AmbienteDiritto.it

Legislazione  Giurisprudenza


Copyright ©  Ambiente Diritto.it

 

 

IL DIVIETO DI ALIENARE STABILITO PER CONTRATTO E LA DISCIPLINA DELL’ART. 1379 DEL CODICE CIVILE (*)
 

 

 

ALDO CHECCHINI



 
SOMMARIO:
1. Le direttive fondamentali contenute nell’art. 1379 c.c. – 2. Norma di principio o norma residuale? – 3. La pretesa «efficacia reale» di alcuni divieti negoziali di alienare: – a)  Il divieto di cessione dell’usufrutto. – b) Il divieto di cessione del credito. – c) Il divieto di cedere la quota di s.r.l. – d) I divieti condominiali. – 4.  Il requisito dell’interesse apprezzabile nelle «opzioni» previste dalla legge. – 5. Conclusione: l’art. 1379 c.c. richiama principi inderogabili. – 6. Il significato dell’interesse apprezzabile. – 7. I convenienti limiti di tempo. 8. Ulteriori problemi di validità della clausola. 9. L’inadempimento del divieto. 10. Soggezione di altre figure negoziali alla regola dell’art. 1379 c.c. – Indice



1. Le direttive fondamentali contenute nell’art. 1379 c.c.

È abitudine diffusa sottolineare la natura composita della disposizione dell’art. 1379 del codice civile, sia per la molteplicità dei valori giuridici che appaiono in essa riassunti, sia per la pluralità di regole giuridiche e direttive sistematiche che vi trovano espressione, tanto che se ne è giustamente sottolineato il sapore pleonastico.


Fin dalle prime analisi della nuova normativa del codice civile e già nei commenti al progetto preliminare, era stato sottolineato come, al di là del principio generico della «libera commerciabilità dei beni», si possono, in sostanza, distinguere tre fondamentali indirizzi del sistema privatistico che trovano nella disposizione in esame una singolare occasione di collegamento.


In primo luogo il principio che richiede un interesse apprezzabile, tale da giustificare il riconoscimento giuridico del patto intervenuto fra i privati; orientamento del legislatore che trova la sua espressione più significativa nella previsione del requisito causale, che, formulato forse incompiutamente nel l’art. 1322, c. 2°, riaffiora in altre disposizioni dove si richiede la valutazione di un interesse privato (basti citare, ad esempio, gli artt. 1174 e 1411 c.c.)


Occorre, tuttavia, stabilire la effettiva portata di tale requisito.


In secondo luogo viene in considerazione la regola per cui l’obbligo di non alienare vale esclusivamente entro convenienti limiti di tempo; regola che esprime, a sua volta, un principio di sfavore verso la perpetuità dei vincoli obbligatori, già altrove ampiamente riconosciuto.


In terzo luogo opera la previsione di effetti esclusivamente inter partes, principio che, come è noto, dipende dagli strumenti messi a disposizione dell’autonomia privata e cioè, da un lato, dalla impossibilità giuridica di configurare il diritto del promissario come un diritto erga omnes, essendo il numero dei diritti reali limitato a quelli tipici previsti dalla legge, e, dall’altro, dalla tipica efficacia propria del contratto, secondo il noto principio della relatività degli effetti sancito nell’art. 1376 c.c.


2. Norma di principio o norma residuale?

Appare interessante, da un punto di vista storico e comparatistico, verificare come gli aspetti più propriamente tecnici di tale disciplina si sovrappongano rispetto a quelle che sono considerate – in varia collocazione gerarchica, secondo i tempi e le ideologie – come esigenze fondamentali dell’ordinamento e della società: ad esempio, il valore dell’autonomia privata e della volontà (salvo la necessità di difenderla. anche da sé stessa) la garanzia nella circolazione dei diritti, la tutela della sicurezza del traffico, la certezza dei terzi aventi causa, così come può essere utile integrare la prospettiva culturale con i risultati di una analisi economica del diritto.


Il problema fondamentale circa il significato che l’art. 1379 assume nell’ordinamento positivo sembra ancora fermo alla alternativa se tale norma costituisca o meno un principio di carattere generale, arrivando, secondo taluno, ad esprimere addirittura un principio di ordine pubblico.


Inutile sottolineare l’importanza delle conseguenze che si traggono dalla soluzione cercata. È in gioco l’interpretazione e l’applicazione di numerosi istituti in ragione del rapporto intercorrente fra l’art. 1379 e le altre norme.


Una conseguenza rilevante potrà essere, ad esempio, la necessità di integrare le singole disposizioni che prevedono l’ammissibilità di limitazioni negoziali con la norma che pone i requisiti generali di validità del divieto, così in tema di limiti alla circolazione delle azioni, art. 2355, c. 3°, o di prelazione nel contratto di somministrazione.
Si tratta anche di vedere se, là dove la legge consente ai privati di vietare la cessione di un diritto (ad esempio, l’usufrutto o il diritto di credito) si debba esercitare un controllo circa l’esistenza di un «interesse apprezzabile» di una delle parti, applicando una direttiva generale sancita nell’art. 1379, o se ne debba prescindere, immaginando che la legge regoli in modo autonomo siffatte ipotesi e sottintenda un interesse sussistente in re ipsa, proprio perché essa nulla dice in merito a tale requisito.

 
Si pone poi il problema se rientri nella disponibilità dei privati prevedere una disciplina sanzionatoria per la violazione del divieto, quale la previsione della nullità del contratto o della sua risoluzione.


Altrettanta influenza può esplicare la questione accennata sulla ammissibilità di soluzioni «alternative» al divieto di alienare, ma che ottengono un effetto analogo, come può essere, ad esempio, l’inserimento di una condizione risolutiva della vendita qualora il compratore, violando il divieto, ceda, a sua volta, il bene. Sono in gioco gli effetti reali propri della condizione, che, come è noto, è opponibile ai terzi.
Quanto alla via per giungere ad una soluzione, occorre, in primo luogo, sottolineare che non sempre il metodo seguito in dottrina appare corretto.
Anche volendo escludere, ad esempio, che la disposizione in esame garantisca, di per sé la «libera circolazione dei beni» – infatti, secondo una parte della dottrina, essa esprimerebbe piuttosto una mera «esigenza economica» anziché un principio di ordine pubblico – non si può trascurare l’importanza che assumono gli altri fondamentali principi posti alla base della disposizione.


Soltanto ove si dimostrasse che nessun principio fondamentale si nasconde dietro l’art. 1379 si aprirebbe la via per una interpretazione riduttiva della norma.


Seguendo una strada diversa si è cercato, invece, di dimostrare che la norma avrebbe soltanto un limitato ambito di applicazione, movendo dalla considerazione che i divieti convenzionali di alienare specificamente previsti dalla legge e principalmente il divieto di cedere l’usufrutto (art. 980 c.c.) e il credito (art. 1260 c.c.) sarebbero del tutto autonomi, rispetto alla disciplina dell’art. 1379.


Quest’ultima norma si riferirebbe, in definitiva, al solo divieto di alienare la proprietà, senza neppure comprendere tutte le ipotesi possibili e quindi non potrebbe esprimere alcuna portata generale.


Poiché tale impostazione riscuote un certo consenso in dottrina ed assorbe ogni altra configurazione dell’istituto, appare necessario verificare, per prima cosa, proprio l’assunto che ne sta alla base, secondo cui talune previsioni legislative sarebbero del tutto autonome rispetto alla regola dell’art. 1379 c.c.



3. La pretesa «efficacia reale» di alcuni divieti negoziali di alienare:

 

 

a)  Il divieto di cessione dell’usufrutto


La tesi secondo cui sarebbe prevista dalla legge una opponibilità ai terzi e quindi una «efficacia reale» – secondo una espressione in uso – per taluni divieti contrattuali di alienare, è senza dubbio quella che desta maggior attenzione perché dimostrerebbe l’esistenza di una rilevante deroga al principio di relatività del contratto.


In tema di usufrutto, la teoria tradizionale si fonda, come è noto, sulla ricostruzione storica della disciplina dell’istituto e sulla tesi secondo cui il legislatore del ’42 avrebbe inteso restituire all’usufrutto la sua originaria e tradizionale «incedibilità», quanto meno nell’ipotesi in cui sia prevista espressamente dalle parti nel titolo costitutivo.


La tesi accennata, tuttavia, non ostante abbia avuto autorevoli sostenitori, sembra meno convincente di un tempo di fronte alla verifica cui è stata sottoposta dal punto di vista sistematico.


In primo luogo, se fosse vero che la ratio della incedibilità dell’usufrutto sta nella tutela del proprietario, come si sostiene, non si capisce perché sarebbe consentito vietare la cessione dell’usufrutto mentre sarebbe esclusa la possibilità di configurare una enfiteusi altrettanto «incedibile».


La regola secondo cui la cessione dell’enfiteusi, ancorché vietata dall’atto costitutivo, non libera comunque il cedente dei suoi obblighi verso il proprietario, «ed è tenuto a questi solidalmente con l’acquirente» dimostra, per l’appunto, che è efficace la cessione non ostante il patto contrario.


Anche la tesi che vorrebbe fondare l’opponibilità del divieto di cessione dell’usufrutto sull’effetto della pubblicità, cui è soggetto il titolo che «incorpora» il divieto, presta il fianco a gravi obiezioni sia perché non risulta in nessuna norma – diversamente da quanto avviene in altri innumerevoli casi – che la pretesa opponibilità dipenda dalla trascrizione del titolo, sia perché va considerato che anche il titolo dell’enfiteusi è soggetto a trascrizione eppure il divieto in esso contenuto non ha, come si è visto, efficacia reale.


Infine, appaiono contrastanti fra loro le due affermazioni: che il titolo crea un diritto incedibile e che la opponibilità è effetto della pubblicità.


Si noti, in proposito, che l’art. 980 c.c. fissa, in generale, un regime valido indistintamente anche per l’usufrutto su beni mobili, non soggetto a trascrizione. Se l’intrasmissibilità dell’usufrutto dipende dalla previsione dell’art. 980, c. 1°, che consente di costituire attraverso il titolo un diritto incedibile, si dovrebbe parimenti ritenere, dato che la legge non distingue le due ipotesi, che anche l’usufrutto sui beni mobili può essere reso incedibile già nel titolo costitutivo. Ora, di questa incedibilità dell’usufrutto di beni mobili nulla dicono i sostenitori della tesi criticata, i quali, piuttosto, affermano che la efficacia reale dipende dalla trascrizione del titolo, lasciando intendere, ex adverso, che vi sarebbe solo un effetto inter partes là dove il titolo non sia soggetto a pubblicità.


In mancanza di una disposizione in proposito, non si vede la ragione per differenziare la efficacia del titolo, in sé considerato, secondo la natura dei beni che formano oggetto del diritto.


Sotto il profilo sistematico sembra più corretto concludere, in mancanza di una dimostrazione più persuasiva, che il divieto di cedere l’usufrutto di beni immobili, ancorché stabilito nel titolo, si pone sullo stesso piano del divieto di cedere l’usufrutto di beni mobili e del divieto di cedere l’enfiteusi e quindi non può che produrre conseguenze di natura obbligatoria, salvo tener conto, per l’enfiteusi, del regime speciale appositamente previsto, per cui gli obblighi già gravanti sull’enfiteuta restano a suo carico, in solido con l’acquirente.


Anche per i fautori della tesi criticata resterebbe, comunque, uno spazio per l’applicazione dell’art. 1379, all’usufrutto di beni mobili e al divieto di cessione dell’usufrutto di beni immobili pattuito dopo la formazione del titolo costitutivo.
 


b) Il divieto di cessione del credito

Occorre, in primo luogo, osservare che il divieto di cessione del credito non è opponibile al terzo cessionario di buona fede.


È facile notare come tale regola rientri nella disciplina generale della efficacia inter partes del contratto, specificamente ribadita per il divieto patrizio di alienare dall’art. 1379 c.c.


Non sembra possibile sostenere, pertanto, che siffatta inopponibilità deve connettersi ad un particolare effetto vantaggioso della buona fede dell’acquirente, perché per tale acquirente non vi è nessuna deroga rispetto ai principi.


Nell’ipotesi indicata, proprio perché si applica la regola generale, la legge non detta neppure prescrizioni concernenti la prova della buona fede, come invece accade altrove, allorquando si tratta di ottenere un particolare effetto vantaggioso da tale stato soggettivo (si pensi, ad esempio, agli artt. 534 e 1189 c.c.).


Possiamo dire, dunque, che viene rispettata la regola della efficacia relativa del divieto.


La deroga che è prevista nell’art. 1260, c. 2°, riguarda piuttosto l’effetto svantaggioso della mala fede del cessionario, al quale «eccezionalmente» è opponibile il patto se si prova che ne era a conoscenza al tempo della cessione.


La legge non dice affatto che non si può cedere il credito, ma soltanto che il patto «è opponibile al cessionario». Si tratta di intendere il significato di tale espressione.


Come è noto, una parte della dottrina interpreta questa previsione come se la legge ammettesse, in tal caso, l’efficacia reale del patto di incedibilità.


Si trae argomento, essenzialmente, dalla «diversità» del diritto di credito rispetto ai diritti reali sottolineando che: a) non trattandosi di disporre di cose, ma di un rapporto giuridico, questo potrebbe essere costruito ad hoc come rapporto incedibile; b) non vi sarebbe pericolo, in tale ipotesi, di costruire una nuova figura di diritto reale e quindi di violare il noto principio del numero chiuso; c) non vi sarebbe l’esigenza di garantire quella sicurezza nella circolazione del diritto che è richiesta, invece, per i diritti reali sulle cose.


Si deve tuttavia rilevare che se, di regola, le parti non possono creare un credito incedibile, come si è visto poc’anzi, non si capisce come lo potrebbero fare solo nel caso di mala fede dell’acquirente.


D’altro canto, se le parti potessero creare tale incedibilità, essa si concreterebbe in una impossibilità giuridica dell’oggetto che rende, di regola, nullo il negozio.


Quale principio potrebbe invocarsi per «salvare» il negozio grazie alla buona fede dell’acquirente? Certo non quello dell’affidamento, che opera solo nel campo della annullabilità, come è stato ampiamente dimostrato, ma neppure quello dell’apparenza, dato che nel nostro caso non è questione di titolarità della situazione giuridica trasmessa, ma di liceità o possibilità dell’oggetto.


In terzo luogo non ha senso negare, in generale, che vi sia una esigenza di sicurezza nella circolazione dei crediti e poi subito smentire tale affermazione ammettendo che il cessionario di buona fede fa salvo il suo acquisto . per una esigenza di sicurezza.


Occorre piuttosto considerare l’istituto della cessione del credito alla luce di quella prospettiva che tiene distinto il fenomeno del trasferimento del diritto da quello della modifica della disciplina del rapporto, che ad esso normalmente consegue.


Tale rappresentazione ha posto in luce come siffatta consequenzialità fra i due fenomeni accennati non sia del tutto automatica. È corretto, invece, ipotizzare un trasferimento del credito al cessionario al quale non corrisponda una totale modifica della disciplina fra le parti, e ciò proprio perché l’acquirente deve tener conto del regolamento pattuito fra debitore e creditore in merito alla cessione.


La cessione, in questo caso, non basterebbe ad attribuire all’acquirente la legittimazione a riscuotere la prestazione (né a far constare, mediante la notifica nei confronti del debitore, la modifica di disciplina del rapporto), pur essendo invece idonea a trasmettere il diritto di credito nel patrimonio dell’acquirente, il quale sarebbe, da questo momento in poi, destinatario delle utilità e soggetto ai rischi connessi alla posizione di creditore, nonché legittimato a disporre del credito trasferitogli, ed altresì sarebbe in grado (mediante la procedura prevista della notifica con data certa) di opporre l’avvenuta cessione ai terzi aventi causa ed ai creditori dell’alienante .


Per questa via si riesce a dimostrare, in sostanza, che la cessione, pur se vietata fra le parti, è valida e giuridicamente efficace dal punto di vista della circolazione dei diritti, tanto nel caso di buona fede, quanto nel caso di mala fede dell’acquirente ancorché, in quest’ultimo caso, sia disciplinata in modo tale che l’acquirente di mala fede debba tener conto, in un certo modo, del patto di incedibilità, correndo il rischio, altrimenti, che il debitore possa paralizzare le sue pretese con una eccezione.


In definitiva, mentre nel campo dei diritti reali sarebbe quanto mai ristretta la possibilità di contrapporre titolarità del diritto e disciplina del rapporto, dato che il soggetto è investito di una posizione di supremazia efficace erga omnes, nel campo dei diritti di obbligazione sarebbe assai più facile distinguere il profilo della circolazione e della titolarità del diritto da quello della disciplina del rapporto operante inter partes.


La innegabile diversità fra le due categorie di diritti, pertanto, lungi da giustificare una deroga ai principi del sistema in ordine al potere di disporre, consente invece di inserire in un quadro unitario anche il pactum de non alienando, riferito alla cessione del credito.


Resta da spiegare l’opponibilità al cessionario di mala fede del divieto pattuito fra le parti.


Il fondamento della eccezionale rilevanza della mala fede dell’acquirente – come spesso accade quando la mala fede determina una conseguenza svantaggiosa particolare – potrebbe consistere, secondo una intuizione dottrinale forse non del tutto sviluppata, in una violazione del dovere di correttezza e cioè nel comportamento del cessionario contrario a buona fede.


Secondo un certo modo di vedere, infatti, il terzo acquirente di mala fede non solo è un collaboratore «consapevole» dell’inadempimento altrui, ma è anche il collaboratore «intenzionale» e complice necessario, affinché si verifichi l’inadempimento.


Tale spiegazione, tuttavia, imporrebbe di restringere la opponibilità soltanto al «primo» cessionario in mala fede, perché solo questo sarebbe complice del creditore originario nella violazione del patto. Ove si ritenga, invece, che l’art. 1260, c. 2°, c.c. letteralmente comprenda qualunque successivo cessionario di mala fede – eventualmente anche dopo una prima cessione ad un acquirente di buona fede, o, comunque, anche nell’ipotesi che sia il solo cessionario a trovarsi in mala fede e non il cedente – si è costretti a giustificare diversamente tale disciplina.


Non sarebbe il «concorso» nell’inadempimento o la complicità con il cedente a giustificare l’opponibilità in questione, ma la mala fede nell’acquisto della posizione di parte del rapporto obbligatorio.


L’effetto della circolazione della titolarità vi sarebbe comunque sempre, a vantaggio di qualunque cessionario, a conferma della mera efficacia inter partes del divieto di cessione, mentre l’effetto della opponibilità della disciplina pattuita fra debitore e creditore costituirebbe una specifica sanzione posta a tutela del solo debitore.


Senza poter ampliare il discorso in questa sede, basterà osservare che un siffatto rilievo della mala fede, operante direttamente sul piano della efficacia, non rappresenta certamente un unicum nel nostro codice: si pensi, ad esempio, all’art. 1460, c. 2°, che vieta l’eccezione di inadempimento quando è contraria a buona fede, l’art. 1391, che vieta al rappresentato di mala fede di giovarsi della buona fede del rappresentante, all’art. 2941, n. 8, che sospende la prescrizione qualora il debitore abbia occultato dolosamente il debito, per non parlare della finzione di avveramento di cui all’art. 1359 e della exceptio doli nel diritto cambiario.


Se è vera questa prospettiva l’art. 1260, c. 2°, non è affatto autonomo, rispetto all’art. 1379, come è stato sostenuto, perché il divieto di cessione non opera con effetto reale, per quanto concerne la circolazione della titolarità del diritto e quindi la regola di fondo è pur sempre quella della inopponibilità del patto ai terzi.


La differenza sta nel fatto che la regola generale dell’art. 1379 opera nei confronti di qualsiasi acquirente, di buona come di mala fede, mentre la disciplina dell’art. 1260 si arricchisce di una regola supplementare in ragione della mala fede del terzo, per la natura personale del rapporto che si viene a creare tra questo e il debitore.
 


c) Il divieto di cedere la quota di s.r.l.

Il risultato della verifica sin qui condotta induce ad accennare, sia pur brevemente, ancora a due ipotesi discusse talora in dottrina. In primo luogo viene in considerazione la disciplina dei limiti statutari alla cessione di quote di s.r.l., consentiti dall’art. 2479 c.c., i quali sarebbero sanzionati, secondo taluno, con efficacia reale, creando, dal nostro punto di osservazione, una deroga alla regola dell’art. 1379 c.c. .


La tesi secondo cui sarebbe nulla la cessione della quota in violazione del divieto si contrappone all’idea che l’art. 2479 si occupi del regime di circolazione statutaria nei confronti della società, senza riguardare i terzi acquirenti, che dovrebbe condurre a ritenere compatibile tale norma con il principio del l’art. 1379.


La questione del divieto di cedere le quote, pur essendo collegata tradizionalmente al problema della efficacia delle clausole statutarie di gradimento e di prelazione, si connette più propriamente alla controversa questione circa la natura della partecipazione sociale e della partecipazione del socio nella s.r.l. in particolare.


Le teorie che si sono offerte sull’argomento, affermando, ora, che la quota ha natura di credito, ora, che rappresenta una partecipazione contrattuale come titolarità dei rapporti sociali, per fermarsi alle due direttrici che possono principalmente interessare ai nostri fini, sono ben note e non è questa la sede neppure per accennare alla complessa questione.


Chi accetta la prima tesi o comunque ritiene applicabili alla cessione della partecipazione sociale le norme dettate in tema di cessione del credito, sarebbe indotto a concludere per la efficacia reale del divieto derivante dalla interpretazione tradizionale dell’art. 1260, c. 1°; la pubblicità dello statuto, costituendo il terzo in mala fede, determinerebbe la inefficacia dell’acquisto .


La ricostruzione del divieto effettuata secondo quanto si è detto poc’anzi, tuttavia, contrasta con la interpretazione tradizionale, sì che per questa via non si arriverebbe a dimostrare altro che una inopponibilità della cessione alla società, distinguendo la titolarità della situazione giuridica trasmessa, dall’esercizio dei diritti che da questa discendono, non diversamente da quanto stabilisce l’art. 2523 c.c. in tema di quote o azioni di società cooperative, là dove dice che «l’atto costitutivo può vietare la cessione delle quote o delle azioni con effetto verso la società».


Un secondo orientamento richiama, come è noto, la cessione del contratto (o più correttamente del rapporto) sociale. In questa prospettiva, il divieto statutario verrebbe equiparato, in qualche modo, al diniego preventivo del consenso del creditore ceduto .


È stato negato, viceversa, che le norme sulla cessione del contratto siano compatibili con il fenomeno in questione.


In realtà mentre l’azione consente la circolazione della partecipazione azionaria attraverso il regime dei beni mobili, la quota esprime la partecipazione sociale in modo affatto diverso, e basterebbe tale considerazione per svincolare l’art. 2479 c.c. dal principio dell’art. 1379. Pertanto, anche seguendo l’idea che lo statuto possa determinare l’assoluta intrasferibilità della partecipazione non si arriva a dimostrare l’esistenza di una significativa deroga rispetto alla norma da ultimo citata.
 


d) I divieti condominiali

Resta da considerare il vincolo al potere di disporre in tema di comunione e di condominio, da cui si vorrebbe desumere l’esistenza di una deroga, rispetto al principio di relatività del contratto, tale da sottrarre l’intero ambito dei vincoli di destinazione dalla sfera di applicazione dell’art. 1379.


Non viene in considerazione, ovviamente, il fatto che possano nascere servitù reciproche, giustificate dalla esigenza di rispettare una destinazione particolare dei beni comuni, servitù che, seguendo il bene, si trasmettono ai cessionari, sia dal lato attivo che dal lato passivo per atto tra vivi o mortis causa.


Né viene in considerazione il divieto che può essere previsto in una convenzione di lottizzazione, o in un consorzio volontario ad essa collegato, divieto al quale si attribuiscono effetti reali.


Occorre brevemente accennare, piuttosto, alla tesi secondo cui talune obbligazioni, sorte fra proprietari o condomini, sono considerate trasmissibili sotto forma di oneri reali o obbligazioni propter rem, secondo una costruzione giurisprudenziale ormai consolidata, che si fonda su una figura sui generis, assai diversa da quella storicamente delineata nel passato.


Nel fenomeno segnalato esistono, tuttavia, elementi che hanno poco a che fare con il potere di disporre e non indicano, pertanto, regole nuove e diverse circa la disponibilità della quota; infatti in primo luogo la giurisprudenza si occupa essenzialmente degli obblighi di fare o di non fare dei condomini attinenti alla facoltà di godimento del bene e non già al potere di disposizione, in secondo luogo l’efficacia verso i terzi di tali limitazioni al godimento del bene, discende, per la giurisprudenza, dal fatto che le limitazioni in questione sono state stabilite dal proprietario originario o, per convenzione, da tutti i comproprietari e sono accettate di volta in volta dal cessionario, anche per relationem, rispetto ad un precedente regolamento, oppure sono state trascritte nei registri immobiliari, dando luogo alla formazione di oneri reali o di obbligazioni propter rem.


Come si vede la questione attiene ai limiti delle facoltà di godimento e alla possibilità di pretendere dai cessionari l’adempimento delle prestazioni propter rem, con altra portata rispetto al problema della efficacia della cessione.


In breve, anche se si prende atto della figura creata dalla giurisprudenza per perpetuare, nella cessione tra vivi a titolo particolare, determinati rapporti giuridici e renderli «ambulatori», non risulta affatto dimostrata, in sostanza, l’esistenza di una deroga rispetto al principio della efficacia inter partes del divieto, espresso dall’art. 1379.



4.  Il requisito dell’interesse apprezzabile nelle «opzioni» previste dalla legge

Secondo una tesi non isolata sarebbe preclusa ogni indagine circa l’esistenza di un interesse apprezzabile in quelle ipotesi particolari in cui la legge ha dimostrato di riconoscere validità al pactum de non alienando.


Ad esempio, con riferimento al diritto di usufrutto e al diritto di credito, vi sarebbe il riconoscimento legale di un interesse a vietare la alienazione che appare già «meritevole in re ipsa» e pertanto ricorrerebbe una significativa deroga rispetto alla regola che impone di valutare di volta in volta l’esistenza di tale requisito.


Tuttavia non sempre coloro che sono disposti ad ammettere la efficacia reale del divieto sono anche d’accordo nell’ammettere l’esistenza di un interesse già apprezzato a priori.


Occorre, in primo luogo, considerare che la previsione di un effetto giuridico collegato alla volontà delle parti non equivale, di per sé al riconoscimento di interessi meritevoli di tutela. Si pensi, ad esempio, al tradizionale problema della causa nella promessa al pubblico, nella cessione del credito o nella promessa del fatto del terzo.


L’idea che sussista un interesse apprezzabile in re ipsa già in una previsione astratta dello strumento negoziale, di solito, si collega ad una funzione tipica (di scambio, associativa, di garanzia), ma proprio per questo non va oltre il riconoscimento di un interesse pratico tipico, che a priori può essere considerato meritevole di tutela, salvo, comunque, la possibilità di dimostrare la mancanza o la illiceità dell’interesse concreto delle parti nel singolo negozio (c.d. causa putativa o illecita).


Da questo punto di vista, le specifiche previsioni degli artt. 980 e 1260 c.c., non rivelano neppure un interesse concreto tipico che possa nascondersi dietro le clausole di inalienabilità in essi previste. Ogni tentativo di descrivere tale interesse non può che arrestarsi allo schema astratto dell’effetto giuridico che si vuole ottenere, senza poter chiarire il significato pratico o economico che giustifica, volta per volta, il negozio. Se il divieto di cedere un diritto è di per sé incolore, e non lascia trasparire quelli che sono effettivamente gli interessi in gioco (perciò l’art. 1379 richiede l’esistenza di un interesse concretamente apprezzabile che giustifichi il divieto) non sembra che si aggiunga una maggiore definizione quando si afferma che vi è un interesse a «non mutare usufruttuario» o a «non mutare creditore».


Va peraltro considerato che il divieto di alienare, allorquando sia introdotto dalle parti in un programma negoziale nel quale non è specificamente prevista ex lege questa modalità – sia esso un patto isolato, a sé stante, ovvero parte o clausola di un negozio più ampio – crea sempre una regola eccezionale nel traffico giuridico in ragione della quale la legge detta dei requisiti generali di validità.


Il discorso appare diverso là dove il divieto di cessione può essere inteso quale modalità accessoria di un contratto, tipicamente prevista dalla legge, come nel contratto costitutivo di usufrutto o del contratto da cui nasce un debito, nei quali la volontà delle parti può scegliere, oltre alle regole contrattuali principali, anche la incedibilità del diritto.


Fermo restando il principio della efficacia inter partes, la clausola di incedibilità, nei casi tipici in cui è ammessa in via opzionale dalla legge, andrebbe trattata, insomma, non diversamente da altre clausole accessorie di uno schema tipico per le quali non è richiesta a priori la dimostrazione di uno specifico interesse apprezzabile: si pensi, ad esempio alla esclusione della garanzia per evizione, alla rinunzia alla solidarietà, al patto di riscatto o ad una clausola di prova o di gradimento nella compravendita, casi nei quali sarebbe irrilevante provare la mancanza di un apprezzabile interesse, relativo a tali scelte, di fronte alla volontà contrattuale positivamente espressa (salvo che si dimostri, eventualmente, la ricorrenza in concreto di una mancanza o illiceità della causa o della illiceità del motivo).


5. Conclusione: l’art. 1379 c.c. richiama principi inderogabili

La, pur breve, verifica condotta circa la tesi che afferma la piena autonomia delle disposizioni che prevedono specifici divieti convenzionali di alienare, rispetto alla norma dell’art. 1379, induce a ritenere che tale assunto non sia sufficientemente dimostrato.


Riemerge, al contrario, la impostazione tradizionale secondo cui l’art. 1379 si configura come norma che richiama principi generali dell’ordinamento.


Ciò corrisponde, come è noto, ad una diffusa intuizione della giurisprudenza, variamente sostenuta dalla dottrina, la quale spesso, più che proporre vere distinzioni, sottolinea diverse sfumature.


Anche «declassando» il principio della libera circolazione dei beni fra le mere esigenze economiche della società, altri principi giustificano una applicazione generale della norma di cui all’art. 1379 c.c., nei limiti sin qui delineati.


Nessuno degli argomenti posti in luce dagli interpreti – come la «indisponibilità» del potere di disporre, la garanzia della libertà di contrarre, la tutela della libertà personale, la sicurezza del traffico a protezione dei terzi, lo sfavore per gli effetti contrattuali indeterminati nel tempo o per i vincoli obbligatori, la esigenza che i limiti alla autonomia privata siano giustificati da interessi concreti – appare, tuttavia, prevalente.


Può esser utile tirare le prime somme in seguito alla verifica effettuata.


Il principio enunciato nella disposizione in esame, per quanto concerne la efficacia relativa del patto, opera in ogni caso, anche là dove la legge ha previsto specifiche opzioni che consentono alle parti di scegliere la incedibilità di un diritto. Le regole di validità enunciate nell’art. 1379 valgono anch’esse in generale, in tutti i casi in cui non è prevista espressamente dalla legge, come opzione alternativa, la creazione di un divieto di cessione per volontà delle parti. La portata generale della disposizione, la rende estensibile anche a casi analoghi, non coincidenti con i divieti di alienare.


Come direttiva di fondo del sistema ha natura inderogabile: ciò comporta, ad esempio, che non si possono prevedere sanzioni diverse da quella risarcitoria come conseguenza della violazione del divieto di alienazione, né eludere l’efficacia inter partes predisponendo una condizione risolutiva opponibile ai terzi, né seguire la via della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 contro il terzo per concorso nell’inadempimento, né ricorrere alla trascrizione del patto per ottenere una sorta di diritto di séguito .


È opportuno, a questo punto, dedicare qualche attenzione ai limiti di validità del patto.


6. Il significato dell’interesse apprezzabile


Considerando, in primo luogo, il requisito che sussista «un interesse apprezzabile di una delle parti» ci si è domandato se questo sia assimilabile all’interesse «anche non patrimoniale» del creditore di cui parla l’art. 1174 ovvero corrisponda all’interesse «meritevole di tutela» di cui parla l’art. 1322, ricollegabile, secondo i più, al requisito causale del negozio.


Il fatto che si parli di un interesse apprezzabile di una delle parti e non del solo promissario, secondo taluno, porterebbe ad escludere a priori ogni collegamento con l’art. 1174. D’altra parte l’espressione citata non sembrerebbe neppure adatta a configurare quegli «interessi meritevoli di tutela» che sostengono la causa del contratto, i quali non possono essere «interessi di una parte», proprio perché devono essere necessariamente «interessi condivisi» e quindi comuni alle parti, in modo tale da giustificare oggettivamente la struttura normativa del contratto.


Occorre domandarsi, in sostanza, se la formula dell’art. 1379 vada esclusivamente riferita a quello che si potrebbe chiamare l’interesse «intrinseco», rispetto al divieto di alienare, cioè l’interesse immediatamente soddisfatto dall’adempimento del divieto (risponde alla domanda: a che serve il divieto?) o se invece si possa riferire a qualunque interesse di una delle parti e quindi anche un interesse «estrinseco» rispetto al divieto, in quanto soddisfatto (non dall’adempimento dello stesso, bensì) dall’inserimento della clausola nel contratto (risponde alla domanda: che cosa ci guadagna il promittente?).


Vi è da chiedersi, in altre parole, se sia sufficiente la pattuizione di un corrispettivo che controbilancia il peso del divieto, per soddisfare il requisito posto dall’art. 1379.


Secondo la tesi più restrittiva, la legge richiederebbe un giudizio di valore circa l’interesse in questione, tale da giustificare la «lesione» del potere di disporre, escludendo qualsiasi altra considerazione che non sia in grado di chiarire la natura dell’interesse soggetto a valutazione, il quale deve prevalere sull’interesse alla libertà dell’atto di disposizione dimostrando che il divieto è concretamente utile.


La formula usata dalla legge appare, invece, ad altri, così estesa da comprendere qualsiasi interesse lecito «di una delle parti» purché apprezzabile in concreto, sicché anche l’interesse del promittente ad obbligarsi «perché ricompensato» parrebbe sufficiente a giustificare l’apposizione del divieto a patto che il beneficio ricevuto possa ritenersi congruo e proporzionato alla restrizione imposta.


Sembra però più convincente l’opinione che l’art. 1379 c.c. imponga un giudizio di valore sulle ragioni intrinseche del divieto, non sulla causa del contratto o sull’equilibrio negoziale e sulla eventuale contropartita che garantisce tale bilanciamento.


L’esistenza di un reciproco vantaggio economico per l’obbligato non risolve affatto il problema, perché la questione principale non concerne la natura economica degli interessi da valutare, che sarebbe garantita dalla previsione di un corrispettivo.


Se si pone il problema sul piano della approvazione sociale, il fatto che vi sia o no un corrispettivo non cambia nulla. Questo fa presumere che sussista un interesse del promissario, ma non basta in sé a garantire l’utilità concreta del divieto che si traduce in una «pregiudiziale di ammissibilità», se così si può dire.


L’apprezzamento, in realtà, non concerne soltanto l’esistenza di un interesse, ma richiede innanzitutto una valutazione di congruenza del mezzo al fine: apprezzabile, in tal senso, può essere solo un interesse suscettibile di essere soddisfatto attraverso l’imposizione di quel divieto specifico, secondo un rapporto fra la struttura del negozio e l’interesse di cui si cerca soddisfazione, che è proprio anche della valutazione del requisito causale. Ciò implica che si debba tenere conto sia della adeguatezza del patto, rispetto alla soddisfazione dell’interesse, sia della sufficiente meritevolezza dell’interesse, rispetto alla gravità della limitazione.


È chiaro che quando sia richiesta la prova di un interesse apprezzabile, il divieto di alienare isolato che costituisce l’oggetto specifico della pattuizione, presenta maggiori problemi rispetto al divieto inserito in uno schema negoziale più ampio. La distinzione non riguarda, ovviamente, l’applicazione di una diversa disciplina, ma soltanto «la prova» della esistenza dell’interesse richiesto. Nel divieto isolato si richiede una giustificazione sostanziale più specifica e puntuale, laddove invece il divieto, configurato come clausola di un negozio più ampio, può trovare più agevolmente la sua giustificazione nell’assetto di interessi complessivo. Ad esempio consente di realizzare meglio la funzione del negozio principale, rende più sicuro un contraente circa l’altrui adempimento e così via .



7. I convenienti limiti di tempo


La giustificazione più convincente circa la prescrizione di un conveniente limite di tempo per la validità del divieto di alienare risiede nel principio della temporaneità dei vincoli obbligatori e, in particolare, nel disfavore verso i vincoli alla libertà di contrarre, assai più che nel pericolo di pregiudicare la proprietà, data la mera efficacia obbligatoria che non tocca la facoltà di disporre.


Si rileva, in dottrina, come siffatta valutazione sia elastica e variabile. Infatti il giudizio circa la convenienza dei limiti di tempo non può non tenere conto degli specifici interessi che, di volta in volta, il patto è diretto a soddisfare.


Osserviamo che ciò induce ad individuare, ancora una volta, l’interesse apprezzabile in ciò che concerne la funzione del divieto.


La mancata osservanza del requisito temporale si concreta, pacificamente, in una nullità del patto, dovuta, secondo alcuno, ad indeterminatezza della prestazione di durata, ma più probabilmente ad illiceità dell’oggetto, secondo una prospettiva che vede nella stipulazione del divieto senza rispettare i requisiti in esame la lesione di interessi protetti inerenti all’autonomia negoziale, piuttosto che una mancanza di causa.


Ove il termine non vi sia o non sia congruo la questione principale concerne, da un lato, la ammissibilità di una conversione del negozio, dall’altro la possibilità di una integrazione da parte del giudice.


Non sembra potersi condividere la tesi che consentirebbe la sostituzione della clausola nulla ex art. 1419, c. 2°, con una norma imperativa, senza far cadere l’intero contratto.


Infatti, in primo luogo non si vede quale norma consentirebbe tale sostituzione. Non può trattarsi dell’art. 1379, che, come si è detto giustamente non contiene alcuna previsione in materia, ma solo la fissazione dei requisiti di validità del negozio.


In secondo luogo non si vede quale sarebbe l’interesse superiore tutelato attraverso siffatta sostituzione.


Se si accoglie, infatti, l’idea che il meccanismo dell’art. 1419, capoverso, protegge un interesse specifico di una delle parti – considerato degno di prevalente protezione dalla norma imperativa – interesse che, altrimenti, (e cioè se si facesse cadere l’intero negozio applicando la regola dello stesso art. 1419, c. 1°) rischierebbe di soccombere, non si vede perché l’ordinamento debba proteggere più il contraente interessato alla salvezza del patto anziché quell’altro, posto che nel caso in esame, gli interessi dei contraenti si presentano normalmente sullo stesso piano.


Se poi fosse vera la tesi criticata, l’art. 1419 capoverso dovrebbe funzionare in combinazione con qualsiasi norma che impone dei limiti di validità del negozio, aprendo inaspettati e forse incontrollabili campi di applicazione.


Più degno di considerazione è il tentativo di applicare il principio di conservazione che consentirebbe di mantenere in vita il regolamento quando gli interessi in gioco conservano il loro punto di equilibrio, permettendo, tuttavia, alla parte dissenziente di dimostrare la mancanza di utilità del nuovo assetto, snaturato dalla riduzione giudiziale.


8. Ulteriori problemi di validità della clausola


Oltre ai requisiti di validità richiesti dall’art. 1379 c.c., per quanto concerne il merito e la durata, occorre considerare che il divieto di alienare pone «restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi», e pertanto, ove sia contenuto nella condizioni generali di contratto previste da un imprenditore, rientra fra le clausole vessatorie già ex art. 1341, c. 2°, e per di più oggi, in ragione di tale specifico contenuto, la clausola si «presume» vessatoria, ex art. 1469 bis, c. 3°, n. 18, perdendo efficacia essa sola ex art. 1469 quinquies, mentre il contratto rimane efficace per il resto, a meno che l’imprenditore non dimostri che, pur essendosi concluso il contratto mediante moduli o formulari, il divieto è stato oggetto di una specifica trattativa col consumatore, e salva, comunque, la possibilità di contrastare la suddetta presunzione dimostrando che non si tratta di clausola che determina, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.


La nullità del patto inserito come clausola porta con sé il problema della sopravvivenza del contratto.


Si applica, in proposito, l’art. 1419 c.c., sulla nullità parziale, che richiede di determinare se la rilevanza del patto nella complessiva volontà contrattuale, sia tale da rendere nullo l’intero contratto.


9. L’inadempimento del divieto


Le conseguenze dell’inadempimento, secondo l’opinione comune, darebbero luogo soltanto al risarcimento del danno per violazione di una obbligazione negativa, con il corollario che sarebbe illecita ogni clausola che prevedesse la nullità o la risoluzione dell’atto di trasferimento.


L’inderogabilità della norma, tuttavia, concerne soltanto l’inopponibilità ai terzi senza determinare in altro modo gli effetti, nel senso che si debbano produrre per forza, come conseguenza del divieto, soltanto obblighi di risarcimento e non si possa immaginare una sanzione sul piano della efficacia del l’atto.


Non si può escludere, pertanto, che là dove non sia necessario tutelare terzi aventi causa – ai quali sarebbe sicuramente inopponibile il divieto – il promissario possa far valere l’inadempimento per ottenere la risoluzione con effetto, appunto, inter partes.


Si pone il problema del risarcimento dei danni derivanti da inadempimento, dato che molte volte si stenta a coglierne la dimensione patrimoniale.


Si è osservato, peraltro, che si tratterà, tutt’al più, di quantificare il danno che va oltre la lesione di interessi patrimoniali, problema che è comune alle obbligazioni destinate a soddisfare, per definizione (art. 1174 c.c.) anche interessi di natura diversa. La soluzione, in tal caso, deve essere affidata ad una valutazione equitativa del giudice.
Si è prospettato, inoltre, che possa mancare ogni sanzione dell’inadempimento, ove l’interesse «di una delle parti» richiesto dall’art. 1379 fosse, in realtà, quello dello stesso obbligato. Occorre tenere distinto, tuttavia, l’interesse che deve sussistere per la creazione e per la permanenza di un valido divieto, dall’interesse del creditore della prestazione negativa, che può assumere una autonoma consistenza anche nei casi in cui concorre con l’interesse dell’obbligato.


Ci si è chiesto se possa prevedersi una clausola penale con la funzione di liquidare preventivamente il danno, ed ovviare, in tal modo, alle difficoltà accennate. Secondo la dottrina potrebbe trattarsi anche di una valutazione economica fatta dalle parti in merito ad una prestazione priva di intrinseco valore patrimoniale. Non si vede la ragione di escludere tale strumento, nei limiti generali in cui la clausola penale non appare eccessiva, avuto riguardo all’interesse del creditore all’adempimento (art. 1384 c.c.). Entro tali limiti cade la preoccupazione che si voglia abusare di un istituto di per sé lecito per introdurre una pena privata.


10. Soggezione di altre figure negoziali alla regola dell’art. 1379 c.c.


Si esclude, da taluno, che il patto di prelazione e di opzione rientrino automaticamente nella previsione del divieto di alienare «incondizionato», di cui all’art. 1379, in quanto, pur determinando restrizioni alla libertà di disporre, tali accordi non svolgerebbero sempre una funzione omogenea.


Si distinguerebbero, pertanto, secondo la teoria accennata, quei patti diretti ad imporre vincoli di destinazione dei beni – che sfuggirebbero alla sfera di disciplina della norma in questione e addirittura sarebbero opponibili ai terzi con una vera e propria efficacia reale – dai patti in cui la limitazione viene imposta all’obbligato per soddisfare un interesse specifico del promissario, ai quali resterebbe applicabile l’art. 1379.


Più che nel riferimento al vincolo di destinazione, ancora troppo generico per poterne dedurre una disciplina uniforme – basti pensare che in una fondazione riconosciuta i beni non inalienabili statutariamente restano pur sempre disponibili – sembra invece preferibile giustificare la durata della preferenza avendo riguardo alla connessione «causale» con lo scopo della prelazione, quale risulta oggettivamente dal rapporto giuridico; in tal caso si ammette che il vincolo possa durare, ad esempio, quanto il rapporto cui funzionalmente inerisce, perché la stessa regola fa ritenere «conveniente» tale limite di tempo.


Esiste una diffusa convinzione che la prelazione non vincoli il potere di disporre, ma ne regoli soltanto le modalità. In giurisprudenza si trova chiaramente affermata tale idea là dove si sottolinea che il patto non incide sulla facoltà di disporre, se non riguardo alla libera scelta della persona con cui contrarre, a condizione che il beneficiario se ne voglia avvantaggiare.


Se ne deduce la validità del patto di prelazione senza limiti di durata. Secondo i giudici non si applicherebbe, infatti, l’art. 1379 perché non si tratta di un obbligo di non alienare, ma di un obbligo di alienare, sia pure a certe condizioni.


Si devono, peraltro, condividere le critiche mosse contro siffatta concezione, che cerca di far passare la prelazione per un atto neutro e non oneroso, mentre essa si traduce in un peso grave per il promittente, sia perché arreca impaccio alla trattativa, allungandone i tempi e sacrificando il prezzo di vendita, sia perché crea disparità di trattamento rischiando di violare le regole di fondo del sistema.


Sembra corretto, pertanto, l’orientamento che suggerisce di applicare, quanto meno per analogia, la prescrizione di un limite di tempo conveniente, contenuta nell’art. 1379, disposizione che è prevista per le clausole di inalienabilità tout-court, ma che appare adattabile anche alle clausole di inalienabilità «condizionata» in cui si concreta il patto di prelazione.


Meno persuasiva appare invece l’opinione di chi ritiene applicabile, in generale, il termine quinquennale previsto per la prelazione nel contratto di somministrazione, termine che sembra più giusto riservare ai casi in cui la prelazione limita la concorrenza fra imprenditori, in applicazione del principio di cui all’art. 2596.


Non è mancato, tuttavia, chi ha sostenuto l’illiceità del patto di prelazione stipulato senza limite di tempo, visto come un attentato alla disponibilità del bene, essenziale al diritto di proprietà.


Questa stessa giustificazione, come è noto, ha condotto più volte la giurisprudenza ad applicare l’art. 1379 ai vincoli contrattuali di destinazione dei beni in tutti i casi in cui non sia ravvisabile una servitù, ma si dia luogo a una compressione della facoltà di disporre.


In un diverso ordine di problemi la questione dell’applicabilità dell’art. 1379 è stata posta con riferimento all’atto di destinazione dei beni, costitutivo di una fondazione, anche qui con soluzione favorevole, ed ai divieti di alienazione originati da atti unilaterali tra vivi.


È discussa, invece, l’applicabilità dell’art. 1379 al divieto testamentario di alienazione. Contro la tesi che, movendo dal nuovo testo dell’art.692 (dove non si riproduce la sanzione della nullità per tale disposizione già prevista prima della Riforma del diritto di famiglia), è favorevole ad ammettere il divieto testamentario nei limiti in cui esista (ex art. 1379) un motivo apprezzabile e un termine ragionevole, si osserva, da un’altra parte, che il Legislatore del 1975 ha operato una riduzione dell’autonomia testamentaria in materia di sostituzione fedecommissaria, sicché sarebbe del tutto incoerente, in siffatto contesto, ammettere un accresciuto potere dispositivo del testatore tale da consentire l’imposizione di un divieto di alienare.
 

 

(*) Queste pagine sono parte di capitolo di un volume collettaneo (AA.VV. Gli effetti del contratto,Torino 2002 ) compreso nel Trattato di diritto privato in corso di pubblicazione presso l’editore Giappichelli ,volume dove sono svolti gli argomenti che risultano dal circostanziato indice dell’opera.

 

 

 

INDICE
PARTE PRIMA
EFFETTI DEL CONTRATTO


CAPITOLO I
LA VINCOLATIVITÀ
(di Giuseppe Vettori)

1. Forza di legge e contratto giusto
2. I contratti dei consumatori
3. I contratti fra imprese
4. Il contratto usurario
5. Un nuovo ordine in formazione


CAPITOLO II
IL MUTUO CONSENSO ALLO SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO
(di Massimo Franzoni)

1. Premessa
2. Struttura e natura del mutuo dissenso: eliminazione giuridica dell’atto da sciogliere o cancellazione dei suoi effetti?
2.1. Le diverse tesi sul mutuo dissenso: il contrarius actus ed il contrarius consensus
2.2. La soluzione più rispettosa dell’art. 1372, c. 1º, c.c.
3. Mutuo dissenso: effetti ex tunc oppure ex nunc
4. Il mutuo dissenso di un contratto invalido, inefficace, risolubile, rescindibile o revocabile
5. L’opponibilità ai terzi dello scioglimento di un contratto invalido
5.1. Il mutuo dissenso di donazione confermata: art. 799 c.c.
6. Il mutuo dissenso di contratti ad effetti reali
7. Il regime di pubblicità del mutuo dissenso
8. La forma del mutuo dissenso
8.1. Il mutuo dissenso mediante distruzione materiale del contratto da sciogliere e la forma richiesta per fini diversi dalla validità
9. Le parti del mutuo dissenso
10. Il mutuo dissenso o la modifica dei contratti associativi
11. La capacità di contrattare nel mutuo dissenso
12. Le vicende del mutuo dissenso: il ripristino conseguente allo scioglimento dell’atto
13. L’opponibilità ai terzi del mutuo dissenso
14. Casistica sul mutuo dissenso: il contratto concluso dal falsus procurator, per persona da nominare, la cessione del contratto, il contratto a favore di terzo
15. Il mutuo dissenso nei contratti con rilevanza verso i terzi: la cessione del credito, la locazione
16. Il mutuo dissenso e la prelazione legale
17. Il mutuo dissenso e la simulazione
17.1. La simulazione assoluta
17.2. La simulazione relativa


CAPITOLO III
GLI EFFETTI DEL CONTRATTO NEI CONFRONTI DEI TERZI
(di Giuseppe Vettori)

1. Il c. 2° dell’art. 1372
2. Rilevanza ed opponibilità
3. La responsabilità del terzo per violazione del contratto


CAPITOLO IV
I CONTRATTI AD EFFETTI REALI
(di Giuseppe Vettori)

1. Premessa
2. La circolazione dei beni: le soluzioni adottate negli ordinamenti europei. La tensione verso soluzioni uniformi
3. L’acquisto di cose mobili e la Convenzione di Vienna
4. L’acquisto dei titoli di credito
5. Gli acquisti di cose immobili e la trascrizione: gli atti trascrivibili e la trascrizione del preliminare
6. Principio consensualistico e autonomia privata
7. Effetto traslativo e individuazione
8. Il ruolo del contratto nell’assetto dei beni: obbligazioni reali e vincoli di destinazione


CAPITOLO V
RILEVANZA ED OPPONIBILITÀ DEL CONTRATTO NEL FALLIMENTO
(di Massimo Franzoni)

1. Premessa
2. Il fallimento come terzo avente causa
3. L’inopponibilità dei contratti che presuppongono l’esercizio di un’impresa
4. L’inopponibilità dei contratti personali e fiduciari
5. L’inopponibilità dei contratti la cui esecuzione è incompatibile con una procedura concorsuale
6. L’inopponibilità dei contratti privi di interesse per la massa dei creditori
7. L’inopponibilità e la rilevanza dell’appalto
8. Opponibilità e rilevanza della locazione
9. L’opponibilità dell’assicurazione contro i danni
10. Opponibilità ed inopponibilità di altri contratti
10.1. L’inopponibilità dell’arbitrato o della clausola arbitrale al fallimento
11. Efficacia ed opponibilità, quando la scelta di subentrare è effettuata a posteriori: i contratti a prestazioni corrispettive, ineseguiti
12. Il fallimento del compratore
13. Il fallimento del venditore
14. Opponibilità e rilevanza del contratto preliminare
15. L’opponibilità della vendita a rate con patto di riservato dominio e con patto di riscatto
16. L’opponibilità nella vendita di cosa mobile
17. Opponibilità e rilevanza del contratto di somministrazione
18. Gli artt. 72 e 74 l. fall. sono espressioni del principio generale di opponibilità nei rapporti giuridici pendenti
19. L’art. 45 l. fall.: l’opponibilità mediante la trascrizione
20. L’art. 45 l. fall. e gli atti non soggetti a trascrizione: quale regola per l’opponibilità nel trasferimento dei titoli di credito e delle quote di società?
21. L’art. 45 l. fall. e l’art. 1519 c.c
22. Il fallimento e la data certa delle cambiali: l’opponibilità negli atti unilaterali
23. L’inopponibilità del contratto simulato al fallimento



PARTE SECONDA
CONDIZIONE, TERMINE E MODO
(di Maria Costanza)


CAPITOLO VI
CONDIZIONE, TERMINE E MODO

1. Premessa
2. L’evento deducibile in condizione
3. L’evento deducibile in condizione e la deducibilità dell’adempimento
4. Condizione sospensiva e risolutiva
5. La condizione unilaterale
6. La condizione illecita
7. Vitiatur et vitiat e nullità parziale
8. L’invalidità della condizione apposta ad una singola clausola
9. La norma dell’art. 1355 c.c.
10. Condizione meramente potestativa e condizione potestativa
11. La condizione potestativa risolutiva
12. La pendenza della condizione
13. Gli atti conservativi
14. Condizione risolutiva e atti conservativi (rinvio)
15. Atti di disposizione
16. Il comportamento delle parti in pendenza della condizione
17. La finzione di avveramento
18. La causa imputabile
19. Ambito di applicazione della norma e la finzione di non avveramento
20. La retroattività
21. Il limite della retroattività
22. Limiti di opponibilità della condizione
23. Condizione legale
24. Termine
25. Modo

 


PARTE TERZA
RECESSO DAL CONTRATTO
(di Federico Roselli)


CAPITOLO VII
IL RECESSO DAL CONTRATTO

1. Nozione
2. Il recesso quale atto impeditivo dell’adempimento
3. Recesso successivo all’adempimento
4. Figure contigue e variazioni terminologiche
5. Irrevocabilità del recesso
6. Recesso e forza legale del contratto
7. L’inizio dell’esecuzione del contratto
8. Efficacia temporale del recesso
9. Le funzioni del recesso
10. I presupposti del recesso
11. Il recesso come negozio giuridico



PARTE QUARTA
CONTRATTO E TERZI
(di Aldo Checchini)


CAPITOLO VIII
IL DIVIETO CONTRATTUALE DI ALIENARE (ART. 1379 C.C.)

1. Spunti etimologici
2. I divieti negoziali nella pratica
3. I divieti legali di alienare
4. Cenni storici
5. La questione dogmatica
6. Le direttive fondamentali contenute nell’art. 1379 c.c.
7. Norma di principio o norma residuale?
8. La pretesa «efficacia reale» di alcuni divieti negoziali di alineare: a) Il divieto di cessione dell’usufrutto.
9. (Segue) b) Il divieto di cessione del credito
10. (Segue) c) Il divieto di cedere la quota di s.r.l.
11. (Segue) d) I divieti condominiali
12. Il requisito dell’interesse apprezzabile nelle «opzioni» previste dalla legge
13. Conclusione: l’art. 1379 c.c. richiama principi inderogabili
14. Il significato dell’interesse apprezzabile
15. I convenienti limiti di tempo
16. Ulteriori problemi di validità della clausola
17. L’inadempimento del divieto
18. Soggezione di altre figure negoziali alla regola dell’art. 1379 c.c.


CAPITOLO IX
IL CONFLITTO FRA PIÙ DIRITTI PERSONALI DI GODIMENTO (ART. 1380 C.C.)

1. Cenni introduttivi
2. L’interpretazione riduttiva
3. L’interpretazione giurisprudenziale «eversiva»
4. Il problema della natura dei diritti personali di godimento e la revisione critica delle categorie dogmatiche; cenni
5. I diritti personali di godimento come categoria autonoma: a) L’attribuzione del godimento e la conseguente soggezione del dante causa
6. (Segue) b) Le vicende del diritto personale di godimento e la necessità di una legittimazione a disporre; critica
7. La distinzione in base al criterio della opponibilità: la pretesa natura reale di alcuni diritti personali di godimento
8. La critica alla tesi realistica e la riaffermazione della natura relativa dei diritti personali di godimento
9. La distinzione che fa capo alla disciplina del possesso e dell'acquisto a titolo originario
10. L’ambito di applicazione dell’art. 1380 c.c.
11. Il conflitto e l’acquisto del godimento
12. La soluzione del conflitto secondo la dottrina e le questioni dogmatiche irrisolte: il c. 1° dell’art. 1380. c.c.
13. (Segue) Il c. 2° e 3° dell’art. 1380 c.c.
14. L’art. 1380 c.c. e le azioni spettanti al concessionario


CAPITOLO X
LA PROMESSA DEL FATTO DEL TERZO (ART. 1381 C.C.)

1. Il codice attuale e le vicende precedenti
2. Le questioni principali da chiarire
3. Fattispecie non regolate dall’art. 1381 c.c.: promessa di fare, promessa in nome altrui, promessa di un indennizzo
4. Le giustificazioni dogmatiche: norma interpretativa; conversione legale
5. Teorie tradizionali
6. L’indennizzo garantisce l’oblato per ciò che rischia nell’interesse del promittente
7. L’obbligazione di adoprarsi, intesa come «cura sine effectu», quale conseguenza eventuale della promessa
8. Il significato della promessa è quello di un impegno negoziale di protezione dell’oblato
9. La promessa del fatto altrui garantisce che l’utilità della prestazione fornita al promissario non sarà inferiore al sacrificio dal lui affrontato
10. Il significato dell’affidamento
11. Il fatto promesso
12. La ricostruzione dell’istituto, le lacune dell’art. 1381 c.c. e la tesi della Cassazione
13. Questioni in tema di indennizzo
14. Cenni sulla struttura del negozio



PARTE QUINTA
CLAUSOLA PENALE E CAPARRA
(di Federico Roselli)


CAPITOLO XI
CLAUSOLA PENALE E CAPARRA

1. La clausola penale. Nozione
2. Funzione risarcitoria e funzione sanzionatoria della clausola penale
3. Aspetti pratici della disputa circa la funzione, risarcitoria o sanzionatoria, della clausola penale
4. Accessorietà della clausola penale all’obbligazione
5. Imputabilità dell’inadempimento sanzionato con la clausola penale
6. L’oggetto della clausola penale
7. Penale per il ritardo nell’inadempimento (pena moratoria)
8. Divieto di cumulo della prestazione principale con la penale
9. Riduzione della penale
10. Se la riduzione possa essere disposta dal giudice d’ufficio
11. Riducibilità della clausola nei contratti stipulati con la pubblica amministrazione
12. Se la clausola penale possa essere compresa tra le clausole vessatorie
13. La caparra confirmatoria. Nozione
14. Funzione della caparra confirmatoria
15. Accessorietà e realità del patto di caparra confirmatoria
16. Effetti della consegna della caparra
17. La caparra e la multa penitenziale



PARTE SESTA
SIMULAZIONE
(di Aurelio Gentili)


CAPITOLO XII
SIMULAZIONE E TEORIA GIURIDICA

1. Il compito della teoria giuridica in materia di simulazione
2. L’oggetto della teoria e la definizione della fattispecie
3. Metodo descrittivo e metodo prescrittivo nella ricostruzione della disciplina
4. Teoria e dottrine della simulazione: teoria della nullità e teoria dell’inefficacia dell’atto simulato


CAPITOLO XIII
LA SIMULAZIONE NELLA STORIA DEL PENSIERO GIURIDICO: LA TEORIA DELLA NULLITÀ E LA TEORIA DELL’INNEFICACIA

1. La simulazione nelle codificazioni ottocentesche
2. Dalla pandettistica al B.G.B.: la teoria della simulazione in Germania
3. La teoria volontaristica di F. Ferrara
4. La teoria dichiarativistica di G. Messina
5. La teoria precettivistica di E. Betti
6. La teoria causale di S. Pugliatti
7. L’eclettismo della metà del secolo
8. La teoria dell’inefficacia per inesecuzione preordinata nel pensiero di S. Romano
9. La simulazione tra «fattispecie» ed «autoregolamento» nel pensiero di A. Auricchio
10. La simulazione nella dottrina francese


CAPITOLO XIV
LA NOZIONE GIURIDICA DELLA SIMULAZIONE DEL CONTRATTO

1. Premesse metodologiche
2. Volontà, dichiarazione, causa nel contrasto fra contratto simulato e accordo simulatorio
3. Nozione dell’accordo simulatorio e delle controdichiarazioni in senso sostanziale e loro natura negoziale
4. Simulazione totale e parziale
5. Simulazione soggettiva e oggettiva: l’interposizione
6. Simulazione assoluta e relativa: il contratto dissimulato
7. Causa simulandi, illiceità, frode, falso
8. Simulazione e riserva mentale
9. Simulazione e fiducia: inconsistenza della distinzione tradizionale


CAPITOLO XV
SIMULAZIONE, INVALIDITÀ, INEFFICACIA

1. Incoerenza e inutilità della tesi della nullità
2. Nel contratto simulato non manca la «volontà» nel senso rilevante per la validità
3. Nel contratto simulato non manca la causa, né rileva per la validità un intento contrastante
4. Soggetti e oggetto: la natura strutturale del «vizio» di simulazione
5. Diversità di disciplina tra simulazione e nullità
6. Duplice significato e inconsistenza della tesi della inefficacia
7. Simulazione e inesistenza
8. L’«inefficacia» del contratto simulato
 

CAPITOLO XVI
LE REGOLE DI SOLUZIONE DEI CONFLITTI

1. Regole di prevalenza e conflitti fra le parti
2. Il conflitto con il subacquirente di buona fede
3. I conflitti con i creditori e gli altri terzi
4. La disciplina delle situazioni «fiduciarie»
5. Sintesi della regola di prevalenza


CAPITOLO XVII
LA SIMULAZIONE NELLE IPOTESI DIVERSE DAL CONTRATTO DI SCAMBIO

1. La simulazione oltre i confini del contratto a prestazioni corrispettive
2. La simulazione nella materia delle società
3. Sull’ammissibilità logica di una simulazione del contratto di società e l’inammissibilità della simulazione dell’ente
4. La simulazione nel sistema delle impugnative della società fissato nel codice
5. La simulazione del matrimonio nell’opinione tradizionale e la riforma del diritto familiare
6. La disciplina della simulazione del matrimonio
7. Simulazione ed atti unilaterali


CAPITOLO XVIII
IL GIUDIZIO DI SIMULAZIONE

1. Premesse
2. L’azione di simulazione: natura, interesse, legittimazione, irrilevabilità d’ufficio, litisconsorzio
3. La sanatoria
4. La prescrizione
5. La prova