Disciplina del contratto e regime del recesso.
Le possibili fattispecie e le figure contigue.
Federico Roselli
Sommario: 1) Nozione - 2) Il recesso quale atto impeditivo dell’adempimento - 3) Recesso successivo all’adempimento - 4) Figure contigue e variazioni terminologiche.
Il recesso può essere definito come la manifestazione di volontà con cui una delle parti produce lo scioglimento totale o parziale del rapporto giuridico di origine contrattuale.
Se possa parlarsi di recesso anche nel caso in cui uno dei contraenti, sulla
base di una disposizione di legge o di una clausola contrattuale, dichiari di
voler porre nel nulla gli effetti del negozio, eventualmente anche reali, già
compiutamente attuati, è questione di cui si dirà poco oltre.
L’efficacia principale del recesso è perciò estintiva, ancorché talvolta possano
conseguire effetti modificativi o integrativi di quelli già prodotti dal
contratto, o anche ripristinatori
[1].
Dettando disposizioni generali sugli effetti del contratto, il codice civile
nell’art. 1373 prevede l’eventualità che i contraenti si attribuiscano, o si
vedano attribuire dalla legge, la facoltà di recedere, ossia di decidere
singolarmente circa la sopravvivenza del rapporto che essi hanno voluto, e
formula due ipotesi: a) che il contratto (ad esecuzione istantanea) non abbia
ancora avuto esecuzione ed in tal caso la facoltà di recesso può essere
esercitata «finché il contratto non abbia avuto un principio d’esecuzione» (c.
1°); b) che l’esecuzione del contratto, ma soltanto se continuata o periodica,
sia iniziata, ed in tal caso «il recesso non ha effetto per le prestazioni già
eseguite o in corso d’esecuzione» (c. 2°).
L’istituto generale del recesso fu introdotto nell’ordinamento civilistico
italiano col codice del 1942. Sotto la codificazione precedente la «condizione
risolutiva», destinata ad operare in caso di inadempimento di una delle parti
contrattuali (art. 1165 c.c. 1865), operava soltanto attraverso una pronuncia
giudiziale e corrispondeva perciò all’attuale risoluzione per inadempimento.
All’istituto attualmente regolato dall’art. 1373 possono essere assimilate la
risoluzione della locazione d’opera d’appalto secondo l’«arbitrio» del
committente (art. 1641 c.c. 1865), corrispondente al recesso ad nutum (infra, §
10, lett. A) oppure la «rivocazione» del mandato o la rinunzia del mandatario,
previste negli artt. 1757-1761 o, ancora, la restituzione anticipata della somma
nel mutuo ultraquinquennale
[2].
Per il mandato commerciale era controverso se la revoca, prevista nell’art. 366
del codice di commercio, fosse possibile soltanto nel contratto a tempo
indeterminato
[3].
L’intento unificante del legislatore del 1942 non ha eliminato né la diversità
delle discipline specifiche, contenute nel codice e nelle leggi speciali, né la
varietà del lessico, tanto da indurre qualcuno a dubitare della stessa utilità
di configurare il recesso come istituto unitario
[4].
2- Il recesso quale atto impeditivo dell’adempimento ^
Sulla base delle ipotesi formulate nei primi due commi dell’art. 1373 c.c. si nota come il recesso possa esercitarsi, nei contratti non di durata, quando l’obbligazione sia sorta ma l’attività esecutiva non sia iniziata oppure sia stata differita, ad esempio nel caso in cui siano pendenti la condizione sospensiva o il termine [5] e, nei contratti di durata, quando l’esecuzione sia in corso.
Secondo una non recente formulazione dottrinale il recesso si risolve così in un
atto impeditivo dell’altrui adempimento (nei contratti non di durata) o
dell’ulteriore adempimento (nei contratti di durata) [6]. Dopo l’adempimento, e più in generale dopo la realizzazione degli effetti del
contratto, potrà aversi – sempre alla stregua delle due dette ipotesi – soltanto
l’avveramento di una condizione risolutiva oppure la conclusione di un negozio
parimenti risolutivo, con eventuale restituzione delle prestazioni già
effettuate, ma non potrà aversi recesso, ossia scioglimento unilaterale di un
rapporto ormai finito
[7].
In tal senso sono chiare le parole del c. 1° dell’art. 1373, dettate per i
contratti ad esecuzione non duratura
[8],
ossia destinata ad esaurirsi in un solo atto d’adempimento (ad esempio il
pagamento d’una somma) oppure in un’attività protratta ma in cui la durata è
giuridicamente indifferente (come quando la prestazione consista nell’esecuzione
di un’opera; in tal caso qualcuno parla di contratti ad esecuzione prolungata
[9];
a quest’ultima categoria di contratti, detti genericamente e non sempre
propriamente «ad esecuzione istantanea»
[10], si riferisce l’art. 1373 quando parla di «principio d’esecuzione». Per essi è
sufficiente l’inizio dell’attività d’adempimento perché il recesso sia ormai
precluso.
Che il recesso debba precedere, e non seguire, l’attuazione del contratto
risulta anche dal c. 2° dell’art. 1373, secondo cui nei contratti ad esecuzione
continuata o periodica, ossia di durata, la relativa facoltà può essere
esercitata anche dopo l’inizio dell’esecuzione, ma con effetto limitato alle
prestazioni da eseguire.
Si è, in definitiva, osservato che, alla stregua della nozione codicistica dell’art.
1373, quando la legge parla di «recesso» con riferimento ad atti ablativi degli
effetti contrattuali già realizzati, l’espressione si intende usata in senso non
tecnico
[11].
3- Recesso successivo all’adempimento^
La nozione fornita dai primi due commi dell’art. 1373 c.c. viene però indebolita da eccezioni contenute anzitutto nello stesso codice.
Per quanto concerne i contratti non di durata, nell’appalto il committente può
recedere pur se sia iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del
servizio, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori
eseguiti e del mancato guadagno (art. 1671 c.c.)
[12].
Vi sono poi i casi di recesso del compratore dal contratto di vendita, a misura
o a corpo, per sproporzione del prezzo, ai sensi degli artt. 1537, c. 2°, e
1538, c. 2°, c.c.
[13].
Qui il compratore recede da un contratto che ha già prodotto i suoi effetti
reali.
Il c. 4° dell’art. 1373 permette in ogni caso alle parti di disciplinare il
recesso in modo difforme dalle previsioni dei primi due commi.
La nozione di recesso perde così i caratteri sopra delineati e si estende ad
ogni fattispecie in cui la manifestazione unilaterale di volontà esclude gli
effetti del contratto, ancorché realizzati.
Una parte della dottrina ritiene che l’unilaterale volontà intesa alla
caducazione degli effetti contrattuali già prodotti, invece che all’impedimento
di effetti non ancora realizzati, debba essere ricondotta non alla nozione del
recesso ma a quella della condizione risolutiva meramente potestativa, non
vietata dall’art. 1355 c.c., che si riferisce soltanto alla condizione
sospensiva
[14].
Una condizione risolutiva meramente potestativa è vista, ad esempio, dalla
maggioranza degli autori nel riscatto della cosa venduta (artt. 1500 ss. c.c.),
grazie al quale viene cancellato l’effetto traslativo della vendita e il
venditore riottiene così la proprietà della cosa venduta. Non manca però chi
qualifica l’atto di esercizio del riscatto come un recesso dal contratto di
vendita
[15].
Le due nozioni, di recesso e di condizione risolutiva potestativa, non sono in
realtà completamente sovrapponibili.
Nel recesso l’effetto caducatorio si verifica quando la manifestazione di
volontà del recedente perviene all’indirizzo del destinatario (infra, § 11),
mentre l’avveramento dell’evento dedotto in condizione, e dipendente da una mera
volontà della parte di per sé non necessariamente intesa alla risoluzione del
contratto, produce automaticamente l’effetto risolutivo, che perciò non deriva
dall’esercizio di un diritto potestativo. Ciò spiega perché, verificatasi la
condizione, un’espressa rinuncia della parte interessata può impedire lo
scioglimento del contratto, che, per contro, con la dichiarazione di recesso si
verifica immediatamente e senza possibilità di revoca
[16].
In definitiva col recesso, e non con la condizione, la caducazione degli effetti
contrattuali già realizzati costituisce effetto negoziale e non automatico
[17].
Alla stregua di questa più estesa nozione di recesso, risolutivo e non solamente
impeditivo, alla parte può essere sempre attribuito dal contratto il potere di
porne nel nulla gli effetti, ancorché, secondo una recente dottrina[18], il recesso da un contratto già eseguito da un certo tempo, da stimare in
considerazione della natura e dell’oggetto negoziale, sia da ritenere inefficace
perché contrario alla clausola generale di buona fede.
Sempre accogliendo questa più estesa nozione, si ammetterà potersi esercitare il
recesso non soltanto dai contratti ad effetti obbligatori ma anche in quelli ad
effetti reali; questi si producono immediatamente in forza del principio
consensuale canonizzato nell’art. 1376 c.c., risultando in tal modo ipotizzabile
una fase esecutiva, e perciò una volontà della parte intesa a paralizzare
l’efficacia del contratto, soltanto se questa sia sottoposta a condizione
sospensiva o a termine
[19].
In conclusione il recesso nella sua accezione estesa può essere ricondotto
all’ampia categoria degli «atti che scrivono la parola fine su qualcosa di
giuridicamente rilevante»
[20].
È da aggiungere che non con tutti i tipi contrattuali è compatibile la nozione
del recesso. Ad esempio la transazione può essere sottoposta a condizione
sospensiva o risolutiva, ma non a recesso, che renderebbe incerta la volontà di
prevenire la lite o porvi termine
[21].
4. Figure contigue e variazioni terminologiche. ^
Di natura prevalentemente terminologica sono le questioni se il recesso operi sul contratto, come si legge nell’art. 1373 cit., oppure sul rapporto che ne consegue (nei contratti plurilaterali con comunione di scopo, ad esempio associativi, il recesso importa solo la liberazione del recedente, senza influenzare la sorte del contratto, che rimane in vita) [22], o se sussista una sostanziale differenza fra recesso e disdetta, necessaria per superare la scadenza del termine onde lasciar proseguire l’efficacia del contratto: prevale l’opinione secondo cui, in caso di mancata disdetta, il rapporto prosegue e non viene rinnovato, onde essa ben può essere equiparata al recesso [23].
In ogni caso si deve avvertire che in relazione alle diverse fattispecie
contrattuali la terminologia del legislatore è variabile: per esempio, nel
contratto di lavoro subordinato, mentre gli artt. 2118 e 2119 parlano di recesso
di ciascuno dei contraenti, la l. 15 luglio 1966, n. 604 e le altre successive
in materia dicono «licenziamento» del prestatore di lavoro. Gli artt. 1723-1727
c.c. disciplinano la «revoca» del mandato e la «rinunzia» del mandatario, con
ciò riferendosi ad atti recessivi
[24]. Tuttavia la parola revoca
viene usata nel codice non solo nel senso di recesso del rapporto obbligatorio,
come negli artt. 1723-1726 citt., bensì anche a proposito della proposta e
dell’accettazione del contratto (art. 1328), ossia di atti precedenti la
costituzione del rapporto; in questo senso la revoca si estrinseca nel ritiro di
un atto e si distingue dal recesso, che mira ad estinguere gli effetti finali di
una fattispecie a formazione progressiva, quale quella di formazione del
contratto
[25]. Non dissimile è la
contrapposizione, proposta da altro autore [26], secondo cui la revoca proviene
dall’autore del¬ l’atto unilaterale revocando, mentre il recesso colpisce l’atto
bilaterale, formato anche da persona diversa dal recedente. Ancora, il codice
parla di revoca nel senso di effetto risolutivo di un negozio dovuto ad un fatto
condizionale, come nella revoca di diritto delle disposizioni testamentarie
(art. 687) o in quella, su domanda, delle donazioni (art. 800).
È da osservare che talvolta non si concorda sul contenuto e sulla causa del
contratto, con la conseguente incertezza circa la possibilità di considerare
come recesso – secondo la nozione illustrata nel paragrafo precedente – l’atto
del singolo contraente inteso a por fine al rapporto o ad eliminarne gli
effetti.
Ciò avviene nei contratti reali, come il deposito, il sequestro, il comodato ed
il mutuo, nei quali si discute se debba considerarsi come recesso – del
depositante (artt. 1771, c. 1°, e 1834 c.c.) o del comodante (artt. 1804, c. 3°,
1809, c. 2°, 1810, 1811) o del mutuante (art. 1819) o dell’affidante (art. 1801)
– la richiesta di restituzione della cosa oppure la liberazione del
sequestratario (art. 1801). Se si sostiene che l’unico obbligo nascente da quei
contratti sia quello di restituire e che la custodia costituisca soltanto
un’attività strumentale, negli atti ora detti si ravviserà soltanto una
richiesta d’adempimento. Si ravviserà per contro il recesso qualora si aderisca
alla tesi prevalente, secondo cui effetti tipici e duraturi di quei contratti
sono l’obbligo di detenzione conservativa (nel deposito e nel sequestro) o di
lasciar godere (nel comodato). In tal caso la richiesta di restituzione servirà
come recesso da un rapporto di durata, con estinzione dei detti obblighi, e solo
in subordine come intimazione.
Solo una intimazione ad adempiere si dovrà invece vedere nella richiesta di
restituzione del mutuante, posto che il mutuo è negozio non soltanto reale ma
anche ad effetti reali
[27].
In alcuni contratti, ad esempio nella mediazione (art. 1754 c.c.), non si
concorda circa il momento della conclusione né sulla natura, istantanea (se il
contratto si concluda contestualmente all’affare intermediato) o durevole (se
esso si intenda concluso quando l’intermediario inizia ad intraprendere la sua
attività): in tali fattispecie il regime del recesso dovrà ritenersi diverso a
seconda che si segua l’una o l’altra tesi
[28].
Quando il contratto sottoscritto dal procacciatore d’affari contenga la clausola
«salvo approvazione della casa», occorre distinguere a seconda che egli sia
munito o no del potere di rappresentanza. Nella prima ipotesi il contratto
s’intende concluso quando il procacciatore e il cliente lo sottoscrivono, con la
conseguenza che la mancata approvazione «della casa», ossia del committente,
costituisce atto di recesso ai sensi dell’art. 1373 cit. Nella seconda ipotesi
l’accettazione si riferisce alla proposta contrattuale, fatta ai sensi dell’art.
1326 c.c.
[29] (continua).
Omessi note e riferimenti bibliografici, queste pagine sono parte di capitolo di
un volume collettaneo(A.Checchini, M.Costanza, M.Franzoni, A.Gentili, F.Roselli,
G.Vettori, Effetti del contratto,Giappichelli editore,Torino,pp.686)
_________________________
[1] A. LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 56.
[2] R. DE RUGGIERO, Istituzini di diritto civile, III, Messina-Milano, s.d., p. 284.
[3] C. MELLINI, Mandato commerciale, in Dig. it., XV, Torino, 1904, pp. 507-508.
[4] W. D’AVANZO, Recesso (dir. civile), in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1967, p. 1027, notava come un disegno dei principi generali in materia di recesso fosse insufficiente a spiegare le diverse fattispecie disciplinate dal codice. M. FRANZONI, Degli effetti del contratto, in Commentario del codice civile, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1998, p. 312, osserva che l’art. 1373 c.c. regola solo il recesso convenzionale poiché il recesso legale trova nella stessa fonte ogni regola necessaria.
[5]C. TAROLO, Lo scioglimento del contratto preliminare, in AA.VV., Recesso e risoluzione nei contratti, a cura di G. De Nova, Milano, 1994, p. 87; S. SANGIORGI, Recesso, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991, nn. 2 e 3.
[6] G. LAVAGGI, Osservazioni sul recesso unilaterale dal contratto, in Foro it., 1950, I, c. 1056.
[7] Cass. 9 luglio 1949, n. 1740, in Foro it., 1950, I, c. 1053.
[8] R. SCOGNAMIGLIO, Recensione di Fondetto G.F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Giuffrè, Milano, 1962, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1965, p. 290.
[9] A. DI MAJO, Recesso unilaterale e principio di esecuzione, in Riv. dir. comm., 1963, II, p. 116; C.M. BIANCA, Il contratto, Milano, 2000, p. 742.
[10] La distinzione, di origine tedesca, fra atti che si eseguono istantaneamente (in einem Zeitpunkt) ed atti di durata, ossia da eseguire während eines Zeitraumes, non va presa alla lettera poiché atto ad esecuzione istantanea vuol dire non atto che si esaurisce in un attimo ma atto del quale ai fini giuridici è indifferente la durata (F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Padova, 1940, p.343).
[11] G.F. MANCINI, Il recesso unilaterale, cit., p. 6.
[12] P. DE BON, Appalto privato, in AA.VV., Recesso e risoluzione, cit., p. 469.
[13] G. LAVAGGI, op. cit., p. 1056, in coerenza con la sua tesi, che esclude il recesso quando gli effetti del contratto si siano prodotti, ritiene che gli artt. 1537 e 1538 c.c. prevedano fattispecie risolutive.
[14] G. LAVAGGI, op. cit., p. 1054; S. CICOGNA, Recesso e figure affini (la confusione dei linguaggi e l’analisi delle differenze), in Foro pad., 1997, II, p. 46; di M. COSTANZA vedi in questo volume il capitolo sugli elementi accidentali del contratto e in particolare il paragrafo sulla condizione meramente potestativa; Cass. 13 novembre 1973, n. 3071; Cass. 15 settembre 1999, n. 9840, in Giur. it., 2000, c. 1161, con nota di F. BAGLIONI. Non costituisce recesso la rinunzia all’enfiteusi ex art. 963 c.c., poiché l’enfiteusi, come tutti i diritti reali, non dà luogo a rapporti giuridici (punto, quest’ultimo, fortemente discusso in dottrina: per richiami mi permetto di rinviare a F.ROSELLI, Il possesso e le azioni di nunciazione, Torino 1993, p. 363) (R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 292).
[15] Nel senso della condizione risolutiva sono P. RESCIGNO, voce Condizione (dir. vig.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 784; U. NATOLI, La proprietà. Appunti dalle lezioni, Milano, 1976, p. 211. Nel senso del recesso: C.M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 739. Sul dibattito dottrinale, che vede alcuni autori schierati nel senso della vendita con patto di riscatto come contratto con causa diversa da quella della vendita, vedi da ult. R. ROSAPEPE, in Codice della vendita, a cura di V. Bonocore e A. Luminoso, Milano, 2001, pp. 580-581.
[16] Così M. FRANZONI, op. cit., p. 367.
[17] M. FRANZONI, op. cit., p. 374; C.A. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, Milano, 1975, pp. 335-336. Che l’effetto, sospensivo o risolutivo, connesso all’avveramento della condizione meramente potestativa, non abbia natura negoziale risulta evidente nella condizione consistente in un factum a voluntate pendens più che nella condizione si volam (su questa contrapposizione vedi da ult. P. STANZIONE, Situazioni creditorie meramente potestative, Napoli, 1982, p. 80). Vedi anche M. COSTANZA, op. e loc. cit.
[18]
M. FRANZONI, op. cit., pp. 357-358, che riporta Cass. 22 dicembre
1983, n. 7579: «Il diritto di recesso ex art. 1373 c.c., insuscettibile di
interpretazione estensiva per la sua natura di eccezione al principio
generale della irrevocabilità degli impegni negoziali, non può essere
svincolato da un termine preciso o, quanto meno, sicuramente
determinabile, in assenza del quale l’efficacia del contratto resterebbe
indefinitamente subordinata all’arbitrio della parte titolare di tale
diritto,
con conseguente irrealizzabilità delle finalità perseguite con il contratto
stesso». Secondo N.A. CIMMINO, Il recesso unilaterale dal contratto,
Padova, 2000, p. 11, il potere di recesso è imprescrittibile. Esclusa la
prescrizione, la perdita per decorso del tempo del potere di recedere
induce a richiamare l’istituto tedesco della Verwirkung, su cui P.
RESCIGNO, Manuale del dirittto privato italiano, Napoli 1996, p. 283; S.
PATTI, voce Verwirkung, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino 1999, p.
722.
[19] G. DE NOVA, Il recesso, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, X, Torino, 1995, p. 641; M. FRANZONI, op. cit., p. 312. La questione è ora illustrata da N.A. CIMMINO, op. cit., p. 73. Con gli effetti reali non vanno, ovviamente, confusi quelli obbligatori ed accessori, come ad esempio nella vendita quelli imposti dall’art. 1476 c.c. .
[20] Salv. ROMANO, La revoca degli atti giuridici privati, Padova, 1935, p. 34. Che il legislatore del 1942 abbia accolto una nozione amplissima di recesso, comprendente negozi sia estintivi sia risolutivi è affermato anche da R. CORRADO, Recesso, revoca, disdetta (chiarimenti sistematici), in Dir. economia, 1956, p. 577.
[21] M. FRANZONI, op. cit., p. 384; N.A. CIMMINO, op. cit., p. 21.
[22] S. SANGIORGI, op.
cit., n. 1.1.
[23]
G. GABRIELLI-F. PADOVINI, Recesso (dir. privato), in Enc. dir.,
XXXIX, Milano, 1988, p. 28; G. DE NOVA, Recesso e risoluzione nei contratti.
Appunti da una ricerca, in AA.VV., Recesso e risoluzione, cit., p. 2; P. DI
MARTINO, Contratto di affitto di fondo rustico: recesso e risoluzione,
ibidem, p. 416. Contra A. PONTANI, La locazione, ibidem, p. 383; E.
ROMAGNOLI, Disdetta, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, pp. 92-93. Questo
autore riprende la distinzione di E. BETTI, Lezioni di diritto civile sui
contratti agrari, Roma, 1957, pp. 97-99, secondo cui la differenza fra
recesso e disdetta è soltanto quella fra potere e strumento. Vedi ancora M.
FRANZONI, op. cit., p. 311.
[24]
E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1950, p.
505;
N.A. CIMMINO, op. cit., pp. 4-7; S. CICOGNA, op. cit., p. 48.
[25] G.F. MANCINI, op. cit., p. 123; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 292; E.
ROMAGNOLI, op. cit., p. 92; R. CORRADO, op. cit., pp. 477-481.
[26] L. FERRI, Revoca (dir.
privato), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 199.
Nello stesso senso già R.DE RUGGIERO,
op. cit., I, p. 300.
[27] Su questa problematica, G.F. MANCINI, op. cit., pp. 157-203.
[28]
C. DE FABIANI, Mediazione su incarico di una parte: in particolare il
problema del recesso, in AA.VV., Recesso e risoluzione, cit., p. 745; M.
FRANZONI, op. cit., p. 384.
[29] G.
TAMBURRINO, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del
contratto, Milano, 1954, pp; 55-57; Cass. 5 luglio 1980, n. 5493, in Giur.
it.,
1981, I, 1, c. 1090.