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"PRINCIPIA", "REGULAE", "PRINCIPII" (*)

 

 

MAURIZIO LUPOI



 



1. “Dura lex, sed lex”: questa espressione viene spiegata nel linguaggio come se essa dicesse “la legge va obbedita anche quando appaia troppo severa”. Si tratterebbe allora di un’espressione tautologica, perché l’obbedienza è certo connaturata alla nozione stessa di legge: la legge dura non sarebbe quindi meno lex delle leggi alle quali accedono altri aggettivi e tutte andrebbero allora obbedite in eguale misura.
La riflessione sulla ineliminabile polisemia di lex, una polisemia culturale prima ancora che semantica , indica una iniziale ragione di dubbio circa la tautologia sopra rappresentata. Una lex può certo essere considerata dura in astratto, ma l’espressione che stiamo esaminando riguarda la lex applicata a una particolare serie di circostanze. Il suo oggetto è la lex come regula.


2. La distanza fra la lex e la regula costituisce uno fra i parametri critici di qualunque ordinamento giuridico, cioè dei dati strutturali che collocano un ordinamento nel contesto comparativo. Quando il giurista consideri solo gli ordinamenti della civiltà occidentale esso è anche uno fra i principali parametri critici.


Maggiore tale distanza, maggiore (come si sa) il numero delle regalae ricavabili dalla lex in via di interpretazione, maggiori le contestazioni alle quali il procedimento interpretativo si presta. Peraltro, nessun ordinamento della civiltà occidentale presenta alcuna regolarità per quanto riguarda la distanza fra la lex e la regula, cosicché l’esigenza della comparazione giuridica sistemologica è soddisfatta per mezzo di misure mediane o, più precisamente, di istintive medie ponderate fra le distanze concretamente riscontrabili .


Queste istintive medie ponderate riguardano l’ordinamento nel suo complesso; è invece la misura della distanza nel campo oggetto di concreto interesse, dello studioso come del pratico, che individua la probabile frequenza dell’insorgere del fenomeno della dura lex. Invero, tanto maggiore è tale distanza tanto più è probabile che la proiezione della lex nella regula si presti a rendere quest’ultima dura. Chi (legislatore o giudice o sapiente) pone una lex caratterizzata da siffatta distanza è per definizione incapace di vederne tutte le regulae; la dura lex è allora null’altro che un’applicazione (“regula”) che il positore della lex non aveva considerato e che viene percepita come non giustificata all’interno della lex. Il procedimento interpretativo che conduce la lex a farsi regula viene allora contestato.




3. Una seconda ragione di dubbio circa la tautologia sopra rappresentata riguarda l’immediatezza dell’applicazione della regula quando si sia invece in presenza di distanza minima fra essa e la lex. Qui non viene più in considerazione il procedimento interpretativo, ma l’emergere di dati fattuali aggiuntivi rispetto a quelli che costituiscono la fattispecie descritta nella regula e da essa disciplinata. In effetti, tanto più vicine sono lex e regula, tanto più probabile è che l’affilata enunciazione della prima non consenta di attribuire rilevanza a circostanze che, in un contesto di maggiore distanza, indurrebbero l’interprete a scegliere con più vasta consapevolezza una fra le possibili regulae a scapito delle altre.


L’immedesimazione fra lex e regula è tipica di ordinamenti scarsamente concettualizzati ; qui la durezza della regula, vista con gli occhi del giurista immerso in orientamenti altamente concettualizzati, è percepita quale eccessiva semplificazione della fattispecie. Si pensi, per proporre un solo esempio tratto da numerose fonti letterarie dell’antichità classica, alla sacralità dell’impiego assunto o, in contesti radicalmente diversi, al formalismo procedurale e negoziale. Dura lex è qui la regula sorda e cieca.


In queste circostanze sordità e cecità discendono da due distinte ragioni: da un lato, il poco spazio lasciato all’attività interpretativa, sicché una e solo una regula sembra scaturire necessariamente dalla lex; dall’altro, la non riconducibilità agevole della lex a superiori principii, a causa della sua formulazione casistica (che, proprio per questo, la pone a minima distanza dalla regula), onde la dinamica applicativa, come spero vedremo in altra occasione, tende a lasciare l’ermeneutica e a muoversi sul diverso terreno del frangimento della regula.




4. Prima di proseguire queste riflessioni mi sembra opportuno esternare un convincimento che ho progressivamente maturato e che mi appare ora di tutta evidenza: la necessaria incoerenza degli ordinamenti giuridici.


Sia quando la lex distante si fa regula sia quando essa quasi combacia con la seconda, la contestazione della dura lex può avvenire solo qualora il contestatore postuli: in un caso, un percorso interpretativo che abbia disconosciuto o accantonato vie egualmente percorribili; nell’altro, la sordità rispetto a esigenze delle quali afferma la giuridicità.


In entrambi i casi, dura è la regula nella sua applicazione, non la lex presa per sé. In entrambi i casi, la specificità delle due tipologie che ho lumeggiato si stempera nella comune radice: la richiesta che emergano, rispettivamente nel processo dell’interpretazione o nell’altrimenti cieca applicazione, esigenze che sono state, rispettivamente postergate o dichiarate irrilevanti. La contestazione della regula trae forza dall’enunciazione di principii che si oppongono non alla lex (tranne che nelle teorie, ormai abbandonate, dalla scuola germanica del diritto libero), ma alla regula. Questi principii appartengono, o si postula che appartengano, all’ordinamento non meno di quanto vi appartiene la regula contestata: il dialogo fra l’Antigone di Eschilo e l’araldo mostra propriamente la regula che giaccia insepolto Polinice, il quale si è levato in armi contro la patria, il principio che vi si oppone, sorreggendo la causa di giustificazione dell’avere egli reagito ai torti subìti, ma anche l’ulteriore principio limitativo, invocato dai capi tebani, della proporzionalità della reazione, che avrebbe dovuto essere volta contro il solo offensore e non l’intera città: qui Antigone non ha più risposta, perché non riesce a dare espressione giuridica alle obbligazioni che sente verso il fratello ucciso; può solo offrire la propria vita per la sepoltura che comunque gli darà .


L’incoerenza dell’ordinamento è la sua linfa. Un ordinamento coerente è per definizione incapace di sviluppo: l’enunciazione della regula, in un ordinamento coerente, è solo una epifania: nulla si crea che già non esista, sebbene non ancora manifestatosi. Se uno dei possibili perni della visione comparatistica di un ordinamento è la distanza della regula rispetto alla lex (quest’ultima come intesa in ciascun ordinamento), l’incoerenza può porsi a due livelli: quello, appena lumeggiato, del principio contro la regula e quella della regula contro la regula.




5. L’esistenza di due regulae il conflitto è teoricamente assai difficile si verifichi negli ordinamenti caratterizzati da piccola distanza fra lex e regula; è invece frequente negli ordinamenti all’interno dei quali la lex si fa regula mediante un procedimento di interpretazione.


Donde il diverso ruolo dell’interpretazione della lex e, prima ancora, i diversi connotati del ragionamento giuridico. Tipica è l’occorrenza degli ordinamenti cosiddetti civilistici, che vede una fattispecie soggetta a più leges, cosicché la regula dovrà tenere conto di siffatta pluralità e sarà dunque agevolmente contestabile. Tipica, ma di segno inverso, l’occorrenza degli ordinamenti cosiddetti di common law, che vede la necessità di estendere il campo di applicazione di una regula cercandone la giustificazione al suo interno e qui trovando o meno la ratio dell’estensione.


Il conflitto, in un caso e nell’altro, richiede dunque sempre un allontanamento dalla fattispecie, alla quale si torna, enunciando la regula, dopo che esso abbia prodotto il necessario frutto.


L’incoerenza dell’ordinamento, nei casi dei quali stiamo parlando, si manifesta quindi non nel conflitto fra leges o fra regulae, entrambi fenomeni rari e comunque patologici e non necessari, ma nel conflitto fra il principio e la regula e in quello fra i principii che vengono in considerazione nel corso dell’allontanamento dalla fattispecie.


6. Prima di accostarci al tema dei principii generali dobbiamo dire dei principia.


I principia sono i modelli risolutori dei principali temi della vita sociale; essi sono necessariamente inespressi e regolarmente soggetti a mutamento nella storia: questa seconda caratteristica rende essenziale la prima a causa della rigidità che qualunque espressione precettiva oppone al proprio mutamento. I principia sono il fondamento delle regulae e, al tempo stesso, il tessuto connettivo fra di esse.


I principia sono desunti dalle regulae e non viceversa. Il modificarsi nel tempo dei primi lascia le seconde senza alcun fondamento che non sia quello discendente dal mero fatto della loro esistenza. Questo è fenomeno ben avvertito negli ordinamenti caratterizzati dalla modesta distanza fra lex e regula : alla seconda si nega qualsiasi capacità espansiva a causa della sopravvenuta mancanza dei principia che l’avevano originariamente sostenuta. Si spiega così il sopravvivere di regulae di apparenza arcaica, delle quali si offrono spesso spiegazioni sovrastrutturali e dunque parziali.


La visione moderna della prevalenza della maggioranza sulla minoranza è uno fra tali principia. Regulae arcaiche sono quindi quelle che si muovono sul diverso piano della necessaria unanimità, sia pure solo apparente e rivolta all’esterno. La dinamica maggioranza/minoranza trova espressione solo qualora agevolata e protetta. La civiltà occidentale è stata per lungo tempo costruita su valori opposti: l’intero alto medioevo europeo, la stagione culturale dominata più di ogni altra da fenomeni di natura assembleare, ignora la nozione stessa di maggioranza e, coerentemente, del dissenso manifestato e protetto. Dalle grandi e periodiche adunate politico-militari carolinge ai concilia che si tengono ovunque e in ogni circostanza, al witan anglosassone, alle assemblee di villaggio o di comunità agricola, alle prime elezioni regie e poi imperiali, alle sedute giudiziarie locali o centrali: certo non mancano le discussioni e perfino le dispute violente, ma l’esito che si propone verso l’esterno è regolarmente quello della deliberazione unanime. L’unica forma manifestata di dissenso è quella che conduce alla scissione e all’allontanamento: i collegi, come ancora da noi gli organi giudicanti, deliberano sempre con apparente unanimità, la minoranza o tace e si sottomette o abbandona il collegio e la sottostante istituzione politica o religiosa .




7. L’individuazione dei principia costituisce oggetto della comparazione giuridica; essendo essi, come ho accennato, necessariamente inespressi, solo l’ampliamento dell’angolo visuale ne consente la percezione e, comunque, più solidamente fonda le conclusioni che si raggiungerebbero rimanendo all’interno di un singolo ordinamento. “Comparazione giuridica” richiama, nel presente contesto, sia la dimensione diacronica che quella sincronica che le due congiunte: onde quel che accomuna questi possibili modi della comparazione è la pluralità delle esperienze considerate dallo studioso in un singolo respiro.


Sia per la mancanza di una loro formale espressione sia per il loro giustapporsi nel corso della storia principia configgenti sono frequentemente riscontrabili; anzi, può forse dirsi che in qualunque ordinamento alberghino principia appartenenti ad epoche diverse. L’incoerenza dell’ordinamento si configura allora in modi difformi da quelli sopra indicati: l’adesione a principia nuovi introduce un ineliminabile conflitto, talvolta sotterraneo talvolta emergente, fra essi e gli antichi. D’altronde, l’adesione a principia nuovi e, per avventura, contrastanti con gli antichi, avviene usualmente senza coscienza e senza alcuna percezione delle modificazioni che essi alla lunga introdurranno a carico di regulae che, per il loro oggetto, sembrerebbero avere poco da spartire con essi. I principia sono modelli, non precetti né programmi, onde la loro capacità nomogenetica è illimitata.


Il dato da non dimenticare è invero quello della non verbalizzazione dei principia: quando formalmente promulgate, oggetto di discussione possono essere e comunemente sono le nuove regulae; non i principia che ne costituiscono il tessuto connettivo e che nel tempo, cioè quando vi sarà un sufficiente numero di regulae in essi inquadrabile, diverranno capaci di automaticamente produrre regulae ad essi conformi.


Si tratta talvolta del ritorno a principia antichissimi, rimossi e tuttavia mai espunti: i principia, a differenza delle regulae, non conoscono la morte.


Si rifletta, limitandomi ad un accenno che fornisca una ulteriore esemplificazione al discorso, alla dimensione della legittimazione popolare o assembleare, che nel diritto comune europeo dell’alto medioevo investiva la legislazione quanto la giurisdizione e l’amministrazione. Essa certamente non appartiene alla nostra attuale tradizione giuridica di democrazia rappresentativa; tuttavia, negli ultimi venticinque anni l’Italia ha visto l’affermarsi di regulae che, enunciate nei campi più diversi, e per le più diverse contingenti ragioni, hanno risolto il tema dell’autorità secondo il medesimo modello: dall’inserimento di genitori e studenti negli organi di gestione delle scuole secondarie e similmente per le cosiddette componenti universitarie, dalla partecipazione di singoli e gruppi ai procedimenti amministrativi, all’istituzione dei giudici di pace non togati, dal riconoscimento di sindacati e corporazioni di ogni genere a quello di associazioni che hanno assunto la tutela di interessi una volta scrupolosamente ritenuti prerogativa statuale, all’affermarsi della nozione dell’utente del servizio pubblico. Queste regulae hanno prodotto (o, che è lo stesso, fatto rivivere) principia: da queste regulae slegate e non coordinate si è infatti giunti all’affermazione di un legame diretto e continuo fra eletti ed elettori, privilegiando questi ultimi e i modi non istituzionali di manifestazione della loro volontà.


In quanto si tratti di regulae originate in ordinamenti stranieri, da noi importate o su di noi imposte, i correlativi principia con esse si accompagnano oppure sono per avventura così ripugnanti da non riuscire a trovare ingresso presso di noi.


Nel primo caso, si assiste alla modificazione del tessuto connettivo dell’ordinamento (null’altro che una ulteriore manifestazione della sua necessaria incoerenza) e si pongono le basi per future ulteriori regulae culturalmente omogenee a quelle provenienti dall’estero. Nel secondo caso, invece, le nuove regulae appassiscono, si spengono e tuttavia rimangono vigenti fino a quando durino le ragioni dell’importazione o dell’imposizione e non sia superata l’inerzia che, assieme all’incoerenza, misura la capacità di un ordinamento giuridico di rinnovarsi. Queste regulae prontamente appassite, non intese e non condivise, prive dell’humus che solo idonei principia possono fornire loro, ingannano l’osservatore che non sia in grado di valutarne la reale dimensione operativa e che, rilevando che esse appaiono eguali a quelle vigenti negli ordinamenti stranieri dalle quali sono state tratte, scioccamente assume che eguale ne sia anche l’applicazione. Quel che più importa, regulae di tale fatta tradiscono le ragioni della loro importazione o imposizione, non ne raggiungono le finalità e segnano la responsabilità del comparatista che non si è opposto al loro ingresso.




8. È questa la tematica secondo la quale le regulae aliene che non trovano o non concorrono a fare vivere (o rivivere) principia ad esse consoni producono un grande sconquasso iniziale e poi muoiono; mentre in genere le regulae fondano i principia e i secondi operano poi sulle prime, fortificando quelle ad essi conformi e relegando in un ruolo secondario e privo di capacità espansiva – o, se il sistema delle fonti lo consente, del tutto abrogando – quelle da essi difformi, ma non anche i principia che le avevano giustificate e che potranno, in tempi diversi, riapparire e riassumere il naturale compito egemone nello sviluppo dell’ordinamento.


Si completa così il discorso intrapreso all’inizio di queste note: principia nuovi e vecchi coesistono e, sia per la loro mancata formalizzazione e verbalizzazione sia per l’incapacità che hanno i principia di morire, coesistono per sempre. L’incoerenza dell’ordinamento e le cause del suo sviluppo sono teoricamente fondate su queste conclusioni.




9. I “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (art. 12 delle preleggi), sono tutt’altra cosa, una povera realtà provinciale normativistica , la quale mira a reprimere la vitale incoerenza del sistema.


Grande è la confusione quando essi sono apparentati ai “principii supremi”, o dotati della cosiddetta “copertura costituzionale” o espressamente enunciati nella Carta Costituzionale, così come quando, sottolineandone l’eccesso deontologico rispetto a quello precettivo, si è condotti a negarne la natura normativa. Vi è tutto un sommovimento in atto, che vuole porre o rimuovere pretesi limiti dell’attività giurisdizionale, come se nella storia la funzione della giurisprudenza, a qualunque livello, fosse mai stata realmente indirizzata da enunciati normativi. La funzione e i modi della sua attuazione, dico, non le concrete pronunce; queste ultime sono il campo nel quale opera l’art. 12 delle preleggi, mentre sulla funzione certo non si può pensare di intervenire facendo leva su enunciati, espressi o inespressi, di programma o precettivi, desunti da particolari disposizioni di legge o dalla ricostruzione dottrinale delle finalità del legislatore, addirittura dalla rilettura evolutiva o aggiornatrice delle norme.


Non dobbiamo dimenticare, nonostante l’appropriazione che i costituzionalisti hanno consumato dell’art. 12 delle preleggi, che si tratta soltanto di una norma residuale sull’interpretazione della legge; non di un criterio generale sulla pronuncia del diritto. Essa rappresenta l’alternativa al reféré, al quale prima il legislatore rivoluzionario del 1790 e poi, seppure solo in casi limitati, la legge napoleonica del 1807 pensavano di avere affidato il definitivo trionfo del fattore legislativo nella produzione del diritto: un trionfo senza residui, perché comprendente l’attività di interpretazione: «l’interprétation de la loi n’appartient ni à la Cour de Cassation ni aux autres Tribunaux. Ce droit ne peut appartenir qu’à l’autorité qui a l’initiative de la loi» .


L’alternativa scelta dal nostro legislatore potrebbe essere vista come il segno della vitalità di un ordinamento giuridico cosiddetto codificato; lo sarebbe se l’individuazione dei “principii generali”, e prima ancora delle regole da seguire per procedere a tale individuazione, non avesse scatenato tempeste già nel vigore del codice del 1865 e queste ultime non fossero divenute ancora più tormentose dopo la promulgazione della Costituzione. Ben disgraziata mi sembra la legge che voglia assicurare la tranquilla chiusura del sistema e ottenga solo di eccitare gli animi a nuove controversie.


In un sistema asseritamente codificato non c’è posto per principii generali non codificati; non sembri un assurdo che essi si trovino più agevolmente in common law, come per esempio nella Costituzione degli Stati Uniti d’America o nelle ripetute enunciazioni rivoluzionarie francesi, quando la codificazione era di là da venire.




10. Questo non è l’elogio delle regulae. Al contrario, è l’elogio dei principia, della loro dinamica conflittuale e dell’essenzialità dell’indagine sui modelli che essi propongono.


Il giurista che guardi solo alle regulae non vede nulla, neanche le stesse regulae. Le regulae senza i principia sono modesti precetti pratici, talora insufficienti per i giudizi di una corte campestre. I principia senza le regulae sono travestimenti della realtà giuridica, contrabbando di aspirazioni o di personale enunciazione del dover essere: perdono la veste di modelli risolutori, assumono una dimensione precettiva e diventano principi generali.




(* ) Già comparse altrove, e da ultimo in Diritto giurisprudenziale,Torino 2002 un volume antologico dell'editore Giappichelli (omesse le note di riferimento bibliografico) queste pagine si pubblicano per cortese consenso di autore ed editore che vivamente si ringraziano.