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L'evoluzione del procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale e le nuove regole della conferenza di servizi: quale futuro per la V.I.A.?


a cura di ALESSANDRO CHIAUZZI

 



1) Le rinnovate difficoltà di qualificare giuridicamente la VIA: mero parere o procedimento autonomo?
2) La VIA e la nuova conferenza dei servizi
3) VIA e tutela dell’ambiente nel settore delle opere pubbliche come recentemente riordinato
4) La procedura di VAS come nuova frontiera della valutazione dell’impatto ambientale




1) LE RINNOVATE DIFFICOLTA’ DI QUALIFICARE GIURIDICAMENTE LA V.I.A: MERO PARERE O PROCEDIMENTO AUTONOMO?

Uno studio sull’aspetto tecnico procedurale del procedimento di VIA che tenga conto delle varie modifiche intervenute sul precedente assetto, richiede di risolvere preliminarmente un problema di rilevanza fondamentale. Al fine di avere una visione completa della articolata procedura di VIA bisogna, infatti, chiedersi quale sia la sua natura ed il suo rapporto nei confronti del procedimento autorizzatorio principale: strumentalità logica e quindi indipendenza oppure mero parere inserito nel procedimento principale stesso? La soluzione del problema è di importanza cruciale dato che dal significato che si dà all’autorizzazione ambientale discendono gli effetti più o meno vincolanti che questa può avere sul procedimento principale.


E’ innegabile che tra il procedimento di valutazione di impatto ambientale e quello di autorizzazione principale sussiste un rapporto di strumentalità e funzionalità per cui il primo non avrebbe senso senza il secondo. Ma proprio a causa dello stretto legame logico tra i due procedimenti nasce lo stato di confusione in cui si è dovuta imbattere la dottrina.


Occorre, allora, tentare di delineare la panoramica generale che consente di approdare alle diverse posizioni dottrinali sul tema e di comprenderne le linee evolutive.


“La procedura di VIA può essere intesa come una sorta di sub-procedimento o procedimento collegato al processo decisionale principale di autorizzazione di un progetto”1. Sembra di capire, seguendo quest’ottica, che la procedura di VIA sia autonoma rispetto al processo principale, ma è al contempo ad esso legata da una necessaria relazione funzionale. Si profilano, perciò, due livelli di procedimento, ognuno con le sue diverse fasi.


Il processo autorizzativo principale consiste nel procedimento amministrativo necessario per ottenere una risposta affermativa o negativa alla richiesta di autorizzazione alla costruzione di un’opera da parte dell’autorità competente. Nell’economia strutturale di questo progetto, l’elemento dell’ambiente deve essere bilanciato con altri valori ed interessi parimenti rilevanti, come quelli economici, sociali e giuridici. Tutti questi interessi devono essere valutati e pesati nel corso dell’istruttoria del procedimento principale, nella quale l’esito della VIA può giocare un ruolo più o meno pesante, in relazione sia al modello di procedimento amministrativo di autorizzazione dei progetti vigente, sia al bilanciamento prodotto tra le forze politiche e sociali.


Dall’impostazione di questa dottrina si capisce che la valutazione di impatto ambientale assurge a momento decisionale autonomo e quindi procedimento indipendente.


Altra parte della dottrina si attesta, invece, su posizioni completamente agli antipodi. Il procedimento di VIA non costituisce una nuova autorizzazione in quanto si inserisce nel contesto del procedimento di approvazione di un progetto di un’opera, prima del rilascio del provvedimento che ne consente la realizzazione o la costruzione. Si tratterebbe, dunque, di un atto endoprocedimentale2 che assume il ruolo di parere obbligatorio3. L’eventuale esito positivo della VIA si inserisce nel procedimento principale quale “fatto giuridico permissivo4, consentendone il proseguimento e la conclusione.


Seguendo quest’ultima prospettiva, la natura giuridica della valutazione di impatto ambientale viene rinvenuta in una manifestazione di giudizio e non di volontà amministrativa. Il giudizio espresso nella pronuncia di compatibilità ambientale è stato ritenuto espressione di un potere di valutazione dei fatti alla stregua di conoscenze tecniche e scientifiche .


Dunque il procedimento di VIA va considerato come un semplice momento conoscitivo e mera fase dell’istruttoria al termine della quale emettere un parere? Seppure si tratti di un semplice parere di compatibilità ambientale, come vuole sostenere quest’ultima teoria indicata, non si può ignorare il fatto che esso sia caratterizzato da un’ amplissima discrezionalità, “in quanto comporta la considerazione di una molteplicità di interessi pubblici, la cui ponderazione ed il cui bilanciamento costituiscono l’oggetto specifico della valutazione conclusiva, assegnando ai valori ambientali una pari dignità, nel progetto tecnico e nella decisione amministrativa permissiva, rispetto a quelli finanziari, tecnologici e sociali5. Dell’Anno sottolinea, dunque, che non si può fingere di trovarsi dinanzi ad un mero momento di studio tecnico, dato che al termine del procedimento di VIA l’autorità competente è chiamata ad effettuare una valutazione e a prendere una decisione, manifestazione della volontà amministrativa, sulla base dei dati raccolti. Riavvolgendo il nastro del procedimento di valutazione, che si avrà modo di esaminare dettagliatamente in seguito, facilmente ci si rende conto che esso, proprio in virtù del potere decisionale che racchiude, assume la forma e la struttura di un normale procedimento indipendente, costituito da fase istruttoria, momento di valutazione dei dati disponibili e fase decisoria, prima di emettere il provvedimento6.


Dopo la rassegna di posizioni dottrinali che sommariamente è stata sfogliata, corre l’obbligo di rimandare il momento più acceso ed acuto del dibattito alla parte della trattazione in cui si parlerà del procedimento di VIA nell’ambito nazionale. E’ soprattutto nell’ordinamento interno italiano che regna a riguardo uno stato di confusione duratura, dovuto al fatto che mai il legislatore nazionale ha preso una posizione chiara e definitiva, lasciando aperta la via , mediante formulazioni vaghe e nebulose, ad ogni sorta di interpretazione; arduo compito è, dunque , quello della giurisprudenza, che è chiamata a fare ordine in un sistema provvisorio e confuso come il nostro, ogni qualvolta si trova costretta ad emettere una decisione.


Non è così per l’ambito comunitario, dove le istituzioni nella elaborazione della direttiva hanno fatto una scelta ben precisa: il procedimento di VIA va considerato a tutti gli effetti come procedimento autonomo rispetto a quello principale, avendo vita e vicende proprie. La cosa si evince sostanzialmente dal nuovo dettato dell’art.2 della direttiva n. 97/11, nel quale si stabilisce che il procedimento di valutazione di impatto ambientale deve concludersi prima del rilascio dell’autorizzazione finale sul progetto, sancendo, dunque, la sua autonomia giuridica, in quanto il provvedimento di autorizzazione o di negazione della autorizzazione ha effetti, secondo il legislatore comunitario, sul provvedimento autorizzatorio principale. Il provvedimento frutto della VIA, dunque, non può essere considerato come mero parere da allegare al procedimento principale e da archiviare come semplice momento di conoscenza tecnico scientifica, come in ambito nazionale la vaga disciplina può anche indurre a ritenere.


Volendo, in definitiva, sintetizzare il quadro che si è tracciato in merito alla collocazione della VIA in funzione del procedimento principale, si può dire che fondamentalmente il legislatore comunitario prende posizione in merito a:


- il vincolo procedimentale da seguire, in virtù del quale la valutazione sull’impatto si inserisce e si incastra nella catena degli atti del procedimento principale;


- l’obbligo di tener conto degli effetti di impatto del progetto sull’ambiente al momento della decisione finale.


Il sistema delineato si pone come effettiva realizzazione di quegli obiettivi di tutela che rimarrebbero “parole al vento” se sprovviste di uno strumento di attuazione efficace. E’ nel terzultimo considerando della direttiva VIA che la Comunità pone degli obiettivi forti chiarendo che “gli effetti di un progetto sull’ambiente debbono essere valutati per proteggere la salute umana, contribuire per un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al mantenimento della varietà della specie e conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale di vita”.


Come è stato fatto per il procedimento di valutazione di impatto ambientale nell’ordinamento comunitario, anche per la VIA di competenza statale occorre svolgere alcune considerazioni circa la natura del procedimento, argomentando dagli spunti di riflessione che offre la normativa nazionale.


A questo proposito, se il legislatore comunitario, come visto sopra, prende posizione in maniera chiara e determinata in merito al problema, asserendo che la VIA è un vero e proprio procedimento autonomo, funzionale soltanto da un punto di vista logico rispetto a quello principale, la disciplina interna del nostro ordinamento non prende una posizione altrettanto netta, ma si presenta vaga ed indeterminata. Se si va a scandagliare l’intero corpus normativo che riguarda la materia, non si riesce a rinvenire un punto che fughi ogni dubbio da un verso o dall’altro. Forse, dunque, il legislatore nazionale di proposito esita ad effettuare una scelta precisa non avendo il coraggio di toccare una corda così delicata? Resta il fatto che, nascondendosi ormai da molti anni, dietro la giustificazione della transitorietà della normativa, in attesa della “messianica” venuta della legge-quadro in materia di VIA, il legislatore positivo in Italia non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sulla questione.


Il problema che deriva da questo stato di generale incertezza non è di poco conto, dato che dal tipo di significato che si vuole attribuire alla valutazione di impatto ambientale discende la natura del provvedimento, ovvero il giudizio di compatibilità ambientale che di essa è il frutto e quindi gli effetti che quest’ultimo può esplicare. Messa in questa maniera la questione della natura del procedimento di VIA e quella del provvedimento finale vanno a coincidere.


Se il legislatore non è chiaro e non prende posizione, tuttavia gli interpreti del diritto e coloro che, di volta in volta, sono chiamati ad applicare le norme si trovano nella situazione di essere costretti a riempire le lacune lasciate dalla normativa positiva per risolvere le fattispecie che si presentano. Di conseguenza giurisprudenza e dottrina sull’argomento sono molto vaste.


Taluni autori sostengono che la pronuncia al termine della VIA non sia altro che un semplice “parere7; altri, invece, la definiscono come “atto consultivo atipico8; altri ancora utilizzano una formula più articolata, inquadrando questa pronuncia come provvedimento a funzioni miste, in quanto derivante da una “attività di amministrazione attiva complessa, costituita da una certazione sulla compatibilità ambientale del progetto e dalla consequenziale autorizzazione ambientale del progetto stesso9. Minimo comun denominatore di queste interpretazioni è il fatto che tutti sono d’accordo nel ritenere l’atto conclusivo della procedura come “obbligatorio”10, in quanto necessario per legge.


Al di là di un semplice elenco di tesi interpretative che potrebbe risultare sterminato e proprio per questo poco utile ai fini della ricerca che si sta effettuando, conviene fare un po’ di ordine e ridurre il problema al suo nucleo essenziale: il “nodo di Gordio” da sciogliere sostanzialmente è se la VIA sia un semplice parere da acquisire in seno alla fase istruttoria del procedimento principale oppure assurga a procedura autonoma così come si configura la VIA comunitaria a seguito dell’intervento della direttiva 97/11 CE. Occorre a questo punto soffermarsi su ciascuna delle due alternative per vedere quale di esse sia più coerente con la funzione della procedura stessa di VIA e con quei riferimenti normativi di cui si dispone.


Ad un primo approccio al problema, non vi sarebbero motivi ostativi per configurare la VIA come parere da acquisire all’interno del procedimento principale e, quindi, come espressione di funzione consultiva. Si avrebbe, dunque, un arricchimento della fase istruttoria del procedimento di realizzazione dell’opera configurandosi la VIA come la sede in cui possono essere assorbiti i pareri e le valutazioni tecniche attualmente previste per i procedimenti concorrenti o connessi. A ben vedere si potrebbero rinvenire anche alcuni riferimenti normativi che potrebbero indurre a propendere per questa soluzione: sin dal disposto dell’art.6, comma secondo della legge n.349/86 si statuisce che nel procedimento di VIA, il Ministro dell’ambiente sia tenuto a fare applicazione, ai fini della pronuncia sulla compatibilità ambientale, delle “norme tecniche”, di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Negli stessi decreti attuativi si fa più volte riferimento ad una valutazione che sembra risolversi in un mero confronto tra la realtà fattuale ed un insieme di criteri di carattere tecnico; del resto, a leggere l’elencazione delle finalità cui tende l’istruttoria, come emerge dall’art.6 del D.P.C.M. n.377/88, e dall’indicazione dell’atto finale, di cui all’art.6, comma secondo, del successivo D.P.C.M. del 1988, non si va molto lontano dall’orientamento sin qui emergente. In entrambe le serie di disposizioni è concorde il riferimento ad accertamenti di natura tecnica ed alla loro funzionalizzazione ad un parere sempre di natura tecnica. La posizione interpretativa sin qui analizzata può essere pienamente colta in una pronuncia del TAR Liguria del 199211, secondo cui “la VIA….non costituisce una manifestazione di volontà amministrativa, ma un parere tecnico che si inserisce in un procedimento destinato a sfociare in un provvedimento di autorizzazione avente per oggetto la specifica opera da attuare”.


Quest’ultima definizione può essere considerata come la sintesi del pensiero di chi sostiene fondamentalmente il ruolo meramente tecnico della VIA. Tuttavia, se ad una prima istanza le argomentazioni sopra addotte potrebbero sembrare soddisfacenti, in realtà, così facendo si sta tralasciando nell’analisi un’ampia parte degli aspetti che interessano la procedura di VIA e che per un esame esauriente non possono essere omessi. Finora, se si nota, argomentando e sostenendo la posizione interpretativa sopra esposta, è stato sempre usato il verbo al “condizionale”, non per un mero e semplice pregiudizio intellettuale nei confronti di questa tesi, ma perché essa può apparire, è vero, inconfutabile, ma soltanto tralasciando molte altre considerazioni sull’aspetto funzionale della VIA.


Il dubbio fondamentale che nasce, abbracciando la prima interpretazione è che con una tale posizione “non si tenga doverosamente distinto il momento dello studio di impatto ambientale (SIA) dalla valutazione che sugli impatti da questo evidenziati viene poi operata12. Si parlava sopra di “esame tecnico”, di confronto con “norme tecniche”, ma questo aspetto costituisce soltanto una parte dell’intera procedura di VIA; quest’ultima, infatti, si articola in due parti e non in una solamente come taluni autori vogliono sostenere: una, di tenore strettamente tecnico, è quella nella quale si incentra lo studio di impatto ambientale e quella che viene ritenuta come unico elemento della procedura dalla precedente dottrina; un’altra, invece, è di tenore discrezionale, cioè riguarda la valutazione che deve essere svolta dall’autorità pubblica sulla base dei dati tecnici raccolti. Sfogliando la normativa si può constatare, come contrappeso ai riferimenti legislativi sopra citati, che il modello del nostro diritto positivo prevede (nell’art.6, comma quarto, della legge n.349/86) una esplicita pronuncia di compatibilità ambientale13 espressa in un atto a sé stante14 e attribuisce alla pronuncia negativa “effetto preclusivo nei confronti dell’autorità competente in via ordinaria a decidere sul progetto, salva la facoltà per quest’ultima di deferire la questione al Consiglio dei Ministri che può decidere in difformità15.


A questo punto, come si è fatto in precedenza riferendo dall’altra tesi, anche qui occorre analizzare la normativa e il procedimento che nella sua interezza ne deriva, per vedere quali siano gli elementi che vanno in soccorso della posizione secondo cui la VIA sia una procedura autonoma contenente una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione. Si rende necessario ripercorrere a mente l’intera sequenza procedimentale allo scopo di rintracciare in quali fasi si inserisce la valutazione discrezionale di cui si parla.


Non può mettersi in dubbio che, per alcuni momenti, specie nella fase istruttoria, l’analisi effettuata sia di natura meramente tecnica, richiedendosi soltanto il riscontro effettivo dei criteri tecnici positivamente posti. Ora, però, bisogna guardare il fenomeno nella sua globalità e, se si osserva la disomogeneità dei parametri a cui si dovrebbe far riferimento nella formulazione del giudizio, si comincia ad entrare nella prospettiva per cui è inevitabile un momento di ponderazione e valutazione che si fondi sul potere discrezionale.


L’area del giudizio come già si accennava prima, si snoda in due momenti16: uno è preparatorio, resta esterno al vero giudizio ed è preordinato all’acquisizione di dati e alla loro verifica; il secondo è quello costitutivo del giudizio di compatibilità ambientale e riguarda in maniera specifica il momento della valutazione degli studi (SIA) presentati dal proponente, come integrati dall’istruttoria effettuata dall’autorità pubblica. E’ in quest’ultima fase che, per le opere pubbliche, si deve tener conto anche di parametri di valutazione economica17. Quest’ultimo momento contiene inevitabilmente un confronto e un bilanciamento tra elementi disomogenei tra loro come l’impatto delle opere sull’ambiente e per proseguire nell’esempio citato, i criteri di natura economica come il tasso di redditività dell’investimento. Sotto tale aspetto sembra rinvenirsi nella procedura una funzione di anticipazione del momento provvedimentale, di quello cioè che chiude la procedura di approvazione di un’opera18.


Giunti a questo punto, ovvero alla pacifica ammissione della presenza del momento discrezionale, si potrebbe dire da un lato, riferendosi ad una autorevole dottrina19, che mai come in questo caso momento intellettivo e volitivo appaiono uniti e compenetrati; dall’altro lato si ha, come rilevato recentemente20, quel movimento circolare che anima “politica, discrezionalità e tecnica”, mediante il quale “il processo di selezione e ponderazione degli interessi non si attua solo nel momento in cui matura formalmente la scelta discrezionale, ma trova una sua importante espressione anche in una fase preliminare conoscitiva a valenza tecnica 21.


Come si può notare passando in rassegna le suddette dottrine, è innegabile che nel procedimento di VIA sia inserito un momento di valutazione prettamente discrezionale, che distingue l’intera procedura dal mero parere tecnico e la eleva alla dignità di manifestazione della volontà amministrativa; poi, se l’esercizio del potere discrezionale avviene contemporaneamente all’analisi dei dati tecnici, oppure in una seconda istanza, questo è un problema di scarsa rilevanza ai fini di ciò che si sta dimostrando. Date le premesse della trattazione, quello che interessa non è tanto la collocazione del suddetto momento discrezionale, quanto la presenza o meno di quest’ultimo.


In seguito alle osservazioni che sono state fatte si è in grado di sostenere che è vero che c’è uno stretto collegamento tra il procedimento di autorizzazione dell’opera ed il procedimento presupposto di VIA che si conclude con il giudizio di compatibilità, ma è anche vero che quest’ultimo è una procedura giuridicamente indipendente, che consta di alcuni momenti tecnici che si intrecciano con quelli più strettamente discrezionali22.


Si possono tirare, dunque, le somme dell’analisi effettuata vedendo qual era il punto di partenza e dove questa disamina ha condotto: partendo dal dubbio sulla natura della procedura di VIA si è tentato di ricostruirla secondo diverse modalità, cercando in primis di configurarla come mero parere tecnico da assumere nella fase istruttoria del procedimento principale; le ulteriori valutazioni che sono state svolte hanno condotto, tuttavia, ad un punto di approdo in cui matura una convinzione del tutto diversa da quando si era partiti, ovvero che la VIA non può essere considerata come priva di momento valutativo e discrezionale, dato che l’amministrazione preposta raccoglie i dati ma non potrebbe emettere un giudizio se poi su questi non effettuasse una valutazione. Alla luce di quanto esposto, sembra più chiara quale sia la natura ontologica di tale procedura, ovvero un vero e proprio procedimento amministrativo all’interno del quale viene fatta una ponderazione di interessi ed al termine del quale vede la luce una manifestazione di volontà frutto del potere discrezionale dell’amministrazione23.


L’importanza dell’esame svolto al fine di chiarire la natura della valutazione di impatto ambientale rileva se considerata nella prospettiva dell’analisi della “forza” giuridica che assume il giudizio finale sulla compatibilità ambientale; le pagine precedenti non rappresentano una mera speculazione intellettuale fine a sé stessa, un inutile gioco di erudizione giuridica, ma si rendono utili ad un secondo scopo: in base alla natura della procedura di VIA, infatti si può stabilire il valore, la forza che possiede il provvedimento finale.


La dottrina maggioritaria ritiene che il regime transitorio assegni alla pronuncia di compatibilità ambientale un’efficacia “sostanzialmente vincolante24 o “quasi vincolante25. Difatti essa non solo può disporre prescrizioni alle quali il committente deve attenersi e alla cui osservanza è subordinata l’approvazione del progetto, ma vincola, altresì, lo stesso Ministro competente alla realizzazione dell’opera, poiché su di esso grava l’obbligo, qualora intenda discostarsene, di rimettere la questione al Consiglio dei Ministri; non vincola, invece, proprio il Consiglio dei Ministri, che può decidere di non uniformarsi alla pronuncia di compatibilità ambientale. A prima istanza, poi, la pronuncia del Ministro dell’ambiente sembra non essere vincolante anche per l’autorità procedente, dato che questa, in sede di decisione finale, ha la possibilità di prescindere completamente dall’esame tecnico degli effetti ambientali producibili dall’opera, qualora questo non sia espresso tempestivamente, ovvero, come visto, nel termine di novanta giorni.


Tuttavia, dopo una più matura riflessione sul problema, svolta anche alla luce della legge generale sul procedimento amministrativo, cioè la legge n.241/90, può ritenersi che questa interpretazione sia da superare con la più ampia considerazione del sistema complessivo in cui viene ad inserirsi la speciale procedura regolata dall’art.6 della legge n.349/8626 .


Il fine di assicurare una più adeguata tutela dell’ambiente, all’interno di strutture procedimentali dirette a favorire l’ordinato ed avanzato sviluppo economico della società, è perseguito sia dalla direttiva comunitaria istitutiva della VIA che considera come tendenzialmente sempre necessaria la valutazione preventiva dell’impatto producibile dalle opere individuate sull’ambiente circostante; sia dalla legge n.241/90, che vieta che l’amministrazione procedente possa esprimere l’atto finale di consenso alla realizzazione dell’opera anche indipendentemente dall’acquisizione della pronuncia di autorità che si occupano della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale ed igienico sanitaria. Dunque, se la precedente legge n.349/86 lasciava un vuoto di tutela qualora non fosse intervenuta la pronuncia di compatibilità ambientale entro il termine perentorio di novanta giorni, questa lacuna viene colmata dalla legislazione successiva. Conseguentemente coordinando i diversi blocchi normativi è logico credere che, decorsi i termini imposti dal quarto comma dell’art.6 della legge n.349/86 senza che sia intervenuta la valutazione di impatto ambientale dell’opera, la procedura di approvazione del progetto può riprendere, ma devono essere attivati quei doverosi interventi, da parte del Consiglio dei Ministri, per “costringere” il Ministro dell’ambiente a formulare la valutazione prima della deliberazione dell’atto finale di consenso di realizzazione dell’opera.


Considerando, quindi, come l’autorità procedente sia sempre obbligata al rispetto del giudizio di compatibilità ambientale e come il solo Consiglio dei Ministri sia libero di ribaltare il giudizio stesso, si può concordare nell’affermare che la pronuncia di VIA abbia una efficacia quasi vincolante.


A conclusione del quadro che si è tratteggiato in questo paragrafo sulla natura della VIA e sulla sua forza giuridica, un breve riferimento va fatto alle prospettive che riguardano il ruolo della VIA in relazione al procedimento autorizzatorio principale, a seguito della riforma effettuata dalla legge n.340/00, che riforma la legge n. 241/90, nel cui solco si innesta la recentissima legge n.11/05. Per l’analisi della riforma si rimanda a quanto si dirà in seguito, ma quello che qui interessa è come si inserisce la procedura di VIA in questo nuovo sistema: se la valutazione di impatto ambientale condivide ora la propria fase istruttoria con la conferenza di servizi sul progetto preliminare e il giudizio di compatibilità ambientale non è più esterno al procedimento, ma si inserisce nella conferenza di servizi decisoria, c’è da chiedersi se si possa ancora parlare della distinzione tra procedimento principale e procedura di VIA oppure non siano forse fusi ormai in un’unica catena procedimentale. Forse c’è da ritenere che la VIA sia diventata un momento di valutazione discrezionale da effettuarsi nell’ambito di quel grande contenitore che è ora il procedimento autorizzatorio del progetto.


Gli scenari interpretativi che si aprono sono dei più vari, quindi attualmente conviene muoversi “con i piedi di piombo” sull’argomento, attendendo che dottrina e giurisprudenza si esprimano anche alla luce dei primi tempi di vita della nuova normativa.

 

2) LA VIA E LA NUOVA CONFERENZA DEI SERVIZI

Affrontare oggi il problema dell’inquadramento dogmatico e della definizione del procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA), dopo le riforme legislative che hanno interessato il procedimento amministrativo negli ultimi cinque anni, può essere guardato come una questione la cui soluzione arriva a coinvolgere l’area più generale dell’intero diritto amministrativo. Uno studio approfondito del procedimento di valutazione di impatto ambientale, infatti, non rappresenta più soltanto un momento speculativo finalizzato alla comprensione di un singolo procedimento di carattere speciale e settoriale come può essere quello di VIA; costituisce, bensì, un’analisi della funzione del più generale procedimento amministrativo inteso in senso lato e la ricerca della definizione di esso come risulta dalle riforme normative sopra richiamate.


Si può già anticipare come la tendenza degli ultimi anni si sia attestata nel solco di una sempre più profonda compenetrazione tra la catena del procedimento principale e quella del procedimento di VIA, a tal punto da far ritenere che quest’ultima non goda più di una vita autonoma, ma sia entrata a far parte della sequenza principale, divenendone soltanto uno dei momenti.


Alla luce di questi mutamenti cambia totalmente anche la modalità di approccio al problema della definizione giuridica della VIA. In passato l’attenzione veniva focalizzata esclusivamente sul procedimento di VIA, discutendosi sulla natura tecnica o discrezionale della stessa, tenendo il procedimento principale come parametro esterno al quale rapportarsi; oggi, invece, non si può fare a meno di analizzare contemporaneamente le due sequenze procedimentali, dato che esse hanno in comune più momenti del loro svolgersi.


Per comprendere meglio lo stato attuale della normativa e le mancanze cui bisogna sopperire, si rende opportuno effettuare un breve excursus preliminare per vedere come si è giunti, sia in Italia che nella Comunità Europea, alla conformazione odierna.


La data di nascita del procedimento di valutazione di impatto ambientale, attualmente in vigore in ambito comunitario e dal quale derivano i singoli procedimenti nazionali, si colloca nel 1985, quando il 27 giugno viene approvata la direttiva 85/337 del Consiglio in materia di di V.I.A. Tale atto costituisce indubbiamente una delle più significative realizzazioni normative della politica ecologica sviluppata, a livello comunitario, intorno a tre riferimenti principali, ovvero i programmi di azione elaborati nel 1973, nel 1977 e nel 1981 in accoglimento delle sollecitazioni provenienti dalla Conferenza di Parigi del 1972 dei capi di Stato e di Governo che aveva elevato a compiti essenziali della Comunità la lotta alle varie forme di inquinamento, il miglioramento della qualità della vita e la protezione dell’ambiente naturale. E’ evidente che la VIA costituisce l’inveramento di una nuova “filosofia” ambientale; essa è il frutto di una progressiva evoluzione della sensibilità culturale e sociale in merito all’esigenza di tutelare l’ambiente che sul piano giuridico si è tradotto nella creazione di strumenti orientati non più soltanto ad affrontare gli effetti nocivi delle attività umane, ma a cercare di prevenirle. Il tutto viene approntato al fine di contemperare le esigenze produttivistiche con quelle ambientali, elaborando strumenti in grado di evitare che le prime debbano immancabilmente prevalere sulle seconde. Le prospettive in cui opera lo strumento della VIA non è, dunque, conservativo e immobilista, ma si identifica nell’ottica dello “sviluppo sostenibile”, sintomatico del passaggio dalla “società industriale”, orientata esclusivamente verso lo sviluppo economico, alla società c.d. “post-industriale”, in cui nella coscienza collettiva e nella cultura dominante non si ritiene più accettabile uno sviluppo economico incurante delle sue ripercussioni sulla sfera ambientale.


In base all’art.12 comma primo della direttiva 85/337 CEE, gli Stati membri hanno l’obbligo di prendere le misure necessarie per conformarsi alle nuove norme comunitarie entro un termine di tre anni a decorrere dalla notifica. Gli Stati, dunque, avrebbero dovuto provvedere al recepimento della direttiva all’interno dei rispettivi ordinamenti entro il 3 luglio 1988. L’attuazione della direttiva, tuttavia, ha provocato nella maggior parte dei Paesi della Comunità gravi difficoltà e proprio per questo motivo il periodo principale di recepimento è stato generalmente quello successivo al 1988, in particolare il biennio 90/91. Del resto è lo stesso carattere “quadro” della direttiva, la sua vasta area di applicazione che coinvolge l’azione di vari organi governativi, autorità pubbliche e procedure di autorizzazione, ad aver determinato alcuni dubbi interpretativi sui requisiti procedimentali che devono essere rispettati; questo è lo stato che emerge dalla Relazione della Commissione del 1993 sull’applicazione della direttiva27.


Nel contesto delineato, l’Italia si dimostra come la più sollecita a recepire nel proprio ordinamento la procedura comunitaria di valutazione di impatto ambientale. Nel 1986, infatti, entra in vigore la legge n. 34928 dell’8 luglio, istitutiva del Ministero dell’ambiente, che, tra le varie disposizioni, detta una disciplina transitoria di VIA impegnando il Governo a presentare al Parlamento entro sei mesi un disegno di legge relativo al completo recepimento delle norme comunitarie in questione29. Come segnalato sopra, e come evidenziato anche dalla Relazione della Commissione del ’93, anche in Italia la particolare delicatezza dei poteri coinvolti dalla nuova disciplina e le enormi modifiche che sarebbero dovute essere apportate al sistema procedimentale, consigliavano una più lunga maturazione prima di arrivare ad una disciplina completa e definitiva della materia; ecco perché il legislatore ha preferito predisporre una disciplina transitoria che intanto togliesse l’Italia dal rischio di incappare nell’infrazione per mancato adempimento30. Potrebbe stupire, ma ancora oggi, a quasi quattro lustri dall’entrata in vigore della regolamentazione transitoria, la disciplina della valutazione di impatto ambientale si fonda sulla legge n.349/86 e sui suoi regolamenti attuativi; è vero che si sono resi necessari, specie dietro l’incalzante pressione della Comunità, interventi di riforma, ma l’impalcatura sostanziale della legge è rimasta essenzialmente quella originaria.


Da queste prime righe si capisce come, mancando una normativa generale e completa , in Italia la disciplina della valutazione di impatto ambientale è data dalla confusionaria stratificazione di interventi normativi che si susseguono, il più delle volte, senza seguire una logica ben definita, ma per coprire le manchevolezze che via via si manifestano nella disciplina provvisoria di base.


La problematicità di una disciplina, a livello nazionale, che dopo quasi quattro lustri dall’entrata in vigore continua ad essere quella “transitoria” comporta numerose difficoltà se si vuole tentare di definire in modo chiaro ed inequivocabile le linee di demarcazione della materia e di trovare un filo logico conduttore che dia un senso all’intera impalcatura normativa. Lo stato caotico a cui si fa riferimento deriva, come si è avuto modo di osservare, non solo da una normativa incompleta e buona solo se adottata a scopo emergenziale, come era originariamente negli intenti del legislatore, ma anche dagli interventi successivi che sono stati effettuati sull’originario corpus normativo. Inserendosi su una struttura già di per sé insufficiente, questi interventi sono risultati essere più che altro dei rimedi precari per ovviare alle lacune della legislazione originaria ed evitare che la Comunità Europea avviasse procedure di infrazione contro l’Italia per la mancata attuazione della direttiva VIA.


Tutti questi elementi hanno contribuito a rendere particolarmente spinoso il lavoro condotto per discernere i tratti e i lineamenti dell’istituto.


La disciplina dei profili procedimentali della VIA è ricavabile mediante una tutt’altro che agevole lettura trasversale e combinata di alcune disposizioni collocate in tutti e tre gli atti normativi (art. 6 della legge n.349/86, e i due D.P.C.M. del 1988) che formano la disciplina transitoria tuttora vigente. Al di là delle norme poste in maniera speciale per il procedimento di VIA dagli atti citati, non si deve dimenticare che la valutazione di impatto ambientale rientra pur sempre nella grande categoria dei procedimenti amministrativi e quindi è soggetta alla sopravvenuta legge generale sul procedimento, la legge n.241 del 7 agosto 1990. Da queste disposizioni risulta una struttura del procedimento sostanzialmente molto lineare; la VIA si presenta come una catena procedimentale tecnicamente indipendente, che accompagna in modo parallelo il procedimento principale, per poi intersecarsi con esso al momento della decisione, dato che l’autorizzazione o il diniego scaturente dalla VIA condiziona l’esito del procedimento principale31.


La procedura indicata costituisce la struttura base del procedimento di valutazione ambientale, ovvero la schematizzazione essenziale dei passaggi che lo caratterizzano, raggruppati fondamentalmente nelle tre grandi aree concatenate della fase dell’iniziativa, fase istruttoria e fase decisoria. Inquadrare la VIA in questo contesto è molto semplice, in quanto, come visto, il procedimento principale e quello di valutazione viaggiano autonomamente, seppur collegati da un punto di vista logico; il primo si sospende al momento di ottenere il giudizio di compatibilità ambientale il quale si va ad inserire all’interno della sequenza procedimentale principale. Mostrare come il procedimento si atteggia nella sua dinamica essenziale è il punto di partenza per avere innanzitutto una visione chiara di base e quindi procedere nella descrizione e analisi delle situazioni in cui la valutazione di impatto ambientale va ad intersecarsi con soluzioni procedimentali differenti da uno schema di procedimento base e con la presenza di particolari istituti. Talvolta il legislatore, sia a livello generale, sia a livello settoriale, dà vita a situazioni procedimentali semplificate o ad istituti volti a snellire la macchinosa attività amministrativa: ebbene, scopo dell’analisi che ci si propone di affrontare è quello di vedere come la VIA interagisce con queste situazioni particolari.


Indubbiamente la fattispecie che in questa prospettiva maggiormente suscita interesse è costituita dai rapporti tra la valutazione di impatto ambientale e quello strumento di semplificazione amministrativa che è costituito dalla conferenza di servizi.


Questa è una forma di cooperazione tra amministrazioni pubbliche introdotta a livello generale dalla legge n.241/90 al fine di snellire l’azione amministrativa evitando che, nei procedimenti particolarmente complessi, le amministrazioni chiamate a parteciparvi debbano pronunciarsi in luoghi e tempi diversi; la conferenza dei servizi costituisce una valutazione contestuale nella quale le varie autorità coinvolte si fanno portatrici della propria volontà, e da questo confronto viene fuori una decisione unica che tenga conto delle varie posizioni e manifestazioni di volontà. Essa può essere indetta sia nella fase istruttoria, in cui ciascuna amministrazione coinvolta può evidenziare l’interesse di cui è portavoce, sia nella fase decisoria, nella quale conduce alla determinazione finale in via collaborativa da parte di autorità dotate di poteri decisori.


La disciplina dei rapporti che sussistono tra la conferenza dei servizi e la valutazione di impatto ambientale va ricercata nell’art.14 della legge 241/90, nel quale trova collocazione la disciplina generale della conferenza. Il numero rilevante di commi e di articoli che sono stati aggiunti all’originario testo testimoniano la vivace evoluzione che l’istituto ha attraversato e le numerose vicende che hanno modificato e sono intervenute sul dettato normativo del ’90 che, a onor del vero, si presentava in proposito piuttosto scarno.


Se si legge l’articolo in questione così come appariva all’indomani dell’approvazione della legge, si può facilmente notare che l’interesse ambientale veniva menzionato nel quarto comma dell’art.14 come rientrante in quella categoria di interessi all’acquisizione dei quali viene riservata una regolamentazione particolare. Nel precedente comma terzo, infatti, si stabiliva che “si considera acquisito, l’assenso della amministrazione la quale, regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza o vi abbia partecipato tramite rappresentanti privi della competenza ad esprimerne definitivamente la volontà, salvo che essa non comunichi all’amministrazione procedente il proprio motivato dissenso entro venti giorni dalla conferenza stessa ovvero dalla data di ricevimento della comunicazione delle determinazioni adottate, qualora queste ultime abbiano contenuto sostanzialmente diverso da quelle originariamente previste32. Da quanto è disposto si evince che si stabilivano degli oneri da rispettare da parte delle amministrazioni affinché potessero avere voce in capitolo riguardo alla decisione da prendere nella conferenza; gli stessi oneri venivano meno per le amministrazioni indicate nel citato comma quarto dove si diceva che “le disposizioni di cui al terzo comma non si applicano alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini33. Il legislatore del ’90, dunque, ritiene che vi siano degli interessi, tra i quali quello ambientale, che meritano di essere tutelati con maggiore incisività rispetto agli altri: di qui la disciplina differente per cui in sede di conferenza dei servizi non si poteva considerare acquisito l’assenso delle autorità portatrici di tali interessi, quand’anche queste non avessero preso parte alla conferenza o non avessero comunicato il loro “motivato dissenso”.


La medesima “ratio” è sottesa nella disciplina che il legislatore del ’90 colloca nell’art.16 della legge dove si fa menzione della circostanza in cui l’autorità procedente sia obbligata a chiedere un parere consultivo ad un’altra amministrazione: anche in questo caso vi sono dei limiti temporali per l’amministrazione consultate che non valgono a norma del comma terzo, per le stesse autorità che vengono privilegiate in sede di conferenza dei servizi, ovvero quelle portatrici di interessi particolarmente rilevanti, come quello ambientale. Il riferimento a quest’ultimo articolo è stato effettuato al fine di sottolineare l’intenzione di apprestare una tutela privilegiata a certe amministrazioni che è sottesa all’intero piano legislativo ed è la medesima che anima la disciplina della conferenza dei servizi dell’art.14.


Quando la norma del ’90 fa riferimento alle “amministrazioni preposte alla tutela ambientale” in generale, non v’è dubbio che vi rientri l’autorità competente a svolgere la valutazione di impatto ambientale: dunque sin dall’inizio dell’evoluzione della disciplina del procedimento amministrativo, il legislatore avverte la necessità di concedere una strada preferenziale ad alcune autorità, tra cui quella preposta alla VIA: è questo, dunque, il primo nucleo su cui si sviluppa la disciplina successiva.


La disciplina che caratterizza il rapporto tra procedimento di VIA e conferenza dei servizi rimane sostanzialmente invariato fino al 1994, anno in cui interviene la legge n.109/94 (legge c.d. “Merloni”), ovvero “la legge quadro in materia di lavori pubblici”, che in questo settore semplifica la procedura relativa alla possibilità di acquisire la VIA nelle conferenza dei servizi. Nell’art.16 della legge, infatti, distinguendo i livelli progettuali in preliminare, definitivo ed esecutivo, inserisce la verifica della conformità alle norme ambientali ed urbanistiche a partire dal progetto preliminare: nel terzo comma dell’articolo, dove si trova il primo livello di progettazione, viene fatta menzione di “una relazione illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione prospettata in base alla valutazione delle eventuali soluzioni possibili, anche con riferimento ai profili ambientali”; nel quarto comma , dove viene disciplinato il progetto definitivo, si trova espressamente menzionato lo “studio di impatto ambientale” come elemento necessario del progetto, ove previsto.


Analizzando i riferimenti normativi analizzati, si può comprendere la scelta effettuata dal legislatore del ’94, ovvero quella di inserire il procedimento di valutazione di impatto ambientale in maniera organica all’interno del procedimento di valutazione e autorizzazione del progetto sin dal momento della redazione del progetto preliminare. Considerando, poi, il fatto che, nella maggior parte dei casi, il momento della valutazione iniziale del progetto viene effettuato all’interno di una conferenza di servizi, si arriva facilmente alla conclusione che il procedimento di VIA è stato inserito nella conferenza sul progetto preliminare.


Quale significato si deve attribuire alla compenetrazione tra valutazione di impatto ambientale e conferenza di servizi sul progetto preliminare? Forse questa scelta sancisce la “morte” della VIA in quanto procedimento autonomo e la trasforma in un semplice parere acquisito in sede di conferenza? Indubbiamente la soluzione optata dal legislatore lascia aperte le strade a diverse tesi interpretative, dal momento che il tenore del disposto normativo sembra parificare, da un punto di vista formale, la valutazione sull’impatto ambientale a tutte le altre semplici forme di valutazione tecnica sul progetto. La scarsa chiarezza della legge n.109/94, ma anche degli altri atti normativi che intervengono sulla disciplina della VIA non fanno altro che alimentare il dibattito circa la natura giuridica di questo istituto, argomento di cui si è detto sopra. In questa sede ciò che interessa di più è il profilo tecnico della questione oggettivamente osservata e ne risulta una soluzione procedimentale volta alla semplificazione: il procedimento di VIA non si atteggia più a sequenza separata, autonoma e connessa soltanto da un punto di vista logico e funzionale, non viaggia più su un binario parallelo come avveniva in precedenza, quando soltanto a progetto definito e pronto per l’esecuzione si effettuava il confronto con il risultato del giudizio di compatibilità ambientale. La VIA, a seguito dell’intervento di riforma, “entra” nel procedimento autorizzatorio principale e viene bilanciata con gli altri interessi sin dal momento dello studio tecnico sulla fattibilità del progetto.


La compenetrazione della VIA con la conferenza di servizi viene attuata in maniera del tutto simile dal D.P.R.. n.554/99 che sembra ricalcare interamente lo schema fornito dalla legge n.109/94: ormai la valutazione di impatto ambientale si interseca con il momento di valutazione tecnica del progetto tant’è vero che nell’art.25 tra gli elementi costituenti il progetto definitivo, che a sua volta si basa sulle indicazioni del progetto preliminare , compare lo “studio di impatto ambientale ove previsto dalle vigenti normative ovvero studio di fattibilità ambientale” (comma 2, lett. f).


Dunque anche nella logica del D.P.R. n.554/99, la VIA non si incrocia con il procedimento principale soltanto nel momento in cui il progetto è stato approntato, ma percorre insieme a quest’ultimo l’intero iter procedimentale, dal livello preliminare di progettazione fino a quello definitivo pronto per essere eseguito.


Se la strada intrapresa dalla VIA con la legge n.109/94 costituisce il risultato del primo intervento di riforma della disciplina originaria, la struttura degli artt.14 e seguenti della legge n .241/90 è stata oggetto di profonda modifica in particolare ad opera di due atti normativi, ai quali specialmente occorre far riferimento se si vuole avere il quadro completo della norma così come si presenta all’inizio del 2005, quando interviene l’ultimo intervento riformistico. Dunque, fino a qualche mese fa, se si voleva una rappresentazione globale della disciplina, si doveva far riferimento fondamentalmente alle modifiche apportate rispettivamente, dalla legge “Bassanini”n.127/97 intitolata “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti amministrativi” ed alla legge n.340/00.


Osservare gli articoli della legge n.241/90 come risultano complessivamente modificati a seguito anche della riforma del 2000, è utile al fine di avere un chiaro termine di paragone con la disciplina entrata da poco in vigore e poter valutare in maniera consapevole quali possano essere le prospettive che si aprono con la nuova legge.


La figura della VIA che la normativa ci consegna all’indomani del 2000 è quella di un procedimento fortemente allacciato con quello autorizzatorio principale, sulla scia della strada intrapresa dai primi interventi di modifica. La VIA entra in relazione con il procedimento principale fin dalla sua fase preliminare che, come visto nel paragrafo precedente, è quella in cui vengono effettuati gli studi di impatto ambientale. Il comma terzo dell’art.14-bis dice che “nel caso in cui sia richiesta VIA, la conferenza di servizi si esprime entro trenta giorni dalla conclusione della fase preliminare di definizione dei contenuti dello studio di impatto ambientale, secondo quanto previsto in materia di VIA. Ove tale conclusione non intervenga entro novanta giorni dalla richiesta di cui al comma 1, la conferenza di servizi si esprime comunque entro i successivi trenta giorni. Nell’ambito di tale conferenza, l’autorità competente alla VIA si esprime sulle condizioni per la elaborazione del progetto e dello studio di impatto ambientale. In tale fase, che costituisce parte integrante della procedura di VIA, la suddetta autorità esamina le principali alternative, compresa l’alternativa zero, e, sulla base della documentazione disponibile, verifica l’esistenza di eventuali elementi di incompatibilità, anche con riferimento alla localizzazione prevista dal progetto e, qualora tali elementi non sussistano, indica nell’ambito della conferenza di servizi le condizioni per ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, i necessari atti di consenso”. La conferenza di servizi, dunque, che fa parte, da un punto di vista funzionale, del procedimento autorizzatorio principale, non acquisisce il giudizio di compatibilità ambientale già definito, ma va ad intersecarsi con il procedimento di VIA, quando quest’ultimo è ancora nella fase dello studio e della ricerca di dati tecnici e degli interessi coinvolti.


Nel medesimo comma terzo dell’art.14-bis il legislatore opera una fusione da un punto di vista formale tra la prima fase della VIA e la conferenza di servizi sul progetto preliminare.


Si dice di quest’ultima che essa “costituisce parte integrante della procedura di VIA”; dunque i due procedimenti mettono in comune una fase, quella appunto della conferenza dei servizi, nella quale si inserisce la presentazione dello studio sull’impatto ambientale (S.I.A.) che, preso in se stesso fa parte del primo segmento della VIA. Del resto (qui si coglie l’intento di semplificazione che ha spinto il legislatore a tale scelta) raccogliere e ponderare gli interessi nella medesima sede in cui vengono analizzati tutti gli altri aspetti tecnici del progetto (ovvero la conferenza di servizi c.d. “istruttoria” che trova la sua disciplina nell’art.14 bis) costituisce motivo di notevole snellimento dell’intera procedura, dal momento che si evita il doppio esame del progetto, essendo il primo quello che riguarda gli aspetti tecnici sulla sua realizzazione, il secondo quello del confronto con il risultato di un’altra procedura separata ovvero quella di VIA.


Se nell’art.14-bis della legge n,241/90 viene disciplinata la conferenza di servizi “istruttoria” ovvero quella che raccoglie le osservazioni e i pareri delle amministrazioni portatrici dei vari interessi coinvolti, nel successivo art.14-ter trova collocazione la disciplina della stessa conferenza di servizi, ma colta nel momento in cui le amministrazioni presenti, dotate di poteri decisori, prendono una decisione: ci si trova, quindi, dinanzi alla conferenza di servizi c.d. “decisoria”.


Nel quarto comma di questo articolo si trova la regolamentazione del ruolo che gioca il procedimento di VIA nei confronti della conferenza nel momento in cui si prende la decisione finale sul progetto. “Nei casi in cui sia richiesta la VIA, la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito la valutazione medesima”: così dice il testo della legge. Ancora una volta la procedura di VIA fa il suo ingresso in sede di conferenza; nella fattispecie esaminata sopra la VIA e il procedimento principale condividevano la fase istruttoria, di raccolta degli elementi, ora entrambi i procedimenti sono giunti al punto di emettere una decisione: si tratta di vedere in che rapporto stanno tra loro queste due decisioni. Quello che conta evidenziare è come il procedimento principale non emetta una decisione se prima non sia stato acquisito il giudizio formulato dalla VIA e come l’amministrazione competente si esprima non fuori, ma in sede di conferenza: quanto si dice nel testo della legge fa capire che il legislatore ha scelto anche in questa fase, ai fini della semplificazione, di compenetrare i due procedimenti fondendo i due momenti culminanti, ovvero quelli decisionali in un’unica sede, quella della conferenza di servizi.


A conclusione della disciplina del rapporto tra VIA e procedimento principale, non si può omettere uno dei punti della normativa su cui maggiormente ha inciso l’intervento di riforma, ovvero la disciplina del dissenso da parte dell’autorità competente ad emettere il giudizio di compatibilità ambientale.


La disciplina del dissenso in generale viene collocata nell’art.14-quarter della legge n.241/90; in maniera speciale il “motivato dissenso” riguardante le autorità preposte alla tutela dell’ambiente, e quindi anche quelle competenti in materia di VIA, si trova nel comma terzo: si dispone che il dissenso manifestato in conferenza di servizi sia superabile mediante l’istituto, visto sopra, del rinvio della questione al Consiglio dei Ministri che, in via di extrema ratio, ha il potere di assumere tutte le determinazioni del procedimento stesso, comprese quelle che riguardano interessi forti come, in questo caso, l’ambiente.


Il quadro normativo che è stato delineato nel paragrafo precedente costituisce lo stato in cui si presenta la disciplina agli inizi del 2005, quando la legge n.241/90 sul procedimento amministrativo, con tutte le modifiche che sono state viste e commentate sopra, va incontro ad un nuovo e imponente intervento di riforma: si fa riferimento alla legge n.15/05, approvata il 26 gennaio e intitolata “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n.241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”, che “sotto alcuni profili costituisce per così dire, un restyling34 del vecchio testo normativo. Lo spirito della legge è duplice: da un lato essa contiene norme che altro non sono se non il recepimento in sede legislativa, di orientamenti di origine giurisprudenziale; dall’altro lato essa tende, sia pur talvolta in modo confuso, a mutare e rendere maggiormente paritario il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione.


Gli articoli che vanno dall’8 al 13 della legge incidono, in modo specifico, sulla disciplina dell’istituto della conferenza di servizi, che va a modificare, quindi, gli artt. 14 e ss. della legge n.241/90.


Al momento in cui si scrive, la legge di modifica è entrata in vigore soltanto da pochi mesi e sembra prematuro dare un giudizio definitivo sulle nuove dinamiche introdotte all’interno del procedimento e, in particolare, sulla conferenza di servizi; anche all’interno della dottrina le voci più autorevoli non hanno avuto ancora modo di formulare un’opinione completa ed esaustiva sull’argomento. Di conseguenza l’unico approccio che sembra possibile allo stato attuale è quello di un semplice raffronto testuale tra la vecchia e la nuova normativa al fine di evidenziare dove si sia optato per una soluzione di continuità e dove, invece, si sia scelto di percorrere nuove vie; e poi cercare di preveder dove il percorso, che queste nuove vie segnano, potrebbe condurre e quali sono i nuovi orizzonti che si prospettano.


Innanzitutto, prima di analizzare i rapporti che in virtù della modifica, sussistono tra VIA e conferenza di servizi, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla figura della conferenza come esce dalla revisione normativa. Nella fase istruttoria essa resta lo strumento normale per l’esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento (art.14, comma primo).


Nella fase decisoria la conferenza ha carattere obbligatorio, in tutti i casi in cui l’amministrazione procedente “deve acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche” (art.14, secondo comma); laddove non li ottenga, dispone la nuova norma, essa ha carattere obbligatorio trascorsi “trenta giorni dalla ricezione, da parte dell’amministrazione competente, della relativa richiesta”. Nel caso in cui le amministrazioni interpellate abbiano risposto nello stesso termine in maniera negativa, la conferenza può essere indetta dall’amministrazione procedente. Quindi nella fase decisoria la conferenza può essere sempre indetta e diventa, così, lo strumento normale di conclusione del procedimento.


La conferenza decisoria resta strumento facoltativo nei casi indicati dal vecchio terzo comma dell’art.14 (introdotto dalla legge n.127/97), ovvero per l’ “esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati”.


La conferenza di servizi, stando alla vecchia disciplina, è chiamata a determinare all’inizio dei suoi lavori, il termine per l’adozione della decisione conclusiva, che non può superare i novanta giorni. Trascorso questo termine, secondo la nuova normativa, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, tenendo conto delle risultanze della conferenza e delle posizioni prevalenti in quella sede (art.6-bis); si tratta di una norma acceleratoria che consente all’amministrazione procedente di concludere comunque il procedimento a fronte di mancata collaborazione da parte delle altre autorità.


Occorre soffermarsi sul comma 6-bis dell’art.14-ter, in quanto esso comporta una rilevantissima modifica rispetto al precedente dettato normativo che era presente nel vecchio secondo comma dell’art.14-quater. Nella vecchia normativa si diceva che l’amministrazione procedente “assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse nella conferenza di servizi”: il criterio su cui si fondava la determinazione era, dunque, quello della “maggioranza” delle posizioni espresse. Questo criterio viene sostituito dalla riforma del nuovo criterio della “prevalenza delle posizioni espresse”. Il problema, ora, è definire che cosa si intenda per “prevalenza” usata al posto di “maggioranza”. Presumibilmente mentre il criterio della maggioranza è eminentemente soggettivo, nel senso che ad ogni amministrazione partecipante va riferito un voto, si può ritenere che il criterio della prevalenza vada riferito al tipo e alla importanza delle attribuzioni di ciascuna amministrazione con riferimento alle questioni in oggetto35. Quindi l’amministrazione in sede di conferenza di servizi dovrà avere riguardo alle singole posizioni che le varie amministrazioni coinvolte assumono con riferimento al potere che ciascuna di esse avrebbe di determinare l’esito del procedimento.


La conclusione della conferenza avviene con la determinazione motivata di conclusione da parte dell’amministrazione procedente.


Dopo aver illustrato lo schema essenziale della nuova procedura di svolgimento della conferenza di servizi, se il suo iter sembra sufficientemente chiaro e delineato, un punto lascia aperti dubbi e perplessità, ovvero lo stesso punto sul quale poche righe sopra ci si è soffermati, cioè il concetto di “prevalenza delle posizioni espresse”. Compito del legislatore è quello di esprimere nella maniera più sintetica e precisa possibile il maggior numero di concetti, quanto meno quelli necessari e sufficienti affinché l’azione che viene indicata nel testo legislativo possa essere svolta senza dubbi ed incertezze. Tuttavia, in questa circostanza il legislatore sembra venir meno proprio in quella che dovrebbe essere la sua migliore virtù, dato che la norma sicuramente non brilla per chiarezza.


Riguardo all’autorità che prende la decisione non sembrano esserci dubbi, dato che a proposito la legge è chiara nel dire che essa sia l’amministrazione proponente; ma in quanto al criterio da utilizzare per prendere la decisione stessa, ovvero quello della prevalenza, non si riesce a capire bene come esso funzioni.


Parlare di prevalenza significa che esiste una scala gerarchica tra le varie amministrazioni partecipanti alla conferenza, per cui la voce di una è più pesante di quella di un’altra. Ma a chi si deve fare riferimento per conoscere questa gerarchia? Chi è dotato dalla legge di quel potere discrezionale per poter fornire un’indicazione precisa sul peso decisionale delle singole autorità? Indubbiamente, la vaghezza della legge lascia fortemente perplessi.


All’interno di questo sistema decisionale della nuova conferenza di servizi si inserisce, ovviamente, accanto alle altre manifestazioni di volontà, il giudizio di compatibilità ambientale; ma alla luce della scarsa chiarezza del criterio decisionale, che valore ha l’autorità competente per la valutazione? Inoltre, chi si fa garante dell’effettivo rispetto e della tutela dell’interesse ambientale? Un aspetto in particolare di questa nuova disciplina lascia perplessi: si tratta della norma contenuta nell’art.3 bis inserito dalla normativa del 2005 nella struttura dell’art. 14 bis della legge n.241/90. Nella norma in questione, che va coordinata con il comma 3 dell’art.14 quater, si dice che in caso di motivato dissenso di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale “la decisione è rimessa dall’amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) al Consiglio dei Ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali; c) alla Conferenza unificata, di cui all’art.8 del d.lgs. 28 agosto 1997 n.281, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali”.


Leggendo la norma salta all’occhio che, rispetto alla vecchia procedura è stata anticipata la valutazione politica addirittura alla conferenza di servizi preliminare, mentre nella vecchia normativa la soluzione poteva essere affidata ad organi politici soltanto qualora il motivato dissenso fosse stato manifestato nel momento decisionale. Di fatto la nuova legge, facendo riferimento ad una valutazione di opportunità politica, sottrae la valutazione ai vincoli più stretti e rigorosi di un esame svolto all’interno del procedimento amministrativo.


Allo stato attuale, queste domande sembrano non trovare risposta e la soluzione sembra perdersi in un mare tempestoso privo di riferimenti certi a livello legislativo. Non sembra azzardato affermare che la normativa a tal proposito già in partenza si presenti in un certo modo come gravata da un forte handicap.


La grande difficoltà di analizzare gli istituti della materia ambientale e di delineare un quadro chiaro è rappresentata non soltanto dall’incidenza che su di essi ha la normativa riguardante settori afferenti, come quella, appena vista, di riforma del procedimento amministrativo; la stessa legislazione ambientale si presenta in uno stato di continuo divenire. Il panorama, già di per se poco chiaro, viene reso ancora più nebuloso dalle nuove prospettive di riforma del procedimento di VIA, in relazione con gli altri procedimenti del settore ambientale, contenute nella legge delega n.308/04 recante “Delega al governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”.


I principi e i criteri speciali di delega, per quello che interessa l’argomento che si sta trattando, ovvero la semplificazione procedimentale, contengono prescrizioni rilevanti che riguardano l’anticipazione della VIA alla prima presentazione del progetto con la previsione di un sistema di controllo ex post sull’ottemperanza alle prescrizioni impartite dal giudizio di VIA; l’intento del legislatore è quello di generalizzare l’impostazione accolta dalla c.d. “legge obiettivo”. La massima anticipazione possibile della VIA era un’esigenza, mostrata in ambito comunitario, dettata dalla mancanza di uno strumento di studio delle esigenze ambientali nel momento della pianificazione territoriale. Ora che è entrata in vigore la VAS che, come si vedrà oltre, sottopone a valutazione ambientale non un singolo progetto, ma un intero piano o programma territoriale, sarebbe più congruo lasciare alla VIA quello che è il suo ruolo originario, ovvero di studio delle modalità concrete di attuazione del progetto, ovvero di analisi di come l’opera attualmente andrà realizzata. La ratio della normativa comunitaria è che l’intero “ciclo del progetto” vada sottoposto a valutazione sull’impatto ambientale: tale ciclo sembra coperto dall’esistenza dei due istituti, della VAS, che si occupa del livello della generale programmazione territoriale, che contiene, quindi l’ “an” dell’opera, e della VIA, che ha il dovere di scendere nel dettaglio del “quomodo” dell’opera stessa.


Alla luce di tali considerazioni si comprende la ragione per la quale la valutazione non deve limitarsi soltanto al progetto preliminare lasciando quello definitivo ad un semplice controllo di ottemperanza, ma occorre che anche quest’ultimo sia sottoposto ad una dettagliata valutazione al fine di considerare concretamente anche quegli elementi che si sono presentati nel corso dell’opera di progettazione e che non erano prevedibili al momento del progetto preliminare36.

 

 

3) V.I.A. E TUTELA DELL’AMBIENTE NEL SETTORE DELLE OPERE PUBBLICHE COME RECENTEMENTE RIORDINATO

Non ha senso parlare di valutazione di impatto ambientale se poi questa forma particolare di procedimento amministrativo non viene contestualizzata all’interno del più vasto settore nel quale essa opera e nei confronti del quale essa svolge una funzione strumentale: si fa riferimento al settore che comprende i procedimenti autorizzatori per la realizzazione delle opere. Soltanto inserendo la VIA in questo contesto più ampio si può cogliere quale sia la sua funzione e come, nel complesso, si vada a rapportare con gli altri strumenti amministrativi.


Finora il procedimento di VIA è stato esaminato e “vivisezionato” nel suo interno: sono state analizzate le sue fasi ed è stato studiato ogni singolo “ingranaggio” che compone questo meccanismo procedimentale. A questo punto lo sforzo intellettuale che si richiese è diverso. Bisogna “uscire fuori” dal procedimento di VIA e guardare l’iter autorizzatorio del progetto nel suo complesso, nella sua interezza; bisogna uscire dalla dimensione del “micro” per accedere a quella del “macro” dove lo svolgersi dell’azione amministrativa è percepita in tutto il suo dispiegarsi.


In particolare, in questa trattazione, tra le varie categorie di opere, si vuole focalizzare l’attenzione sulla categoria delle opere pubbliche che generalmente comprende gli interventi di maggiore portata e quindi di maggiore impatto sull’ambiente. Le opere pubbliche acquistano una maggiore rilevanza specie nell’attuale frangente storico in cui il Governo, nell’attuazione del suo programma, ha inteso, in ossequio alla propria filosofia neoliberista, temperata da accenti neokeynesiani, mettere al centro della sua opera gli interventi pubblici, intesi come principale strumento di intervento a favore delle aree depresse del Mezzogiorno.


Al fine di dare un impulso alla realizzazione di opere pubbliche, il legislatore ha recentemente ridisegnato l’intero quadro giuridico di riferimento. La legge 11 febbraio 1994, n. 109, legge quadro in materia di lavori pubblici, è stata modificata dalla legge 3 agosto 2002, n. 166, c.d. “collegato infrastrutture”. Con le modifiche apportate si è voluto ritoccare l’assetto giuridico riguardante la realizzazione dei lavori pubblici. E’ stato emanato il d.lgs 20 agosto 2002, n. 190, c.d. legge obiettivo, in attuazione della legge delega 21 dicembre 2001, n. 443, in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. Con tale intervento, il legislatore ha dettato una disciplina ad hoc per la realizzazione di opere di elevata rilevanza nazionale.


Dal quadro legislativo sommariamente rappresentato si mette in evidenza quella distinzione che costituisce la “summa divisio” all’interno del settore delle opere pubbliche: da una parte le opere c.d. “strategiche”, dall’altra quelle che, a contrario, possono essere definite “non strategiche”. Prima di proseguire nell’analisi normativa della materia, conviene innanzitutto fare chiarezza su tale distinzione.
Al fine di favorire la realizzazione di grandi opere infrastrutturali, all’interno della “famiglia” delle opere pubbliche è stata individuata la categoria delle opere definite “strategiche”; la definizione di tale settore è stata effettuata dalla legge c.d. “obiettivo”, il d.lgs.190/02, in attuazione della legge delega n.443/01, allo scopo di introdurre una disciplina molto più favorevole rispetto alla disciplina generale per altre opere.
Delimitato il settore delle “opere strategiche” o “grandi opere”, per esclusione tutti gli altri interventi rientrano nella categoria delle opere “non strategiche” per le quali continua a valere la disciplina generale, ovvero il corpus normativo che si fonda sulla legge n.109/94 (legge Merloni) e sul D.P.R. n.554/99; a questa normativa va poi ad aggiungersi il c.d. “collegato infrastrutture”, nome gergale della legge n.166/02 che riforma provvisoriamente la Merloni per rispondere alle esigenze di semplificazione, che gli operatori di settore richiedevano alla stregua delle semplificazioni introdotte dalla legge obiettivo per le grandi opere.


Attualmente, la legge ll.pp. prevede due metodologie di realizzazione delle opere pubbliche “non strategiche”: l'appalto e la concessione di lavori pubblici, salvo i c.d. lavori in economia. Per le opere c.d. strategiche, la legge obiettivo prevede la concessione e l’affidamento unitario a contraente generale.


L'appalto è il contratto con quale una parte si obbliga al compimento di un'opera verso un corrispettivo in denaro. La formula contrattuale dell'appalto non prevede una gestione dell'opera da parte del soggetto appaltatore, in quanto il corrispettivo dell'opera è rappresentato dal denaro.


Il contraente generale si occupa della progettazione, realizzazione e finanziamento delle infrastrutture, ma non si occupa della loro gestione. Il contraente generale si assume tutti i rischi relativi alla fase di realizzazione dell'opera, compreso l’obbligo di risultato complessivo del rapporto, le adeguate garanzie e il relativo finanziamento anticipato, ma non si incarica della gestione.


L’unica formula contrattuale nella quale la controparte privata si obbliga sia alla realizzazione, sia alla gestione dell’opera è la concessione di lavori pubblici. L’amministrazione affida ad un concessionario la costruzione di una infrastruttura il cui sfruttamento è produttivo di guadagno e, quindi, può rappresentare una controprestazione, sostituendosi al pagamento in denaro. Solo in relazione a questa metodologia contrattuale si può parlare di realizzazione con connessa “utilizzazione economica”, in quanto il soggetto costruttore e gestore ha la principale finalità di recuperare, attraverso lo sfruttamento dell'opera, l'investimento iniziale e trarne un guadagno. La concessione di lavori pubblici è, infatti, definita dall'art. 19, comma 1 della legge ll.pp., come “un contratto avente ad oggetto la progettazione, la costruzione e la gestione dell'opera pubblica o di pubblica utilità”. La legge obiettivo, nel disciplinare l’istituto della concessione in relazione alle opere strategiche, rinvia agli articoli della legge ll.pp., con differenze di rilievo marginale.


Alla luce di quanto detto, ora che si ha più chiaro lo svolgimento dell’iter per la realizzazione dei suddetti interventi, è possibile soffermarsi per inserire la procedura di valutazione di impatto ambientale all’interno di questa sequenza procedimentale.


Ancora una volta, come si è fatto per l’analisi della disciplina generale, bisogna seguire il discrimine della distinzione effettuata dalla legge obiettivo ed esaminare, quindi, il procedimento per le opere strategiche in modo distinto da quello per le altre opere.


All’interno della prima categoria, ovvero le “grandi opere”, la legge stabilisce che deve essere presentato il progetto preliminare (corredato della descrizione cartografica delle aree impegnate, delle eventuali fasce di rispetto e delle misure di salvaguardia, delle caratteristiche prestazionali e funzionali, delle infrastrutture ed opere connesse, nonché delle spese per eventuali opere e misure compensative dell’impatto territoriale e sociale) e lo studio di impatto ambientale (art.3 comma 3)37.


Il progetto preliminare delle opere strategiche pubbliche non è sottoposto a conferenza dei servizi, ai fini della sua approvazione da parte del CIPE (art.3, comma 5), essendo prevista una speciale procedura, che si applica anche per il rilascio della valutazione di impatto ambientale, nonché per il conseguimento (contestuale o successivo con la medesima procedura) di tutte le autorizzazioni e gli altri atti di consenso necessari (art.13, comma1).


L’approvazione da parte del CIPE (regolata dal principio di maggioranza) determina anche “l’accertamento della compatibilità ambientale dell’opera e perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa Stato-Regione sulla sua localizzazione, comportando l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed adottati38, mentre l’adozione delle misure di salvaguardia è rimessa alla competenza degli enti locali (art.3, comma 7).


A mettere in moto il meccanismo procedimentale è sempre il soggetto proponente che deve trasmettere una copia del progetto ai ministeri delle infrastrutture e delle attività produttive, alle altre amministrazioni interessate rappresentate nel CIPE, e ad ogni altra amministrazione titolare di poteri autorizzatori o permissivi in materia. Per quanto concerne l’avvio del procedimento di VIA, il proponente è tenuto al deposito dello studio di impatto ambientale ed alla pubblicazione sui quotidiani delle essenziali notizie dell’iniziativa, atto che configura formale comunicazione ai privati interessati ai sensi della legge n.241/90 (art.13, comma 3).


Lo speciale procedimento disciplinato dal d.lgs. 190/2002 riguarda solo infrastrutture e insediamenti produttivi soggetti alla VIA statale (art.17, comma 1). Per le opere soggette a screening o VIA di competenza regionale, le Regioni effettuano la propria valutazione entro 90 giorni39, ma il provvedimento di compatibilità ambientale è sempre riservato al CIPE (art.17, comma 4).


Il procedimento di VIA è obbligatorio, vincolante e preventivo, in quanto deve essere concluso prima dell’avvio dei lavori (artr.17, comma 2)


Il procedimento delineato dall’art.19 ricalca integralmente quello ordinario con la sola ma significativa differenza che la valutazione del Ministero dell’ambiente sulla compatibilità ambientale dell’opera esaminata non costituisce atto conclusivo e definitivo del subprocedimento, ma assume valore ed efficacia giuridica di una proposta, mentre il “provvedimento di compatibilità ambientale è adottato dal CIPE, contestualmente all’approvazione del progetto preliminare”(art.18, comma 6).


Come si può osservare dall’esame della disciplina che riguarda la procedura di VIA all’interno del procedimento di realizzazione delle opere “strategiche”, la differenza fondamentale rispetto alle altre opere costituisce nel fatto che la VIA ha ad oggetto il progetto preliminare, mentre la VIA delle opere “non strategiche” ha ad oggetto il progetto definitivo: in definitiva è il CIPE che esamina il progetto preliminare e, tra le altre valutazioni, effettua anche quella sull’impatto ambientale; di fatto il risultato finale è che il progetto definitivo, quello che poi verrà eseguito, viene sottratto alla valutazione ambientale, lasciandolo sottoposto ad un meno penetrante giudizio di ottemperanza. Questo comporta una notevole semplificazione dell’intero iter procedimentale che ne risulta notevolmente snellito; il tutto per rendere possibile un ampio programma di investimenti pubblici in ossequio alla filosofia che è alla base della legge. Tuttavia, se da un lato ne risulta agevolata la politica degli investimenti pubblici, dall’altro lato sembrano fortemente frustrate le garanzie poste a tutela dell’interesse ambientale.


Dopo aver effettuato una panoramica sullo scenario normativo in materia di lavori pubblici a livello nazionale, è necessario completare il quadro allargando il raggio di analisi al panorama comunitario nel quale, ultimamente, si sono registrate innovazioni di enorme rilievo.


Tra queste, la direttiva 04/18/CE del 31 marzo 2004 rappresenta senza dubbio una svolta epocale nell'opera di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri dell'UE: non solo la disciplina in materia di appalti viene unificata, ma grazie al ricorso alle procedure elettroniche è possibile conseguire vantaggi in termini di minori spese e di abbreviazione dei tempi tecnici per l'espletamento delle procedure concorsuali40.


Essa si propone di riordinare il diritto comunitario in materia di appalti, unificando le precedenti disposizioni contenute nelle direttive 92/56/CEE, 93/36/CEE e 93/37/CEE che avevano in precedenza codificato in modo separato, rispettivamente, la disciplina degli appalti di servizi, di forniture e di lavori.


L'obiettivo principale del legislatore comunitario è di realizzare un corpo unico di testi organico ed organizzato, omogeneo nei principi generali e negli istituti da applicare; dunque non una mera collazione di testi distinti41.


In questo contesto, sebbene l'intento principale sia stato quello di coordinare le diverse discipline di settore, si è colta l'occasione per attualizzare la disciplina degli appalti immettendo nel corpus iuris nuove norme che difficilmente non produrranno un impatto sulle legislazioni nazionali. Impatto la cui portata non è agevolmente misurabile ex ante, soprattutto in riferimento ad una tecnica legislativa, quale quella italiana, che abbandona il carattere generale ed aperto del sistema comunitario per riversarsi in una produzione quasi sempre troppo analitica, alle volte autenticamente claustrofobica42.


La Direttiva si compone di 84 articoli, 12 allegati ed è preceduta da 51 considerando la cui lettura anticipa e spiega presupposti, ragioni e finalità degli indirizzi e delle scelte effettuate.


Uno strumento normativo breve, tendenzialmente completo ed agile che cerca in definitiva di: semplificare il quadro giuridico esistente; coordinare il contenuto delle tre direttive classiche; chiarire le disposizioni oscure e complesse; attualizzare la normativa di settore.


Effettuata questa rassegna generale sulle innovazioni apportate dalla direttiva nel settore delle opere pubbliche, si può adesso concentrare l’attenzione sull’aspetto della normativa comunitaria che riguarda più da vicino l’argomento che si sta trattando: si fa riferimento ai c.d. criteri ecologici da considerare al momento della valutazione delle offerte di appalto; ebbene, è proprio con riferimento a questo settore che la direttiva apporta un significativo cambiamento. Tuttavia, prima di incentrare l’attenzione sulla nuova normativa, è opportuno effettuare un breve excursus in riferimento al quadro normativo precedente per avere a disposizione, così, i due termini di paragone.


A dire il vero i testi normativi non forniscono indicazioni precise a riguardo, anzi spesso si fermano ad indicazioni di principio che lasciano gli interpreti nell’indecisione, consegnando, come molte volte avviene, alla giurisprudenza il compito di estrapolare dal principio di carattere generale i criteri ai quali ci si deve attenere in sede di valutazione.


La materia degli appalti costituisce indubbiamente il settore guida che fornisce la disciplina di riferimento in materia. Si può, dunque, prendere come riferimento la normativa sugli appalti per vedere quali sono le indicazioni che il legislatore a proposito fornisce.


A livello comunitario le pertinenti disposizioni sono contenute nella direttiva n.93/37 CEE del 14 giugno 1993, sopra nominata, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori e costituisce il blocco normativo di riferimento nel settore. Essa, dopo aver definito all’art.1 gli appalti pubblici quali quelli aventi ad oggetto l’esecuzione o, congiuntamente, l’esecuzione e la progettazione di lavori, attribuisce alle amministrazioni la facoltà di scelta tra procedure aperte (corrispondenti ai pubblici incanti), procedure ristrette (corrispondenti alla licitazione privata) e procedure negoziate, indicando al successivo art.30 i criteri di aggiudicazione alternativamente adottabili dalle amministrazioni aggiudicatici, individuati nel prezzo più basso o nell’offerta economicamente più vantaggiosa.


La disposizione fondamentale relativa ai criteri di aggiudicazione, contenuta nell’art.30, n.2, della Direttiva 93/37, così recita: “i criteri sui quali l’amministrazione aggiudicatrice si fonda per l’aggiudicazione dell’appalto sono:
a) unicamente il prezzo più basso
b) quando l’aggiudicazione si fa a favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa, diversi criteri variabili secondo l’appalto: ad esempio il prezzo, il termine di esecuzione, il costo di utilizzazione, la redditività, il valore tecnico
”.


Salta all’occhio, tra i criteri indicati per l’aggiudicazione, l’assenza dell’elemento della tutela ambientale. Tale mancanza sussiste anche nella disciplina nazionale che, in materia di appalti, fa riferimento alla legge Merloni, la n.109/94.


Ai sensi dell’art.21, comma 1, “l’aggiudicazione degli appalti mediante pubblico incanto o licitazione privata è effettuata con il criterio del prezzo più basso, inferiore a quello posto a base di gara (…)”.


L’art.21, comma 1-ter (aggiunto dall’art.7, comma 1, legge 1° agosto 2002, n.166) completa la disciplina, disponendo che “l’aggiudicazione degli appalti mediante pubblico incanto o licitazione privata può essere effettuata con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, determinata in base agli elementi di cui al comma 2, lettera a), nel caso di appalti di importo superiore alla soglia comunitaria43 in cui, per la prevalenza della componente tecnologica o per la particolare rilevanza tecnica delle possibili soluzioni progettuali, si ritiene possibile che la progettazione possa essere utilmente migliorata con integrazioni tecniche proposte dall’appaltatore”.


Nel caso di lavori di importo superiore alla soglia comunitaria, la norma statale attribuisce all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, se ritiene la progettazione migliorabile da integrazioni tecniche proposte dall’appaltatore.


I criteri da impiegare, ai sensi dell’art.21 comma 1-ter, legge n.109/94, sono di norma i seguenti: prezzo (o ribasso), valore tecnico ed estetico delle opere progettate (inteso come valore tecnico ed estetico delle varianti migliorative proposte rispetto al progetto posto a base di gara), tempo di esecuzione dei lavori, costo di utilizzazione e manutenzione, ulteriori elementi individuati in base al tipo di lavoro da realizzare.


Come si può vedere, dunque, né la direttiva n.93/37, né la normativa nazionale attualmente in vigore fanno riferimento al criterio dell’interesse ambientale in sede di valutazione delle singole offerte dei possibili aggiudicatari, lasciando la valutazione sull’impatto ambientale al momento dell’analisi del progetto definitivo dell’opera, quando già l’impresa si è aggiudicata l’appalto ed è ormai giunta al momento pratico della realizzazione dell’opera.


Su questo stato della normativa è intervenuta la riforma del legislatore comunitario con la direttiva n. 04/18. La portata innovativa è sensibile, dato che la direttiva inserisce nella disciplina degli appalti proprio quell’elemento del criterio ambientale che in precedenza mancava.


Gli elementi da ponderare nel momento della scelta dell’impresa a cui affidare la realizzazione dell’opera sono indicati nell’art. 53 il quale, oltre al prezzo, elemento fondamentale della precedente normativa, menziona il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il costo di utilizzazione, la redditività, il servizio successivo alla vendita e l’assistenza, la data di consegna e il termine di consegna o di esecuzione, le esigenze del pubblico interessato, anche in materia ambientale e sociale.


E’ importante rilevare come nelle valutazioni qualitative entri a pieno titolo l’elemento dell’ambiente. Se in precedenza la valutazione trovava riferimenti tecnici e metodologici nel consolidato campo degli studi di impatto ambientale per i progetti, ora, invece, è possibile impiegare detta metodologia anche per le caratteristiche delle offerte, che in relazione ai prodotti e ai servizi devono rivestire un pregio sociale e ambientale.


Dunque, in sostanza la direttiva del 2004 non va a stravolgere completamente la struttura normativa precedente, ma aggiunge ad essa degli elementi di valutazione ulteriori che vanno, così, a sommarsi al criterio primo e fondamentale della “offerta economicamente più vantaggiosa”. Del resto la direttiva recepisce gli stimoli e le pressioni che provengono dal retroterra giurisprudenziale44, dove più volte si era sottolineata la necessità di inserire i criteri ecologici rilevanti nell’offerta economicamente più vantaggiosa.


La direttiva comunitaria di riforma della materia degli appalti dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 2006; quindi anche l’Italia dovrà adeguare la propria normativa per inserire le innovazioni suddette nell’iter di aggiudicazione degli appalti.


Nella prospettiva dell’attuazione delle norme comunitarie, è il caso di menzionare un esempio di anticipazione locale della nuova disciplina, rappresentato da una legge regionale: la legge della Regione Puglia n.2 del 2 marzo 2004, recante “Disposizioni in materia di trasporti”.


La legge in questione va a modificare la precedente legge regionale n.18/02 in materia di appalti nel settore dei trasporti. Nel momento della valutazione delle offerte proposte dagli eventuali aggiudicatari la legge mantiene il vecchio criterio dell’offerta più vantaggiosa, che è poi il criterio cardine della disciplina nazionale, ma lo distingue in due elementi: uno economico, l’altro qualitativo. Ebbene, è proprio all’interno della categoria del criterio qualitativo che compaiono, tra gli altri, due nuovi elementi: il primo è il possesso o meno da parte del progetto di “certificazioni di qualità rilasciate da enti certificatori di rilevanza comunitaria”; il secondo è il riferimento nel corso della valutazione alla “salvaguardia ambientale del territorio”.


Finora è stata data una rappresentazione complessiva e generale dello scenario normativo in materia di opere pubbliche come risulta da un lato dallo sviluppo della legislazione nazionale, dall’altro dall’evolversi della normativa comunitaria. Si è fatto riferimento, inoltre, agli ultimi interventi della Comunità Europea racchiusi nella direttiva n.04/18 sopra menzionata che dovranno essere recepiti dagli Stati membri entro il 2006.


I rapporti che sussistono tra diritto comunitario e diritto interno dovrebbero comportare che quest’ultimo sia completamente coerente con il primo e aderente alle sue indicazioni. Tuttavia, il recente intervento del legislatore nazionale in materia di opere “strategiche” con la legge obiettivo ha comportato la creazione di un’area normativa di frizione tra l’ordinamento della comunità e l’ordinamento italiano.


Come si è avuto modo di apprendere quando ci si è soffermati sulle novità introdotte dal d.lgs. n.190/2002 il legislatore ha previsto per le opere indicate nel testo normativo una deroga al procedimento generale disciplinato nella legge Merloni, la legge quadro sui lavori pubblici: è stato creato un procedimento più snello allo scopo di favorire e velocizzare la realizzazione delle grandi opere. Nello specifico è stato previsto che l’approvazione sia del progetto preliminare che del progetto definitivo spetti al CIPE, in sostituzione, quindi, della pronuncia del Ministero dell’ambiente; in particolare , all’interno di questa catena procedimentale, la valutazione sull’impatto ambientale è stata inserita all’interno della pronuncia che lo stesso CIPE emette sul progetto preliminare. Di fatto, il giudizio sulla compatibilità ambientale è stato estromesso dalla pronuncia sul progetto definitivo che è, poi, quello che deve essere realizzato.


Lo stravolgimento della posizione della procedura di VIA da parte della normativa nazionale non è passata inosservata al vaglio degli organi comunitari. Infatti la Commissione, con una Nota del 30 marzo 2004, ha ritenuto tale disciplina contrastante con le più rigide procedure della dir. n. 85/337 che continuano a valere, in ambito nazionale, per le opere “non strategiche” in virtù della disciplina generale. Secondo la Commissione, sottrarre il progetto definitivo di un’opera alla valutazione di impatto ambientale significa colpire la procedura di VIA nella sua funzione principale, intaccare lo scopo stesso della sua esistenza, ovvero quello di valutare il progetto di un’opera così come realmente andrà realizzata.


In particolare la Commissione ha denunciato il contrasto che sussiste fra la legge obiettivo e la direttiva comunitaria sulla VIA nella parte in cui la disposizione italiana dell’articolo 20 comma quinto non prevede che in caso di sensibili differenze tra progetto preliminare e progetto definitivo sia obbligatorio aggiornare ed integrare la VIA, e nella misura in cui la disposizione italiana dell’art.17 comma secondo non prevede che la procedura di VIA debba essere conclusa prima del formale rilascio dell’autorizzazione a costruire45. Quindi, in sostanza la Commissione Europea sostiene che sia eccessiva la discrezionalità che la legge lascia all’organo competente all’approvazione del progetto definitivo nello stabilire se ridisporre o meno una nuova VIA, qualora lo stesso progetto definitivo si discosti in maniera sensibile da quello preliminare.


Secondo l’Unione Europea, in qualsiasi settore la VIA deve riferirsi al progetto definitivo e non già a quello preliminare, anche se questo obbligo comporti inevitabili lungaggini e ritardi nella realizzazione delle grandi infrastrutture per le quali la VIA è stata rilasciata solo in riferimento al progetto preliminare.


Il 27 luglio 2004 la Commissione ha comunicato ufficialmente, tramite una lettera al Presidente del W.W.F. Italia, che prosegue la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Infatti il nostro Paese, nonostante un primo avvertimento (la “messa in mora” avutasi con la nota del 30 marzo 2004), non ha ancora modificato la legge in questione né inviato una risposta motivata agli organi UE.
A conclusione della panoramica svolta sui rapporti sussistenti tra procedimento di VIA e procedimenti di approvazione di progetti di opere, occorre effettuare una breve menzione ad un procedimento di valutazione sull’impatto ambientale molto simile alla VIA, ma da questo distinto, ovvero la “valutazione di incidenza”, introdotta dalla c.d. “direttiva habitat”, la n.92/43 CEE, che è intervenuta prevedendo l’istituzione di una serie di siti da proteggere indicati come “siti di importanza comunitaria” (SIC) ai quali è necessario applicare misure per la salvaguardia dell’habitat naturale soddisfacente le specifiche caratteristiche del sito.


La direttiva è stata attuata in Italia con il DPR 8 settembre 1997 n.357, modificato poi dal DPR 12 marzo 2003, n.120. Lo strumento di tutela predisposto dal legislatore nazionale è, come si diceva, la valutazione di incidenza sul sito, ovvero un’ analisi di tutte le possibili conseguenze che un progetto può avere sull’area del sito stesso. La valutazione di incidenza, anche se affine al modello della VIA, è da essa distinta: mentre la valutazione di impatto ambientale è richiesta in base all’opera che si vuole realizzare, la valutazione di incidenza è richiesta dal sito (qualificato come SIC), a prescindere dal tipo di opera che si vuole realizzare e quindi anche nella circostanza in cui l’opera in questione non rientri tra quelle da sottoporre a VIA. Qualora, poi, anche l’opera sia tra quelle da sottoporre a VIA, allora i due procedimenti vanno riuniti in un unico comprensivo di ogni tipo di valutazione.




4) LA PROCEDURA DI V.A.S. COME NUOVA FRONTIERA DELLA VALUTAZIONE DELL’ IMPATTO AMBIENTALE

Nei paragrafi precedenti si è avuto modo di ripercorrere l’ultima evoluzione normativa che ha interessato il procedimento di VIA; in particolare si è voluto sottolineare come l’intervento riformistico tenda a mutare profondamente la natura del procedimento stesso confondendolo con la sequenza di quello principale. L’esame condotto si rende necessario allo scopo di comprendere se la VIA possa essere ancora considerata un procedimento che gode di vita autonoma e quale sia attualmente il ruolo giocato da essa all’interno del procedimento principale.


Prima di chiudere la trattazione corre l’obbligo di soffermarsi, pur brevemente, su un altro istituto, concettualmente molto simile alla VIA ma che si diversifica da essa da un punto di vista strutturale: la valutazione ambientale strategica (VAS).


Se si fa riferimento ad alcuni antecedenti storici della valutazione di impatto ambientale, prima su tutti la legge NEPA statunitense del 1969, si può notare la presenza di una procedura di valutazione ambientale di ogni atto statale, sia esso di natura legislativa che di natura amministrativa; tra gli atti di amministrazione sono compresi i programmi e gli strumenti di pianificazione. Proprio questi ultimi due sono l’oggetto della specifica procedura di VAS introdotta a livello di Comunità Europea con la direttiva n.01/42 CE.


E’ impossibile dedicare in uno spazio ristretto una riflessione completa ed esauriente che possa toccare tutti gli ambiti di applicazione di questa procedura. Ciò che interessa è coglierne la natura per vedere se essa possa essere assimilata da un punto di vista concettuale alla procedura di VIA oppure costituisca un procedimento dalla natura indipendente e completamente diversa.


Alcuni autori sostengono che una valutazione preventiva sui possibili effetti sull’ambiente dei piani e dei programmi non è propriamente da considerarsi come un istituto nuovo, poiché costituisce in realtà un ampliamento dell’ambito di operatività del già esistente strumento della VIA; quindi, essa rappresenta proprio la compiuta realizzazione di alcune delle “potenzialità inespresse” dell’istituto46. Questo perché una valutazione che non si limiti al singolo progetto, ma che invece si ponga a monte degli stessi progetti, oltre ad anticipare ulteriormente il momento in cui l’istituto interviene a tutela dell’ambiente, accentuandone la natura tipicamente preventiva, può svolgere la più efficace funzione di strumento mediante il quale vagliare in astratto tutti gli interventi potenzialmente realizzabili in un dato ambito territoriale; ma c’è da dire di più, perché lo strumento in questione permette non soltanto di porre dei vincoli negativi alle singole opere così come fa la procedura di VIA, ma consente di perseguire un politica ambientale indirizzata secondo coordinate stabilite, avendo una visione globale dell’insieme degli interventi che interessano la medesima zona: il singolo progetto non è più considerato come se fosse slegato dal contesto in cui si inserisce, ma viene inserito nel più generale quadro di programmazione che interessa l’area in cui si trova. E’ proprio in questo punto che si riesce a cogliere la differenza chiave che sussiste tra i due istituti (quello della VIA e quello della VAS), cioè mentre nella valutazione di impatto ambientale l’interesse ambientale costituisce un ostacolo posto all’attività umana, condizionandone l’ampiezza e le modalità di esercizio, con la valutazione ambientale strategica l’attività dell’uomo diventa strumentale all’interesse della salvaguardia dell’ambiente. De resto il termine stesso “strategico” è indice del fatto che l’interesse ambientale viene inserito non in una singola valutazione, ma all’interno di una programmazione generale della attività umana; l’ambiente non viene più considerato in una prospettiva statica, cioè meramente protettiva, ma dinamica, ossia come risorsa da valorizzare già nel momento in cui si programma lo sviluppo socio-economico di un luogo.


Si riesce a cogliere pienamente, ora, la differenza tra le due procedure che pure, ad una prima osservazione, sembrano condividere la medesima natura o almeno le medesime finalità; mentre nella VIA il rapporto tra soggetto proponente e ad autorità competente ad esprimere una valutazione è di tipo autorizzatorio, nella VAS la relazione tra l’autorità che elabora il piano e il programma e l’autorità con competenze ambientali è tendenzialmente di tipo consultivo. Se la pronuncia di compatibilità (VIA) ha, quindi, una funzione di controllo esterno e verifica preventiva degli effetti che un determinato progetto, opera o attività avrà sull’ambiente, al contrario la VAS ha una doppia valenza: di controllo esterno e di programmazione interna del processo stesso.


Tutti questi spunti che sono stati messi in luce sono, poi, sostenuti da quel movimento giuridico-culturale di livello internazionale secondo cui il concetto di sviluppo sostenibile (vero protagonista della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio del Janeiro nel 1992) sia espressione di una necessaria integrazione tra le diverse linee di azione, più che di una separata politica ambientale. Di conseguenza, appare evidente l’esigenza di disporre di uno strumento diverso dalla VIA, in gradi di consentire la verifica a priori degli effetti di ogni decisione idonea a produrre conseguenze sull’ambiente.


Per cogliere meglio l’essenza ontologica della procedura di VAS, di particolare interesse è quanto si dice nel quarto considerando della direttiva comunitaria, ovvero che la “valutazione ambientale (strategica) costituisce un importante strumento per l’integrazione per le considerazioni di carattere ambientale nell’elaborazione e nell’adozione di taluni piani e programmi che possono avere significativi effetti”: ciò in quanto “garantisce che gli effetti di piani e programmi in questione siano presi in considerazione durante la loro elaborazione”. La VAS, dunque, consente di integrare la considerazione degli interessi ambientali con le altre politiche pubbliche, risultato perseguito introducendo tale interesse già dentro il procedimento di formazione di piani e programmi destinati ad incidere sull’ambiente.


In questa prospettiva la VAS nasce sicuramente per porre rimedio al maggior limite della VIA; il presupposto è, infatti, la consapevolezza dei limiti intrinseci di quest’ultima, strumento che, per la propria struttura, si rileva inidoneo a consentire di cogliere le implicazioni sul sistema ambientale indotte dal sommarsi sul territorio dei singoli interventi puntuali. Il limite della VIA, a differenza della VAS, risiede nel suo oggetto: dato che sono valutati progetti di opere specifiche, sfugge, di conseguenza, all’analisi il quadro generale di vasta scala. Di qui discende l’esigenza di introdurre un momento di valutazione complessiva ed anticipata degli effetti non già di singole opere, ma di piani e programmi.


Alcuni autori47 sostengono che la differenza tra i due istituti possa essere identificata nella “dimensione procedurale” della VAS: mentre lo schema logico sotteso alla VIA è essenzialmente quello causale, ovvero si valutano in via preventiva quali saranno gli effetti se sarà eseguita una determinata opera, nel prendere in esame la VAS non va posto l’accento sull’oggetto, ma sul processo di decisione in sé stesso. Non si tratta esclusivamente di catalogare, come avviene per la VIA, una serie di criteri e di prescrizioni da seguire, ma ciò che più rileva è il coinvolgimento nel processo decisionale dei soggetti preposti alla cura ed alla rappresentanza degli interessi ambientali. A tale proposito, la norma contenuta nell’art. 4 della direttiva n. 01/42, secondo cui “la valutazione (…) deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma”, è decisiva in quanto si tratta di una vera e propria norma di natura procedurale in quanto fornisce in modo preciso la collocazione della procedura di VAS all’interno del più vasto procedimento di approvazione del piano o del programma.


Alla stregua di quanto detto, la VAS va considerata molto di più che un singolo istituto di diritto ambientale: con essa “ciò che si modifica è, in primo luogo, il modo di pianificare le decisioni di maggiore rilevanza strategica incidenti sul piano dello sviluppo socio-economico, oltre che sul versante ambientale48. L’interesse ambientale viene incastrato nel processo di decisione e diviene uno dei fattori in grado di orientare il percorso decisionale. Il calcolo degli effetti sull’ambiente cessa di costituire, come avviene per la VIA, un semplice limite esterno rispetto all’attuazione di determinate opere, e diventa un passaggio ordinario nell’ambito di decisioni che si collocano a monte delle singole realizzazioni.


Il punto che si sta toccando è cruciale per comprendere la natura della VAS; si è partiti all’inizio dell’analisi asserendo che la valutazione ambientale strategica possa essere considerata come un ‘evoluzione della VIA49 dato che con essa non si fa altro che anticipare la fase di valutazione dal momento di progettazione della singola opera al momento della pianificazione di un sistema di interventi. Altra parte della dottrina50 ritiene che l’introduzione della VAS nel procedimento decisionale vada a modificare gli stessi procedimenti di approvazione di piani e programmi e creare, dunque, una forma procedimentale differente. La VAS si presenterebbe, allora, come il tentativo di dare concreta attuazione ai principi contenuti negli artt.2 e 6 del Trattato UE in tema di integrazione tra la politica ambientale e le altre politiche comunitarie mediante un’azione che non si appunta ex post sulla salvaguardia dell’ambiente, ma ex ante direttamente sul versante delle scelte economiche e sociali; con questo istituto, dunque, non evolverebbe solamente il diritto dell’ambiente, ma cambierebbe il modo di pianificare e programmare.


Volendo approfondire la tematica della natura della procedura di VAS, vi è un altro elemento su cui si è incentrato il dibattito dottrinale, ovvero l’anticipazione del momento valutativo alla fase pianificatoria; se all’inizio della trattazione dell’argomento si era dato per scontato che questo spostamento non comportasse un cambiamento di natura rispetto all’istituto della VIA, quest’ultima dottrina a cui si è fatto riferimento, ovvero quella che sostiene la diversità ontologica tra gli istituti, fa di questo elemento uni dei “cavalli di battaglia” della sua argomentazione.


La VIA ha ad oggetto opere delle quali è già stata irrevocabilmente decisa la localizzazione; quindi la collocazione non è contestabile dall’amministrazione preposta alla valutazione dell’impatto ambientale e una determinazione negativa deve essere motivata sulla base della dimostrata rilevazione di effetti negativi in concreto non tollerabili, e non sulla scorta della sussistenza di soluzioni ubicazionali alternative51 (compresa la c.d. “alternativa zero”). Al contrario, nella VAS il procedimento di decisione e pianificazione si snoda tenendo in considerazione una pluralità di opzioni localizzative. Enunciato così, lo schema della VAS sembra ancora mostrarsi come una evoluzione della VIA; invece va sottolineato che il dato strutturale dell’anticipazione del momento di valutazione si innesta sulla considerazione di fondo secondo cui con la VAS l’interesse ambientale viene “immesso” all’interno del processo decisionale.


In definitiva la VIA affronta problematiche inerenti il “come” della realizzazione di un progetto, mentre la VAS riesce ad assicurare la piena considerazione degli interessi ambientali sin dalla fase in cui si discute il “se” del progetto stesso e quindi, di conseguenza, anche il “dove” e il “come” dello stesso. In questo risiede la strategicità di questa di valutazione, ovvero nella possibilità di valutare “a tutto campo” gli effetti cumulativi, indiretti e sinergici delle diverse opzioni di una determinata politica di intervento territoriale.


Quanto si è detto riguardo l’incidenza dell’anticipazione del momento valutativo sull’intera struttura e natura dell’istituto fa comprendere la ragione che spinge alcuni autori a ritenere la VAS un istituto a sé stante: laddove sia richiesta, essa non è un procedimento parallelo e autonomo rispetto a quello principale, ma andrebbe a modificare la struttura del procedimento principale di adozione o del programma inserendosi dentro di essa e trasformandola nella sua sostanza.

 

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1 Cfr. Greco, “Processi decisionali e tutela preventiva dell’ambiente”, p. 217 e ss.
Nella ricostruzione dell’istituto che si trova in Dell’Anno, “La valutazione di impatto ambientale:problemi di inserimento nell’ordinamento italiano”, 1987, l’Autore si mostra dubbioso, alla luce della nuova disciplina nazionale di attuazione, tra la definizione della VIA come atto endoprocedimentale e quella come subprocedimento, autonomo ma connesso
2 Così si esprime parte della giurisprudenza. Si ricordi sentenza T.A.R. Umbria n. 559/97, che propende per una visione della VIA come avente natura di parere.
3 Così si è pronunciato in Italia il Consiglio di Stato, sez. IV, 19-07-1993
4 Cfr. Dell’Anno, “Manuale di diritto ambientale”, 2003, p. 714
5 Sull’argomento vedi anche ROTA R., che ritiene quest’elemento decisivo al fine di qualificare la VIA come procedimento autonomo.
6 Vedi ROTA R:, “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”, in “Archivio giuridico”, 1995.
7 Tra gli altri, vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale in Italia tra indirizzo comunitario e attuazione statale”, p. 56
8 Vedi SALVIA F., “Il Ministero dell’ambiente”, p. 104
9 Cfr. GIACCHETTI S., “La valutazione di impatto ambientale (VIA): un nuovo strumento di governo dell’ambiente o un nuovo strumento di mistificazione?”, p 618.
10 Così, fra i tanti, LUCARELLI A., “Osservazioni in tema di impatto ambientale”, p.371.
11 T.A.R. Liguria, sentenza n. 291 del 18 giugno 1992.
12 Cfr. ROTA R., “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive”, in “Archivio giuridico”, 1995.
13 Anche se nel comma 6 viene definito “parere”.
14 Nell’art. 1, comma 2 del d.p.c.m. 27 dicembre 1988 è definito “giudizio sulla compatibilità ambientale”.
15 Cfr. TRIMARCHI BANFI, “Aspetti del procedimento per la valutazione di impatto ambientale”, in “Amministrare”, 1989, p. 377; GUSTAPANE A., “Il parere di compatibilità ambientale espresso dal Ministero dell’ambiente”, in “Rass. Giur. Enel”, 1987, p.337; IDEM, “La tutela globale dell’ambiente”, 1991.
16 Vedi GIAMPIETRO F., “Relazione al convegno sulla valutazione dell’impatto ambientale nei trasporti”, 1994.
17 Si sta argomentando ex art. 4, comma 3 del d.p.c.m. 27 dicembre 1988 e art. 2, comma 3, lett. f del d.p.c.m. 337/88.
18 ROTA individua proprio in questo elemento, ovvero la presenza di un’attività discrezionale dell’autorità, il sintomo del fatto che la VIA abbia natura procedimentale.
 Vedi ROTA R., “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”,in “Archivio giuridico”, 1995.
19 Vedi SATTA F., “Introduzione ad un corso di diritto amministrativo”, 1980, p. 221, nota 26 dove si sostiene l’unità e l’inscindibilità del momento volitivo ed intellettivo.
20 Vedi SALVIA F., “Attività amministrativa e discrezionalità tecnica”, in “Dir. proc. Amm.”, 1992.
21 Cfr. SALVIA F., op. cit., in cui l’Autore, pur definendo in tali casi le valutazioni tecniche “di tipo operativo”, non sembra riferirsi esplicitamente alla VIA. Con riguardo a tale procedura si sostiene la tesi del condizionamento ab externo degli apprezzamenti tecnici determinato anche dalla particolare posizione che questi vengono ad occupare nella sequenza procedimentale.
22 Secondo taluni vi sarebbe in realtà scelta politica (SATTA F., “Introduzione ad un corso di diritto amministrativo”, 1980, p. 209; per la tesi contraria, per cui la procedura è espressione di discrezionalità amministrativa vedi ROTA R., “La procedura di valutazione di impatto ambientale tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa. Alcune note ricostruttive.”, in “Archivio giuridico”, 1995.
23 Se si accoglie tale prospettiva, ovvero che si tratta di un procedimento amministrativo vero e proprio, alla VIA va estesa la disciplina posta per il procedimento in generale dalla legge n. 241/90.
24 Vedi DELL’ANNO P., “La VIA in Italia”, p. 121.
25 Vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale in Italia tra indirizzo comunitario e attuazione statale”, p. 66.
26 Vedi GUSTAPANE A., “La valutazione di impatto ambientale tra indirizzo comunitario e attuazione statale”, p.65.
27 Si fa riferimento alla Relazione della Commissione del 2 aprile 1993 sull’applicazione della direttiva n. 85/337 (punti 2.1 e 3.2)
28 Legge n. 346/86 recante “istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in materia di danno ambientale”.
29 La legge n. 346/86 trova attuazione con due atti normativi:
-il D.P.C.M. n. 377 del 10 agosto 1988: “Regolamento delle procedure di compatibilità ambientale di cui all’art. 6 della legge 8 luglio 1986 n. 349, recante istituzione delMinistero dell’ambiente e norme in materia di danno ambiental”; in esso vengono elencati i progetti da sottoporre a valutazione;
-il D.P.C.M. del 27 dicembre 1988: “Norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità di cui all’art.6 della legge 8 luglio 1986 n. 349, adottato ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 agosto 1988 n. 377; il presente decreto, come dice l’intestazione stessa, è preannunciato dal precedente e contiene nel dettaglio l’intera disciplina procedurale della valutazione, ovvero tutti gli elementi che devono essere compresi e come devono essere svolti gli studi sull’impatto.
30 C’è un’isolata pronuncia del giudice amministrativo secondo cui l’art.6 non costituirebbe idonea attuazione della dir. 85/337, ma ne indicherebbe soltanto il modo e il tempo (Cons. Stato, VI, 16 luglio 1990, n. 728), dettando una disciplina transitoria “assolutamente autonoma rispetto alla direttiva” e comunque inapplicabile in assenza di una normativa tecnica e procedurale
31 Come ogni procedimento amministrativo, anche la VIA consta di tre fasi fondamentali: fase di iniziativa, istruttoria e fase decisionale.
32 Vecchio terzo comma dell’art 14
33 Vecchio quarto comma dell’art. 14
34 La definizione è data da VIRGA G., “Le modifiche ed integrazioni alla legge n.241/90 recentemente approvate (osservazioni derivanti da una prima lettura)”, articolo su “LexItalia.it”
35 Sull’argomento vedi CERULLI IRELLI su “www.astrid.it”
36 A sostegno dell’orientamento comunitario in materia è giunta di recente la comunicazione della Commissione Europea riguardo la messa in mora dell’Italia, colpevole di non aver eseguito una valutazione sull’impatto ambientale adeguata e comprensiva di tutta l’evoluzione della vicenda progettuale.
37 Vengono pertanto modificate le precedenti disposizioni, espresse nella legge Merloni, che richiedevano la presentazione del progetto definitivo. Si torna così alla formulazione originaria della procedura, quando era richiesta la sottoposizione alla VIA del progetto di massima dell’opera.
38 Sembra abrogata la disciplina che regolava l’accertamento di conformità delle opere pubbliche di competenza statale con gli strumenti urbanistici effettuato dallo Stato, d’intesa con la Regione, secondo il procedimento dettato dal D.P.R. 383/94.
39 La determinazione assume il valore giuridico di una proposta istruttoria. Resta fermo il potere della Regione di esprimere nella sede del CIPE un motivato dissenso sull’approvazione dell’opera, attivandosi così la procedura di composizione del conflitto.
40 Rimarranno disciplinati con separata direttiva i cd. “settori esclusi”. In particolare, le procedure di appalto degli enti fornitori di acqua, energia, servizi di trasporto e servizi postali, sono regolamentati dalla Direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, pubblicata anch’essa sulla GUUE del 30 aprile 2004.
41 Tale compito è stato per la verità favorito dalla tecnica normativa che nella legislazione comunitaria è stata per varie ragioni seguita: enunciazione dei principi ed istituti generali che possano essere applicati ed inseriti nei differenti contesti normativi nazionali nel modo più efficace possibile.
42 In ogni caso, il recepimento della direttiva consentirà alle amministrazioni aggiudicatrici di servirsi di procedure innovative come il dialogo competitivo, i sistemi dinamici di acquisizione, le aste elettroniche.
43 E’ noto che la soglia comunitaria è quella del controvalore in euro di 5.000.000 di DSP (fissato, a partire dal 1/1/2002, in euro 6.242.028, secondo quanto stabilito dal Ministero delle Finanze). Pertanto, secondo la normativa statale, nel caso di aggiudicazione di lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria, la regola è quella del criterio del prezzo più basso, inferiore a quello posto a base di gara.
44 La sentenza della Corte di Giustizia CE, sesta sezione, del 4 dicembre 2003 sembra anticipare la struttura dell’art. 53 della direttiva, menzionando esplicitamente l’elemento dei criteri ecologici tra i criteri di valutazione.
45 Circa 200 opere sono state indicate dalla Commissione come non conformi al diritto comunitario; tra queste figura il progetto del ponte sullo Stretto di Messina
46 Al contrario BOSCOLO dice che “sarebbe fuorviante ritenere che la VAS sia una semplice evoluzione della VIA”
Cfr. BOSCOLO E. “La valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e programmi:dalla VIA alla VAS”, in “Urbanistica e appalti”, 2002.
47 Cfr. BOSCOLO E., op. cit., p. 1125
48 Cfr. BOSCOLO E., op.cit., p. 1123
49 Così MARTELLI A., in “Manuale di diritto dell’ambiente”, a cura di MEZZETTI, 2001.
50 Per tutti vedi BOSCOLO E., op. cit
51 Anche il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ha dato atto in una propria circolare (8 ottobre 1996, n.15326) che “sussiste, anche in sede comunitaria, un’evidente incongruenza tra la funzione e gli scopi della Via e la sua collocazione procedurale a livello di singola progettazione, cioè in un momento in cui un insieme di scelte di principio appare già definito, laddove sarebbe stato più logico prevedere la sua applicazione a monte, nella fase del programma, per tenere conto,preventivamente, di tutte le alternative attivabili”.



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Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 22/12/2005

 

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