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Trasferimento dei magistrati per incompatibilita' ambientale. 

 

 

ANNALISA PANTALEO



 

 

Corte Costituzionale, sent. 4 novembre 2002, n. 457; Pres. Ruperto, Red. Mezzanotte.

 

La Corte ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto al procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale possa farsi assistere da un avvocato. Il procedimento di trasferimento d’ufficio, consentendo al giudice di intervenire personalmente o a mezzo di un altro magistrato, garantisce l’osservanza del principio del contraddittorio e assicura il nucleo minimo di difesa richiesto dall’articolo 107, primo comma, della Costituzione. E’ soltanto nel giudizio eventualmente instaurato dopo il procedimento di trasferimento d’ufficio che la pienezza della tutela giurisdizionale è assicurata mediante il diritto del magistrato di farsi assistere da un avvocato del libero Foro.

 

Ritenuto in FATTO. Il T.A.R. del Lazio, su eccezione della difesa del ricorrente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 del r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511, per contrarietà agli articoli 3, 24, 104 e 107 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto al procedimento di trasferimento d’ufficio possa farsi assistere da un avvocato. Il giudice a quo ritiene che la questione di legittimità non è manifestamente infondata perché già la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 497 del 2000, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34 del r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui escludeva che il magistrato sottoposto al procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato.

            Si è costituito in giudizio il magistrato sottoposto al trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale e ha chiesto l’accoglimento della questione; egli sostiene che la sentenza n. 497 del 2000, sebbene riguardi il procedimento disciplinare, contenga una massima di decisione estensibile al procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale.

            E’ intervenuto in giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. L’Avvocatura dello Stato pone al centro del suo argomentare la diversa natura del procedimento disciplinare, tendente all’accertamento della responsabilità del magistrato e all’irrogazione di una sanzione, rispetto al procedimento di trasferimento d’ufficio finalizzato, invece, alla salvaguardia della serena amministrazione della giustizia.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO. Il T.A.R. del Lazio ritiene che l’art. 2 del r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511, è costituzionalmente illegittimo per contrarietà agli articoli 3 e 24 Cost., in quanto il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, benché non rivesta carattere sanzionatorio, sarebbe, comunque, un provvedimento suscettibile di incidere sullo status del magistrato: ricorrerebbero, quindi, le medesime ragioni che hanno già indotto questa Corte a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 34 del regio decreto del 1946. Il T.A.R. del Lazio ritiene, poi, che l’art. 2 del citato regio decreto sarebbe in contrasto con l’art. 104 Cost., che sancisce il principio di indipendenza della magistratura e sarebbe in contrasto con l’art. 107 Cost., che contiene un richiamo alla garanzia costituzionale del diritto di difesa.

            La questione non è fondata. La Corte fa leva sulla diversa natura del procedimento disciplinare rispetto al procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. Il primo ha carattere giurisdizionale in quanto è volto ad accertare la responsabilità del magistrato, per cui questi ha diritto di farsi assistere da un avvocato; il secondo, invece, ha carattere amministrativo in quanto non tende ad accertare la responsabilità del giudice ma ad eliminare una situazione obiettiva che non consente al magistrato di giudicare con imparzialità per cui il diritto di difesa è sufficientemente garantito dalla previsione di una difesa personale o a mezzo di altro magistrato.

 

 

NOTA

 

Nella sentenza che si annota, il giudice delle leggi si pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 del r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511, per contrarietà agli artt. 3, 24, 104 e 107 della Cost., nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto al procedimento di trasferimento d’ufficio possa farsi assistere da un avvocato. La norma censurata sarebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. il quale, delineando una nozione ampia del diritto di difesa, farebbe sicuramente riferimento allo strumento specificamente preposto a tale scopo, e cioè alla difesa assicurata da un avvocato e sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto al modo in cui può esplicarsi il diritto di difesa di ogni cittadino. La norma censurata sarebbe, poi, in contrasto con l’articolo 104, primo comma, della Costituzione che sancisce il principio dell’indipendenza della magistratura e con l’articolo 107, primo comma, della Costituzione, il quale, nel prevedere l’inamovibilità dei magistrati contiene un esplicito richiamo alle garanzie del diritto di difesa: “i magistrati non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giuridico o con il loro consenso”.

Il giudice a quo, il T.A.R. del Lazio, ritiene che le ragioni che hanno indotto questa Corte a dichiarare, con la sentenza n. 497 del 2000, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del r.d. lgs 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui escludeva che il magistrato sottoposto al procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato, ricorrerebbero anche nel procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. “E’ vero che quest’ultimo procedimento non ha carattere sanzionatorio”, argomenta il T.A.R., “però è pur vero che il trasferimento d’ufficio sarebbe comunque un provvedimento suscettibile di incidere sullo status del magistrato”, così come avviene per il procedimento disciplinare.

La Corte, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sulla base della diversa natura del procedimento disciplinare rispetto a quello di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. “Il procedimento disciplinare avrebbe ad oggetto un vero e proprio accertamento giurisdizionale della responsabilità del magistrato incolpato e tenderebbe, quindi, alla punizione del soggetto colpevole per la violazione dei propri doveri mediante l’irrogazione di una sanzione”. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 497 del 2000, ha, infatti, dichiarato l’illegittimità dell’articolo 34 del r.d. lgs n. 511 del 1946, nella parte in cui escludeva che il magistrato sottoposto al procedimento disciplinare potesse farsi assistere da un avvocato, proprio perché ha individuato una correlazione necessaria tra la natura del procedimento disciplinare e la tutela giurisdizionale. Lo stretto legame esistente tra il diritto di difesa e il procedimento disciplinare fa sorgere l’esigenza che al magistrato incolpato di aver commesso un illecito sia riconosciuto quell’insieme di garanzie che solo la giurisdizione può assicurare mediante la facoltà di avvalersi della difesa di un avvocato del libero Foro.

Il procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, al contrario, non ha carattere giurisdizionale in quanto non mira a sanzionare il comportamento illecito del magistrato mediante accertamento della responsabilità dello stesso. Esso ha soltanto lo scopo di rimuovere sopravvenuti impedimenti al regolare funzionamento degli uffici giudiziari, allorquando per qualsiasi causa, anche indipendente da una vera e propria colpa, il magistrato non possa più esercitare con imparzialità la funzione giurisdizionale nella sede che occupa[1]. Tale connotazione fa sì che il procedimento di trasferimento d’ufficio trovi il suo fondamento nei principi generali sul procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990[2] e di ciò ci si rende conto se si esamina la circolare del 18 dicembre 1991[3] con la quale il Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.) ha regolato il procedimento applicativo dell’art. 2 della Legge sulle Guarentigie. Tale procedimento si sviluppa in tre fasi. Durante la prima fase, nella quale la commissione del C.S.M. svolge le indagini e le valutazioni preliminari, il magistrato può rendere dichiarazioni spontanee. Nella seconda fase, che ha inizio con la comunicazione inviata all’interessato contenente la sommaria enunciazione del fatto, si svolge l’attività istruttoria che prevede l’audizione dell’interessato con l’eventuale assistenza di un altro magistrato. Nella terza fase, che si incentra nella seduta plenaria la quale culmina con il voto finale, l’interessato ha il diritto di essere sentito con l’eventuale assistenza di un altro magistrato.

Dalla scarna previsione legislativa e dalla circolare del C.S.M. risulta che nel procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, essendo effettivamente garantito il principio del contraddittorio, il nucleo minimo di difesa richiesto dall’art. 107, primo comma, della Costituzione è pienamente assicurato dalla previsione di una difesa personale o a mezzo di altro magistrato. E’ soltanto nel giudizio eventualmente instaurato dal magistrato, successivamente al procedimento di trasferimento d’ufficio, che la pienezza della tutela giurisdizionale è assicurata mediante il diritto del magistrato di farsi assistere da un avvocato del libero Foro, e ciò sia nel caso di violazione della legge, sia nel caso di eccesso di potere da parte del C.S.M.[4].

Concluse le questioni di carattere procedurale, sarebbe opportuno effettuare delle considerazioni di carattere sostanziale sull’incompatibilità ambientale, «patologia» sempre più diffusa nei Tribunali d’Italia, da nord a sud. Si tratta di una situazione che vede i magistrati legati da vincoli di parentela, affinità o coniugio con altri magistrati o con avvocati.

A vietare tale situazione d’incompatibilità ambientale è l’art. 18 dell’ordinamento giudiziario promulgato con regio decreto nel 1941 il quale stabilisce che un magistrato non può esercitare la professione all’interno di un Tribunale in presenza di rapporti di parentela o di affinità con avvocati. Spetta, dunque, al C.S.M., investito della questione dalla Corte d’Appello, pronunciarsi sulla presunta incompatibilità di un magistrato. L’interpretazione consolidata dell’art. 18 del regio decreto del 1941 esclude, tuttavia, l’incompatibilità quando la professione forense riguardi un settore diverso da quello a cui è stato assegnato un magistrato o quando i magistrati legati da vincoli di parentela risultino destinati a settori differenti, pur nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario. Bisogna, però, ricordare che i diversi settori della giurisdizione, civile e penale, non sono poi così autonomi l’uno dall’altro. E’ stato, infatti, correttamente rilevato[5] che, quando nei processi penali taluno si costituisce parte civile e chiede il risarcimento dei danni, il Tribunale, per non dilungarsi in questioni per cui spesso non ha la competenza tecnica, rimette la liquidazione del danno alla separata sede civile. Ed è chiaramente intuibile cosa possa accadere se il giudice civile che deve decidere è legato da un rapporto di parentela o coniugio con uno dei giudici che ha concorso alla decisione in sede penale o con il Pm che ha sostenuto l’accusa[6].

Quella dell’intreccio familiare all’interno dei palazzi di giustizia è una situazione che fa venir meno l’indipendenza, l’autonomia e la terzietà del giudice. In particolare, l’art. 111, primo comma, Cost. stabilisce che la giurisdizione si attua mediante un giusto processo regolato dalla legge, la Costituzione impone, quindi, al giudice di essere terzo. Ma come si fa ad essere imparziali quando delicate questioni di giustizia  potrebbero essere trattate e risolte nel corso di una riunione familiare come il  pranzo della domenica o una gita fuori porta o una partita a carte?

Ad avviso di chi scrive, queste forme di clientelismo e nepotismo giudiziario danneggiano, in primo luogo, l’organizzazione della giustizia intesa come coordinamento di persone e di mezzi. E’ di Barnardiana[7] memoria la distinzione tra fini dell’organizzazione e  moventi per cui gli uomini partecipano all’organizzazione stessa  e, quindi, la distinzione tra efficacia ed efficienza dell’azione organizzativa. Non credo si operi una forzatura richiamando concetti appartenenti al mondo manageriale dato che la trasposizione del pensiero di Chester Barnard dall’organizzazione dell’azienda all’organizzazione degli uffici giudiziari sembra calzante. Con il termine efficacia Barnard intende la misura in cui l’organizzazione raggiunge i propri obiettivi che, nel caso dei Tribunali, sono la serena e imparziale amministrazione della giustizia. Con il termine efficienza Barnard intende, invece, la misura in cui si soddisfano le motivazioni individuali di far parte di un sistema cooperativo, in genere profitti e gratificazioni morali ma, nel caso di specie, la possibilità, per alcuni partecipanti di creare delle «imprese» a conduzione familiare per la trattazione e la risoluzione dei processi. Così come esistono delle organizzazioni efficaci ma non efficienti, nel caso in cui l’organizzazione raggiunga i propri obiettivi ma non soddisfi gli individui che partecipano, esistono, anche, delle organizzazioni efficienti ma non efficaci. La presenza dei “clan familiari” all’interno dei Tribunali è un caso sintomatico di quest’ultima ipotesi proprio perché l’organizzazione soddisfa alcuni individui partecipanti ma a scapito del raggiungimento del fine per cui essa è sorta. Le forme di nepotismo e clientelismo all’interno dei palazzi di giustizia, danneggiano, inoltre, l’intera magistratura perché pregiudicano l’onore e il prestigio della stessa. Danneggiano, poi, l’avvocatura perché, procurando dei vantaggi al professionista legato da rapporti di parentela o di affinità con il giudice, falsano la «concorrenza» e creano uno squilibrio nel mercato: l’avvocato non verrà più liberamente scelto per la professionalità, la preparazione e l’abilità di destreggiarsi all’interno delle aule di giustizia ma soltanto perché potrebbe avvantaggiare il proprio cliente mediante l’influenza esercitata sull’organo giudicante. A soffrire maggiormente di tale «patologia» sono i cittadini proprio perché la presenza degli intrecci familiari all’interno dei Tribunali pregiudica l’interesse pubblico al corretto e regolare svolgimento delle funzioni giurisdizionali. In poche parole, la parzialità con cui si giudica  fa sì  che i cittadini assistano, usando un ossimoro, ad una giustizia ingiusta, in quanto le norme vengono applicate per alcuni e «interpretate » per altri.

[1] In tal senso Cons. St., sez. IV, 20 luglio 1998, n. 1092, in www.giustizia amministrativa.it

[2] Cons. St., sez. IV, 26 settembre 2001, n. 5037, in www.giustizia amministrativa.it

[3] Non è nei poteri del C.S.M. individuare con una circolare forme e regole procedimentali derogatorie dei principi di partecipazione e di trasparenza riguardanti il  procedimento previsto dalla legge n. 241 del 1990. E’, però, possibile che il C.S.M. adotti con una circolare regole che, in modifica del modello generale, introducano nuove garanzie rafforzando così le pretese partecipative.

[4] Una circolare che fissa regole procedimentali di garanzia per l’interessato ha l’effetto di limitare il potere discrezionale dell’Amministrazione nello svolgimento del procedimento, se l’organo procedente violasse la circolare si avrebbe, quindi, il vizio di eccesso di potere. Siccome la funzione di una circolare di questo tipo può essere solo quella di ordinare l’azione procedimentale dell’Amministrazione e di vincolarla al rispetto di particolari formalismi, il mancato rispetto degli adempimenti imposti dalla stessa dà luogo ad un vizio di procedura invalidante, Cons. St., sez. IV, 8 gennaio 1998, n. 4 o all’illegittimità degli atti contrastanti con tali circolari, Cons. St., sez. IV, 1 aprile 1999, n. 498.

[5] GIRARDIN S., Quando la giustizia è un affare di famiglia, in www.lapadania.it

[6] Non è, poi, difficile trovare all’interno dei Tribunali giudici imparentati con i periti. Anche in questa situazione è facilmente immaginabile il risultato che possa scaturire dai favoritismi nell’attribuzione degli incarichi per perizie e consulenze.

[7] Il pensiero di Chester Barnard è importante nell’ambito della sociologia del diritto poiché in esso si riflettono due cambiamenti che, nella prima parte del ventesimo secolo, interessano il mondo manageriale. Il primo cambiamento è di natura teorica e riguarda il declino dell’individualismo utilitaristico a favore di una società intesa come entità cooperativa regolata da principi morali. Il secondo cambiamento attiene, invece, alla pratica e consiste nell’avvento dei manager non proprietari: si passa dallo schema dicotomico padrone-dipendente allo schema tricotomico padrone-manager-dipendente. Si veda al riguardo BONAZZI G., Storia del pensiero organizzativo, 2002, 79 e seg.