica dell’analogia; per tale via, verrebbe infatti
rimessa all’autonomo sistema di valori dell’ordinamento (alle logiche interne a
quelle discipline che il legislatore ha reputato razionali in via tipica) una
valutazione il cui criterio ordinante non può, e proprio in ragione della
peculiarità dell’oggetto (il carattere meramente strumentale-accessorio della
pretesa), che rinvenirsi nella logica interna (nell’esigenza di piena attuazione
della logica interna) alla specifica operazione che le parti hanno concordato di
porre in essere.
Nella prospettiva che qui pare appropriata, è priva di senso
l’ipotesi che il criterio della buona fede possa costituire un canale di
ingresso di istanze etiche o solidaristiche in qualche modo riconducibili a
formule della Costituzione, poiché, per l’appunto, il criterio della buona fede
si inscrive (e si risolve compiutamente) nella logica del principio pacta sunt
servanda .
Non v’è dubbio che la condotta di un contraente possa essere
valutata come «scorretta» con riferimento o alla logica propria dell’accordo pattizio o a codici sociali di comportamento o (e non è la stessa cosa) a «forme
esemplari dell’esperienza sociale dei valori» (Mengoni) o, in fine, alla logica
generale dell’ordinamento; ma ciò dovrebbe indurre non già ad accorpare
questioni e ordini di valutazione essenzialmente diversi, bensì a tenere ferma
la distinzione tra buona fede (art. 1375) e correttezza (art. 1175) e tra
correttezza e principi generali dell’ordinamento (art. 12, c. 2°, disp. prel.).
La distinzione tra buona fede e correttezza è oramai
screditata da tempo ; essa, però, può acquisire un senso preciso, e può essere
d’aiuto per la razionalità del discorso giuridico, se si coltiva l’ipotesi che
«buona fede» e «correttezza» rispettivamente designino, l’una, un criterio di
sviluppo-specificazione del sistema di regole proprie dell’ordinamento pattizio
e, l’altra, un criterio di sviluppo-specificazione (integrazione-adattamento)
del sistema di regole proprie dell’ordinamento legale .
Riassuntivamente può allora dirsi che l’equità (art. 1374) e
la buona fede (art. 1375) costituiscono le due diverse figure attraverso le
quali l’ordinamento pattizio si autointegra, così come l’ordinamento legale si
autointegra mediante l’analogia (e, per certi aspetti, la correttezza). Ciò
ovviamente significa che un interesse, puntualmente non regolato né in via
pattizia, né in via normativa, può ricevere rilevanza giuridica attraverso due
vie diverse, vale a dire o sul piano dell’autointegrazione del regolamento
pattizio o sul piano dell’autointegrazione delle discipline legali; ma va subito
aggiunto che l’equità e la buona fede non avranno nulla da dire circa la
rilevanza o meno di un interesse in senso forte, cioè dotato di autonomia, che
possa dirsi in senso proprio non regolato, dato che la risoluzione di tale
problema va necessariamente cercata all’esterno dell’ordinamento pattizio, cioè
sul piano della ricostruzione e, se del caso, dello sviluppo del sistema delle
discipline legali .
Nella prospettiva indicata, è per definizione priva di
fondamento l’ipotesi che sia costruibile un principio generale di irrilevanza
degli interessi non regolati né dalle parti né da una precisa disposizione di
legge; ma è altrettanto inappropriata l’ipotesi di segno opposto, secondo la
quale il tema della rilevanza degli interessi (o «circostanze») in discorso
definirebbe una sorta di «spazio lasciato vuoto dalle norme» (Bessone). E,
infatti, in tanto ha senso costruire l’indifferenziata figura degli interessi (o
circostanze) puntualmente non regolati né in via pattizia né in via normativa in
quanto non ci si metta alla ricerca di un introvabile (e inesistente) criterio
unitario di disciplina (e v. infra) e ci si ponga, invece, specificamente
(esclusivamente) il problema di definire la strategia d’intervento, cioè di
determinare compiutamente lo spettro e, poi, l’identità e il complessivo
equilibrio dei criteri operativi di segno diverso che il codice ha, più o meno
chiaramente, messo a disposizione del giudice.
Il quadro va allora chiuso facendo menzione specifica del
criterio dell’autoresponsabilità, che costituisce non tanto una struttura
profonda dell’ordinamento quanto invece un criterio sistemico indiscutibilmente
sancito nell’art. 1374 .
Pare a chi scrive che dalle indicazioni e considerazioni sin
qui proposte si possa ricavare una conclusione precisa, e cioè che vanno
ritenute prive di fondamenta le costruzioni erette allo scopo di definire la
figura dell’interesse idoneo a rilevare pur in mancanza di una puntuale
previsione sia pattizia che normativa. Questa conclusione può essere
riformulata e meglio precisata dicendo che non è possibile dare alcuna compiuta
risposta alla domanda con cui si chieda quali caratteristiche debba avere una
«situazione» o «circostanza» non regolata affinché, nonostante il silenzio sia
della legge sia delle parti, ne possano rilevare giuridicamente la
sopravvenienza, la mancanza originaria, il mancato avveramento; infatti,
nell’ottica del sistema normativo dato, il quesito risulta avere un oggetto non
riducibile a valutazione unitaria ed è perciò indecidibile.
In altri termini, al quesito in discorso in tanto si dà una
risposta appropriata in quanto ci si limiti ad indicare la strategia
d’intervento . Ciò può apparire intollerabile alle dottrine a vocazione
sistematica; ma, anche a metter di canto il profilo dell’autointegrazione del
regolamento pattizio, sarà sufficiente pensare, per un verso, alle
caratteristiche del procedimento analogico e, per l’altro, al vario articolarsi
del sistema normativo per percepire l’intrinseca inconsistenza dell’ipotesi che
sia costruibile il modello delle molteplici situazioni che rileveranno sul piano
dell’invalidità negoziale e delle tutele in via contrattuale nonostante il
silenzio sia della legge sia delle parti. Ne seguirà non già il sacrificio
dell’esigenza di stabilizzazione dogmatica delle regole poste attraverso il
procedimento analogico, bensì la sollecitazione ad attuare, se del caso,
un’appropriata riorganizzazione degli ambiti problematici, dei vari e diversi
ambiti disciplinari, in cui quelle regole siano chiamate ad operare .
Riassuntivamente può dirsi che, dato ingresso al quesito
circa le condizioni di rilevanza delle circostanze o situazioni non regolate né
dalle parti né da una precisa disposizione di legge, si dovrebbe tenere per
ferma una sequenza di questo tipo: 1) dall’ordinamento non è ricavabile un
preciso punto di vista mediante il quale decidere circa la distribuzione del
rischio da circostanze non regolate, dato che la formula «rischio da circostanze
non regolate» racchiude un oggetto che non è valutabile unitariamente
nell’ottica del sistema del codice; 2) rispetto all’indifferenziato problema del
governo delle circostanze non regolate, ciò che l’interprete può lecitamente
chiedere al codice (ciò che deve ricercare nel codice) sono soltanto le
indicazioni attinenti alle possibili strategie di intervento; 3) il costo della
sopravvenienza o della mancanza di una circostanza non regolata non graverà
necessariamente sul contraente deluso (criterio dell’autoresponsabilità), ed in
ragione del possibile ingresso delle tecniche di integrazione (a nostro avviso,
autointegrazione) delle discipline legali e/o dei criteri di integrazione (a
nostro avviso, autointegrazione) del regolamento pattizio.
Le considerazioni svolte in questa introduzione suggeriscono
che le dottrine della presupposizione, imperniate sul classico schema
«fattispecie-disciplina», non apprestano strategie d’intervento circa il tema
generale del rischio da circostanze non regolate; correlativamente segnalano
che tali dottrine, quand’anche si presentino come costruzioni generali,
null’altro realmente racchiudono (e null’altro sono idonee a racchiudere) che
costruzioni particolari o di settore. Ovviamente, ciò non esclude che la teoria
della presupposizione abbia un’apprezzabile ragion d’essere, a condizione, però,
che essa riesca allora ad offrire la sistemazione appropriata di una sezione
specifica del rischio da circostanze non regolate.
Orbene, e questa introduzione lo ha già suggerito al lettore,
uno dei tratti che definiscono l’identità della vicenda della presupposizione
risiede nel fatto che tale vicenda si è andata svolgendo non già intorno ad un
medesimo, ben determinato problema di disciplina, bensì con riferimento ad una
pluralità di questioni, che risultano talora affrontate attraverso un segmento
o, addirittura, un frammento. In altri termini, la verità è che non esiste «il»
problema della presupposizione, e già per la ragione che la molteplicità di
opinioni, che si riscontra circa la figura in esame, costituisce funzione non
solo della pluralità delle risposte date alla stessa domanda, ma altresì della
diversità delle domande in concreto affrontate sotto la stessa etichetta, cioè
delle modificazioni, più o meno marcate, via via apportate all’oggetto
dell’indagine o, comunque, della costruzione .
Se si vuole rappresentare per grandi linee la vicenda della
presupposizione si può soltanto dire che essa ha ruotato attorno al tema
generale dei criteri di giuridicizzazione o selezione degli interessi (delle
situazioni o circostanze) puntualmente non regolati né in via pattizia né in via
normativa, e si è andata confusamente svolgendo attraverso due itinerari
essenzialmente diversi, rispettivamente incentrati, l’uno, sul profilo dell’autointegrazione
del regolamento pattizio e, l’altro, sul profilo dell’autointegrazione delle
discipline legali. Più precisamente: una dottrina ha collegato la figura della
presupposizione al tema dei requisiti necessari affinché un interesse, non
garantito automaticamente dall’ordinamento, possa dirsi giuridicizzato in forza
dello specifico accordo concluso, nonostante l’assenza di una regolamentazione
pattizia puntuale; un’altra dottrina ha invece rivolto lo sguardo al profilo
delle condizioni in presenza delle quali un interesse, non garantito sul piano
specifico dell’accordo pattizio, potrà rilevare giuridicamente in virtù
dell’autonomo sistema di valori dell’ordinamento, nonostante l’assenza di una
precisa disposizione di legge.
Il quadro può essere chiuso esplicitando uno dei punti di
vista sottesi a questa introduzione, e cioè che per lo più si discorre di
presupposizione per la sola ragione che non si interrogano appropriatamente i
fatti e/o le strutture giuridiche di riferimento, cosicché non si ha chiara la
reale natura del problema che il fatto, in qualche modo organizzato in concetto,
pone all’interprete .
Il punto di vista testé esplicitato può essere
convenientemenre riformulato dicendo che la teoria della presupposizione
fondamentalmente si configura o come una teoria della marginalità, cioè come
teoria specificamente costruita su casilimite rispetto ai quali il comune senso
giuridico reclama una regola che non si riesce a ricondurre armonicamente
all’interno del sistema dato , o come una teoria generale dell’irrazionalità ,
cioè come teoria che eleva a modello la formulazione di meri giudizi liberi
ossia svincolati da un reale sostegno argomentativo sul piano del valore del
fatto e/o in relazione al punto di vista dell’ordinamento (la presupposizione
come figura che condensa e stabilizza pratiche interpretative e modelli
decisionali non razionali) .
(*) Queste pagine trascrivono una parte di capitolo
della monografia pubblicata presso la Casa editrice Giappichelli