L'evoluzione del procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale e le nuove regole della conferenza di servizi: quale futuro per la V.I.A.?
a cura di ALESSANDRO CHIAUZZI
1) Le rinnovate difficoltà di qualificare giuridicamente la VIA: mero parere
o procedimento autonomo?
2) La VIA e la nuova conferenza dei servizi
3) VIA e tutela dell’ambiente nel settore delle opere pubbliche come
recentemente riordinato
4) La procedura di VAS come nuova frontiera della valutazione dell’impatto
ambientale
1) LE RINNOVATE DIFFICOLTA’ DI QUALIFICARE GIURIDICAMENTE LA V.I.A: MERO PARERE
O PROCEDIMENTO AUTONOMO?
Uno studio sull’aspetto tecnico procedurale del procedimento di VIA che tenga
conto delle varie modifiche intervenute sul precedente assetto, richiede di
risolvere preliminarmente un problema di rilevanza fondamentale. Al fine di
avere una visione completa della articolata procedura di VIA bisogna, infatti,
chiedersi quale sia la sua natura ed il suo rapporto nei confronti del
procedimento autorizzatorio principale: strumentalità logica e quindi
indipendenza oppure mero parere inserito nel procedimento principale stesso? La
soluzione del problema è di importanza cruciale dato che dal significato che si
dà all’autorizzazione ambientale discendono gli effetti più o meno vincolanti
che questa può avere sul procedimento principale.
E’ innegabile che tra il procedimento di valutazione di impatto ambientale e
quello di autorizzazione principale sussiste un rapporto di strumentalità e
funzionalità per cui il primo non avrebbe senso senza il secondo. Ma proprio a
causa dello stretto legame logico tra i due procedimenti nasce lo stato di
confusione in cui si è dovuta imbattere la dottrina.
Occorre, allora, tentare di delineare la panoramica generale che consente di
approdare alle diverse posizioni dottrinali sul tema e di comprenderne le linee
evolutive.
“La procedura di VIA può essere intesa come una sorta di sub-procedimento o
procedimento collegato al processo decisionale principale di autorizzazione di
un progetto”1. Sembra di capire, seguendo quest’ottica, che la procedura di VIA
sia autonoma rispetto al processo principale, ma è al contempo ad esso legata da
una necessaria relazione funzionale. Si profilano, perciò, due livelli di
procedimento, ognuno con le sue diverse fasi.
Il processo autorizzativo principale consiste nel procedimento amministrativo
necessario per ottenere una risposta affermativa o negativa alla richiesta di
autorizzazione alla costruzione di un’opera da parte dell’autorità competente.
Nell’economia strutturale di questo progetto, l’elemento dell’ambiente deve
essere bilanciato con altri valori ed interessi parimenti rilevanti, come quelli
economici, sociali e giuridici. Tutti questi interessi devono essere valutati e
pesati nel corso dell’istruttoria del procedimento principale, nella quale
l’esito della VIA può giocare un ruolo più o meno pesante, in relazione sia al
modello di procedimento amministrativo di autorizzazione dei progetti vigente,
sia al bilanciamento prodotto tra le forze politiche e sociali.
Dall’impostazione di questa dottrina si capisce che la valutazione di impatto
ambientale assurge a momento decisionale autonomo e quindi procedimento
indipendente.
Altra parte della dottrina si attesta, invece, su posizioni completamente agli
antipodi. Il procedimento di VIA non costituisce una nuova autorizzazione in
quanto si inserisce nel contesto del procedimento di approvazione di un progetto
di un’opera, prima del rilascio del provvedimento che ne consente la
realizzazione o la costruzione. Si tratterebbe, dunque, di un atto
endoprocedimentale2 che assume il ruolo di parere obbligatorio3. L’eventuale
esito positivo della VIA si inserisce nel procedimento principale quale “fatto
giuridico permissivo”4, consentendone il proseguimento e la conclusione.
Seguendo quest’ultima prospettiva, la natura giuridica della valutazione di
impatto ambientale viene rinvenuta in una manifestazione di giudizio e non di
volontà amministrativa. Il giudizio espresso nella pronuncia di compatibilità
ambientale è stato ritenuto espressione di un potere di valutazione dei fatti
alla stregua di conoscenze tecniche e scientifiche .
Dunque il procedimento di VIA va considerato come un semplice momento
conoscitivo e mera fase dell’istruttoria al termine della quale emettere un
parere? Seppure si tratti di un semplice parere di compatibilità ambientale,
come vuole sostenere quest’ultima teoria indicata, non si può ignorare il fatto
che esso sia caratterizzato da un’ amplissima discrezionalità, “in quanto
comporta la considerazione di una molteplicità di interessi pubblici, la cui
ponderazione ed il cui bilanciamento costituiscono l’oggetto specifico della
valutazione conclusiva, assegnando ai valori ambientali una pari dignità, nel
progetto tecnico e nella decisione amministrativa permissiva, rispetto a quelli
finanziari, tecnologici e sociali”5. Dell’Anno sottolinea, dunque, che non si
può fingere di trovarsi dinanzi ad un mero momento di studio tecnico, dato che
al termine del procedimento di VIA l’autorità competente è chiamata ad
effettuare una valutazione e a prendere una decisione, manifestazione della
volontà amministrativa, sulla base dei dati raccolti. Riavvolgendo il nastro del
procedimento di valutazione, che si avrà modo di esaminare dettagliatamente in
seguito, facilmente ci si rende conto che esso, proprio in virtù del potere
decisionale che racchiude, assume la forma e la struttura di un normale
procedimento indipendente, costituito da fase istruttoria, momento di
valutazione dei dati disponibili e fase decisoria, prima di emettere il
provvedimento6.
Dopo la rassegna di posizioni dottrinali che sommariamente è stata sfogliata,
corre l’obbligo di rimandare il momento più acceso ed acuto del dibattito alla
parte della trattazione in cui si parlerà del procedimento di VIA nell’ambito
nazionale. E’ soprattutto nell’ordinamento interno italiano che regna a riguardo
uno stato di confusione duratura, dovuto al fatto che mai il legislatore
nazionale ha preso una posizione chiara e definitiva, lasciando aperta la via ,
mediante formulazioni vaghe e nebulose, ad ogni sorta di interpretazione; arduo
compito è, dunque , quello della giurisprudenza, che è chiamata a fare ordine in
un sistema provvisorio e confuso come il nostro, ogni qualvolta si trova
costretta ad emettere una decisione.
Non è così per l’ambito comunitario, dove le istituzioni nella elaborazione
della direttiva hanno fatto una scelta ben precisa: il procedimento di VIA va
considerato a tutti gli effetti come procedimento autonomo rispetto a quello
principale, avendo vita e vicende proprie. La cosa si evince sostanzialmente dal
nuovo dettato dell’art.2 della direttiva n. 97/11, nel quale si stabilisce che
il procedimento di valutazione di impatto ambientale deve concludersi prima del
rilascio dell’autorizzazione finale sul progetto, sancendo, dunque, la sua
autonomia giuridica, in quanto il provvedimento di autorizzazione o di negazione
della autorizzazione ha effetti, secondo il legislatore comunitario, sul
provvedimento autorizzatorio principale. Il provvedimento frutto della VIA,
dunque, non può essere considerato come mero parere da allegare al procedimento
principale e da archiviare come semplice momento di conoscenza tecnico
scientifica, come in ambito nazionale la vaga disciplina può anche indurre a
ritenere.
Volendo, in definitiva, sintetizzare il quadro che si è tracciato in merito alla
collocazione della VIA in funzione del procedimento principale, si può dire che
fondamentalmente il legislatore comunitario prende posizione in merito a:
- il vincolo procedimentale da seguire, in virtù del quale la valutazione
sull’impatto si inserisce e si incastra nella catena degli atti del procedimento
principale;
- l’obbligo di tener conto degli effetti di impatto del progetto sull’ambiente
al momento della decisione finale.
Il sistema delineato si pone come effettiva realizzazione di quegli obiettivi di
tutela che rimarrebbero “parole al vento” se sprovviste di uno strumento di
attuazione efficace. E’ nel terzultimo considerando della direttiva VIA che la
Comunità pone degli obiettivi forti chiarendo che “gli effetti di un progetto
sull’ambiente debbono essere valutati per proteggere la salute umana,
contribuire per un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al
mantenimento della varietà della specie e conservare la capacità di riproduzione
dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale di vita”.
Come è stato fatto per il procedimento di valutazione di impatto ambientale
nell’ordinamento comunitario, anche per la VIA di competenza statale occorre
svolgere alcune considerazioni circa la natura del procedimento, argomentando
dagli spunti di riflessione che offre la normativa nazionale.
A questo proposito, se il legislatore comunitario, come visto sopra, prende
posizione in maniera chiara e determinata in merito al problema, asserendo che
la VIA è un vero e proprio procedimento autonomo, funzionale soltanto da un
punto di vista logico rispetto a quello principale, la disciplina interna del
nostro ordinamento non prende una posizione altrettanto netta, ma si presenta
vaga ed indeterminata. Se si va a scandagliare l’intero corpus normativo che
riguarda la materia, non si riesce a rinvenire un punto che fughi ogni dubbio da
un verso o dall’altro. Forse, dunque, il legislatore nazionale di proposito
esita ad effettuare una scelta precisa non avendo il coraggio di toccare una
corda così delicata? Resta il fatto che, nascondendosi ormai da molti anni,
dietro la giustificazione della transitorietà della normativa, in attesa della
“messianica” venuta della legge-quadro in materia di VIA, il legislatore
positivo in Italia non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sulla questione.
Il problema che deriva da questo stato di generale incertezza non è di poco
conto, dato che dal tipo di significato che si vuole attribuire alla valutazione
di impatto ambientale discende la natura del provvedimento, ovvero il giudizio
di compatibilità ambientale che di essa è il frutto e quindi gli effetti che
quest’ultimo può esplicare. Messa in questa maniera la questione della natura
del procedimento di VIA e quella del provvedimento finale vanno a coincidere.
Se il legislatore non è chiaro e non prende posizione, tuttavia gli interpreti
del diritto e coloro che, di volta in volta, sono chiamati ad applicare le norme
si trovano nella situazione di essere costretti a riempire le lacune lasciate
dalla normativa positiva per risolvere le fattispecie che si presentano. Di
conseguenza giurisprudenza e dottrina sull’argomento sono molto vaste.
Taluni autori sostengono che la pronuncia al termine della VIA non sia altro che
un semplice “parere”7; altri, invece, la definiscono come “atto consultivo
atipico”8; altri ancora utilizzano una formula più articolata, inquadrando
questa pronuncia come provvedimento a funzioni miste, in quanto derivante da una
“attività di amministrazione attiva complessa, costituita da una certazione
sulla compatibilità ambientale del progetto e dalla consequenziale
autorizzazione ambientale del progetto stesso”9. Minimo comun denominatore di
queste interpretazioni è il fatto che tutti sono d’accordo nel ritenere l’atto
conclusivo della procedura come “obbligatorio”10, in quanto necessario per legge.
Al di là di un semplice elenco di tesi interpretative che potrebbe risultare
sterminato e proprio per questo poco utile ai fini della ricerca che si sta
effettuando, conviene fare un po’ di ordine e ridurre il problema al suo nucleo
essenziale: il “nodo di Gordio” da sciogliere sostanzialmente è se la VIA sia un
semplice parere da acquisire in seno alla fase istruttoria del procedimento
principale oppure assurga a procedura autonoma così come si configura la VIA
comunitaria a seguito dell’intervento della direttiva 97/11 CE. Occorre a questo
punto soffermarsi su ciascuna delle due alternative per vedere quale di esse sia
più coerente con la funzione della procedura stessa di VIA e con quei
riferimenti normativi di cui si dispone.
Ad un primo approccio al problema, non vi sarebbero motivi ostativi per
configurare la VIA come parere da acquisire all’interno del procedimento
principale e, quindi, come espressione di funzione consultiva. Si avrebbe,
dunque, un arricchimento della fase istruttoria del procedimento di
realizzazione dell’opera configurandosi la VIA come la sede in cui possono
essere assorbiti i pareri e le valutazioni tecniche attualmente previste per i
procedimenti concorrenti o connessi. A ben vedere si potrebbero rinvenire anche
alcuni riferimenti normativi che potrebbero indurre a propendere per questa
soluzione: sin dal disposto dell’art.6, comma secondo della legge n.349/86 si
statuisce che nel procedimento di VIA, il Ministro dell’ambiente sia tenuto a
fare applicazione, ai fini della pronuncia sulla compatibilità ambientale, delle
“norme tecniche”, di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Negli stessi decreti attuativi si fa più volte riferimento ad una valutazione
che sembra risolversi in un mero confronto tra la realtà fattuale ed un insieme
di criteri di carattere tecnico; del resto, a leggere l’elencazione delle
finalità cui tende l’istruttoria, come emerge dall’art.6 del D.P.C.M. n.377/88,
e dall’indicazione dell’atto finale, di cui all’art.6, comma secondo, del
successivo D.P.C.M. del 1988, non si va molto lontano dall’orientamento sin qui
emergente. In entrambe le serie di disposizioni è concorde il riferimento ad
accertamenti di natura tecnica ed alla loro funzionalizzazione ad un parere
sempre di natura tecnica. La posizione interpretativa sin qui analizzata può
essere pienamente colta in una pronuncia del TAR Liguria del 199211, secondo cui
“la VIA….non costituisce una manifestazione di volontà amministrativa, ma un
parere tecnico che si inserisce in un procedimento destinato a sfociare in un
provvedimento di autorizzazione avente per oggetto la specifica opera da
attuare”.
Quest’ultima definizione può essere considerata come la sintesi del pensiero di
chi sostiene fondamentalmente il ruolo meramente tecnico della VIA. Tuttavia, se
ad una prima istanza le argomentazioni sopra addotte potrebbero sembrare
soddisfacenti, in realtà, così facendo si sta tralasciando nell’analisi un’ampia
parte degli aspetti che interessano la procedura di VIA e che per un esame
esauriente non possono essere omessi. Finora, se si nota, argomentando e
sostenendo la posizione interpretativa sopra esposta, è stato sempre usato il
verbo al “condizionale”, non per un mero e semplice pregiudizio intellettuale
nei confronti di questa tesi, ma perché essa può apparire, è vero,
inconfutabile, ma soltanto tralasciando molte altre considerazioni sull’aspetto
funzionale della VIA.
Il dubbio fondamentale che nasce, abbracciando la prima interpretazione è che
con una tale posizione “non si tenga doverosamente distinto il momento dello
studio di impatto ambientale (SIA) dalla valutazione che sugli impatti da questo
evidenziati viene poi operata”12. Si parlava sopra di “esame tecnico”, di
confronto con “norme tecniche”, ma questo aspetto costituisce soltanto una parte
dell’intera procedura di VIA; quest’ultima, infatti, si articola in due parti e
non in una solamente come taluni autori vogliono sostenere: una, di tenore
strettamente tecnico, è quella nella quale si incentra lo studio di impatto
ambientale e quella che viene ritenuta come unico elemento della procedura dalla
precedente dottrina; un’altra, invece, è di tenore discrezionale, cioè riguarda
la valutazione che deve essere svolta dall’autorità pubblica sulla base dei dati
tecnici raccolti. Sfogliando la normativa si può constatare, come contrappeso ai
riferimenti legislativi sopra citati, che il modello del nostro diritto positivo
prevede (nell’art.6, comma quarto, della legge n.349/86) una esplicita pronuncia
di compatibilità ambientale13 espressa in un atto a sé stante14 e attribuisce alla
pronuncia negativa “effetto preclusivo nei confronti dell’autorità competente in
via ordinaria a decidere sul progetto, salva la facoltà per quest’ultima di
deferire la questione al Consiglio dei Ministri che può decidere in difformità”15.
A questo punto, come si è fatto in precedenza riferendo dall’altra tesi, anche
qui occorre analizzare la normativa e il procedimento che nella sua interezza ne
deriva, per vedere quali siano gli elementi che vanno in soccorso della
posizione secondo cui la VIA sia una procedura autonoma contenente una
manifestazione di volontà della pubblica amministrazione. Si rende necessario
ripercorrere a mente l’intera sequenza procedimentale allo scopo di rintracciare
in quali fasi si inserisce la valutazione discrezionale di cui si parla.
Non può mettersi in dubbio che, per alcuni momenti, specie nella fase
istruttoria, l’analisi effettuata sia di natura meramente tecnica, richiedendosi
soltanto il riscontro effettivo dei criteri tecnici positivamente posti. Ora,
però, bisogna guardare il fenomeno nella sua globalità e, se si osserva la
disomogeneità dei parametri a cui si dovrebbe far riferimento nella formulazione
del giudizio, si comincia ad entrare nella prospettiva per cui è inevitabile un
momento di ponderazione e valutazione che si fondi sul potere discrezionale.
L’area del giudizio come già si accennava prima, si snoda in due momenti16: uno è
preparatorio, resta esterno al vero giudizio ed è preordinato all’acquisizione
di dati e alla loro verifica; il secondo è quello costitutivo del giudizio di
compatibilità ambientale e riguarda in maniera specifica il momento della
valutazione degli studi (SIA) presentati dal proponente, come integrati
dall’istruttoria effettuata dall’autorità pubblica. E’ in quest’ultima fase che,
per le opere pubbliche, si deve tener conto anche di parametri di valutazione
economica17. Quest’ultimo momento contiene inevitabilmente un confronto e un
bilanciamento tra elementi disomogenei tra loro come l’impatto delle opere
sull’ambiente e per proseguire nell’esempio citato, i criteri di natura
economica come il tasso di redditività dell’investimento. Sotto tale aspetto
sembra rinvenirsi nella procedura una funzione di anticipazione del momento
provvedimentale, di quello cioè che chiude la procedura di approvazione di
un’opera18.
Giunti a questo punto, ovvero alla pacifica ammissione della presenza del
momento discrezionale, si potrebbe dire da un lato, riferendosi ad una
autorevole dottrina19, che mai come in questo caso momento intellettivo e
volitivo appaiono uniti e compenetrati; dall’altro lato si ha, come rilevato
recentemente20, quel movimento circolare che anima “politica, discrezionalità e
tecnica”, mediante il quale “il processo di selezione e ponderazione degli
interessi non si attua solo nel momento in cui matura formalmente la scelta
discrezionale, ma trova una sua importante espressione anche in una fase
preliminare conoscitiva a valenza tecnica”
21.
Come si può notare passando in rassegna le suddette dottrine, è innegabile che
nel procedimento di VIA sia inserito un momento di valutazione prettamente
discrezionale, che distingue l’intera procedura dal mero parere tecnico e la
eleva alla dignità di manifestazione della volontà amministrativa; poi, se
l’esercizio del potere discrezionale avviene contemporaneamente all’analisi dei
dati tecnici, oppure in una seconda istanza, questo è un problema di scarsa
rilevanza ai fini di ciò che si sta dimostrando. Date le premesse della
trattazione, quello che interessa non è tanto la collocazione del suddetto
momento discrezionale, quanto la presenza o meno di quest’ultimo.
In seguito alle osservazioni che sono state fatte si è in grado di sostenere che
è vero che c’è uno stretto collegamento tra il procedimento di autorizzazione
dell’opera ed il procedimento presupposto di VIA che si conclude con il giudizio
di compatibilità, ma è anche vero che quest’ultimo è una procedura
giuridicamente indipendente, che consta di alcuni momenti tecnici che si
intrecciano con quelli più strettamente discrezionali22.
Si possono tirare, dunque, le somme dell’analisi effettuata vedendo qual era il
punto di partenza e dove questa disamina ha condotto: partendo dal dubbio sulla
natura della procedura di VIA si è tentato di ricostruirla secondo diverse
modalità, cercando in primis di configurarla come mero parere tecnico da
assumere nella fase istruttoria del procedimento principale; le ulteriori
valutazioni che sono state svolte hanno condotto, tuttavia, ad un punto di
approdo in cui matura una convinzione del tutto diversa da quando si era
partiti, ovvero che la VIA non può essere considerata come priva di momento
valutativo e discrezionale, dato che l’amministrazione preposta raccoglie i dati
ma non potrebbe emettere un giudizio se poi su questi non effettuasse una
valutazione. Alla luce di quanto esposto, sembra più chiara quale sia la natura
ontologica di tale procedura, ovvero un vero e proprio procedimento
amministrativo all’interno del quale viene fatta una ponderazione di interessi
ed al termine del quale vede la luce una manifestazione di volontà frutto del
potere discrezionale dell’amministrazione23.
L’importanza dell’esame svolto al fine di chiarire la natura della valutazione
di impatto ambientale rileva se considerata nella prospettiva dell’analisi della
“forza” giuridica che assume il giudizio finale sulla compatibilità ambientale;
le pagine precedenti non rappresentano una mera speculazione intellettuale fine
a sé stessa, un inutile gioco di erudizione giuridica, ma si rendono utili ad un
secondo scopo: in base alla natura della procedura di VIA, infatti si può
stabilire il valore, la forza che possiede il provvedimento finale.
La dottrina maggioritaria ritiene che il regime transitorio assegni alla
pronuncia di compatibilità ambientale un’efficacia “sostanzialmente vincolante”24
o “quasi vincolante”25. Difatti essa non solo può disporre prescrizioni alle
quali il committente deve attenersi e alla cui osservanza è subordinata
l’approvazione del progetto, ma vincola, altresì, lo stesso Ministro competente
alla realizzazione dell’opera, poiché su di esso grava l’obbligo, qualora
intenda discostarsene, di rimettere la questione al Consiglio dei Ministri; non
vincola, invece, proprio il Consiglio dei Ministri, che può decidere di non
uniformarsi alla pronuncia di compatibilità ambientale. A prima istanza, poi, la
pronuncia del Ministro dell’ambiente sembra non essere vincolante anche per
l’autorità procedente, dato che questa, in sede di decisione finale, ha la
possibilità di prescindere completamente dall’esame tecnico degli effetti
ambientali producibili dall’opera, qualora questo non sia espresso
tempestivamente, ovvero, come visto, nel termine di novanta giorni.
Tuttavia, dopo una più matura riflessione sul problema, svolta anche alla luce
della legge generale sul procedimento amministrativo, cioè la legge n.241/90,
può ritenersi che questa interpretazione sia da superare con la più ampia
considerazione del sistema complessivo in cui viene ad inserirsi la speciale
procedura regolata dall’art.6 della legge n.349/8626 .
Il fine di assicurare una più adeguata tutela dell’ambiente, all’interno di
strutture procedimentali dirette a favorire l’ordinato ed avanzato sviluppo
economico della società, è perseguito sia dalla direttiva comunitaria istitutiva
della VIA che considera come tendenzialmente sempre necessaria la valutazione
preventiva dell’impatto producibile dalle opere individuate sull’ambiente
circostante; sia dalla legge n.241/90, che vieta che l’amministrazione
procedente possa esprimere l’atto finale di consenso alla realizzazione
dell’opera anche indipendentemente dall’acquisizione della pronuncia di autorità
che si occupano della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale ed igienico
sanitaria. Dunque, se la precedente legge n.349/86 lasciava un vuoto di tutela
qualora non fosse intervenuta la pronuncia di compatibilità ambientale entro il
termine perentorio di novanta giorni, questa lacuna viene colmata dalla
legislazione successiva. Conseguentemente coordinando i diversi blocchi
normativi è logico credere che, decorsi i termini imposti dal quarto comma
dell’art.6 della legge n.349/86 senza che sia intervenuta la valutazione di
impatto ambientale dell’opera, la procedura di approvazione del progetto può
riprendere, ma devono essere attivati quei doverosi interventi, da parte del
Consiglio dei Ministri, per “costringere” il Ministro dell’ambiente a formulare
la valutazione prima della deliberazione dell’atto finale di consenso di
realizzazione dell’opera.
Considerando, quindi, come l’autorità procedente sia sempre obbligata al
rispetto del giudizio di compatibilità ambientale e come il solo Consiglio dei
Ministri sia libero di ribaltare il giudizio stesso, si può concordare
nell’affermare che la pronuncia di VIA abbia una efficacia quasi vincolante.
A conclusione del quadro che si è tratteggiato in questo paragrafo sulla natura
della VIA e sulla sua forza giuridica, un breve riferimento va fatto alle
prospettive che riguardano il ruolo della VIA in relazione al procedimento
autorizzatorio principale, a seguito della riforma effettuata dalla legge n.340/00,
che riforma la legge n. 241/90, nel cui solco si innesta la recentissima legge n.11/05.
Per l’analisi della riforma si rimanda a quanto si dirà in seguito, ma quello
che qui interessa è come si inserisce la procedura di VIA in questo nuovo
sistema: se la valutazione di impatto ambientale condivide ora la propria fase
istruttoria con la conferenza di servizi sul progetto preliminare e il giudizio
di compatibilità ambientale non è più esterno al procedimento, ma si inserisce
nella conferenza di servizi decisoria, c’è da chiedersi se si possa ancora
parlare della distinzione tra procedimento principale e procedura di VIA oppure
non siano forse fusi ormai in un’unica catena procedimentale. Forse c’è da
ritenere che la VIA sia diventata un momento di valutazione discrezionale da
effettuarsi nell’ambito di quel grande contenitore che è ora il procedimento
autorizzatorio del progetto.
Gli scenari interpretativi che si aprono sono dei più vari, quindi attualmente
conviene muoversi “con i piedi di piombo” sull’argomento, attendendo che
dottrina e giurisprudenza si esprimano anche alla luce dei primi tempi di vita
della nuova normativa.
2) LA VIA E LA
NUOVA CONFERENZA DEI SERVIZI
Affrontare oggi il problema dell’inquadramento dogmatico e della definizione del
procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA), dopo le riforme
legislative che hanno interessato il procedimento amministrativo negli ultimi
cinque anni, può essere guardato come una questione la cui soluzione arriva a
coinvolgere l’area più generale dell’intero diritto amministrativo. Uno studio
approfondito del procedimento di valutazione di impatto ambientale, infatti, non
rappresenta più soltanto un momento speculativo finalizzato alla comprensione di
un singolo procedimento di carattere speciale e settoriale come può essere
quello di VIA; costituisce, bensì, un’analisi della funzione del più generale
procedimento amministrativo inteso in senso lato e la ricerca della definizione
di esso come risulta dalle riforme normative sopra richiamate.
Si può già anticipare come la tendenza degli ultimi anni si sia attestata nel
solco di una sempre più profonda compenetrazione tra la catena del procedimento
principale e quella del procedimento di VIA, a tal punto da far ritenere che
quest’ultima non goda più di una vita autonoma, ma sia entrata a far parte della
sequenza principale, divenendone soltanto uno dei momenti.
Alla luce di questi mutamenti cambia totalmente anche la modalità di approccio
al problema della definizione giuridica della VIA. In passato l’attenzione
veniva focalizzata esclusivamente sul procedimento di VIA, discutendosi sulla
natura tecnica o discrezionale della stessa, tenendo il procedimento principale
come parametro esterno al quale rapportarsi; oggi, invece, non si può fare a
meno di analizzare contemporaneamente le due sequenze procedimentali, dato che
esse hanno in comune più momenti del loro svolgersi.
Per comprendere meglio lo stato attuale della normativa e le mancanze cui
bisogna sopperire, si rende opportuno effettuare un breve excursus preliminare
per vedere come si è giunti, sia in Italia che nella Comunità Europea, alla
conformazione odierna.
La data di nascita del procedimento di valutazione di impatto ambientale,
attualmente in vigore in ambito comunitario e dal quale derivano i singoli
procedimenti nazionali, si colloca nel 1985, quando il 27 giugno viene approvata
la direttiva 85/337 del Consiglio in materia di di V.I.A. Tale atto costituisce
indubbiamente una delle più significative realizzazioni normative della politica
ecologica sviluppata, a livello comunitario, intorno a tre riferimenti
principali, ovvero i programmi di azione elaborati nel 1973, nel 1977 e nel 1981
in accoglimento delle sollecitazioni provenienti dalla Conferenza di Parigi del
1972 dei capi di Stato e di Governo che aveva elevato a compiti essenziali della
Comunità la lotta alle varie forme di inquinamento, il miglioramento della
qualità della vita e la protezione dell’ambiente naturale. E’ evidente che la
VIA costituisce l’inveramento di una nuova “filosofia” ambientale; essa è il
frutto di una progressiva evoluzione della sensibilità culturale e sociale in
merito all’esigenza di tutelare l’ambiente che sul piano giuridico si è tradotto
nella creazione di strumenti orientati non più soltanto ad affrontare gli
effetti nocivi delle attività umane, ma a cercare di prevenirle. Il tutto viene
approntato al fine di contemperare le esigenze produttivistiche con quelle
ambientali, elaborando strumenti in grado di evitare che le prime debbano
immancabilmente prevalere sulle seconde. Le prospettive in cui opera lo
strumento della VIA non è, dunque, conservativo e immobilista, ma si identifica
nell’ottica dello “sviluppo sostenibile”, sintomatico del passaggio dalla
“società industriale”, orientata esclusivamente verso lo sviluppo economico,
alla società c.d. “post-industriale”, in cui nella coscienza collettiva e nella
cultura dominante non si ritiene più accettabile uno sviluppo economico
incurante delle sue ripercussioni sulla sfera ambientale.
In base all’art.12 comma primo della direttiva 85/337 CEE, gli Stati membri
hanno l’obbligo di prendere le misure necessarie per conformarsi alle nuove
norme comunitarie entro un termine di tre anni a decorrere dalla notifica. Gli
Stati, dunque, avrebbero dovuto provvedere al recepimento della direttiva
all’interno dei rispettivi ordinamenti entro il 3 luglio 1988. L’attuazione
della direttiva, tuttavia, ha provocato nella maggior parte dei Paesi della
Comunità gravi difficoltà e proprio per questo motivo il periodo principale di
recepimento è stato generalmente quello successivo al 1988, in particolare il
biennio 90/91. Del resto è lo stesso carattere “quadro” della direttiva, la sua
vasta area di applicazione che coinvolge l’azione di vari organi governativi,
autorità pubbliche e procedure di autorizzazione, ad aver determinato alcuni
dubbi interpretativi sui requisiti procedimentali che devono essere rispettati;
questo è lo stato che emerge dalla Relazione della Commissione del 1993
sull’applicazione della direttiva27.
Nel contesto delineato, l’Italia si dimostra come la più sollecita a recepire
nel proprio ordinamento la procedura comunitaria di valutazione di impatto
ambientale. Nel 1986, infatti, entra in vigore la legge n. 34928 dell’8 luglio,
istitutiva del Ministero dell’ambiente, che, tra le varie disposizioni, detta
una disciplina transitoria di VIA impegnando il Governo a presentare al
Parlamento entro sei mesi un disegno di legge relativo al completo recepimento
delle norme comunitarie in questione29. Come segnalato sopra, e come evidenziato
anche dalla Relazione della Commissione del ’93, anche in Italia la particolare
delicatezza dei poteri coinvolti dalla nuova disciplina e le enormi modifiche
che sarebbero dovute essere apportate al sistema procedimentale, consigliavano
una più lunga maturazione prima di arrivare ad una disciplina completa e
definitiva della materia; ecco perché il legislatore ha preferito predisporre
una disciplina transitoria che intanto togliesse l’Italia dal rischio di
incappare nell’infrazione per mancato adempimento30. Potrebbe stupire, ma ancora
oggi, a quasi quattro lustri dall’entrata in vigore della regolamentazione
transitoria, la disciplina della valutazione di impatto ambientale si fonda
sulla legge n.349/86 e sui suoi regolamenti attuativi; è vero che si sono resi
necessari, specie dietro l’incalzante pressione della Comunità, interventi di
riforma, ma l’impalcatura sostanziale della legge è rimasta essenzialmente
quella originaria.
Da queste prime righe si capisce come, mancando una normativa generale e
completa , in Italia la disciplina della valutazione di impatto ambientale è
data dalla confusionaria stratificazione di interventi normativi che si
susseguono, il più delle volte, senza seguire una logica ben definita, ma per
coprire le manchevolezze che via via si manifestano nella disciplina provvisoria
di base.
La problematicità di una disciplina, a livello nazionale, che dopo quasi quattro
lustri dall’entrata in vigore continua ad essere quella “transitoria” comporta
numerose difficoltà se si vuole tentare di definire in modo chiaro ed
inequivocabile le linee di demarcazione della materia e di trovare un filo
logico conduttore che dia un senso all’intera impalcatura normativa. Lo stato
caotico a cui si fa riferimento deriva, come si è avuto modo di osservare, non
solo da una normativa incompleta e buona solo se adottata a scopo emergenziale,
come era originariamente negli intenti del legislatore, ma anche dagli
interventi successivi che sono stati effettuati sull’originario corpus
normativo. Inserendosi su una struttura già di per sé insufficiente, questi
interventi sono risultati essere più che altro dei rimedi precari per ovviare
alle lacune della legislazione originaria ed evitare che la Comunità Europea
avviasse procedure di infrazione contro l’Italia per la mancata attuazione della
direttiva VIA.
Tutti questi elementi hanno contribuito a rendere particolarmente spinoso il
lavoro condotto per discernere i tratti e i lineamenti dell’istituto.
La disciplina dei profili procedimentali della VIA è ricavabile mediante una
tutt’altro che agevole lettura trasversale e combinata di alcune disposizioni
collocate in tutti e tre gli atti normativi (art. 6 della legge n.349/86, e i
due D.P.C.M. del 1988) che formano la disciplina transitoria tuttora vigente. Al
di là delle norme poste in maniera speciale per il procedimento di VIA dagli
atti citati, non si deve dimenticare che la valutazione di impatto ambientale
rientra pur sempre nella grande categoria dei procedimenti amministrativi e
quindi è soggetta alla sopravvenuta legge generale sul procedimento, la legge n.241
del 7 agosto 1990. Da queste disposizioni risulta una struttura del procedimento
sostanzialmente molto lineare; la VIA si presenta come una catena procedimentale
tecnicamente indipendente, che accompagna in modo parallelo il procedimento
principale, per poi intersecarsi con esso al momento della decisione, dato che
l’autorizzazione o il diniego scaturente dalla VIA condiziona l’esito del
procedimento principale31.
La procedura indicata costituisce la struttura base del procedimento di
valutazione ambientale, ovvero la schematizzazione essenziale dei passaggi che
lo caratterizzano, raggruppati fondamentalmente nelle tre grandi aree
concatenate della fase dell’iniziativa, fase istruttoria e fase decisoria.
Inquadrare la VIA in questo contesto è molto semplice, in quanto, come visto, il
procedimento principale e quello di valutazione viaggiano autonomamente, seppur
collegati da un punto di vista logico; il primo si sospende al momento di
ottenere il giudizio di compatibilità ambientale il quale si va ad inserire
all’interno della sequenza procedimentale principale. Mostrare come il
procedimento si atteggia nella sua dinamica essenziale è il punto di partenza
per avere innanzitutto una visione chiara di base e quindi procedere nella
descrizione e analisi delle situazioni in cui la valutazione di impatto
ambientale va ad intersecarsi con soluzioni procedimentali differenti da uno
schema di procedimento base e con la presenza di particolari istituti. Talvolta
il legislatore, sia a livello generale, sia a livello settoriale, dà vita a
situazioni procedimentali semplificate o ad istituti volti a snellire la
macchinosa attività amministrativa: ebbene, scopo dell’analisi che ci si propone
di affrontare è quello di vedere come la VIA interagisce con queste situazioni
particolari.
Indubbiamente la fattispecie che in questa prospettiva maggiormente suscita
interesse è costituita dai rapporti tra la valutazione di impatto ambientale e
quello strumento di semplificazione amministrativa che è costituito dalla
conferenza di servizi.
Questa è una forma di cooperazione tra amministrazioni pubbliche introdotta a
livello generale dalla legge n.241/90 al fine di snellire l’azione
amministrativa evitando che, nei procedimenti particolarmente complessi, le
amministrazioni chiamate a parteciparvi debbano pronunciarsi in luoghi e tempi
diversi; la conferenza dei servizi costituisce una valutazione contestuale nella
quale le varie autorità coinvolte si fanno portatrici della propria volontà, e
da questo confronto viene fuori una decisione unica che tenga conto delle varie
posizioni e manifestazioni di volontà. Essa può essere indetta sia nella fase
istruttoria, in cui ciascuna amministrazione coinvolta può evidenziare
l’interesse di cui è portavoce, sia nella fase decisoria, nella quale conduce
alla determinazione finale in via collaborativa da parte di autorità dotate di
poteri decisori.
La disciplina dei rapporti che sussistono tra la conferenza dei servizi e la
valutazione di impatto ambientale va ricercata nell’art.14 della legge 241/90,
nel quale trova collocazione la disciplina generale della conferenza. Il numero
rilevante di commi e di articoli che sono stati aggiunti all’originario testo
testimoniano la vivace evoluzione che l’istituto ha attraversato e le numerose
vicende che hanno modificato e sono intervenute sul dettato normativo del ’90
che, a onor del vero, si presentava in proposito piuttosto scarno.
Se si legge l’articolo in questione così come appariva all’indomani
dell’approvazione della legge, si può facilmente notare che l’interesse
ambientale veniva menzionato nel quarto comma dell’art.14 come rientrante in
quella categoria di interessi all’acquisizione dei quali viene riservata una
regolamentazione particolare. Nel precedente comma terzo, infatti, si stabiliva
che “si considera acquisito, l’assenso della amministrazione la quale,
regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza o vi abbia
partecipato tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimerne
definitivamente la volontà, salvo che essa non comunichi all’amministrazione
procedente il proprio motivato dissenso entro venti giorni dalla conferenza
stessa ovvero dalla data di ricevimento della comunicazione delle determinazioni
adottate, qualora queste ultime abbiano contenuto sostanzialmente diverso da
quelle originariamente previste”32. Da quanto è disposto si evince che si
stabilivano degli oneri da rispettare da parte delle amministrazioni affinché
potessero avere voce in capitolo riguardo alla decisione da prendere nella
conferenza; gli stessi oneri venivano meno per le amministrazioni indicate nel
citato comma quarto dove si diceva che “le disposizioni di cui al terzo comma
non si applicano alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini”33. Il legislatore del
’90, dunque, ritiene che vi siano degli interessi, tra i quali quello
ambientale, che meritano di essere tutelati con maggiore incisività rispetto
agli altri: di qui la disciplina differente per cui in sede di conferenza dei
servizi non si poteva considerare acquisito l’assenso delle autorità portatrici
di tali interessi, quand’anche queste non avessero preso parte alla conferenza o
non avessero comunicato il loro “motivato dissenso”.
La medesima “ratio” è sottesa nella disciplina che il legislatore del ’90
colloca nell’art.16 della legge dove si fa menzione della circostanza in cui
l’autorità procedente sia obbligata a chiedere un parere consultivo ad un’altra
amministrazione: anche in questo caso vi sono dei limiti temporali per
l’amministrazione consultate che non valgono a norma del comma terzo, per le
stesse autorità che vengono privilegiate in sede di conferenza dei servizi,
ovvero quelle portatrici di interessi particolarmente rilevanti, come quello
ambientale. Il riferimento a quest’ultimo articolo è stato effettuato al fine di
sottolineare l’intenzione di apprestare una tutela privilegiata a certe
amministrazioni che è sottesa all’intero piano legislativo ed è la medesima che
anima la disciplina della conferenza dei servizi dell’art.14.
Quando la norma del ’90 fa riferimento alle “amministrazioni preposte alla
tutela ambientale” in generale, non v’è dubbio che vi rientri l’autorità
competente a svolgere la valutazione di impatto ambientale: dunque sin
dall’inizio dell’evoluzione della disciplina del procedimento amministrativo, il
legislatore avverte la necessità di concedere una strada preferenziale ad alcune
autorità, tra cui quella preposta alla VIA: è questo, dunque, il primo nucleo su
cui si sviluppa la disciplina successiva.
La disciplina che caratterizza il rapporto tra procedimento di VIA e conferenza
dei servizi rimane sostanzialmente invariato fino al 1994, anno in cui
interviene la legge n.109/94 (legge c.d. “Merloni”), ovvero “la legge quadro in
materia di lavori pubblici”, che in questo settore semplifica la procedura
relativa alla possibilità di acquisire la VIA nelle conferenza dei servizi.
Nell’art.16 della legge, infatti, distinguendo i livelli progettuali in
preliminare, definitivo ed esecutivo, inserisce la verifica della conformità
alle norme ambientali ed urbanistiche a partire dal progetto preliminare: nel
terzo comma dell’articolo, dove si trova il primo livello di progettazione,
viene fatta menzione di “una relazione illustrativa delle ragioni della scelta
della soluzione prospettata in base alla valutazione delle eventuali soluzioni
possibili, anche con riferimento ai profili ambientali”; nel quarto comma , dove
viene disciplinato il progetto definitivo, si trova espressamente menzionato lo
“studio di impatto ambientale” come elemento necessario del progetto, ove
previsto.
Analizzando i riferimenti normativi analizzati, si può comprendere la scelta
effettuata dal legislatore del ’94, ovvero quella di inserire il procedimento di
valutazione di impatto ambientale in maniera organica all’interno del
procedimento di valutazione e autorizzazione del progetto sin dal momento della
redazione del progetto preliminare. Considerando, poi, il fatto che, nella
maggior parte dei casi, il momento della valutazione iniziale del progetto viene
effettuato all’interno di una conferenza di servizi, si arriva facilmente alla
conclusione che il procedimento di VIA è stato inserito nella conferenza sul
progetto preliminare.
Quale significato si deve attribuire alla compenetrazione tra valutazione di
impatto ambientale e conferenza di servizi sul progetto preliminare? Forse
questa scelta sancisce la “morte” della VIA in quanto procedimento autonomo e la
trasforma in un semplice parere acquisito in sede di conferenza? Indubbiamente
la soluzione optata dal legislatore lascia aperte le strade a diverse tesi
interpretative, dal momento che il tenore del disposto normativo sembra
parificare, da un punto di vista formale, la valutazione sull’impatto ambientale
a tutte le altre semplici forme di valutazione tecnica sul progetto. La scarsa
chiarezza della legge n.109/94, ma anche degli altri atti normativi che
intervengono sulla disciplina della VIA non fanno altro che alimentare il
dibattito circa la natura giuridica di questo istituto, argomento di cui si è
detto sopra. In questa sede ciò che interessa di più è il profilo tecnico della
questione oggettivamente osservata e ne risulta una soluzione procedimentale
volta alla semplificazione: il procedimento di VIA non si atteggia più a
sequenza separata, autonoma e connessa soltanto da un punto di vista logico e
funzionale, non viaggia più su un binario parallelo come avveniva in precedenza,
quando soltanto a progetto definito e pronto per l’esecuzione si effettuava il
confronto con il risultato del giudizio di compatibilità ambientale. La VIA, a
seguito dell’intervento di riforma, “entra” nel procedimento autorizzatorio
principale e viene bilanciata con gli altri interessi sin dal momento dello
studio tecnico sulla fattibilità del progetto.
La compenetrazione della VIA con la conferenza di servizi viene attuata in
maniera del tutto simile dal D.P.R.. n.554/99 che sembra ricalcare interamente
lo schema fornito dalla legge n.109/94: ormai la valutazione di impatto
ambientale si interseca con il momento di valutazione tecnica del progetto tant’è
vero che nell’art.25 tra gli elementi costituenti il progetto definitivo, che a
sua volta si basa sulle indicazioni del progetto preliminare , compare lo
“studio di impatto ambientale ove previsto dalle vigenti normative ovvero studio
di fattibilità ambientale” (comma 2, lett. f).
Dunque anche nella logica del D.P.R. n.554/99, la VIA non si incrocia con il
procedimento principale soltanto nel momento in cui il progetto è stato
approntato, ma percorre insieme a quest’ultimo l’intero iter procedimentale, dal
livello preliminare di progettazione fino a quello definitivo pronto per essere
eseguito.
Se la strada intrapresa dalla VIA con la legge n.109/94 costituisce il risultato
del primo intervento di riforma della disciplina originaria, la struttura degli
artt.14 e seguenti della legge n .241/90 è stata oggetto di profonda modifica in
particolare ad opera di due atti normativi, ai quali specialmente occorre far
riferimento se si vuole avere il quadro completo della norma così come si
presenta all’inizio del 2005, quando interviene l’ultimo intervento
riformistico. Dunque, fino a qualche mese fa, se si voleva una rappresentazione
globale della disciplina, si doveva far riferimento fondamentalmente alle
modifiche apportate rispettivamente, dalla legge “Bassanini”n.127/97 intitolata
“Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei
procedimenti amministrativi” ed alla legge n.340/00.
Osservare gli articoli della legge n.241/90 come risultano complessivamente
modificati a seguito anche della riforma del 2000, è utile al fine di avere un
chiaro termine di paragone con la disciplina entrata da poco in vigore e poter
valutare in maniera consapevole quali possano essere le prospettive che si
aprono con la nuova legge.
La figura della VIA che la normativa ci consegna all’indomani del 2000 è quella
di un procedimento fortemente allacciato con quello autorizzatorio principale,
sulla scia della strada intrapresa dai primi interventi di modifica. La VIA
entra in relazione con il procedimento principale fin dalla sua fase preliminare
che, come visto nel paragrafo precedente, è quella in cui vengono effettuati gli
studi di impatto ambientale. Il comma terzo dell’art.14-bis dice che “nel caso
in cui sia richiesta VIA, la conferenza di servizi si esprime entro trenta
giorni dalla conclusione della fase preliminare di definizione dei contenuti
dello studio di impatto ambientale, secondo quanto previsto in materia di VIA.
Ove tale conclusione non intervenga entro novanta giorni dalla richiesta di cui
al comma 1, la conferenza di servizi si esprime comunque entro i successivi
trenta giorni. Nell’ambito di tale conferenza, l’autorità competente alla VIA si
esprime sulle condizioni per la elaborazione del progetto e dello studio di
impatto ambientale. In tale fase, che costituisce parte integrante della
procedura di VIA, la suddetta autorità esamina le principali alternative,
compresa l’alternativa zero, e, sulla base della documentazione disponibile,
verifica l’esistenza di eventuali elementi di incompatibilità, anche con
riferimento alla localizzazione prevista dal progetto e, qualora tali elementi
non sussistano, indica nell’ambito della conferenza di servizi le condizioni per
ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, i necessari atti di
consenso”. La conferenza di servizi, dunque, che fa parte, da un punto di vista
funzionale, del procedimento autorizzatorio principale, non acquisisce il
giudizio di compatibilità ambientale già definito, ma va ad intersecarsi con il
procedimento di VIA, quando quest’ultimo è ancora nella fase dello studio e
della ricerca di dati tecnici e degli interessi coinvolti.
Nel medesimo comma terzo dell’art.14-bis il legislatore opera una fusione da un
punto di vista formale tra la prima fase della VIA e la conferenza di servizi
sul progetto preliminare.
Si dice di quest’ultima che essa “costituisce parte integrante della procedura
di VIA”; dunque i due procedimenti mettono in comune una fase, quella appunto
della conferenza dei servizi, nella quale si inserisce la presentazione dello
studio sull’impatto ambientale (S.I.A.) che, preso in se stesso fa parte del
primo segmento della VIA. Del resto (qui si coglie l’intento di semplificazione
che ha spinto il legislatore a tale scelta) raccogliere e ponderare gli
interessi nella medesima sede in cui vengono analizzati tutti gli altri aspetti
tecnici del progetto (ovvero la conferenza di servizi c.d. “istruttoria” che
trova la sua disciplina nell’art.14 bis) costituisce motivo di notevole
snellimento dell’intera procedura, dal momento che si evita il doppio esame del
progetto, essendo il primo quello che riguarda gli aspetti tecnici sulla sua
realizzazione, il secondo quello del confronto con il risultato di un’altra
procedura separata ovvero quella di VIA.
Se nell’art.14-bis della legge n,241/90 viene disciplinata la conferenza di
servizi “istruttoria” ovvero quella che raccoglie le osservazioni e i pareri
delle amministrazioni portatrici dei vari interessi coinvolti, nel successivo
art.14-ter trova collocazione la disciplina della stessa conferenza di servizi,
ma colta nel momento in cui le amministrazioni presenti, dotate di poteri
decisori, prendono una decisione: ci si trova, quindi, dinanzi alla conferenza
di servizi c.d. “decisoria”.
Nel quarto comma di questo articolo si trova la regolamentazione del ruolo che
gioca il procedimento di VIA nei confronti della conferenza nel momento in cui
si prende la decisione finale sul progetto. “Nei casi in cui sia richiesta la
VIA, la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito la valutazione
medesima”: così dice il testo della legge. Ancora una volta la procedura di VIA
fa il suo ingresso in sede di conferenza; nella fattispecie esaminata sopra la
VIA e il procedimento principale condividevano la fase istruttoria, di raccolta
degli elementi, ora entrambi i procedimenti sono giunti al punto di emettere una
decisione: si tratta di vedere in che rapporto stanno tra loro queste due
decisioni. Quello che conta evidenziare è come il procedimento principale non
emetta una decisione se prima non sia stato acquisito il giudizio formulato
dalla VIA e come l’amministrazione competente si esprima non fuori, ma in sede
di conferenza: quanto si dice nel testo della legge fa capire che il legislatore
ha scelto anche in questa fase, ai fini della semplificazione, di compenetrare i
due procedimenti fondendo i due momenti culminanti, ovvero quelli decisionali in
un’unica sede, quella della conferenza di servizi.
A conclusione della disciplina del rapporto tra VIA e procedimento principale,
non si può omettere uno dei punti della normativa su cui maggiormente ha inciso
l’intervento di riforma, ovvero la disciplina del dissenso da parte
dell’autorità competente ad emettere il giudizio di compatibilità ambientale.
La disciplina del dissenso in generale viene collocata nell’art.14-quarter della
legge n.241/90; in maniera speciale il “motivato dissenso” riguardante le
autorità preposte alla tutela dell’ambiente, e quindi anche quelle competenti in
materia di VIA, si trova nel comma terzo: si dispone che il dissenso manifestato
in conferenza di servizi sia superabile mediante l’istituto, visto sopra, del
rinvio della questione al Consiglio dei Ministri che, in via di extrema ratio,
ha il potere di assumere tutte le determinazioni del procedimento stesso,
comprese quelle che riguardano interessi forti come, in questo caso, l’ambiente.
Il quadro normativo che è stato delineato nel paragrafo precedente costituisce
lo stato in cui si presenta la disciplina agli inizi del 2005, quando la legge n.241/90
sul procedimento amministrativo, con tutte le modifiche che sono state viste e
commentate sopra, va incontro ad un nuovo e imponente intervento di riforma: si
fa riferimento alla legge n.15/05, approvata il 26 gennaio e intitolata
“Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n.241, concernenti norme
generali sull’azione amministrativa”, che “sotto alcuni profili costituisce per
così dire, un restyling”34 del vecchio testo normativo. Lo spirito della legge è
duplice: da un lato essa contiene norme che altro non sono se non il recepimento
in sede legislativa, di orientamenti di origine giurisprudenziale; dall’altro
lato essa tende, sia pur talvolta in modo confuso, a mutare e rendere
maggiormente paritario il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione.
Gli articoli che vanno dall’8 al 13 della legge incidono, in modo specifico,
sulla disciplina dell’istituto della conferenza di servizi, che va a modificare,
quindi, gli artt. 14 e ss. della legge n.241/90.
Al momento in cui si scrive, la legge di modifica è entrata in vigore soltanto
da pochi mesi e sembra prematuro dare un giudizio definitivo sulle nuove
dinamiche introdotte all’interno del procedimento e, in particolare, sulla
conferenza di servizi; anche all’interno della dottrina le voci più autorevoli
non hanno avuto ancora modo di formulare un’opinione completa ed esaustiva
sull’argomento. Di conseguenza l’unico approccio che sembra possibile allo stato
attuale è quello di un semplice raffronto testuale tra la vecchia e la nuova
normativa al fine di evidenziare dove si sia optato per una soluzione di
continuità e dove, invece, si sia scelto di percorrere nuove vie; e poi cercare
di preveder dove il percorso, che queste nuove vie segnano, potrebbe condurre e
quali sono i nuovi orizzonti che si prospettano.
Innanzitutto, prima di analizzare i rapporti che in virtù della modifica,
sussistono tra VIA e conferenza di servizi, si rende necessario soffermarsi
brevemente sulla figura della conferenza come esce dalla revisione normativa.
Nella fase istruttoria essa resta lo strumento normale per l’esame contestuale
dei vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento (art.14, comma primo).
Nella fase decisoria la conferenza ha carattere obbligatorio, in tutti i casi in
cui l’amministrazione procedente “deve acquisire intese, concerti, nullaosta o
assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche” (art.14, secondo
comma); laddove non li ottenga, dispone la nuova norma, essa ha carattere
obbligatorio trascorsi “trenta giorni dalla ricezione, da parte
dell’amministrazione competente, della relativa richiesta”. Nel caso in cui le
amministrazioni interpellate abbiano risposto nello stesso termine in maniera
negativa, la conferenza può essere indetta dall’amministrazione procedente.
Quindi nella fase decisoria la conferenza può essere sempre indetta e diventa,
così, lo strumento normale di conclusione del procedimento.
La conferenza decisoria resta strumento facoltativo nei casi indicati dal
vecchio terzo comma dell’art.14 (introdotto dalla legge n.127/97), ovvero per l’
“esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi
connessi, riguardanti medesime attività o risultati”.
La conferenza di servizi, stando alla vecchia disciplina, è chiamata a
determinare all’inizio dei suoi lavori, il termine per l’adozione della
decisione conclusiva, che non può superare i novanta giorni. Trascorso questo
termine, secondo la nuova normativa, l’amministrazione procedente adotta la
determinazione motivata di conclusione del procedimento, tenendo conto delle
risultanze della conferenza e delle posizioni prevalenti in quella sede (art.6-bis);
si tratta di una norma acceleratoria che consente all’amministrazione procedente
di concludere comunque il procedimento a fronte di mancata collaborazione da
parte delle altre autorità.
Occorre soffermarsi sul comma 6-bis dell’art.14-ter, in quanto esso comporta una
rilevantissima modifica rispetto al precedente dettato normativo che era
presente nel vecchio secondo comma dell’art.14-quater. Nella vecchia normativa
si diceva che l’amministrazione procedente “assume comunque la determinazione di
conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni
espresse nella conferenza di servizi”: il criterio su cui si fondava la
determinazione era, dunque, quello della “maggioranza” delle posizioni espresse.
Questo criterio viene sostituito dalla riforma del nuovo criterio della
“prevalenza delle posizioni espresse”. Il problema, ora, è definire che cosa si
intenda per “prevalenza” usata al posto di “maggioranza”. Presumibilmente mentre
il criterio della maggioranza è eminentemente soggettivo, nel senso che ad ogni
amministrazione partecipante va riferito un voto, si può ritenere che il
criterio della prevalenza vada riferito al tipo e alla importanza delle
attribuzioni di ciascuna amministrazione con riferimento alle questioni in
oggetto35. Quindi l’amministrazione in sede di conferenza di servizi dovrà avere
riguardo alle singole posizioni che le varie amministrazioni coinvolte assumono
con riferimento al potere che ciascuna di esse avrebbe di determinare l’esito
del procedimento.
La conclusione della conferenza avviene con la determinazione motivata di
conclusione da parte dell’amministrazione procedente.
Dopo aver illustrato lo schema essenziale della nuova procedura di svolgimento
della conferenza di servizi, se il suo iter sembra sufficientemente chiaro e
delineato, un punto lascia aperti dubbi e perplessità, ovvero lo stesso punto
sul quale poche righe sopra ci si è soffermati, cioè il concetto di “prevalenza
delle posizioni espresse”. Compito del legislatore è quello di esprimere nella
maniera più sintetica e precisa possibile il maggior numero di concetti, quanto
meno quelli necessari e sufficienti affinché l’azione che viene indicata nel
testo legislativo possa essere svolta senza dubbi ed incertezze. Tuttavia, in
questa circostanza il legislatore sembra venir meno proprio in quella che
dovrebbe essere la sua migliore virtù, dato che la norma sicuramente non brilla
per chiarezza.
Riguardo all’autorità che prende la decisione non sembrano esserci dubbi, dato
che a proposito la legge è chiara nel dire che essa sia l’amministrazione
proponente; ma in quanto al criterio da utilizzare per prendere la decisione
stessa, ovvero quello della prevalenza, non si riesce a capire bene come esso
funzioni.
Parlare di prevalenza significa che esiste una scala gerarchica tra le varie
amministrazioni partecipanti alla conferenza, per cui la voce di una è più
pesante di quella di un’altra. Ma a chi si deve fare riferimento per conoscere
questa gerarchia? Chi è dotato dalla legge di quel potere discrezionale per
poter fornire un’indicazione precisa sul peso decisionale delle singole
autorità? Indubbiamente, la vaghezza della legge lascia fortemente perplessi.
All’interno di questo sistema decisionale della nuova conferenza di servizi si
inserisce, ovviamente, accanto alle altre manifestazioni di volontà, il giudizio
di compatibilità ambientale; ma alla luce della scarsa chiarezza del criterio
decisionale, che valore ha l’autorità competente per la valutazione? Inoltre,
chi si fa garante dell’effettivo rispetto e della tutela dell’interesse
ambientale? Un aspetto in particolare di questa nuova disciplina lascia
perplessi: si tratta della norma contenuta nell’art.3 bis inserito dalla
normativa del 2005 nella struttura dell’art. 14 bis della legge n.241/90. Nella
norma in questione, che va coordinata con il comma 3 dell’art.14 quater, si dice
che in caso di motivato dissenso di un’amministrazione preposta alla tutela
ambientale “la decisione è rimessa dall’amministrazione procedente, entro dieci
giorni: a) al Consiglio dei Ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni
statali; b) alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e
le Province autonome di Trento e Bolzano, in caso di dissenso tra
un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali;
c) alla Conferenza unificata, di cui all’art.8 del d.lgs. 28 agosto 1997 n.281,
in caso di dissenso tra un’amministrazione statale o regionale e un ente locale
o tra più enti locali”.
Leggendo la norma salta all’occhio che, rispetto alla vecchia procedura è stata
anticipata la valutazione politica addirittura alla conferenza di servizi
preliminare, mentre nella vecchia normativa la soluzione poteva essere affidata
ad organi politici soltanto qualora il motivato dissenso fosse stato manifestato
nel momento decisionale. Di fatto la nuova legge, facendo riferimento ad una
valutazione di opportunità politica, sottrae la valutazione ai vincoli più
stretti e rigorosi di un esame svolto all’interno del procedimento
amministrativo.
Allo stato attuale, queste domande sembrano non trovare risposta e la soluzione
sembra perdersi in un mare tempestoso privo di riferimenti certi a livello
legislativo. Non sembra azzardato affermare che la normativa a tal proposito già
in partenza si presenti in un certo modo come gravata da un forte handicap.
La grande difficoltà di analizzare gli istituti della materia ambientale e di
delineare un quadro chiaro è rappresentata non soltanto dall’incidenza che su di
essi ha la normativa riguardante settori afferenti, come quella, appena vista,
di riforma del procedimento amministrativo; la stessa legislazione ambientale si
presenta in uno stato di continuo divenire. Il panorama, già di per se poco
chiaro, viene reso ancora più nebuloso dalle nuove prospettive di riforma del
procedimento di VIA, in relazione con gli altri procedimenti del settore
ambientale, contenute nella legge delega n.308/04 recante “Delega al governo per
il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia
ambientale e misure di diretta applicazione”.
I principi e i criteri speciali di delega, per quello che interessa l’argomento
che si sta trattando, ovvero la semplificazione procedimentale, contengono
prescrizioni rilevanti che riguardano l’anticipazione della VIA alla prima
presentazione del progetto con la previsione di un sistema di controllo ex post
sull’ottemperanza alle prescrizioni impartite dal giudizio di VIA; l’intento del
legislatore è quello di generalizzare l’impostazione accolta dalla c.d. “legge
obiettivo”. La massima anticipazione possibile della VIA era un’esigenza,
mostrata in ambito comunitario, dettata dalla mancanza di uno strumento di
studio delle esigenze ambientali nel momento della pianificazione territoriale.
Ora che è entrata in vigore la VAS che, come si vedrà oltre, sottopone a
valutazione ambientale non un singolo progetto, ma un intero piano o programma
territoriale, sarebbe più congruo lasciare alla VIA quello che è il suo ruolo
originario, ovvero di studio delle modalità concrete di attuazione del progetto,
ovvero di analisi di come l’opera attualmente andrà realizzata. La ratio della
normativa comunitaria è che l’intero “ciclo del progetto” vada sottoposto a
valutazione sull’impatto ambientale: tale ciclo sembra coperto dall’esistenza
dei due istituti, della VAS, che si occupa del livello della generale
programmazione territoriale, che contiene, quindi l’ “an” dell’opera, e della
VIA, che ha il dovere di scendere nel dettaglio del “quomodo” dell’opera stessa.
Alla luce di tali considerazioni si comprende la ragione per la quale la
valutazione non deve limitarsi soltanto al progetto preliminare lasciando quello
definitivo ad un semplice controllo di ottemperanza, ma occorre che anche quest’ultimo
sia sottoposto ad una dettagliata valutazione al fine di considerare
concretamente anche quegli elementi che si sono presentati nel corso dell’opera
di progettazione e che non erano prevedibili al momento del progetto preliminare36.
3) V.I.A. E TUTELA DELL’AMBIENTE NEL SETTORE DELLE OPERE PUBBLICHE COME
RECENTEMENTE RIORDINATO
Non ha senso parlare di valutazione di impatto ambientale se poi questa forma
particolare di procedimento amministrativo non viene contestualizzata
all’interno del più vasto settore nel quale essa opera e nei confronti del quale
essa svolge una funzione strumentale: si fa riferimento al settore che comprende
i procedimenti autorizzatori per la realizzazione delle opere. Soltanto
inserendo la VIA in questo contesto più ampio si può cogliere quale sia la sua
funzione e come, nel complesso, si vada a rapportare con gli altri strumenti
amministrativi.
Finora il procedimento di VIA è stato esaminato e “vivisezionato” nel suo
interno: sono state analizzate le sue fasi ed è stato studiato ogni singolo
“ingranaggio” che compone questo meccanismo procedimentale. A questo punto lo
sforzo intellettuale che si richiese è diverso. Bisogna “uscire fuori” dal
procedimento di VIA e guardare l’iter autorizzatorio del progetto nel suo
complesso, nella sua interezza; bisogna uscire dalla dimensione del “micro” per
accedere a quella del “macro” dove lo svolgersi dell’azione amministrativa è
percepita in tutto il suo dispiegarsi.
In particolare, in questa trattazione, tra le varie categorie di opere, si vuole
focalizzare l’attenzione sulla categoria delle opere pubbliche che generalmente
comprende gli interventi di maggiore portata e quindi di maggiore impatto
sull’ambiente. Le opere pubbliche acquistano una maggiore rilevanza specie
nell’attuale frangente storico in cui il Governo, nell’attuazione del suo
programma, ha inteso, in ossequio alla propria filosofia neoliberista, temperata
da accenti neokeynesiani, mettere al centro della sua opera gli interventi
pubblici, intesi come principale strumento di intervento a favore delle aree
depresse del Mezzogiorno.
Al fine di dare un impulso alla realizzazione di opere pubbliche, il legislatore
ha recentemente ridisegnato l’intero quadro giuridico di riferimento. La legge
11 febbraio 1994, n. 109, legge quadro in materia di lavori pubblici, è stata
modificata dalla legge 3 agosto 2002, n. 166, c.d. “collegato infrastrutture”.
Con le modifiche apportate si è voluto ritoccare l’assetto giuridico riguardante
la realizzazione dei lavori pubblici. E’ stato emanato il d.lgs 20 agosto 2002,
n. 190, c.d. legge obiettivo, in attuazione della legge delega 21 dicembre 2001,
n. 443, in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici e di
interesse nazionale. Con tale intervento, il legislatore ha dettato una
disciplina ad hoc per la realizzazione di opere di elevata rilevanza nazionale.
Dal quadro legislativo sommariamente rappresentato si mette in evidenza quella
distinzione che costituisce la “summa divisio” all’interno del settore delle
opere pubbliche: da una parte le opere c.d. “strategiche”, dall’altra quelle
che, a contrario, possono essere definite “non strategiche”. Prima di proseguire
nell’analisi normativa della materia, conviene innanzitutto fare chiarezza su
tale distinzione.
Al fine di favorire la realizzazione di grandi opere infrastrutturali,
all’interno della “famiglia” delle opere pubbliche è stata individuata la
categoria delle opere definite “strategiche”; la definizione di tale settore è
stata effettuata dalla legge c.d. “obiettivo”, il d.lgs.190/02, in attuazione
della legge delega n.443/01, allo scopo di introdurre una disciplina molto più
favorevole rispetto alla disciplina generale per altre opere.
Delimitato il settore delle “opere strategiche” o “grandi opere”, per esclusione
tutti gli altri interventi rientrano nella categoria delle opere “non
strategiche” per le quali continua a valere la disciplina generale, ovvero il
corpus normativo che si fonda sulla legge n.109/94 (legge Merloni) e sul D.P.R.
n.554/99; a questa normativa va poi ad aggiungersi il c.d. “collegato
infrastrutture”, nome gergale della legge n.166/02 che riforma provvisoriamente
la Merloni per rispondere alle esigenze di semplificazione, che gli operatori di
settore richiedevano alla stregua delle semplificazioni introdotte dalla legge
obiettivo per le grandi opere.
Attualmente, la legge ll.pp. prevede due metodologie di realizzazione delle
opere pubbliche “non strategiche”: l'appalto e la concessione di lavori
pubblici, salvo i c.d. lavori in economia. Per le opere c.d. strategiche, la
legge obiettivo prevede la concessione e l’affidamento unitario a contraente
generale.
L'appalto è il contratto con quale una parte si obbliga al compimento di
un'opera verso un corrispettivo in denaro. La formula contrattuale dell'appalto
non prevede una gestione dell'opera da parte del soggetto appaltatore, in quanto
il corrispettivo dell'opera è rappresentato dal denaro.
Il contraente generale si occupa della progettazione, realizzazione e
finanziamento delle infrastrutture, ma non si occupa della loro gestione. Il
contraente generale si assume tutti i rischi relativi alla fase di realizzazione
dell'opera, compreso l’obbligo di risultato complessivo del rapporto, le
adeguate garanzie e il relativo finanziamento anticipato, ma non si incarica
della gestione.
L’unica formula contrattuale nella quale la controparte privata si obbliga sia
alla realizzazione, sia alla gestione dell’opera è la concessione di lavori
pubblici. L’amministrazione affida ad un concessionario la costruzione di una
infrastruttura il cui sfruttamento è produttivo di guadagno e, quindi, può
rappresentare una controprestazione, sostituendosi al pagamento in denaro. Solo
in relazione a questa metodologia contrattuale si può parlare di realizzazione
con connessa “utilizzazione economica”, in quanto il soggetto costruttore e
gestore ha la principale finalità di recuperare, attraverso lo sfruttamento
dell'opera, l'investimento iniziale e trarne un guadagno. La concessione di
lavori pubblici è, infatti, definita dall'art. 19, comma 1 della legge ll.pp.,
come “un contratto avente ad oggetto la progettazione, la costruzione e la
gestione dell'opera pubblica o di pubblica utilità”. La legge obiettivo, nel
disciplinare l’istituto della concessione in relazione alle opere strategiche,
rinvia agli articoli della legge ll.pp., con differenze di rilievo marginale.
Alla luce di quanto detto, ora che si ha più chiaro lo svolgimento dell’iter per
la realizzazione dei suddetti interventi, è possibile soffermarsi per inserire
la procedura di valutazione di impatto ambientale all’interno di questa sequenza
procedimentale.
Ancora una volta, come si è fatto per l’analisi della disciplina generale,
bisogna seguire il discrimine della distinzione effettuata dalla legge obiettivo
ed esaminare, quindi, il procedimento per le opere strategiche in modo distinto
da quello per le altre opere.
All’interno della prima categoria, ovvero le “grandi opere”, la legge stabilisce
che deve essere presentato il progetto preliminare (corredato della descrizione
cartografica delle aree impegnate, delle eventuali fasce di rispetto e delle
misure di salvaguardia, delle caratteristiche prestazionali e funzionali, delle
infrastrutture ed opere connesse, nonché delle spese per eventuali opere e
misure compensative dell’impatto territoriale e sociale) e lo studio di impatto
ambientale (art.3 comma 3)37.
Il progetto preliminare delle opere strategiche pubbliche non è sottoposto a
conferenza dei servizi, ai fini della sua approvazione da parte del CIPE (art.3,
comma 5), essendo prevista una speciale procedura, che si applica anche per il
rilascio della valutazione di impatto ambientale, nonché per il conseguimento
(contestuale o successivo con la medesima procedura) di tutte le autorizzazioni
e gli altri atti di consenso necessari (art.13, comma1).
L’approvazione da parte del CIPE (regolata dal principio di maggioranza)
determina anche “l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e
perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-Regione sulla
sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti
urbanistici vigenti ed adottati”38, mentre l’adozione delle misure di
salvaguardia è rimessa alla competenza degli enti locali (art.3, comma 7).
A mettere in moto il meccanismo procedimentale è sempre il soggetto proponente
che deve trasmettere una copia del progetto ai ministeri delle infrastrutture e
delle attività produttive, alle altre amministrazioni interessate rappresentate
nel CIPE, e ad ogni altra amministrazione titolare di poteri autorizzatori o
permissivi in materia. Per quanto concerne l’avvio del procedimento di VIA, il
proponente è tenuto al deposito dello studio di impatto ambientale ed alla
pubblicazione sui quotidiani delle essenziali notizie dell’iniziativa, atto che
configura formale comunicazione ai privati interessati ai sensi della legge n.241/90
(art.13, comma 3).
Lo speciale procedimento disciplinato dal d.lgs. 190/2002 riguarda solo
infrastrutture e insediamenti produttivi soggetti alla VIA statale (art.17,
comma 1). Per le opere soggette a screening o VIA di competenza regionale, le
Regioni effettuano la propria valutazione entro 90 giorni39, ma il provvedimento
di compatibilità ambientale è sempre riservato al CIPE (art.17, comma 4).
Il procedimento di VIA è obbligatorio, vincolante e preventivo, in quanto deve
essere concluso prima dell’avvio dei lavori (artr.17, comma 2)
Il procedimento delineato dall’art.19 ricalca integralmente quello ordinario con
la sola ma significativa differenza che la valutazione del Ministero
dell’ambiente sulla compatibilità ambientale dell’opera esaminata non
costituisce atto conclusivo e definitivo del subprocedimento, ma assume valore
ed efficacia giuridica di una proposta, mentre il “provvedimento di
compatibilità ambientale è adottato dal CIPE, contestualmente all’approvazione
del progetto preliminare”(art.18, comma 6).
Come si può osservare dall’esame della disciplina che riguarda la procedura di
VIA all’interno del procedimento di realizzazione delle opere “strategiche”, la
differenza fondamentale rispetto alle altre opere costituisce nel fatto che la
VIA ha ad oggetto il progetto preliminare, mentre la VIA delle opere “non
strategiche” ha ad oggetto il progetto definitivo: in definitiva è il CIPE che
esamina il progetto preliminare e, tra le altre valutazioni, effettua anche
quella sull’impatto ambientale; di fatto il risultato finale è che il progetto
definitivo, quello che poi verrà eseguito, viene sottratto alla valutazione
ambientale, lasciandolo sottoposto ad un meno penetrante giudizio di
ottemperanza. Questo comporta una notevole semplificazione dell’intero iter
procedimentale che ne risulta notevolmente snellito; il tutto per rendere
possibile un ampio programma di investimenti pubblici in ossequio alla filosofia
che è alla base della legge. Tuttavia, se da un lato ne risulta agevolata la
politica degli investimenti pubblici, dall’altro lato sembrano fortemente
frustrate le garanzie poste a tutela dell’interesse ambientale.
Dopo aver effettuato una panoramica sullo scenario normativo in materia di
lavori pubblici a livello nazionale, è necessario completare il quadro
allargando il raggio di analisi al panorama comunitario nel quale, ultimamente,
si sono registrate innovazioni di enorme rilievo.
Tra queste, la direttiva 04/18/CE del 31 marzo 2004 rappresenta senza dubbio una
svolta epocale nell'opera di armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri dell'UE: non solo la disciplina in materia di appalti viene unificata, ma
grazie al ricorso alle procedure elettroniche è possibile conseguire vantaggi in
termini di minori spese e di abbreviazione dei tempi tecnici per l'espletamento
delle procedure concorsuali40.
Essa si propone di riordinare il diritto comunitario in materia di appalti,
unificando le precedenti disposizioni contenute nelle direttive 92/56/CEE,
93/36/CEE e 93/37/CEE che avevano in precedenza codificato in modo separato,
rispettivamente, la disciplina degli appalti di servizi, di forniture e di
lavori.
L'obiettivo principale del legislatore comunitario è di realizzare un corpo
unico di testi organico ed organizzato, omogeneo nei principi generali e negli
istituti da applicare; dunque non una mera collazione di testi distinti41.
In questo contesto, sebbene l'intento principale sia stato quello di coordinare
le diverse discipline di settore, si è colta l'occasione per attualizzare la
disciplina degli appalti immettendo nel corpus iuris nuove norme che
difficilmente non produrranno un impatto sulle legislazioni nazionali. Impatto
la cui portata non è agevolmente misurabile ex ante, soprattutto in riferimento
ad una tecnica legislativa, quale quella italiana, che abbandona il carattere
generale ed aperto del sistema comunitario per riversarsi in una produzione
quasi sempre troppo analitica, alle volte autenticamente claustrofobica42.
La Direttiva si compone di 84 articoli, 12 allegati ed è preceduta da 51
considerando la cui lettura anticipa e spiega presupposti, ragioni e finalità
degli indirizzi e delle scelte effettuate.
Uno strumento normativo breve, tendenzialmente completo ed agile che cerca in
definitiva di: semplificare il quadro giuridico esistente; coordinare il
contenuto delle tre direttive classiche; chiarire le disposizioni oscure e
complesse; attualizzare la normativa di settore.
Effettuata questa rassegna generale sulle innovazioni apportate dalla direttiva
nel settore delle opere pubbliche, si può adesso concentrare l’attenzione
sull’aspetto della normativa comunitaria che riguarda più da vicino l’argomento
che si sta trattando: si fa riferimento ai c.d. criteri ecologici da considerare
al momento della valutazione delle offerte di appalto; ebbene, è proprio con
riferimento a questo settore che la direttiva apporta un significativo
cambiamento. Tuttavia, prima di incentrare l’attenzione sulla nuova normativa, è
opportuno effettuare un breve excursus in riferimento al quadro normativo
precedente per avere a disposizione, così, i due termini di paragone.
A dire il vero i testi normativi non forniscono indicazioni precise a riguardo,
anzi spesso si fermano ad indicazioni di principio che lasciano gli interpreti
nell’indecisione, consegnando, come molte volte avviene, alla giurisprudenza il
compito di estrapolare dal principio di carattere generale i criteri ai quali ci
si deve attenere in sede di valutazione.
La materia degli appalti costituisce indubbiamente il settore guida che fornisce
la disciplina di riferimento in materia. Si può, dunque, prendere come
riferimento la normativa sugli appalti per vedere quali sono le indicazioni che
il legislatore a proposito fornisce.
A livello comunitario le pertinenti disposizioni sono contenute nella direttiva
n.93/37 CEE del 14 giugno 1993, sopra nominata, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori e costituisce il blocco
normativo di riferimento nel settore. Essa, dopo aver definito all’art.1 gli
appalti pubblici quali quelli aventi ad oggetto l’esecuzione o, congiuntamente,
l’esecuzione e la progettazione di lavori, attribuisce alle amministrazioni la
facoltà di scelta tra procedure aperte (corrispondenti ai pubblici incanti),
procedure ristrette (corrispondenti alla licitazione privata) e procedure
negoziate, indicando al successivo art.30 i criteri di aggiudicazione
alternativamente adottabili dalle amministrazioni aggiudicatici, individuati nel
prezzo più basso o nell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La disposizione fondamentale relativa ai criteri di aggiudicazione, contenuta
nell’art.30, n.2, della Direttiva 93/37, così recita: “i criteri sui quali
l’amministrazione aggiudicatrice si fonda per l’aggiudicazione dell’appalto
sono:
a) unicamente il prezzo più basso
b) quando l’aggiudicazione si fa a favore dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, diversi criteri variabili secondo l’appalto: ad esempio il prezzo,
il termine di esecuzione, il costo di utilizzazione, la redditività, il valore
tecnico”.
Salta all’occhio, tra i criteri indicati per l’aggiudicazione, l’assenza
dell’elemento della tutela ambientale. Tale mancanza sussiste anche nella
disciplina nazionale che, in materia di appalti, fa riferimento alla legge
Merloni, la n.109/94.
Ai sensi dell’art.21, comma 1, “l’aggiudicazione degli appalti mediante pubblico
incanto o licitazione privata è effettuata con il criterio del prezzo più basso,
inferiore a quello posto a base di gara (…)”.
L’art.21, comma 1-ter (aggiunto dall’art.7, comma 1, legge 1° agosto 2002, n.166)
completa la disciplina, disponendo che “l’aggiudicazione degli appalti mediante
pubblico incanto o licitazione privata può essere effettuata con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, determinata in base agli elementi
di cui al comma 2, lettera a), nel caso di appalti di importo superiore alla
soglia comunitaria43 in cui, per la prevalenza della componente tecnologica o per
la particolare rilevanza tecnica delle possibili soluzioni progettuali, si
ritiene possibile che la progettazione possa essere utilmente migliorata con
integrazioni tecniche proposte dall’appaltatore”.
Nel caso di lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, la norma
statale attribuisce all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di adottare il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, se ritiene la
progettazione migliorabile da integrazioni tecniche proposte dall’appaltatore.
I criteri da impiegare, ai sensi dell’art.21 comma 1-ter, legge n.109/94, sono
di norma i seguenti: prezzo (o ribasso), valore tecnico ed estetico delle opere
progettate (inteso come valore tecnico ed estetico delle varianti migliorative
proposte rispetto al progetto posto a base di gara), tempo di esecuzione dei
lavori, costo di utilizzazione e manutenzione, ulteriori elementi individuati in
base al tipo di lavoro da realizzare.
Come si può vedere, dunque, né la direttiva n.93/37, né la normativa nazionale
attualmente in vigore fanno riferimento al criterio dell’interesse ambientale in
sede di valutazione delle singole offerte dei possibili aggiudicatari, lasciando
la valutazione sull’impatto ambientale al momento dell’analisi del progetto
definitivo dell’opera, quando già l’impresa si è aggiudicata l’appalto ed è
ormai giunta al momento pratico della realizzazione dell’opera.
Su questo stato della normativa è intervenuta la riforma del legislatore
comunitario con la direttiva n. 04/18. La portata innovativa è sensibile, dato
che la direttiva inserisce nella disciplina degli appalti proprio quell’elemento
del criterio ambientale che in precedenza mancava.
Gli elementi da ponderare nel momento della scelta dell’impresa a cui affidare
la realizzazione dell’opera sono indicati nell’art. 53 il quale, oltre al prezzo,
elemento fondamentale della precedente normativa, menziona il pregio tecnico, le
caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il costo
di utilizzazione, la redditività, il servizio successivo alla vendita e
l’assistenza, la data di consegna e il termine di consegna o di esecuzione, le
esigenze del pubblico interessato, anche in materia ambientale e sociale.
E’ importante rilevare come nelle valutazioni qualitative entri a pieno titolo
l’elemento dell’ambiente. Se in precedenza la valutazione trovava riferimenti
tecnici e metodologici nel consolidato campo degli studi di impatto ambientale
per i progetti, ora, invece, è possibile impiegare detta metodologia anche per
le caratteristiche delle offerte, che in relazione ai prodotti e ai servizi
devono rivestire un pregio sociale e ambientale.
Dunque, in sostanza la direttiva del 2004 non va a stravolgere completamente la
struttura normativa precedente, ma aggiunge ad essa degli elementi di
valutazione ulteriori che vanno, così, a sommarsi al criterio primo e
fondamentale della “offerta economicamente più vantaggiosa”. Del resto la
direttiva recepisce gli stimoli e le pressioni che provengono dal retroterra
giurisprudenziale44, dove più volte si era sottolineata la necessità di inserire
i criteri ecologici rilevanti nell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La direttiva comunitaria di riforma della materia degli appalti dovrà essere
recepita dagli Stati membri entro il 2006; quindi anche l’Italia dovrà adeguare
la propria normativa per inserire le innovazioni suddette nell’iter di
aggiudicazione degli appalti.
Nella prospettiva dell’attuazione delle norme comunitarie, è il caso di
menzionare un esempio di anticipazione locale della nuova disciplina,
rappresentato da una legge regionale: la legge della Regione Puglia n.2 del 2
marzo 2004, recante “Disposizioni in materia di trasporti”.
La legge in questione va a modificare la precedente legge regionale n.18/02 in
materia di appalti nel settore dei trasporti. Nel momento della valutazione
delle offerte proposte dagli eventuali aggiudicatari la legge mantiene il
vecchio criterio dell’offerta più vantaggiosa, che è poi il criterio cardine
della disciplina nazionale, ma lo distingue in due elementi: uno economico,
l’altro qualitativo. Ebbene, è proprio all’interno della categoria del criterio
qualitativo che compaiono, tra gli altri, due nuovi elementi: il primo è il
possesso o meno da parte del progetto di “certificazioni di qualità rilasciate
da enti certificatori di rilevanza comunitaria”; il secondo è il riferimento nel
corso della valutazione alla “salvaguardia ambientale del territorio”.
Finora è stata data una rappresentazione complessiva e generale dello scenario
normativo in materia di opere pubbliche come risulta da un lato dallo sviluppo
della legislazione nazionale, dall’altro dall’evolversi della normativa
comunitaria. Si è fatto riferimento, inoltre, agli ultimi interventi della
Comunità Europea racchiusi nella direttiva n.04/18 sopra menzionata che dovranno
essere recepiti dagli Stati membri entro il 2006.
I rapporti che sussistono tra diritto comunitario e diritto interno dovrebbero
comportare che quest’ultimo sia completamente coerente con il primo e aderente
alle sue indicazioni. Tuttavia, il recente intervento del legislatore nazionale
in materia di opere “strategiche” con la legge obiettivo ha comportato la
creazione di un’area normativa di frizione tra l’ordinamento della comunità e
l’ordinamento italiano.
Come si è avuto modo di apprendere quando ci si è soffermati sulle novità
introdotte dal d.lgs. n.190/2002 il legislatore ha previsto per le opere
indicate nel testo normativo una deroga al procedimento generale disciplinato
nella legge Merloni, la legge quadro sui lavori pubblici: è stato creato un
procedimento più snello allo scopo di favorire e velocizzare la realizzazione
delle grandi opere. Nello specifico è stato previsto che l’approvazione sia del
progetto preliminare che del progetto definitivo spetti al CIPE, in
sostituzione, quindi, della pronuncia del Ministero dell’ambiente; in
particolare , all’interno di questa catena procedimentale, la valutazione
sull’impatto ambientale è stata inserita all’interno della pronuncia che lo
stesso CIPE emette sul progetto preliminare. Di fatto, il giudizio sulla
compatibilità ambientale è stato estromesso dalla pronuncia sul progetto
definitivo che è, poi, quello che deve essere realizzato.
Lo stravolgimento della posizione della procedura di VIA da parte della
normativa nazionale non è passata inosservata al vaglio degli organi comunitari.
Infatti la Commissione, con una Nota del 30 marzo 2004, ha ritenuto tale
disciplina contrastante con le più rigide procedure della dir. n. 85/337 che
continuano a valere, in ambito nazionale, per le opere “non strategiche” in
virtù della disciplina generale. Secondo la Commissione, sottrarre il progetto
definitivo di un’opera alla valutazione di impatto ambientale significa colpire
la procedura di VIA nella sua funzione principale, intaccare lo scopo stesso
della sua esistenza, ovvero quello di valutare il progetto di un’opera così come
realmente andrà realizzata.
In particolare la Commissione ha denunciato il contrasto che sussiste fra la
legge obiettivo e la direttiva comunitaria sulla VIA nella parte in cui la
disposizione italiana dell’articolo 20 comma quinto non prevede che in caso di
sensibili differenze tra progetto preliminare e progetto definitivo sia
obbligatorio aggiornare ed integrare la VIA, e nella misura in cui la
disposizione italiana dell’art.17 comma secondo non prevede che la procedura di
VIA debba essere conclusa prima del formale rilascio dell’autorizzazione a
costruire45. Quindi, in sostanza la Commissione Europea sostiene che sia
eccessiva la discrezionalità che la legge lascia all’organo competente
all’approvazione del progetto definitivo nello stabilire se ridisporre o meno
una nuova VIA, qualora lo stesso progetto definitivo si discosti in maniera
sensibile da quello preliminare.
Secondo l’Unione Europea, in qualsiasi settore la VIA deve riferirsi al progetto
definitivo e non già a quello preliminare, anche se questo obbligo comporti
inevitabili lungaggini e ritardi nella realizzazione delle grandi infrastrutture
per le quali la VIA è stata rilasciata solo in riferimento al progetto
preliminare.
Il 27 luglio 2004 la Commissione ha comunicato ufficialmente, tramite una
lettera al Presidente del W.W.F. Italia, che prosegue la procedura di infrazione
nei confronti dell’Italia. Infatti il nostro Paese, nonostante un primo
avvertimento (la “messa in mora” avutasi con la nota del 30 marzo 2004), non ha
ancora modificato la legge in questione né inviato una risposta motivata agli
organi UE.
A conclusione della panoramica svolta sui rapporti sussistenti tra procedimento
di VIA e procedimenti di approvazione di progetti di opere, occorre effettuare
una breve menzione ad un procedimento di valutazione sull’impatto ambientale
molto simile alla VIA, ma da questo distinto, ovvero la “valutazione di
incidenza”, introdotta dalla c.d. “direttiva habitat”, la n.92/43 CEE, che è
intervenuta prevedendo l’istituzione di una serie di siti da proteggere indicati
come “siti di importanza comunitaria” (SIC) ai quali è necessario applicare
misure per la salvaguardia dell’habitat naturale soddisfacente le specifiche
caratteristiche del sito.
La direttiva è stata attuata in Italia con il DPR 8 settembre 1997 n.357,
modificato poi dal DPR 12 marzo 2003, n.120. Lo strumento di tutela predisposto
dal legislatore nazionale è, come si diceva, la valutazione di incidenza sul
sito, ovvero un’ analisi di tutte le possibili conseguenze che un progetto può
avere sull’area del sito stesso. La valutazione di incidenza, anche se affine al
modello della VIA, è da essa distinta: mentre la valutazione di impatto
ambientale è richiesta in base all’opera che si vuole realizzare, la valutazione
di incidenza è richiesta dal sito (qualificato come SIC), a prescindere dal tipo
di opera che si vuole realizzare e quindi anche nella circostanza in cui l’opera
in questione non rientri tra quelle da sottoporre a VIA. Qualora, poi, anche
l’opera sia tra quelle da sottoporre a VIA, allora i due procedimenti vanno
riuniti in un unico comprensivo di ogni tipo di valutazione.
4) LA PROCEDURA DI V.A.S. COME NUOVA FRONTIERA DELLA VALUTAZIONE DELL’
IMPATTO AMBIENTALE
Nei paragrafi precedenti si è avuto modo di ripercorrere l’ultima evoluzione
normativa che ha interessato il procedimento di VIA; in particolare si è voluto
sottolineare come l’intervento riformistico tenda a mutare profondamente la
natura del procedimento stesso confondendolo con la sequenza di quello
principale. L’esame condotto si rende necessario allo scopo di comprendere se la
VIA possa essere ancora considerata un procedimento che gode di vita autonoma e
quale sia attualmente il ruolo giocato da essa all’interno del procedimento
principale.
Prima di chiudere la trattazione corre l’obbligo di soffermarsi, pur brevemente,
su un altro istituto, concettualmente molto simile alla VIA ma che si
diversifica da essa da un punto di vista strutturale: la valutazione ambientale
strategica (VAS).
Se si fa riferimento ad alcuni antecedenti storici della valutazione di impatto
ambientale, prima su tutti la legge NEPA statunitense del 1969, si può notare la
presenza di una procedura di valutazione ambientale di ogni atto statale, sia
esso di natura legislativa che di natura amministrativa; tra gli atti di
amministrazione sono compresi i programmi e gli strumenti di pianificazione.
Proprio questi ultimi due sono l’oggetto della specifica procedura di VAS
introdotta a livello di Comunità Europea con la direttiva n.01/42 CE.
E’ impossibile dedicare in uno spazio ristretto una riflessione completa ed
esauriente che possa toccare tutti gli ambiti di applicazione di questa
procedura. Ciò che interessa è coglierne la natura per vedere se essa possa
essere assimilata da un punto di vista concettuale alla procedura di VIA oppure
costituisca un procedimento dalla natura indipendente e completamente diversa.
Alcuni autori sostengono che una valutazione preventiva sui possibili effetti
sull’ambiente dei piani e dei programmi non è propriamente da considerarsi come
un istituto nuovo, poiché costituisce in realtà un ampliamento dell’ambito di
operatività del già esistente strumento della VIA; quindi, essa rappresenta
proprio la compiuta realizzazione di alcune delle “potenzialità inespresse”
dell’istituto46. Questo perché una valutazione che non si limiti al singolo
progetto, ma che invece si ponga a monte degli stessi progetti, oltre ad
anticipare ulteriormente il momento in cui l’istituto interviene a tutela
dell’ambiente, accentuandone la natura tipicamente preventiva, può svolgere la
più efficace funzione di strumento mediante il quale vagliare in astratto tutti
gli interventi potenzialmente realizzabili in un dato ambito territoriale; ma
c’è da dire di più, perché lo strumento in questione permette non soltanto di
porre dei vincoli negativi alle singole opere così come fa la procedura di VIA,
ma consente di perseguire un politica ambientale indirizzata secondo coordinate
stabilite, avendo una visione globale dell’insieme degli interventi che
interessano la medesima zona: il singolo progetto non è più considerato come se
fosse slegato dal contesto in cui si inserisce, ma viene inserito nel più
generale quadro di programmazione che interessa l’area in cui si trova. E’
proprio in questo punto che si riesce a cogliere la differenza chiave che
sussiste tra i due istituti (quello della VIA e quello della VAS), cioè mentre
nella valutazione di impatto ambientale l’interesse ambientale costituisce un
ostacolo posto all’attività umana, condizionandone l’ampiezza e le modalità di
esercizio, con la valutazione ambientale strategica l’attività dell’uomo diventa
strumentale all’interesse della salvaguardia dell’ambiente. De resto il termine
stesso “strategico” è indice del fatto che l’interesse ambientale viene inserito
non in una singola valutazione, ma all’interno di una programmazione generale
della attività umana; l’ambiente non viene più considerato in una prospettiva
statica, cioè meramente protettiva, ma dinamica, ossia come risorsa da
valorizzare già nel momento in cui si programma lo sviluppo socio-economico di
un luogo.
Si riesce a cogliere pienamente, ora, la differenza tra le due procedure che
pure, ad una prima osservazione, sembrano condividere la medesima natura o
almeno le medesime finalità; mentre nella VIA il rapporto tra soggetto
proponente e ad autorità competente ad esprimere una valutazione è di tipo
autorizzatorio, nella VAS la relazione tra l’autorità che elabora il piano e il
programma e l’autorità con competenze ambientali è tendenzialmente di tipo
consultivo. Se la pronuncia di compatibilità (VIA) ha, quindi, una funzione di
controllo esterno e verifica preventiva degli effetti che un determinato
progetto, opera o attività avrà sull’ambiente, al contrario la VAS ha una doppia
valenza: di controllo esterno e di programmazione interna del processo stesso.
Tutti questi spunti che sono stati messi in luce sono, poi, sostenuti da quel
movimento giuridico-culturale di livello internazionale secondo cui il concetto
di sviluppo sostenibile (vero protagonista della Conferenza delle Nazioni Unite
sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio del Janeiro nel 1992) sia espressione
di una necessaria integrazione tra le diverse linee di azione, più che di una
separata politica ambientale. Di conseguenza, appare evidente l’esigenza di
disporre di uno strumento diverso dalla VIA, in gradi di consentire la verifica
a priori degli effetti di ogni decisione idonea a produrre conseguenze
sull’ambiente.
Per cogliere meglio l’essenza ontologica della procedura di VAS, di particolare
interesse è quanto si dice nel quarto considerando della direttiva comunitaria,
ovvero che la “valutazione ambientale (strategica) costituisce un importante
strumento per l’integrazione per le considerazioni di carattere ambientale
nell’elaborazione e nell’adozione di taluni piani e programmi che possono avere
significativi effetti”: ciò in quanto “garantisce che gli effetti di piani e
programmi in questione siano presi in considerazione durante la loro
elaborazione”. La VAS, dunque, consente di integrare la considerazione degli
interessi ambientali con le altre politiche pubbliche, risultato perseguito
introducendo tale interesse già dentro il procedimento di formazione di piani e
programmi destinati ad incidere sull’ambiente.
In questa prospettiva la VAS nasce sicuramente per porre rimedio al maggior
limite della VIA; il presupposto è, infatti, la consapevolezza dei limiti
intrinseci di quest’ultima, strumento che, per la propria struttura, si rileva
inidoneo a consentire di cogliere le implicazioni sul sistema ambientale indotte
dal sommarsi sul territorio dei singoli interventi puntuali. Il limite della
VIA, a differenza della VAS, risiede nel suo oggetto: dato che sono valutati
progetti di opere specifiche, sfugge, di conseguenza, all’analisi il quadro
generale di vasta scala. Di qui discende l’esigenza di introdurre un momento di
valutazione complessiva ed anticipata degli effetti non già di singole opere, ma
di piani e programmi.
Alcuni autori47 sostengono che la differenza tra i due istituti possa essere
identificata nella “dimensione procedurale” della VAS: mentre lo schema logico
sotteso alla VIA è essenzialmente quello causale, ovvero si valutano in via
preventiva quali saranno gli effetti se sarà eseguita una determinata opera, nel
prendere in esame la VAS non va posto l’accento sull’oggetto, ma sul processo di
decisione in sé stesso. Non si tratta esclusivamente di catalogare, come avviene
per la VIA, una serie di criteri e di prescrizioni da seguire, ma ciò che più
rileva è il coinvolgimento nel processo decisionale dei soggetti preposti alla
cura ed alla rappresentanza degli interessi ambientali. A tale proposito, la
norma contenuta nell’art. 4 della direttiva n. 01/42, secondo cui “la
valutazione (…) deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o
del programma”, è decisiva in quanto si tratta di una vera e propria norma di
natura procedurale in quanto fornisce in modo preciso la collocazione della
procedura di VAS all’interno del più vasto procedimento di approvazione del
piano o del programma.
Alla stregua di quanto detto, la VAS va considerata molto di più che un singolo
istituto di diritto ambientale: con essa “ciò che si modifica è, in primo luogo,
il modo di pianificare le decisioni di maggiore rilevanza strategica incidenti
sul piano dello sviluppo socio-economico, oltre che sul versante ambientale”48.
L’interesse ambientale viene incastrato nel processo di decisione e diviene uno
dei fattori in grado di orientare il percorso decisionale. Il calcolo degli
effetti sull’ambiente cessa di costituire, come avviene per la VIA, un semplice
limite esterno rispetto all’attuazione di determinate opere, e diventa un
passaggio ordinario nell’ambito di decisioni che si collocano a monte delle
singole realizzazioni.
Il punto che si sta toccando è cruciale per comprendere la natura della VAS; si
è partiti all’inizio dell’analisi asserendo che la valutazione ambientale
strategica possa essere considerata come un ‘evoluzione della VIA49 dato che con
essa non si fa altro che anticipare la fase di valutazione dal momento di
progettazione della singola opera al momento della pianificazione di un sistema
di interventi. Altra parte della dottrina50 ritiene che l’introduzione della VAS
nel procedimento decisionale vada a modificare gli stessi procedimenti di
approvazione di piani e programmi e creare, dunque, una forma procedimentale
differente. La VAS si presenterebbe, allora, come il tentativo di dare concreta
attuazione ai principi contenuti negli artt.2 e 6 del Trattato UE in tema di
integrazione tra la politica ambientale e le altre politiche comunitarie
mediante un’azione che non si appunta ex post sulla salvaguardia dell’ambiente,
ma ex ante direttamente sul versante delle scelte economiche e sociali; con
questo istituto, dunque, non evolverebbe solamente il diritto dell’ambiente, ma
cambierebbe il modo di pianificare e programmare.
Volendo approfondire la tematica della natura della procedura di VAS, vi è un
altro elemento su cui si è incentrato il dibattito dottrinale, ovvero
l’anticipazione del momento valutativo alla fase pianificatoria; se all’inizio
della trattazione dell’argomento si era dato per scontato che questo spostamento
non comportasse un cambiamento di natura rispetto all’istituto della VIA, quest’ultima
dottrina a cui si è fatto riferimento, ovvero quella che sostiene la diversità
ontologica tra gli istituti, fa di questo elemento uni dei “cavalli di
battaglia” della sua argomentazione.
La VIA ha ad oggetto opere delle quali è già stata irrevocabilmente decisa la
localizzazione; quindi la collocazione non è contestabile dall’amministrazione
preposta alla valutazione dell’impatto ambientale e una determinazione negativa
deve essere motivata sulla base della dimostrata rilevazione di effetti negativi
in concreto non tollerabili, e non sulla scorta della sussistenza di soluzioni
ubicazionali alternative51 (compresa la c.d. “alternativa zero”). Al contrario,
nella VAS il procedimento di decisione e pianificazione si snoda tenendo in
considerazione una pluralità di opzioni localizzative. Enunciato così, lo schema
della VAS sembra ancora mostrarsi come una evoluzione della VIA; invece va
sottolineato che il dato strutturale dell’anticipazione del momento di
valutazione si innesta sulla considerazione di fondo secondo cui con la VAS
l’interesse ambientale viene “immesso” all’interno del processo decisionale.
In definitiva la VIA affronta problematiche inerenti il “come” della
realizzazione di un progetto, mentre la VAS riesce ad assicurare la piena
considerazione degli interessi ambientali sin dalla fase in cui si discute il
“se” del progetto stesso e quindi, di conseguenza, anche il “dove” e il “come”
dello stesso. In questo risiede la strategicità di questa di valutazione, ovvero
nella possibilità di valutare “a tutto campo” gli effetti cumulativi, indiretti
e sinergici delle diverse opzioni di una determinata politica di intervento
territoriale.
Quanto si è detto riguardo l’incidenza dell’anticipazione del momento valutativo
sull’intera struttura e natura dell’istituto fa comprendere la ragione che
spinge alcuni autori a ritenere la VAS un istituto a sé stante: laddove sia
richiesta, essa non è un procedimento parallelo e autonomo rispetto a quello
principale, ma andrebbe a modificare la struttura del procedimento principale di
adozione o del programma inserendosi dentro di essa e trasformandola nella sua
sostanza.
_________________________
1 Cfr.
Greco, “Processi decisionali e tutela preventiva dell’ambiente”, p. 217 e ss.
Nella ricostruzione dell’istituto che si trova in Dell’Anno, “La valutazione di
impatto ambientale:problemi di inserimento nell’ordinamento italiano”, 1987,
l’Autore si mostra dubbioso, alla luce della nuova disciplina nazionale di
attuazione, tra la definizione della VIA come atto endoprocedimentale e quella
come subprocedimento, autonomo ma connesso
2 Così si esprime parte della giurisprudenza. Si ricordi
sentenza T.A.R. Umbria n. 559/97, che propende per una visione della VIA come
avente natura di parere.
3 Così si è pronunciato in Italia il Consiglio di Stato, sez. IV, 19-07-1993
4 Cfr. Dell’Anno, “Manuale di diritto ambientale”, 2003, p. 714
5 Sull’argomento vedi anche ROTA R., che ritiene quest’elemento decisivo al fine
di qualificare la VIA come procedimento autonomo.
6 Vedi ROTA R:, “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra
discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”, in “Archivio giuridico”, 1995.
7 Tra gli altri, vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale in
Italia tra indirizzo comunitario e attuazione statale”, p. 56
8 Vedi SALVIA F., “Il Ministero dell’ambiente”, p. 104
9 Cfr. GIACCHETTI S., “La valutazione di impatto ambientale (VIA): un nuovo
strumento di governo dell’ambiente o un nuovo strumento di mistificazione?”, p
618.
10 Così, fra i tanti, LUCARELLI A., “Osservazioni in tema di impatto
ambientale”, p.371.
11 T.A.R. Liguria, sentenza n. 291 del 18 giugno 1992.
12 Cfr. ROTA R., “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra
discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note
ricostruttive”, in “Archivio giuridico”, 1995.
13 Anche se nel comma 6 viene definito “parere”.
14 Nell’art. 1, comma 2 del d.p.c.m. 27 dicembre 1988 è definito “giudizio sulla
compatibilità ambientale”.
15 Cfr. TRIMARCHI BANFI, “Aspetti del procedimento per la valutazione di impatto
ambientale”, in “Amministrare”, 1989, p. 377; GUSTAPANE A., “Il parere di
compatibilità ambientale espresso dal Ministero dell’ambiente”, in “Rass. Giur.
Enel”, 1987, p.337; IDEM, “La tutela globale dell’ambiente”, 1991.
16 Vedi GIAMPIETRO F., “Relazione al convegno sulla valutazione dell’impatto
ambientale nei trasporti”, 1994.
17 Si sta argomentando ex art. 4, comma 3 del d.p.c.m. 27 dicembre 1988 e art.
2, comma 3, lett. f del d.p.c.m. 337/88.
18 ROTA individua proprio in questo elemento, ovvero la presenza di un’attività
discrezionale dell’autorità, il sintomo del fatto che la VIA abbia natura procedimentale.
Vedi ROTA R., “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra
discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”,in “Archivio giuridico”, 1995.
19 Vedi SATTA F., “Introduzione ad un corso di diritto amministrativo”, 1980, p.
221, nota 26 dove si sostiene l’unità e l’inscindibilità del momento volitivo ed
intellettivo.
20 Vedi SALVIA F., “Attività amministrativa e discrezionalità tecnica”, in “Dir.
proc. Amm.”, 1992.
21 Cfr. SALVIA F., op. cit., in cui l’Autore, pur definendo in tali casi le
valutazioni tecniche “di tipo operativo”, non sembra riferirsi esplicitamente
alla VIA. Con riguardo a tale procedura si sostiene la tesi del condizionamento
ab externo degli apprezzamenti tecnici determinato anche dalla particolare
posizione che questi vengono ad occupare nella sequenza procedimentale.
22 Secondo taluni vi sarebbe in realtà scelta politica (SATTA F., “Introduzione
ad un corso di diritto amministrativo”, 1980, p. 209; per la tesi contraria, per
cui la procedura è espressione di discrezionalità amministrativa vedi ROTA R.,
“La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e
discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”, in “Archivio
giuridico”, 1995.
23 Se si accoglie tale prospettiva, ovvero che si tratta di un procedimento
amministrativo vero e proprio, alla VIA va estesa la disciplina posta per il
procedimento in generale dalla legge n. 241/90.
24 Vedi DELL’ANNO P., “La VIA in Italia”, p. 121.
25 Vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale in Italia tra
indirizzo comunitario e attuazione statale”, p. 66.
26 Vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale tra indirizzo
comunitario e attuazione statale”, p.65.
27 Si fa riferimento alla Relazione della Commissione del 2 aprile 1993
sull’applicazione della direttiva n. 85/337 (punti 2.1 e 3.2)
28 Legge n. 346/86 recante “istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in
materia di danno ambientale”.
29 La legge n. 346/86 trova attuazione con due atti normativi:
-il D.P.C.M. n. 377 del 10 agosto 1988: “Regolamento delle procedure di
compatibilità ambientale di cui all’art. 6 della legge 8 luglio 1986 n. 349,
recante istituzione delMinistero dell’ambiente e norme in materia di danno
ambiental”; in esso vengono elencati i progetti da sottoporre a valutazione;
-il D.P.C.M. del 27 dicembre 1988: “Norme tecniche per la redazione degli studi
di impatto ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità di cui
all’art.6 della legge 8 luglio 1986 n. 349, adottato ai sensi dell’art. 3 del
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 agosto 1988 n. 377; il
presente decreto, come dice l’intestazione stessa, è preannunciato dal
precedente e contiene nel dettaglio l’intera disciplina procedurale della
valutazione, ovvero tutti gli elementi che devono essere compresi e come devono
essere svolti gli studi sull’impatto.
30 C’è un’isolata pronuncia del giudice amministrativo secondo cui l’art.6 non
costituirebbe idonea attuazione della dir. 85/337, ma ne indicherebbe soltanto
il modo e il tempo (Cons. Stato, VI, 16 luglio 1990, n. 728), dettando una
disciplina transitoria “assolutamente autonoma rispetto alla direttiva” e
comunque inapplicabile in assenza di una normativa tecnica e procedurale
31 Come ogni procedimento amministrativo, anche la VIA consta di tre fasi
fondamentali: fase di iniziativa, istruttoria e fase decisionale.
32 Vecchio terzo comma dell’art 14
33 Vecchio quarto comma dell’art. 14
34 La definizione è data da VIRGA G., “Le modifiche ed integrazioni alla legge n.241/90
recentemente approvate (osservazioni derivanti da una prima lettura)”, articolo
su “LexItalia.it”
35 Sull’argomento vedi CERULLI IRELLI su “www.astrid.it”
36 A sostegno dell’orientamento comunitario in materia è giunta di recente la
comunicazione della Commissione Europea riguardo la messa in mora dell’Italia,
colpevole di non aver eseguito una valutazione sull’impatto ambientale adeguata
e comprensiva di tutta l’evoluzione della vicenda progettuale.
37 Vengono pertanto modificate le precedenti disposizioni, espresse nella legge
Merloni, che richiedevano la presentazione del progetto definitivo. Si torna
così alla formulazione originaria della procedura, quando era richiesta la
sottoposizione alla VIA del progetto di massima dell’opera.
38 Sembra abrogata la disciplina che regolava l’accertamento di conformità delle
opere pubbliche di competenza statale con gli strumenti urbanistici effettuato
dallo Stato, d’intesa con la Regione, secondo il procedimento dettato dal D.P.R.
383/94.
39 La determinazione assume il valore giuridico di una proposta istruttoria.
Resta fermo il potere della Regione di esprimere nella sede del CIPE un motivato
dissenso sull’approvazione dell’opera, attivandosi così la procedura di
composizione del conflitto.
40 Rimarranno disciplinati con separata direttiva i cd. “settori esclusi”. In
particolare, le procedure di appalto degli enti fornitori di acqua, energia,
servizi di trasporto e servizi postali, sono regolamentati dalla Direttiva
2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, pubblicata
anch’essa sulla GUUE del 30 aprile 2004.
41 Tale compito è stato per la verità favorito dalla tecnica normativa che nella
legislazione comunitaria è stata per varie ragioni seguita: enunciazione dei
principi ed istituti generali che possano essere applicati ed inseriti nei
differenti contesti normativi nazionali nel modo più efficace possibile.
42 In ogni caso, il recepimento della direttiva consentirà alle amministrazioni
aggiudicatrici di servirsi di procedure innovative come il dialogo competitivo,
i sistemi dinamici di acquisizione, le aste elettroniche.
43 E’ noto che la soglia comunitaria è quella del controvalore in euro di
5.000.000 di DSP (fissato, a partire dal 1/1/2002, in euro 6.242.028, secondo
quanto stabilito dal Ministero delle Finanze). Pertanto, secondo la normativa
statale, nel caso di aggiudicazione di lavori di importo inferiore alla soglia
comunitaria, la regola è quella del criterio del prezzo più basso, inferiore a
quello posto a base di gara.
44 La sentenza della Corte di Giustizia CE, sesta sezione, del 4 dicembre 2003
sembra anticipare la struttura dell’art. 53 della direttiva, menzionando
esplicitamente l’elemento dei criteri ecologici tra i criteri di valutazione.
45 Circa 200 opere sono state indicate dalla Commissione come non conformi al
diritto comunitario; tra queste figura il progetto del ponte sullo Stretto di
Messina
46 Al contrario BOSCOLO dice che “sarebbe fuorviante ritenere che la VAS sia una
semplice evoluzione della VIA”
Cfr. BOSCOLO E. “La valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e
programmi:dalla VIA alla VAS”, in “Urbanistica e appalti”, 2002.
47 Cfr. BOSCOLO E., op. cit., p. 1125
48 Cfr. BOSCOLO E., op.cit., p. 1123
49 Così MARTELLI A., in “Manuale di diritto dell’ambiente”, a cura di MEZZETTI,
2001.
50 Per tutti vedi BOSCOLO E., op. cit
51 Anche il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha dato atto
in una propria circolare (8 ottobre 1996, n.15326) che “sussiste, anche in sede
comunitaria, un’evidente incongruenza tra la funzione e gli scopi della Via e la
sua collocazione procedurale a livello di singola progettazione, cioè in un
momento in cui un insieme di scelte di principio appare già definito, laddove
sarebbe stato più logico prevedere la sua applicazione a monte, nella fase del
programma, per tenere conto,preventivamente, di tutte le alternative
attivabili”.
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