LA GIURISDIZIONE
DELLA CORTE DEI CONTI SULLE SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA NELL’ETA’ DELLA
FUGA VERSO IL DIRITTO PRIVATO (*)
Massimiliano Atelli
Sommario: 3. Le società a partecipazione pubblica –
3.1. I riflessi pubblicistici sugli amministratori e
dipendenti delle società partecipate dagli enti locali. – 3.2. Le società di
capitali nelle quali soggetti pubblici detengono il “controllo”. Il problema
del controllo congiunto. – 3.3. L’ente pubblico s.p.a. – 3.4. Le figure
societarie ricadenti nell’ambito di esplicazione della giurisdizione del
giudice contabile.
3. Le società a partecipazione pubblica.
Quale giudice per la gestione delle risorse pubbliche demandata a soggetti
sprovvisti, nella conformazione e/o nell’agere, del tipico vestimentum
amministrativo?
E’ in questa semplice ma essenziale domanda che si può condensare buona parte
del percorso di ricerca di seguito esposto, che si rifà nell’intitolazione ad
una celebre definizione di Mario Nigro. La domanda evidentemente non è nuova, e
forse non lo sarà neppure, in parte almeno, la risposta finale. Non poco
differenti dal passato, viceversa, appaiono le ragioni che possono dare
fondamento, oggi, a quella risposta.
L’interrogativo che principia queste considerazioni cade in un momento di forte
mutamento del sistema giuridico, se non di eccezionale tensione ordinamentale.
al momento di licenziare le bozze di questo volume non è ancora nota la sorte
definitiva del disegno di legge di riforma della legge generale sul procedimento
amministrativo (AS 1281), che come noto introduce un principio – derubricando a
modalità operativa ordinaria l’uso del diritto privato da parte dei pubblici
poteri in genere – non etichettabile semplicemente come foriero di grande
cambiamento.
Sul piano generale, tuttavia, la sorte de succitato d.d.l. riveste relativa
importanza. Il suo tenore e l’impalcatura teorica che vi è sottesa valgono già a
segnare, comunque, un momento di palese saldatura istituzionale tra indirizzi
giurisprudenziali e legislativi, sancendo nei fatti il principio che –
scomodando con poco riguardo Moravia – potemmo chiamare di “indifferenza” delle
forme giuridiche, o , forse più appropriatamente, rifacendoci agli studiosi del
diritto civile e commerciale, dovremmo qualificare di “neutralità delle medesime
forme”.
In questa direzione un contributo, quale il presente lavoro si propone di
essere, alla ricostruzione dello stato dell’arte a proposito del tema – a tratti
sfuggente e ingiustamente se non frettolosamente sottovalutato – dell’attuale
ambito di esplicazione della giurisdizione della Corte dei conti sui soggetti
che gestiscono risorse pubbliche senza però far uso del tipico strumentario di
diritto pubblico, non può che prendere le mosse da un unico, inevitabile punto
di partenza: il diritto comunitario.
E’ infatti nel diritto comunitario che si esalta quella tendenza che, specie per
quanto qui interessa ha profondamente segnato anche l’esperienza giuridica
nazionale nell’ultimo decennio del secolo scorso e nel primo lustro si quello
nuovo, alla neutralità delle forme giuridiche, e quella – speculare –
all’adozione di criteri di valutazione i tipo sostanzialistico.
Un’attenta lettura del diritto comunitario conduce del resto a conclusioni che
fanno strame di alcuni luoghi comuni assai ricorrenti nel dibattito interno,
anche ai più alti livelli: in un sistema ideato ed edificato intorno all’asse
portante della concorrenza fra gli operatori, in primo luogo di Paesi diversi
dell’Unione, la figura dell’”impresa pubblica” non è, ad esempio, affatto
bandita. Tutt’altro.
L’essenziale, per il diritto comunitario, non è assicurare la sparizione dalla
scena di simili soggetti (con le inevitabili implicazioni di ordine finanziario)
– la loro presenza e la loro azione possa tradursi in un inammissibile fattore
di distorsione della concorrenza.
Ne consegue, in prima approssimazione, una provvisoria conclusione,
apparentemente antistorica ma in realtà rilegittimata proprio alla luce del
sistema di diritto dall’impronta più moderna: l’impresa pubblica, nelle sue
distinte declinazioni, è modo di organizzazione dei pubblici poteri che ha pari
diritto di cittadinanza e pari dignità, nell’Unione, rispetto alle realtà
santificate non riconducibili a siffatto paradigma legale.
E’ necessario a questo punto specificare che, anche per il diritto comunitario,
l’impresa pubblica si declina tanto nella formula impresa-ente quanto nello
schema impresa-società di capitali, e ciò trova ulteriore conforto nella
nozione, sempre di conio comunitario, di “organismo di diritto pubblico”.
Nel diritto interno, per organismo di diritto pubblico si intendono come noto le
amministrazioni dello Stato, le regioni, le province autonome di Trento e
Bolzano, gli enti pubblici territoriali e le loro unioni, gli enti pubblici non
economici, ogni altro organismo dotato di personalità giuridica, istituito per
soddisfare specifiche finalità d’interesse generale non aventi carattere
industriale o commerciale, la cui attività è finalizzata in modo maggioritario
dallo Stato, dalle regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o
organismi di diritto pubblico, o la cui gestione è sottoposta al loro controllo
o i cui organi d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti,
almeno per la metà, da componenti designati dai medesimi soggetti pubblici.
Questa nozione è stata in più occasioni esaminata funditus dalla Corte di
Giustizia CE e dal Consiglio di Stato.
La prima, in particolare, ha sottolineato come i bisogni di interesse generale
non aventi carattere industriale e commerciale siano, in genere, bisogni che, da
un alto, sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul
mercato e che, dall’altro, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato
preferisce soddisfare direttamente ovvero nei confronti dei quali intende
mantenere un’influenza determinante (v., in tal senso Corte Giust. CE, 10
novembre 1998, C – 360/1995, Arnhem – BFI Holding), affermando che, se è pur
vero che la nozione di bisogni di interesse generale aventi carattere non
industriale o commerciale non esclude bisogni che siano parimenti soddisfatti o
possano esserlo da imprese private, l’esistenza di una concorrenza articolate, e
in particolare la circostanza che l’organismo interessato agisca in situazione
di concorrenza sul mercato, può costituire un indizio a sostegno del fatto che
non si tratta di un bisogno, di interesse generale avente carattere non
industriale o commerciale.
Sulla base di tali premesse, la Corte ha escluso che sul piano funzionale un
ente possa essere qualificato come organismo di diritto pubblico, laddove
l’attività svolta:
- abbia natura economica e consista nell’offrire servizi sul mercato dietro
versamento di un corrispettivo;
- tenda a soddisfare bisogni di natura commerciale
- miri al soddisfacimento di bisogni cui lo Stato preferisce in generale
provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza
determinante:
- abbia luogo in un contesto concorrenziale.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha dal canto suo affermato che per bisogno non industriale o commerciale deve intendersi non già la non imprenditorialità della gestione, bensì la funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generale della collettività, e detto requisito deve reputarsi ricorrente nel caso di società costituita al principale fine di gestire (anche attraversale controllate) attività miranti a ottenere detto soddisfacimento, in settori tuttora solo in parte “liberalizzati”, secondo criteri non propri di un soggetto privato, ma influenzati dallo stretto legame della società al potere pubblico e dalla reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno – sull’attività dell’ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire.
va notato che la qualificazione come organismo di diritto pubblico non viene
meno, peraltro, per il solo fatto che il soggetto in questione svolga anche
altre attività, oltre a quelle sopraindicate. La Corte di Giustizia ha infatti
chiarito che il requisito del fine del soddisfacimento di bisogni di interesse
generale, non aventi carattere industriale o commerciale , non implica che il
soggetto sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere, ed anzi
consente l’esercizio di altre attività (cfr. Corte giust., 15 gennaio 1998, C –
44/1996, Mannesmann, punti 26 e 31-35).
Organismo di diritto pubblico deve peraltro essere considerato, come affermato
dalla stessa Corte di Giustizia in materia di applicabilità della direttiva
sugli appalti pubblici di forniture (Dir. Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE),
anche la persona giuridicamente distinta dal soggetto pubblico laddove quest’ultimo
“eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso
esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante
della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano” (Corte
giust. CE, 18 novembre 1999, C – 107/19998, Teckal). In altri termini, la
costituzione di un soggetto con autonoma personalità giuridica non è di per sé
sufficiente ad escludere l’appartenenza di quel soggetto all’apparato che lo
controlla, ma anzi – laddove la sua attività si svolga essenzialmente per la
controllante – viene a crearsi sostanziale identità tra organismo strumentale e
soggetto pubblico “ausiliato” dallo stesso.
In quest’ultimo caso, la normativa europea in tema di appalti pubblici non può
trovare tuttavia applicazione, perché laddove vi è delegazione interorganica o
servizio affidato, in via eccezionale “in house”, manca un vero e proprio
rapporto contrattuale tra due soggetti. I particolare, l’applicazione delle
direttive comunitarie può essere esclusa nel caso di ente locale che eserciti su
un a distinta persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante
della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano, laddove
per controllo analogo si intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti
pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica (situazione, questa, che
si verifica in particolare quando sussiste un controllo gestionale e finanziario
stringente dell’ente pubblico sull’ente societario, il che consente
l’affidamento diretto della gestione del servizio senza ricorrere alle procedure
di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate).
Né si ritiene che in senso contrario possa rilevare il fatto che l’organismo
strumentale potrebbe in astratto operare offrendo i propri servizi su un mercato
aperto alla concorrenza, perché, sino a che detto oggetto si limiti a fornire
servizi e beni principalmente alla controllante avente natura pubblica – il solo
carattere concorrenziale del segmento di mercato interessato non è sufficiente
ad escludere la possibilità che la società controllata si lasci guidare, in
concreto, da considerazioni non economiche. In particolare, come rilevato dalla
corte di giustizia, la società controllata potrebbe essere indotta a subire
perdite economiche al fine di perseguire una determinata politica di acquisti
dal soggetto controllante, da cui dipende strettamente (v. Corte giust. Ce,
Arnhem vs. BFI Holding, punto 43).
Pertanto, laddove la controllata svolga la propria attività prevalentemente in
favore della controllante, traendo da ciò la maggior parte dei propri proventi,
è come se la controllante si fosse limitata ad operare lo scorporo di una
propria branca interna attraverso la costituzione di un soggetto che, seppure
formalmente distinto, è in realtà guidato chiaramente dagli stessi criteri che
guidano il soggetto controllante. criteri che, in particolare nel caso delle
società risultanti dalla trasformazione ex lege di enti pubblici, sono
influenzati dal legame con il potere e le finalità pubbliche.
In simili ipotesi, anche la controllata va dunque considerata un organismo di
diritto pubblico, svolgente attività strettamente funzionalizzata ai bisogni
della controllante, di cui nella sostanza costituisce una divisione operativa,
solo formalmente costituita in soggetto autonomo, il quale in effetti
“partecipa” alle stesse finalità della controllante anche sotto il profilo dello
scopo, teso appunto al soddisfacimento di bisogni di interesse generale non
aventi carattere industriale o commerciale.
Risulta in tal modo chiaro che il quadro con il quale occorre misurarsi, ai fini
che qui interessano, è assai articolato, e certamente il problema che se ne
occupa non è riducibile al solo caso degli enti pubblici economici, figura del
resto assolutamente residuale nell’odierno asseto organizzativo della p.a.
Che nell’ordinamento interno al ricostruibilità di una data figura soggettiva
quale organismo di diritto pubblico non sia senza significato per il giudice
contabile lo prova, meglio forse di ogni altra circostanza, un recente arresto
giurisprudenziale del Consiglio di Stato in cui è esitato un contenzioso nel
quale si deduceva, fra l’altro, l’inammissibilità per carenza di interesse
dell’appello proposto da una concessionaria autostradale avverso la decisione di
primo grado favorevole ad una ditta non aggiudicataria, sul rilievo che la
qualificazione di organismo di diritto pubblico e comunque la statuizione
relativa all’assoggettamento di una s.p.a. “alle regole di derivazione
comunitaria per l’affidamento degli appalti di servizi, non le recherebbe alcun
nocumento, consentendole, anzi, di conseguire, grazie al regime concorrenziale
di aggiudicazione, pressi più vantaggiosi e”, si faceva notare in particolare
dai difensori della concessionaria, “l’esenzione dalla responsabilità erariale
(come da decisione della Corte dei conti, sez. giur. Lombardia 17 febbraio 2000,
n. 296)”.
Estremamente interessante appare l’argomento in forza del quale il giudice
amministrativo d’appello ha respinto l’eccezione, osservando come sia “evidente,
per contro, che ciascun soggetto dotato della generale capacità negoziale e
quindi di autonomia privata pleno jure, e tale è senz’altro la condizione di una
s.p.a., anche se costituita con capitali di provenienza pubblica, ha interesse a
riaffermare la propria libertà dai vincoli di natura pubblicistica che, al di là
del fatto che possano o meno comportare in un singolo affare la possibilità di
costi inferiori, costituiscono pur sempre un limite all’autonomia complessiva
del soggetto e alle sue discrezionali autodeterminazioni organizzative e
contrattuali”.
A questa conclusione andrebbe per nostro conto aggiunto che non appare oggi
scontato neppure che all’agere di un soggetto pubblico a conformazione
non societaria corrisponda esclusivamente lo svolgimento di un’attività che
secondo le tecniche civilistiche sarebbe qualificata come no profit
(basti pensare, su un piano generale, ala diffusione per abbonamento delle
pubblicazioni realizzate da un ente pubblico, oppure alle ASL, che dispongono
del c.d. reparto solventi per ricoveri a pagamento, su esplicita richiesta
dell’interessato in cura da un medico che abbia optato per l’attività privata in
ospedale, tenuto oltre tutto conto del fatto che, secondo lo schema tipico,
in parte qua le aziende sanitarie svolgono attività – ad es. di locazione di
locali ed erogazione di servizi tesi a rendere più confortevole la degenza – che
ben potrebbero costituire l’oggetto sociale di una società di capitali
appositamente costituita fra privati).
Non si intende tuttavia far ricorso ad un simile argomento, in questa sede,
perché esporrebbe (non del tutto infondatamente, forse) all'obiezione che esso
prova troppo.
Il problema, del resto, è fondamentalmente un altro: identificare l'odierno
criterio di radicamento della giurisdizione della Corte dei conti, anche in
ambito societario, sì da consentire l'individuazione delle forme organizzative
ad essa assoggettate e del sistema di regole di riferimento.
Fatti nuovi rendono infatti attuale una domanda che tende a modularsi come
segue: agli efetti del riparto di giurisdizione, ha effettivamente ancora un
senso la distinzione – per lungo tempo tenuta ferma dalle Sezioni Unite, della
Corte di cassazione (nei termini di cui si dà più e meglio conto in altre parti
del presente volume) – fra atti espressione di attività di impresa e atti
viceversa espressione di poteri autoritativi di autorganizzazione o di funzioni
pubbliche tali da giustificare la giurisdizione del giudice contabile?
La risposta non può che essere negativa. Fondate ed idonee ragioni portano oggi
a riconsiderare in modo radicale la distinzione fra illeciti compiuti
nell'esercizio dell'attività imprenditoriale ed illeciti commessi nell'esercizio
di poteri pubblici o di autorganizzazione dell'ente, quale criterio – a lungo
fondante – ai fini del riparto di giurisdizione. Una distinzione, questa,
affetta da una intrinseca limitatezza di prospettiva e piuttosto artificiosa già
sul piano logico, in quanto poggiante su un assunto essenzialmente di tipo
formale. L'idea, in particolare, che convivessero nell'ente pubblico economico
due distinti filoni di attività, riportabili meccanicisticamente a due entità in
rapporto, nella sostanza, di alterità soggettiva: l'ente pubblico tout court,
per un verso, e l'ente pubblico-impresa, per altro verso. La medesimezza degli
autori degli atti (amministratori e dipendenti) ascrivibili ai distinti filoni,
quale corollario dell'unicità esteriore del plesso a conformazione
pubblicistica, offriva una parvenza di tenuta ad una simile impalcatura
concettuale.
Solamente muovendo da questa non condivisibile premessa, tuttavia, poteva
ipotizzarsi preclusa l'indagine del giudice contabile perché asseritamente
impossibilitata a condurre valutazioni sull'adozione o meno di criteri di
corretta amministrazione da parte del dipendente, o della persona legata da
rapporto di servizio con l'ente pubblico, alla luce dei principi generali che
regolano le obbligazioni di diritto civile, con conseguente attrazione delle
fattispecie de quibus alla competenza giurisdizionale del giudice
ordinario (Cass. Sez. un., 21 ottobre 1983 n. 6179, in Giur. it. 1984,
III, 1, 295, Cass., sez. un. Civ., 2 ottobre 1993, n. 10381, in Giust. Civ.
Mass., 1993, 1498; 22 maggio 1991, n. 5792; 2 marzo 1983, n. 1282).
Siffatto indirizzo di pensiero è però ormai consegnato alla storia delle
relazioni fra le diverse giurisdizioni operanti nel nostro ordinamento. Si badi,
esso non è stato rivisto, come pure era possibile che accadesse, specie alla
luce dei suoi limiti (testé indicati), ma è stato invece semplicemente superato,
in considerazione dell'evoluzione normativa nel frattempo intervenuta.
E questo passaggio è tanto più rilevante se si considera che esso è maturato
proprio con riferimento a quegli enti pubblici economici per i quali la
distinzione in questione fu, come si è detto, a suo tempo pretoriamente coniata.
Nell'ordinanza n. 19667 del 2003, delle Sezioni Unite, queste ultime –
premettendo che “non è seriamente contestabile la natura di ente pubblico
economico del Consorzio in questione” - non hanno infatti mancato di
osservare “che, per costante giurisprudenza, la giurisdizione della Corte dei
conti è limitata alla responsabilità connessa all'esercizio di poteri
autoritativi o di funzioni pubbliche ricadendo invece quella relativa
all'attività gestionale nella giurisdizione ordinaria: se seguito, tale
indirizzo comporterebbe l'affermazione, nella fattispecie in esame, della
giurisdizione del giudice ordinario giacché i fatti, oggetto del giudizio di
responsabilità, attengono allo svolgimento di un'operazione finanziaria, e
dunque all'attività imprenditoriale dell'Ente”.
Sennonché, come è noto, la citata ordinanza conclude poi in senso opposto,
affermando la giurisdizione della Corte dei conti proprio in un simile,
emblematico caso, individuando il punto di svolta nell'art. 1, ult. co., della
l. 20/1994, che ha esteso la giurisdizione del giudice contabile anche alla “responsabilità
extracontrattuale, peraltro nei soli confronti di amministrazioni od enti
pubblici diversi da quelli di appartenenza”, realizzando in parte qua
l'interpositio legistatoris ritenuta allo scopo necessaria anche dalla
Corte costituzionale. Per i giudici di legittimità, infatti, “data l'ampia
formulazione della norma, deve ritenersi che essa faccia riferimento anche agli
enti pubblici economici, oltre che a quelli non economici ed alle
amministrazioni”, deponendo “in tal senso la lettera e la ratio di essa... Se,
in ordine alla giurisdizione, che continua ad essere attribuita al giudice
ordinario, sulla responsabilità extracontrattuale di amministratori e dipendenti
pubblici in danno di soggetti diversi da a amministrazioni od enti pubblici,
quel che rileva, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., è che la condotta
dell'agente sia contrassegnata da dolo o colpa ed abbia prodotto un danno
ingiusto ad essa casualmente collegato (vedasi, da ultimo, Cass. Non. 9260/1997,
1045/1999, 3132/2001, e 3983 e 7630 del 2003), altrettanto è a dirsi per la
stessa responsabilità dei medesimi soggetti in danno invece di amministrazioni
ed enti diversi da quelli di appartenenza, devoluta invece alla Corte dei conti.
Il discrimen tra le due giurisdizioni risiede infatti unicamente nella
qualità del soggetto passivo, e, pertanto, nella natura -pubblica o privata –
delle risorse finanziarie di cui esso si avvale, avendo il legislatore del 1994
inteso più incisivamente tutelare il patrimonio di amministrazioni ed enti
pubblici, diversi da quelli cui appartiene il soggetto agente – e così, in
definitiva, l'interesse pubblico -, con l'attribuzione della relativa
giurisdizione alla Corte dei conti, presso la quale ( a differenza di quanto
invece avviene, salvo eccezioni che qui non interessano, per il giudice
ordinario), è istituito il procuratore regionale abilitato a promuovere i
relativi giudizi nell'interesse generale dell'ordinamento giuridico (Cass., non.
12827/1982 e 9780/1998).
Per i giudizi di responsabilità extracontrattuale, così attribuiti al giudice
contabile, sono sicuramente inutilizzabili gli argomenti (artt. 2093 e 2201 cod.
cov., art. 409, n. 4, cod. proc. civ., assenza di controlli, inesistenza di
norme pubblicistiche) come sopra addotti a sostegno del riparto di giurisdizione
all'interno della categoria degli enti pubblici economici, di cui al risalente
indirizzo sopra richiamato, non avendo il legislatore ritenuto di attribuire
altresì rilevanza alle modalità della condotta del soggetto agente – e, in
concreto, se essa violi norme di diritto pubblico o di diritto privato -, se non
per i riflessi che esse comportano in tema di elemento soggettivo: indagine,
peraltro, questa, che attiene ai limiti interni della giurisdizione e che,
dunque, non rileva in questa sede.
Orbene, la norma innovativa di cui all'art. 1 ult. co. l. 20/1994 ha una sua
evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale: se, infatti,
nella responsabilità extracontrattuale in danno di amministrazioni od enti
pubblici diversi da quelli di appartenenza, le modalità della condotta
(violatrice di norma tanto di diritto pubblico che di diritto privato) del
soggetto agente sono giuridicamente irrilevanti quanto alla giurisdizione, a
maggior ragione esse lo sono divenute allorquando il danno sia stato cagionato
alla stessa amministrazione di appartenenza, non essendo pensabile che il
legislatore abbia voluto tutelare in misura meno incisiva quest'ultima.
Non a caso, del resto, l'art. 1 l. 20/1994 fa riferimento al comportamento degli
amministratori e dipendenti pubblici soggetti a giudizio di responsabilità,
nonché al “fatto dannoso” ed al “danno”: è, dunque, l'evento
verificatosi in danno di un'amministrazione pubblica il dato essenziale dal
quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il quadro di
riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta
produttiva del danno stesso.
Deve, pertanto, affermarsi che sono attribuiti alla Corte dei conti i giudizi di
responsabilità amministrativa, per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore
dell'art. 1 ult. co. l. 20/1994, anche nei confronti di amministratori e
dipendenti di enti pubblici economici (restando invece per ali enti esclusa la
responsabilità contabile, per la quale l'art. 45 r.d. n. 1214/1934 dispone che
la presentazione del conto costituisce l'agente dell'amministrazione in
giudizio, e, dunque, presuppone l'applicabilità di norme pubblicistiche,
generalmente escluse, invece, per detti enti).
Non rileva in senso contrario a tale conclusione la mancata conversione in legge
del d.l. 25 febbraio 1995, n. 47 – che all'art. 1, co. 4 prevedeva espressamente
la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di tali soggetti -dovendosi
ritenere che essa sia derivata proprio dalla consapevolezza della non necessità
di introdurre una norma, resta inutile dalla introduzione della giurisdizione
contabile anche sulla responsabilità extracontrattuale e dagli effetti da essa
prodotti anche in tema di responsabilità contrattuale”.
Così ripercorso il nucleo essenziale dell'iter argomentativo seguito dalle,
Sezioni Unite, l'attenzione va ora incentrata sui punti-chiave dello schema
motivazionale che la Cassazione in tal modo ci propone. Per l'effetto, se ne
trae che, di fondo, la ragione per cui la giurisdizione è devoluta al giudice
contabile ancorché nella specie si trattasse di ente pubblico economico parte di
un contratto di investimento in strumenti finanziari va ricercata
nell'irrilevanza giuridica -quanto, appunto, alla giurisdizione – delle “modalità
della condotta (violatrice di norma tanto di diritto pubblico che di diritto
privato) del soggetto agente”, laddove siano pubbliche “le risorse
finanziarie di cui esso si avvale”. Il che è coerente con il condiviso
assunto che in nessun caso l'adozione di forme privatistiche (per
l'organizzazione del soggetto, per la sua attività, per ambedue le cose)
potrebbe avere l'effetto di trasformare il denaro “pubblico”, - in ragione del
suo provenire dalla finanza pubblica – in denaro non “pubblico”, del cui buon
uso sia come tale consentito disinteressarsi.
La decisione, che, si badi, è l'unica -fra le tre succedutesi a breve distanza
l'una dall'altra tra la fine del 2003 e l'inizio del 2004 – ad aver riguardo a
fatti verificatisi successivamente all'entrata in vigore dell'art. 1, ult. co.,
della l. 20/1994, risolve a ben vedere il caso applicando quest'ultima norma in
modo specifico, nella “sua evidente ricaduta anche in tema di responsabilità
contrattuale: se, infatti, nella responsabilità extracontrattuale in danno di
amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli de appartenenza, le modalità
della condotta (violatrice di norme tanto di diritto pubblico che di diritto
privato) del soggetto agente sono giuridicamente irrilevanti quanto alla
giurisdizione, a maggior ragione esse lo sono divenute allorquando il danno sia
stato cagionato alla stessa amministrazione di appartenenza, non essendo
pensabile che il legislatore abbia voluto tutelare in misura meno incisiva
quest'ultima”.
Se ne trae allora che, per i fatti verificatisi successivamente all'entrata in
vigore dell'art. 1. ult. co., della l. 20/1994, tanto ove il danno sia stato
cagionato ad amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza,
quanto ove esso sia stato causato alla stessa amministrazione di appartenenza, è
“l'evento verificatosi in danno di un'amministrazione pubblica il dato
essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il
quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la
condotta produttiva del danno stesso”. E questo vale persino quando la
condotta contestata consista nel compimento di operazioni di investimento
finanziario da parte di amministratori o dipendenti di un ente pubblico
economico.
Quanto precede è evidentemente foriero di rilevanti implicazioni, sul piano
sistematico.
Se, infatti, il dato qualificante diviene la natura pubblica delle risorse
finanziarie impiegate per effetto di comportamenti comunque finalizzati alla
cura di interessi pubblici, è nuovamente nel diritto comunitario che possono
trovarsi utili spunti. È quanto accade, ad esempio, nel caso della direttiva
2000/52, recepita nel nostro Paese mediante il d.lgs. n. 333/2003, con la quale
i centri di produzione della normativa sopranazionale hanno dato una indicazione
di metodo assai chiara, della quale il giudice contabile interno non può non
tener conto.
In base al d.lgs. n. 333, ogni impresa nei confronti della quale i poteri
pubblici (le amministrazioni dello Stato, le regioni, comprese le regioni a
statuto speciale, e le province autonome di Trento e Bolzano, gli enti locali e
gli altri enti pubblici) possono esercitare, direttamente o indirettamente,
un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o
della normativa che la disciplina, deve tenere una contabilità separata se
svolge, oltre alle attività relative ai prodotti o servizi per i quali le sono
stati riconosciuti diritti speciali o esclusivi ovvero relative ai servizi di
interesse economico generale della cui gestione l'impresa è stata incaricata,
anche “attività distinte” dalle prime (da intendere come “le attività
relative a ogni altro prodotto o servizio svolte dall'impresa medesima”).
La logica è assolutamente palese: la società-impresa pubblica è unica, ma in
essa convivono masse patrimoniali distinte, ciascuna contraddistinta da un
preciso vincolo di destinazione funzionale (il core business aziendale di
ispirazione pubblicistica, per un verso, e le “attività distinte”, per
altro verso). La rilevanza della distinzione spiega ad ogni modo effetto sul
piano della tenuta della contabilità, sicché sarebbe inesatto parlare di
patrimonio separato, nel senso civilistico dell'espressione, con riguardo in
particolare ai cespiti 'dedicati' all'”attività distinta”.
Tenuto però conto che in base al d.lgs. n. 333 le imprese di cui sopra debbono
tenere contabilità separate anche se i pubblici poteri detengano in esse
(solamente) la maggioranza del capitale sottoscritto, oppure dispongano della
(sola) maggioranza dei voti attribuiti alle quote emesse (cfr. art. 3 del
decreto in parola), ne deriva che – agli effetti del diritto comunitario – è lo
svolgimento da parte di una società a capitale misto pubblico-privato di “attività
distinte” rispetto al core business aziendale di ispirazione
pubblicistica ad imporre l'adozione di regole particolari per la tenuta della
contabilità, risultando a tal fine di per sé non dirimente la sola provenienza
eterogenea (sia pubblica che privata ) delle risorse complessivamente gestite. A
nostro avviso, ciò milita eloquentemente ed in via ulteriore, ai fini che qui
interessano, nel senso della conferma dell'odierna inutilizzabilità del
tradizionale criterio distintivo fra illeciti compiuti nell'esercizio
dell'attività imprenditoriale ed illeciti commessi nell'esercizio di poteri
pubblici o di autorganizzazione dell'ente.
A questo punto, è chiaro però che se si tiene ferma siffatta conclusione con
riferimento all'ambito degli enti pubblici economici, diviene di riflesso (e a
maggior ragione) complicato adoperare il tradizionale criterio di cui si
discorre per le società a partecipazione pubblica. Sarebbe infatti seriamente
sostenibile, oggi, l'esclusione della giurisdizione della Corte dei conti in
materia di azione di responsabilità su tutti indistintamente gli atti produttivi
di danno non costituenti – con riferimento non anche agli enti pubblici
economici e alle aziende speciali, bensì solamente alle societa partecipate –
espressione in senso stretto di poteri autoritativi di autorganizzazione o di
funzioni pubbliche?
La risposta non può che essere negativa.
La ragione non può stare, però, solamente nel pur importante riferimento
contenuto nella l. 97/2001, concernente come noto la materia del rapporto tra
procedimento penale e procedimento disciplinare e gli effetti del giudicato
penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, la quale
prevede la comunicazione al competente procuratore regionale della Corte dei
conti della “sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei
dipendenti” anche "di enti a prevalente partecipazione pubblica”. La
ragione non può essere questa soltanto, perché avrebbe altrimenti carattere
puntuale, laddove appare invece opportuno (e corretto) che essa sia di ordine
sistematico.
Scriveva Paolo Maddalena, prima delle decisioni delle Sezioni Unite, della fine
del 2003 e di inizio 2004, in un bel saggio: “non ha più rilevanza la
distinzione tra attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato. Non
ha più rilevanza la natura pubblica o privata del soggetto agente. L'attività
amministrativa non si qualifica più tale perché posta in essere da una pubblica
amministrazione, ma può essere anche da un soggetto privato. Dunque, proprio non
si riesce più a capire come possa affermarsi che un ente pubblico economico o
una s.p.a. A totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico
servizio ed in tale esercizio produca un danno all'erario non debba esser
soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti.
Se il problema è quello di far salve le scelte di carattere imprenditoriale, tale salvezza è già assicurata dalla norma della l. n. 639/1996, che sancisce l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. D'altro canto è da tener presente che la stessa Corte di cassazione, nella citata sentenza delle Sezioni Unite, 27 gennaio 2000, n. 71, ha distinto, come si è visto, l'attività consistente nello svolgimento di un servizio pubblico, che è caratterizzata da un elemento funzionale, e cioè dal soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse generale, dall'attività puramente imprenditoriale, caratterizzata unicamente dal perseguimento di fini di lucro. Ora, tale distinzione dovrebbe operarsi, non solo a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma anche a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e Corte dei conti. Non è infatti logicamente ammissibile, dopo tale precisazione, che si consideri attività imprenditoriale pura e semplice anche quella che consiste nell'espletamento di un pubblico servizio, soltanto ove si tratti della giurisdizione della Corte dei conti".
Provando a riassumere, per Maddalena un ente pubblico economico o una s.p.a. a
totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico servizio producendo
nell'esercizio di questo un danno all'erario non può non essere soggetto alla
giurisdizione della Corte dei conti, e, in questo quadro, il problema di far
salve le scelte di carattere imprenditoriale risulta ex se risolto dalla
norma della l. n. 639/1996, che sancisce l'insindacabilità nel merito delle
scelte discrezionali.
Nell'evidenziare che il paradigma indicato – lo svolgimento di un pubblico
servizio – è esattamente il medesimo sul quale si fonda (almeno per il 50%
dell’impianto motivazionale) la decisione delle Sezioni Unite, n. 3899, va
aggiunto che ci sentiamo di concordare con l’illustre Autore, con le
precisazioni che di seguito si espongono.
Anzitutto, Maddalena conferma che la via di una differenziazione di regime fra
enti pubblici economici e società di capitali a partecipazione pubblica, e,
nell’ambito di queste ultime, fra società a totale o prevalente capitale
pubblico, non è più percorribile. Si tratta di un punto essenziale.
L’essenzialità, a ben vedere, deriva dal fatto che l’attrazione alla
giurisdizione del giudice contabile anche delle condotte di mala gestio
realizzate in ambito societario è fondamentalmente alternativa rispetto al
sistema di diritto comune regolato dalla recente novella al codice civile.
Il metro di determinazione della giurisdizione evolve dunque, in radice,
dall’applicazione secondo una tecnica di tipo selettivo ad una di tipo,
viceversa, attrattivo, e quindi esclusivista. Detto altrimenti: sarebbe a nostro
avviso improprio pensare che, per il tramite dell’applicazione alle società a
partecipazione pubblica della l. 639/2996, nella parte in cui sancisce l’insindacabilità
nel merito delle scelte discrezionali, si possa risolvere il problema di far
salve le scelte di carattere imprenditoriale assumendo di queste ultime
un’accezione concettuale (atti espressione dell’attività di impresa vs. atti
espressione di potestà pubblicistiche) elaborata con riferimento agli enti
pubblici economici, anziché come termine di riferimento unico ed esclusivo in
ambito societario.
A nostro parere, l’esportazione del modello previsto dalla l. 639/1996 alle
società a partecipazione pubblica può infatti aver luogo soltanto in modo
coerente. Allo stesso modo in cui essa dispone per la discrezionalità
amministrativa spettante in ambito formalmente pubblicistico agli organi di
amministrazione attiva, così – calata in ambito societario – detta norma può
risolvere il problema di far salve le scelte di carattere imprenditoriale per il
tramite dell’insindacabilità nel merito delle decisioni discrezionali solamente
assicurando tout court una limitata franchigia da responsabilità, anziché
determinando semplicemente la devoluzione ad altro giudice – quello ordinario –
della cognizione delle cattive condotte gestorie realizzate nel compimento di
atti espressione dell’attività di impresa.
Ciò detto, va evidenziato che a ben vedere neppure la sentenza n. 3899
(relativa, si badi, a fatti accaduti anteriormente all’entrata in vigore della
l. 20/1994), esclude in modo netto che lo svolgimento di un pubblico servizio
possa considerarsi circostanza (da sola) sufficiente ai fini della devoluzione
della giurisdizione sulla società a partecipazione pubblica al giudice
contabile, benché nello specifico caso esaminato finisca con l’attribuire
carattere assorbente alla ritenuta configurabilità di un rapporto di servizio
fra SO.GE.MI. e Comune. Scrivono infatti le Sezioni Unite: “… fermo il
carattere pubblico del servizio relativo all’impianto e all’esercizio di mercati
annonari all’ingrosso di Milano, anche escludendo che la SO.GE.MI. agisse come
longa manus del Comune e quindi in una situazione di compenetrazione organica,
non può certamente negarsi tra la suddetta società e l’ente territoriale si
fosse stabilito un rapporto di servizio, ravvisabile ogni qual volta si instauri
una relazione (non organica ma) funzionale caratterizzata dall’inserimento del
soggetto esterno nell’iter procedimentale dell’ente pubblico come compartecipe
dell’attività a fini pubblici di quest’ultimo. Rapporto di servizio che, per
costante giurisprudenza, implica l’assoggettamento ala giurisdizione della Corte
dei conti in materia di responsabilità per danno erariale, non rilevando in
contrario la natura privatistica dell’ente affidatario e/o dello strumento
contrattuale con il quale di è costituito ed attuato il rapporto in questione (ex
plurimis, Cass., ordinanza 22 gennaio 2002, n. 715)”.
Nello stesso senso, di particolare pregio argomentativo e rilevanza sistematica
si rivela anche l’affermazione secondo la quale “la istituzione e la gestione
dei mercati all’ingrosso costituiscono un servizio pubblico, ai sensi della l.
125/1959, degli artt. 117 e 118 Cost. (e conseguente trasferimento di funzioni
amministrative alle regioni a statuto ordinario: d.p.r. n. 7/1972 e n.
616/1977)”, e “le ragioni che giustificano l’intervento pubblico nella materia
(come del resto con l’istituzione della SO.GE.MI.) sono quelle di interesse
generale: la tutela dei consumatori sotto il profilo igienico – sanitario e
della qualità dei prodotti, l’ausilio alla razionalizzazione del sistema
distributivo, lo sviluppo di rapporti dirette tra produzione e distribuzione, la
promozione dell’associazionismo tra gli operatori economici dei settori
interessati, l’abbattimento dei costi, ecc.; interessi tutti rilevanti per la
comunità locale interessata”. Siffatta affermazione fa infatti da
piattaforma teorica all’importante, ulteriore conclusione secondo cui “la
situazione non muta neppure con l’intervenuta liberalizzazione del settore,
cosicché le delibere comunali, richiamate dai resistenti che ne vorrebbero
dedurre l’esclusione del carattere di servizio pubblico, sembrano più
correttamente interpretabili come la rinuncia del Comune a gestire direttamente
tali attività, demandandola a un ente diverso (nella specie la SO.GE.MI.,
società per azioni a capitale pubblico si gran lunga prevalente)”.
Neppure, infine, si potrebbe evitare di dedicare un cenno puntuale all’inciso “…
fermo il carattere pubblico del servizio relativo all’impianto e all’esercizio
di mercati annonari all’ingrosso di Milano …”, nella parte in cui rettamente
menziona in modo non indistinto il servizio relativo all’impianto e quello
relativo all’esercizio di mercati annonari all’ingrosso. Esso riecheggia infatti
quello schema duale “gestione della rete” / “gestione del servizio” che,
innervando gli artt. 113 ss. del TUEL, pone con evidenza le premesse per u
processo di moltiplicazione sulla scena dei players a partecipazione
pubblica, sempre nel presupposto comune dell’adozione della forma societaria,
naturalmente.
Si impone, a questo punto, una domanda ulteriore: quale perimetro per la
giurisdizione del giudice contabile sulle società a partecipazione pubblica?
Va premesso, al riguardo, che dopo la recente sentenza n. 363/2003 della Corte
costituzionale, di cui si dirà, la griglia di situazioni che occorre tener
presente in ambito societario è , riassuntivamente, la seguente:
1. i casi nei quali la società di capitali è costituita ex lege ed è
interamente partecipata da un soggetto pubblico, che tuttavia non può
determinare in modo del tutto autonomo nell’esercizio dei poteri spettatigli in
quanto socio, dovendo per converso ricercare allo scopo l’intesa con uno o più
altri soggetti pubblici;
2. i casi nei quali la società di capitali è interamente partecipata da uno o
più soggetti pubblici (cd. partecipazione totalitaria);
3. i casi nei quali la maggior parte (almeno il 50,1%) per capitale della
società è detenuto da uno o più soggetti pubblici;
4. i casi nei quali la partecipazione dei soci pubblici ha carattere minoritario
(si colloca cioè al di sotto del 50% del capitale sociale).
Inoltre, quali esperienze statisticamente meno significative o ricorrenti, ma
certamente non trascurabili, vanno menzionati i residui enti pubblici economici
e le aziende speciali di cui agli artt. 113 bis ss. del TUEL.
Questa è tuttavia solo la griglia di base, che può variamente declinarsi, in
concreto. in particolare, in virtù dello schema del c.d. controllo congiunto, di
cui si dirà, non è affatto scontato che nell’ipotesi n. 4 la società sfugga al
“controllo” – nel significato che alla locuzione attribuisce il diritto
societario – della mano pubblica. Allo stesso modo, occorre non trascurare
l’eventualità che, nelle società a partecipazione pubblica minoritaria, la legge
o lo statuto (o la loro combinazione) attribuiscano al socio pubblico poteri
speciali di varia natura, esplicabili anche in sede extrassembleare (due esempi
su tutti: gli artt. 2458 e 2459 cod. civ., sopravvissuti significativamente alla
recente novellazione del diritto societario, nonché le norme contenute nella l.
474/1994).
E a confortare quasi in modo plastico l’idea che quello delle società a
partecipazione pubblica in genere non rappresenti affatto un ambito soggettivo
unitario sta, da ultimo, l’art. 1 co. 9, del d.l. 168/2004, convertito con
modificazioni nella l. n. 191/2004, secondo il quale le pubbliche
amministrazioni, nell’esercizio dei diritti dell’azionista nei confronti delle
(sole) società di capitali a totale partecipazione pubblica, adottano le
opportune direttive per i c.d. consumi intermedi nel medesimo co. 9 indicati,
comunicandole in via preventiva alla Corte dei conti.
Di qui, evidentemente, la reiterazione sotto altra forma della domanda già
posta: residua, oggi, un problema di riparto d giurisdizione rispetto al giudice
ordinario? Quale, in caso si risposta affermativa, la linea di demarcazione?
La risposta al primo quesito non può evidentemente, che essere positiva.
Nessuno, sinora, tanto meno le sezioni Unite e la dottrina, e per vero
certamente non la Corte dei conti, ha mai affermato che la giurisdizione del
giudice contabile debba estendersi su tutte indistintamente le società a
partecipazione pubblica.
Tutt’altro. Laddove l’attività delle società partecipata non consista nello
svolgimento di un servizio pubblico, non sia cioè caratterizzata anche da un
elemento funzionale, quale il soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse
generale, bensì si atteggi ad attività puramente imprenditoriale, caratterizzata
unicamente dal perseguimento di fini di lucro, amministratori e dirigenti si
situeranno al di fuori della giurisdizione del giudice contabile. Peraltro, in
quest’ultimo caso, che pone la questione, né banale né tantomeno ad esito
scontato, della sussistenza in capo ai pubblici poteri della libertà di
costituire a discrezione soggetti di siffatto tipo, differente sarebbe ad ogni
modo il destino dei legali rappresentanti del socio pubblico (ad es. il Sindaco
o il Presidente della Provincia), eventualmente di minoranza, cui potrebbe
contestarsi – nell’ipotesi di cattivo esercizio, con dolo o colpa grave, dei
poteri tipici del socio (anche ai fini dell’esercizio dell’azione di
responsabilità nei confronti degli amministratori) – tanto il danno diretto in
ipotesi subito dall’azionista pubblico amministrato, quanto il danno indiretto
che derivasse dalla soccombenza in liti con il socio privato per mala gestio,
o concorso nella mala gestio, dell’impresa comune.
Va a questo punto sottolineato che, per il vigente diritto positivo, quella di
“servizio pubblico” è nozione come noto non unitaria, in particolare in ambito
locale. gli artt. 113 ss. del TUEL distinguono infatti fra i servizi pubblici
locali attualmente classificati come “di rilevanza economica”, di cui all’art.
113, che per la loro potenziale incidenza sulla tutela della concorrenza
rientrano secondo Corte csot., sentenza n. 274/2004, fra le materie riservate
alla legislazione statale, e i servizi “privi di rilevanza economica” previsti
dall’art. 113 bis, la cui nuova denominazione, adottata in conformità a tendenze
emerse in sede di Commissione europea a decorrere dal settembre 2000, già di per
sé indica secondo il giudice delle leggi “che il titolo di legittimazione per
gli interventi del legislatore statale costituito dalla tutela della concorrenza
non è applicabile a questo tipo di servizi, proprio perché in riferimento ad
essi non esiste un mercato concorrenziale”.
Il problema della giurisdizione della Corte dei conti sulle società costituite
per lo svolgimento di servizi pubblici in ambito locale si pone tuttavia per
ambedue le tipologie, giacchè in base alla vigente normativa non solo la
gestione dei servizi di rilevanza economica può essere affidata a società di
capitali individuate con gara a evidenza pubblica o a società miste, i cui soci
privati siano stati scelti con gara a evidenza pubblica, o a società a capitale
interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici che la
controllano, ma anche la gestione dei servizi privi di rilevanza economica può
avvenire mediante affidamento diretto, oltre che ad istituzioni ed aziende
speciali, anche a società a capitale interamente pubblico, con esclusione dei
privati e delle società miste.
Ora, non sono ovviamente in discussione i casi in cui le responsabilità
azionabili dal p.m. contabile, anche di tipo indiretto, trovino nella società a
partecipazione pubblica una mera occasione, anziché la loro causa in senso
tecnico. Il che accade, ad esempio, laddove i comportamenti fonte di danno
erariale siano riferibili non già ad amministratori o dipendenti della società,
bensì agli enti pubblici soci.
Da questo punto di vista, è appena il caso di evidenziare che Consiglio di Stato
sez. V, 20 ottobre 2004, n. 6867 ha accordato al socio privato il risarcimento
dei danni derivanti dalla perdita degli utili per il mancato svolgimento del
servizio pubblico affidato ad una s.p.a. a partecipazione pubblica maggioritaria
prima costituita e poi rimasta inattiva per il dissidio insorto far i soci, e
dal mantenimento dei costi di gestione della struttura societaria. Nella specie,
l’ente locale aveva costituito con altri soggetti una società mista per lo
svolgimento di un servizio pubblico, ma poi aveva preteso di esercitare
unilateralmente un potere di recesso per motivi di opportunità che il Consiglio
di Stato ha giudicato insussistente, non potendo il socio pubblico più recedere
dal contratto costitutivo della società se non nei limiti in cui tale potere è
consentito dalle norme di diritto comune. e per quanto qui soprattutto
interessa, va notato che ai fini della quantificazione del danno per equivalente
il supremo giudice amministrativo ha intimato all’Amministrazione di tener conto
dei costi di gestione sostenuti dalla struttura societaria nonchè dei
presumibili utili che sarebbero derivati dalla gestione del servizio, e, a
quest’ultimo riguardo, di considerare quanto percepito da imprese che svolgono
il medesimo servizio in contesti dimensionali o socio-ambientali paragonabili a
quelli per cui nella specie era causa.
Analogamente, una responsabilità imputabile direttamente in capo al socio
pubblico potrebbe configurarsi anche in relazione allo schema romanistico della
culpa in eligendo. Se, infatti, come afferma il Consiglio di Stato, il
socio pubblico, nella scelta del management, è comunque obbligato, in
forza della normativa di diritto interno, il rispetto di criteri di
professionalità, capacità ed indipendenza, persino le perdite di esercizio che
dovessero verificarsi, e ridondare in danno del o degli eventuali soci privati,
oltre che di quello pubblico, vadano considerate in qualche modo ‘annunciate’ o
scontate, o altamente probabili, in ragione della pochezza tecnica del
management, di una sua già sperimentata (altrove) incapacità gestoria, o di
situazioni limite consimili, sarebbe singolare se non si potesse procedere con
l’azione pubblica di responsabilità nei confronti di coloro che hanno deciso la
nomina (e qui occorre evidentemente distinguere fra l’ipotesi del socio pubblico
unico e quella della società con più soci pubblici o, ancora, a capitale misto
pubblico-privato).
Tornando a questo punto alla domanda più volte prospettata, inerente ai limiti della giurisdizione del giudice contabile, particolari dubbi non dovrebbero allora esservene anzitutto nel caso di responsabilità cd. indiretta, e cioè nel particolare caso in cui uno o più soci privati vittoriosamente esperissero azione nei confronti del socio pubblico contestandogli la “perdita di valore” dell’azienda comune quale conseguenza della gestione realizzata dagli amministratori in maggioranza di nomina pubblica o (come più spesso accadrà) dall’amministratore delegato parimenti investito di poteri dalla maggioranza “pubblica” dei componenti il CdA. Nella misura in cui l’onere di ricapitalizzazione – qualunque forma dovesse assumere – finisse col gravare sul socio pubblico, gli amministratori o l’a.d. riconosciuti responsabili sarebbero chiamati a rispondere ad opera del p.m. contabile.
Per tal via, potrebbero in particolare contestarsi in sede giuscontabile i danni
(risarciti, con la mediazione del giudice civile, e) cagionati con comportamenti
di mala gestio ai soci privati, per la parte di risorse dagli stessi
investite nell’azienda, o persino ad eventuali ulteriori soci pubblici che, pur
facendo parte della compagine societaria, dal punto di vista amministrativo non
fossero titolari del servizio pubblico affidato in gestione alla società.
Diversa appare invece l’ipotesi della responsabilità c.d. diretta, sempre nei
confronti dell’ente locale – azionista, giacchè, in particolare nelle società
con partecipazione pubblica minoritaria, si tratta di stabilire a quali
condizioni il danno cagionato dall’amministratore 8anche se di nomina pubblica)
alla società potrebbe risolversi, in via immediata, in un danno erariale,
eventualmente misurabile anche in base alle risultanza di esercizio della
società.
Da questo punto di vista, sarebbe per vero singolare ritenere che il p.m.
contabile possa agite per responsabilità diretta nei confronti degli
amministratori della s.p.a. mista per l’intero ammontare del danno da essi
procurato con atti di gestione improntati a dolo o colpa grave. detto
altrimenti, sarebbe singolare ammettere l’esercizio dell’azione pubblica di
responsabilità intestata alla Procura regionale anche per la parte di danno
destinata, secondo i comuni meccanismi societari, a gravare sui soci privati.
Responsabilità diretta e indiretta potrebbero allora preferibilmente combinarsi,
in uno stesso caso. Per tal via, seguendo due distinti ma convergenti percorsi
giurisdizionali (il secondo, evidentemente, in due tappe: prima dinanzi al
giudice civile, ad iniziativa dei soci privati, indi davanti a quello contabile,
ad iniziativa della relativa procura) potrebbero contestarsi agli amministratori
di una s.p.a. a capitale misto i danni complessivamente derivanti da
comportamenti di mala gestio.
In quest’ottica, particolare attenzione andrà pertanto prestata anche alla
posizione e all’operato degli amministratori che risultassero, in base a
circostanze univoche, non espressi dal socio pubblico, bensì da quelli privati.
ove infatti – facendo applicazione dei criteri ermeneutica tipici della dinamica
societaria, quale risultante all’esito della novellazione di cui si è detto – si
appurasse una loro condivisione delle scelte compiute dalla totalità o dalla
maggioranza degli altri amministratori, sarebbe incongruo ritenerli sottratti
all’ambito di esplicazione della giurisdizione del giudice contabile.
Il punto vero, allora, potrebbe diventare un altro.
Nella misura in cui gli amministratori dotati di poteri, o, come più speso
accadrà, l’amministratore delegato unico siano espressione di un o più soci
pubblici che abbiano affidato alla società la gestione di un servizio pubblico,
quale metro comportamentale si dovrà seguire in concreto nell’attività di
gestione? Si dovrà, per essere più chiari, prestare comunque una particolare
attenzione alle esigenze di stampo pubblicistico riferibili al socio o ai soci
pubblici affidatari, oppure – in una logica di equidistanza da soci pubblici e
privati - l’amministratore dovrà preoccuparsi soltanto di massimizzare i
profitti, creando valore per l’azienda amministrata?
Si tratta di una questione a ben vedere essenziale, specie alla luce del
novellato diritto societario. Secondo l’art. 2391, cod. civ., infatti,
l’amministratore che abbia (a titolo personale o per conto di terzi) un
interesse in una determinata delibera o operazione è tenuto a comunicare
dettagliatamente la natura di tale interesse, non solo se configgente con quello
comune ai soci, bensì perfino se astrattamente coincidente con quello della
società. in base alla nuova disciplina, infatti, un amministratore portatore di
un interesse comunque “alieno” rispetto a quello della società in sé, con
riguardo ad una data operazione, non sarà esonerato da responsabilità mediante
semplice astensione dal voto, dovendo invece comunque dare comunicazione del
proprio interesse al CdA, affinché questo si rappresenti vantaggi e svantaggi
possibili dell’operazione prospettata e deliberi con motivazione puntuale.
E’ dunque chiaro perché quello evidenziato rappresenti un punto essenziale.
Nelle società a capitale misto deputate alla gestione di un pubblico servizio
convivono permanentemente due opposte tensioni, quali nitidamente percepite in
una recente decisione della sez. VI del Consiglio di Stato. Nell’esaminare la
censura relativa alla mancanza dell’ulteriore requisito “negativo” di
qualificazione dell’organismo di diritto pubblico, cioè l’istituzione tesa a “soddisfare
specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o
commerciale”, il giudice amministrativo di appello ha infatti osservato che
il motivo si compendiava fondamentalmente nella deduzione secondo la quale la
mancanza di carattere industriale o commerciale va riscontrata allorché, sul
presupposto dell’istituzione per soddisfare bisogni di interesse generale (non
contestato in questa sede), l’attività “di produzione o scambio di beni e
servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori economici,
consumatori o utenti” non sia “guidata da regole economiche”.
Sennonché per il consiglio di Stato “è chiaro che su quest’ultimo connotato
non influisce la forma giuridica di società per azioni, normalmente destinata
all’esercizio dell’impresa per perseguire l’utile secondo la misura che consente
una redditività competitiva, ma che, nell’esperienza pubblicistica
contemporanea, tende a prestarsi a tipi di attività non orientati a questa
rigorosa economicità, e invece esercitati per organizzare la presenza pubblica,
in termini di sostegno a settori economici o di erogazione di utilità sociali,
con una politica di impresa colta, in varia misura, a derogare al principio
della redditività, per addossare alla mano pubblica costi ritenuti
indispensabili per garantire un certo livello di servizio pubblico, che
l’esercizio privatistico puro non consentirebbe.
Nel caso che ci occupa, l’esercizio per previsione statutaria (art. 3 vigente
Statuto) da parte dell’Autovie Venete dell’attività di costruzione ed esercizio
di autostrade e strade è connessa dalla stessa norma statutaria proprio a
“quanto richiesto da esigenze relative alla sicurezza del traffico o al
mantenimento dei livelli di servizio”. la finalità così esplicitata risulta
quindi tale da perseguire un interesse generale ulteriore rispetto a quello
delle costruzioni e gestione stradale (il che integrerebbe di per sé, per la
natura delle opere costruite e gestite, il prerequisito della soddisfazione di
bisogni generali, assolvibile anche da una struttura privatistica in regime di
pieno di impresa), ed introduce un obbligo di mandato “pubblicistico” che
connota il perseguimento dell’interesse generale, così rapportato a esigenze
qualitative, come prioritario, fino al punto da renderlo, se del caso,
prevalente sul fine economico utilitaristico proprio dell’attività di impresa
comune. L’assenza di finanziamento pubblico, fatta rilevare dalle appellanti,
poi, non spiega il rilievo che esse li attribuiscono nel far emergere la
gestione secondo necessari criteri di economicità; le stesse appellanti,
infatti, espongono come la base finanziaria della s.p.a. sia fornita dal
capitale pubblico – e ciò già costituisce un finanziamento pubblico che si
riverbera in modo costante sui costi fissi – e dai pedaggi autostradali, che in
un regime come quello attuale del servizio pubblico, alla luce delle segnalate
finalità statutarie qualitative in funzione dell’interesse generale, si
configurano piuttosto come un provento destinato a concorrere al finanziamento
degli oneri sostenuti per la costruzione la manutenzione dell’infrastruttura,
affinché non ricadano interamente sulla spesa pubblica. per comprendere ciò
basti pensare che tali proventi sono ricavati da un volume di traffico e da una
consistenza delle infrastrutture e dei relativi oneri di manutenzione e di
qualità del servizio, determinate da un apolitica pubblicistica facente capo
anzitutto alla Regione, volta alla promozione delle comunità territoriali di
riferimento. La portata di traffico delle infrastrutture e la loro
pianificazione e gestione non sono invece, né potrebbero esserlo a fronte del
pubblico servizio, ad esistenza necessaria, cui sopperiscono, determinate in
base ad un piano di impresa integralmente mirato a dimensioni e caratteristiche
di investimento ottimali per raggiungere un utile economico.
Quanto finora esposto, fa emergere la connessione che nella organizzazione delle
attività materiali corrispondenti ad un pubblico servizio si instaura rispetto
ad una funzione pubblica che costituisce uno dei compiti indeclinabili e
qualificanti di un ente pubblico dotato di una autonomia politico-amministrativa
che si esprime in poteri normativi, pianificatori e operativi. nel caso in
esame, è evidente la connessione fra la competenza in tema di viabilità che
l’art 117 cost. demanda alla Regione, certamente riconducibile ad una funzione
pubblica di governo e sviluppo del territorio, e i moduli organizzativi
prescelti per realizzare tale funzione, che possono attuarsi anche
nell’istituzione di organismi in forma di società per azioni”.
Ma se così è – e non vi è ragione di credere che così non sia, alla luce delle
considerazioni sin qui sviluppate – ne discende evidentemente un ulteriore
motivo di riflessione, che riconduce al punto di partenza. Se, infatti, nel
modello di società a partecipazione pubblica (totalitaria, maggioritaria o
comunque di controllo) che, in modo convergente, ci propongono il legislatore ,
la giurisprudenza costituzionale, quella delle Sezioni Unite, della Corte di
cassazione e quella del giudice amministrativo, nell’unitario scopo sociale
indicato dallo statuto tanto profondamente si compendiano – rectius,
possono/debbono/riescono a compendiarsi – funzioni di interesse pubblico
finanziate con risorse parimenti pubbliche e attività d’impresa da svolgere nel
mercato in competizione con altri players e, quindi, con una gestione
aziendale acconcia e, se del caso, con contabilizzazione separata, non si può
evitare di tornare con il pensiero all’antico discrimen tra atti
espressione dell’attività d’impresa e quelli espressione di potestà
pubblicistiche.
Seguendo la prospettiva sin qui illustrata, infatti, vieppiù finisce col
risaltare l’artificiosità della costruzione teorica che, torniamo a dire, pare
per vero ispirata da un approccio di tipo meccanicistico, quasi riflessivo di
una vana illusione di chirurgica e asettica scomponibilità di ciò che, a maggior
ragione in ambito societario, rappresenta viceversa un tutto indistinto. Gli
atti di gestione degli amministratori di una società a partecipazione pubblica
affidataria di un servizio pubblico, nello stesso momento in cui si pongono come
attuativi della gestione di quest’ultimo attuano altresì l’oggetto sociale,
quale condiviso obiettivo dei soci tutti, privati o pubblici che siano. In
ambito societario, dunque, è ancor più evidente che il momento pubblicistico
tradizionale (nelle sue declinazioni tipiche: autorganizzativo, ecc.) se c’è sta
a monte, e fuori della società (ancorché tinteggiandone l’intero operare,
attraverso la mediazione statutaria), non dentro, in una parte (soltanto9 di
essa.
Ne consegue, quale fatale conclusione, un’ulteriore conferma,
dell’inutilizzabilità nell’ambito qui considerato di quell’antica distinzione.
Diviene allora chiaro che – una volta preso atto del nuovo indirizzo
interpretativo inaugurato dall’ordinanza n. 19667 delle sez. un. e facente leva
in particolare sull’introduzione del cd. danno obliquo . in ambito societario
l’interrogativo è uno solo: coeteris paribus, le società a partecipazione
pubblica i cui amministratori o dipendenti abbiano realizzato comportamenti
dannosi di mala gestio sono riconducibili, quanto meno, alla nozione di
“amministrazione di appartenenza” di cui dell’art. 1, ult. co., l. n. 20/1994?
Detto altrimenti, poichè il punto di svolta ai fini della devoluzione alla
giurisdizione del giudice contabile persino degli atti consistenti nel
compimento di operazioni di investimento da parte di enti pubblici economici è
per la Cassazione rappresentato dall’avvento dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994,
e quindi del cd. danno obliquo, il vero nodo sta nello stabilire se –
sviluppando il profilo squisitamente “relazionale” – dette società si atteggino
in guisa tale da consentire di definirle comunque “amministrazioni” o, almeno,
da permanere all’interno di un rapporto tecnicamente qualificabile come
intercorrente “tra amministrazioni” (quella “di appartenenza”, da un alto, e
quella “diversa” dall’altro lato).
Quale latitudine di significato, dunque, per la locuzione “amministrazione” (di
appartenenza o diversa che sia) nell’ambito dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994?
Se infatti vi si ritenessero rientranti tutte o la gran parte delle società a
partecipazione pubblica, il problema sarebbe evidentemente risolto, anche ai
fini della configurabilità di ipotesi di responsabilità c.d. diretta nei
confronti non già dell’azionista pubblico bensì della società/”amministrazione
diversa”. Ora, nel momento in cui anche il giudice nazionale di ultima istanza
individua finalmente quale discrimen tra le due giurisdizioni interne, la
qualità del soggetto passivo, e, pertanto, la natura – pubblica o privata –
delle risorse finanziarie di cui esso si avvale, sarebbe francamente difficile
comprendere come potrebbero sottrarsi alla giurisdizione del giudice contabile
società che, istituite per soddisfare bisogni di interesse generale, difettino
del carattere industriale o commerciale perché le attività “di produzione o
scambio di beni e servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori
economici, consumatori o utenti” non risultano “guidate da regole
economiche”. Società, queste, tenute a seguire le regole dell’evidenza
pubblica per quell’elementare esigenza di garanzia della par condicio tra
le imprese aspiranti ad ottenere l’affidamento di commesse che suggella e
sublima l’odierna saldatura fra l’interesse, essenzialmente nazionale,
all’ottimizzazione e all’efficientamento di risorse finanziarie sempre più
scarse, e quello, tipicamente comunitario, ad evitare che i conseguenti flussi
di denaro provenienti – direttamente o mediatamente – dai pubblici poteri
possano tradursi in un inammissibile fattore di distorsione della concorrenza,
promuovendo l’azione di comportamenti virtuosi di gestione.
Realizzatasi questa saldatura, si danno allora perfino nuove vocazioni
istituzionali, e in particolare si deve prendere atto della metamorfosi di un
giudice, quello contabile nell’ordinamento interno, che nello svolgere il suo
lavoro si sempre si fa ora, se si vuole in modo indiretto, anche custode del
principio comunitario cardine di concorrenza.
E’ del resto l’identico destina cui è parallelamente andato incontro in questi
anni il giudice amministrativo che, come noto quale giudice competente sovente
annulla atti di aggiudicazione id gare d’appalto indette da società a
partecipazione pubblica soltanto parziale. In simili casi, va notato, non è
sostenuta da alcuno l’idea che la presenza di uno o più soci privati debba
influenzare, mutandole, le regole di affidamento. All’unitario interesse
societario al procacciamento di una fornitura, un esercizio o un lavoro, si
correla così, ineluttabilmente, la condivisione da parte dell’intera compagine
sociale delle regole di evidenza pubblica, talora proporzionalmente più onerose.
Nel momento in cui l’unica decisione della Cassazione – fra le tre succedutesi a
breve distanza l’una dall’altra tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 – ad
aver riguardo a fatti verificatisi successivamente all’entrata in vigore
dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994, sposta l’accento sulla natura delle risorse
gestite, diviene chiaro che non può più darsi un sistema a due vie, nel quale,
cioè, il finanziamento (si badi, anche “soltanto”) maggioritario da parte di
pubblici poteri (si veda ad esempio l’art. 2 co. 1, lett. b, del d. lgs. n. 157
del 1995) consenta l’annullamento di un’aggiudicazione illegittima (o peggio, a
seconda dei casi) ma non anche il perseguimento sul piano della responsabilità
amministrativa della condotta di mala gestio di amministratori o
dipendenti che l’avessero eventualmente determinata con dolo o colpa grave.
E’ in questa chiave di lettura che, anche per misurare la lunghezza del passo
che l’ordinanza n. 19667 fa compiere all’intero sistema, pare doveroso tornare a
sottolineare da dove si era partiti. Scriveva infatti nella sentenza n. 243/2001
(sulla quale sarebbe poi intervenuta la già citata decisione n. 3899 della
Suprema Corte) la II sez. centrale della Corte dei conti che “rimanendo sul
terreno degli enti locali, c’è da chiedersi perché un’amministrazione comunale
deciderebbe di scegliere, per la gestione di un servizio, una forma tipicamente
privatistica come la società di capitali, se dovesse rimanere pur sempre
applicabile la normazione di diritto pubblico, anche in settori importanti come
quello della responsabilità amministrativa”.
Se tutto questo è vero, sarebbe però non del tutto appagante ridurre alla
riconducibilità alla sola nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico”
la piattaforma argomentativi sulla quale fondare la giurisdizione della Corte
dei conti sulle società a partecipazione pubblica.
Il ruolo di tutore istituzionale della finanza pubblica conferito alla
magistratura contabile innanzitutto dalla Costituzione, spinge a non
accontentarsi di questa prima conclusione perché si trascurerebbe in tal modo di
valutare alcuni elementi di valenza sistematica, che paiono tenersi insieme l’un
l’altro.
Procedendo per ordine, e rinviando ad altra sede per una trattazione più
approfondita sul punto, è ormai evidente a tutti che il patto di stabilità
esprime una sua cogente normatività, nella misura - particolare – in cui assurge
negli ordinamenti interni a giustificazione costante dei continui “giri di vite”
nella spesa pubblica cui gli esecutivi fanno ricorso nel tentativo di mantenere
il richiesto rapporto del 3%.
In questo quadro si inseriscono anche i criteri correntemente applicati da
Eurostat per determinare lo stock complessivo di disavanzo del settore pubblico
nel suo complesso, essenziale per la verifica del rispetto dei parametri su cui
poggia il patto di stabilità fra i Paesi dell’Unione.
L’esempio più recente, sul fronte interno, è quello di ANAS s.p.a.: a partire
dal 2004 nel conto allo scopo redatto dalle autorità comunitarie non sono più
considerati i flussi di risorse affluenti dal socio pubblico, nell’assunto che
nell’anno possano essere conseguiti i requisiti per la configurazione della
stessa quale “impresa market oriented” esterna al comparto delle
Amministrazioni pubbliche. Requisiti, questi, che si compendiano nell’elementare
regola secondo la quale l’impresa pubblica si colloca al di fuori di tale
comparto se il totale delle entrate annue è costituito per oltre il 50% da
ricavi da cessioni di beni e servizi.
Il punto nodale è rappresentato dunque dalla misura in cui l’attività
dell’impresa pubblica tende alla profittevolezza, non dalla composizione
eventualmente variabile dell’azionariato. In tal senso, non v’è dubbio che
Eurostat includerebbe senza esitazioni nel comparto in parola le imprese
pubbliche costituite in forma di società, nella cui compagine figurassero anche
soci privati, sol che per queste il totale delle entrate annue non fosse
costituito per oltre il 50% da ricavi da cessioni di beni e servizi. E se a
questo punto si prova a combinare detto criterio con quello, di cui fa uso in
ambito nazionale il Consiglio di Stato, propenso ad attribuire rilievo alla
circostanza che le attività “di produzione o scambio di beni e servizi a
favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori e utenti”
svolte dalle società in discorso non risultino “guidate da regole economiche”,
ne viene complessivamente fuori un identikit abbastanza preciso.
Si tratta, in una parola, innanzitutto delle società partecipate da soggetti
pubblici maggioritariamente finanziate dallo Stato, dalle regioni, dagli enti
locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico e per le quali il
totale delle entrate annue non sia costituito per oltre il 50% da ricavi da
cessione di beni e servizi. Di società, cioè, con riferimento alle quali appare
appropriato dire che le attività "di produzione o scambio di beni e servizi a
favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori o utenti”
da esse svolte non risultano “guidate da regole economiche”.
Riteniamo che sia preferibilmente questo, allora, il criterio al quale vada
ancorata la giurisdizione del giudice contabile, semprechè naturalmente sia
provata la riconducibilità di ciascuna società, da riscontrarsi volta per volta,
a quella nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico”
nell’ambito della quale – come puntualizza il Consiglio di Stato – per bisogno
non industriale o commerciale deve intendersi non già la non imprenditorialità
della gestione, bensì la funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni
generali della collettività. E detto requisito deve reputarsi ricorrente nel
caso di società costituita al principale fine di gestire (anche attraverso le
controllate)attività miranti ad ottenere detto soddisfacimento, in settori
tuttora solo in parte “liberalizzati”, secondo criteri non propri di un soggetto
privato, ma influenzati dallo stretto legame della società al potere pubblico e
dalla reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno, al di fuori del
normale funzionamento dei meccanismi societari, sull’attività dell’ente, sì da
garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso
si intende perseguire.
Si tratta, del resto, della stessa linea di tendenza in cui si colloca
l’ordinanza n. 2316 del 22 aprile 2004 dal Consiglio di Stato, con la quale la
sezione V ha rimesso alla Corte di giustizia, ai fini di una pronuncia
pregiudiziale, il problema della compatibilità con l’ordinamento comunitario
dell’affidamento di servizi pubblici a società per azioni a capitale pubblico,
totale o maggioritario, cosiddetto “in house providing”, sotto un profilo
ritenuto non ancora esaminato dalla Corte di giustizia.
Muovendo dal riferimento alla nota pronuncia pregiudiziale 18 novembre 1999
adottata in causa 107/98, Teckal s.r.l. c. Comune di Aviano, la sezione V ha
fatto notare che nell’occasione la Corte ebbe ad affermare che bandire una gara
per l’affidamento di appalti pubblici non è necessario solo nel caso in cui, nel
contempo, l’Ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo
analogo a quello che da esso esercitato sui propri servizi, e questa persona
realizzi la parte più importante della propria attività con l’Ente o con gli
Enti locali che la controllano, ma proprio l’espressione usata dalla Corte “…
controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi …” propone
secondo il giudice amministrativo nazionale d’appello un nuovo problema
interpretativo, dovendosi stabilire quando il controllo esercitato presenti le
caratteristiche volute dalla sentenza.
Più specificamente, ha aggiunto l’ordinanza n. 2316, si tratta di capire se il
possesso dell’intero capitale del soggetto affidatario, in particolare una
società per azioni, possa garantire quella situazione di dipendenza organica che
normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica
amministrazione.
Da questo punto di vista, la Commissione della U.E. ha avuto occasione di
esprimere il proprio autorevole avviso sul punto con la nota 26 giugno 2002,
diretta al Governo Italiano per sollecitare ulteriori modificazioni all’art. 113
del d. lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dall’art. 35 co. 1, della l. n. 448
del 2001, nel quale si riscontravano disposizioni non conformi ai principi di
diritto comunitario invocati anche nella presente fattispecie, osservando che
per quanto riguarda in particolare la nozione di “controllo analogo a quello
esercitato sui propri servizi” di cui alla giurisprudenza in discorso, “affinché
tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli
strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del
diritto societario”. Viceversa, il “controllo contemplato nella sentenza
Teckal fa infatti riferimento ad un rapporto che determina, da parte
dell’amministrazione controllante, un assoluto potere di direzione,
coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che
riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”.
Osserva sul punto l’ordinanza n. 2316 che, così esprimendosi, la Commissione
sembra alludere ad un fenomeno giuridico assimilabile a quello delle aziende
municipalizzate di cui al r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578, nel quale si istituiva
un nuovo soggetto, con capacità giuridica propria e propri organi, sottoposto
peraltro a penetranti poteri di vigilanza da parte dell’Amministrazione (art. 16
ss. r.d. n. 2578/1925) e obbligato a svolgere la propria attività mediante
contratti, scegliendo il contraente con procedure ad evidenza pubblica (art. 57
ss. del Regolamento di cui al d.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902).
Da questa premessa, la sezione V conclude significativamente che “l’affidamento
diretto a società per azioni, del tutto autonome, salvo l’esercizio dei poteri
propri del possessore della maggioranza delle azioni, secondo le norme del
diritto commerciale comune, sembra esporre la gestione delle pubbliche risorse a
procedure diverse da quelle destinate a garantire” non soltanto “una
crescita del mercato interno… e il vantaggio per l’utenza”, bensì anche – e
ai fini che qui interessano soprattutto – “l’economia nelle spese”.
Come la giurisprudenza ha già dimostrato (si veda la più volte menzionata Cons.
Stato, sez. V, sent. n. 4711 del 2002), all’interno dello schema organizzativo
dell’”in house providing” è proprio la nozione di “organismo di
diritto pubblico” ad assumere, di regola, nuovamente un ruolo da
protagonista. ruolo, questo, che si specifica essenzialmente, in concreto, nell’eteroindirizzamento
delle attività societarie a fini di interesse pubblico generale anche al di là e
prescindendo dal mero intento lucrativo, da parte del socio pubblico,
totalitario o di maggioranza.
Troppe, e troppo importanti, sono in simili casi le deroghe – in primo luogo, in
punto di fatto – rispetto al regime societario comune, le alterazioni dei
normali meccanismi di funzionamento degli organismi societari con il conseguente
effetto di compressione dell’autonomia funzionale degli organi societari con
potestà deliberante, ivi inclusi gli amministratori, che pur quando non
risultino di pregnanza tale da deporre nel senso della vera e propria natura
pubblica delle società in questione, certamente escludono la configurabilità di
un’attività di impresa gestita secondo criteri propri di un soggetto privato.
Come esattamente ha osservato nella decisione da ultimo menzionata il Consiglio
di Stato, non si tratta di mettere in discussione l’imprenditorialità della
gestione, ma di prendere atto di una funzionalizzazione al soddisfacimento di
bisogni generali della collettività che trova espressione nell’influenza
esplicabile sulla base dello stretto legame fra la società e il potere pubblico
e della reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno sull’attività
dell’ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che
attraverso lo stesso si intende perseguire.
Da tale punto di vista, per quanto qui soprattutto interessa, non si può non
concordare con chi osserva che “va… certamente esclusa la giurisdizione di
responsabilità tutte le volte in cui l’oggetto dell’accertamento richiesto al
giudice contabile sia l’esistenza di un danno derivante da una perdita
d’esercizio quale rischio-conseguenza insito in qualunque attività
imprenditoriale.
Laddove, viceversa, sia individuabile una cattiva gestione da parte degli
amministratori (in quanto esercitata in violazione di regole di buona
amministrazione, con un uso distorto dei poteri e delle attribuzioni
affidategli), psicologicamente colorata di dolo o colpa grave, doveroso appare
l’intervento dell’organo pubblico titolare del potere d’azione per il
risarcimento dei danni erariali e la conseguente giurisdizione del giudice
contabile a conoscere e giudicare del fatto”.
Poiché, d’altro canto, la stessa dottrina condivisibilmente afferma che “le
scelte, operate dagli amministratori del’ente nell’ambito del corretto esercizio
dell’attività d’impresa, per la migliore allocazione dei fattori della
produzione dal fine del perseguimento dell’interesse generale di cui sono
portatori, rientrano, analogamente alle scelte effettuate da qualunque altro
soggetto pubblico, nella sfera della discrezionalità insindacabile”, rimane
aperto il problema dell’identificazione del sistema di regole di riferimento ala
luce del quale sindacare, pendenti delle società a partecipazione pubblica. più
esattamente, è necessario determinare il quadro degli standards
comportamentali con cui riempire di contenuti puntuali le categorie concettuali
riassunte in modo efficace nella formula della “cattiva gestione da parte
degli amministratori (in quanto esercitata in violazione di regole di buona
amministrazione, con un uso distorto dei poteri e delle attribuzioni affidategli”
o simili, e da utilizzare quindi come cartina di tornasole nella difficile opera
di comparazione cui è chiamato il giudice contabile in sede di responsabilità.
A parere di chi scrive, questo quadro non può che essere ricavato, combinando
insieme le strutture di giudizio tipiche del contenzioso giuscontabile di
responsabilità, quali mutuate dalle norme in origine dettate per il personale
pubblico tradizionale, con il nuovo catalogo comportamentale disegnato in modo
indistinto per amministratori e dipendenti (v. art. 2396 cod. civ.) delle
società di capitali dal diritto societario novellato (artt. 2380 bis ss. cod.
civ.). tenere separati questi elementi, infatti, significherebbe esprimere
all’indirizzo di fattispecie complesse giudizi viceversa affetti da eccesso di
semplificazione.
Così la condotta in concreto tenuta da amministratori e dipendenti delle società
di cui si discorre, in quanto riconducibili allo schema legale delle
“amministrazioni diverse” di cui all’art. 1, ult. co., l. n. 20/1994, andrà
vagliata alla luce di regole di buona amministrazione da ricercarsi negli artt.
2392 ss. cod. civ., ma con la mediazione delle regole tipiche di responsabilità
pubblica rinvenibili, anzitutto (ancorché non esclusivamente), nell’art. 1, co.
1 e 1 ter, della predetta legge.
In tal modo, tenendo fermo il limite, afferente all’elemento psicologico, del
dolo o almeno della colpa grave, e quello dell’insindacabilità nel merito delle
scelte di gestione compiute da amministratori e dipendenti, perfino il problema
– certo non irrilevante con riferimento a società di gestione di servizi
pubblici – posto dall0’art. 3, co. 2 ter, del d.l. n. 543 del 1996, convertito
nella l. n. 639 del 1996 (“l’azione di responsabilità per danno erariale non
si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura
minima del costo dei servizi”), potrebbe allora perdere buona parte della
sua potenziale criticità.
3.1. I riflessi pubblicistici sugli
amministratori e dipendenti delle società partecipate dagli enti locali.
Nell’interrogarsi sulla giurisdizione del giudice contabile sulle società a partecipazione pubblica, in particolare in ambito locale, sarebbe del tutto inappropriato trascurare gli spunti ricavabili da taluni interessanti frammenti di diritto positivo.
Nel minimo, e in estrema sintesi , sembra necessario prestare attenzione in particolare:
- all’art. 60, co. 1,. n. 10, del TUEL, in base al quale scontano la misura restrittiva delle libertà politiche fondamentali consistente nell’ineleggibilità, tra gli altri, “i legali rappresentanti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del comune o della provincia”;
- all’art. 50, co. 8, del TUEL, secondo il quale “sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni”;
- all’art. 42, co. 2 del TUEL, che rimette all’organo a composizione interamente elettiva, tra l’altro, di deliberare su “assunzione diretta dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell’ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione” e “indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza”.
Interessante appare anzitutto l’art. 60, co. 1. n. 10, del TUEL, che dispone una misura tanto restrittiva delle libertà politiche fondamentali quale solo l’ineleggibilità può essere, nei sistemi democratici. La misura restrittiva non colpisce tuttavia indiscriminatamente, limitando i propri effetti, per quanto qui interessa, ai soli “legali rappresenti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del comune o della provincia”.
E’ dunque proprio il carattere maggioritario della partecipazione dell’ente
locale a fare la differenza. La disposizione, che deve comunque ritenersi
applicabile non solo ai casi di controllo isolato ma anche a quelli in cui il
carattere maggioritario della partecipazione consegua alla sommatoria delle
partecipazioni intestate a più enti locali, appare per più versi significativa.
Se infatti essa da un lato discrimina talune persone fisiche nel pieno godimento
delle libertà politiche a seconda dell’entità della partecipazione detenuta
nella società mista dall’ente locale, finendo indirettamente con l’attribuirgli
una connotazione spiccatamente pubblicistica in caso di partecipazione (anche
soltanto) maggioritaria, dall’altro lato, però, accomuna in un’identica sorte
tutti indistintamente gli amministratori provvisti della rappresentanza legale,
ivi inclusa cioè quella parte di essi eventualmente espressa dai soci privati.
La disposizione non appare dunque di particolare pregio tecnico, pur serbando
intatta la capacità di veicolazione di un significato sostanziale ben preciso e
di essenziale rilevanza per il diritto pubblico: non può corrersi il rischio che
la posizione di gestore di risorse per la maggior parte di provenienza pubblica
venga strumentalizzata al fine di realizzarne una proficua capitalizzazione in
un successivo appuntamento elettorale riguardante proprio l’ente locale socio di
maggioranza.
Riguardo invece all’art. 50, co. 8, del TUEL, giova sottolineare che il
Consiglio di Stato ha di recente affermato come l’opzione ermeneutica secondo
cui il potere di nomina, designazione e revoca sussisterebbe solo nelle ipotesi
di rapporto di strumentalità o subordinazione esistente tra il Comune e l’ente
nei cui confronti la nomina (designazione o revoca) ha effetto non trova alcun
testuale appiglio nel dato normativo e finisce per escludere dal suo ambito
applicativo la vasta categoria degli enti sovvenzionati ovvero sottoposti a
vigilanza da parte dell’ente locale. nel caso in esame, il legame che avvinceva
il Comune e l’ente non era mediato dalla sola previsione statutaria bensì
corroborato anche da una convenzione con la quale il Comune aveva assunto
l’onere di finanziare i costi dell’ente medesimo. Alla luce di tali dati il
giudice amministrativo di appello ha ritenuto che non è revocabile in dubbio che
il Sindaco (sulla base dei criteri fissati dall’organo consiliare) fosse
titolare del potere di revoca attesa l’influenza sulla politica amministrativa
dell’Ente Pubblico di una attività finanziata dal medesimo (e della correlativa
esigenza che l’organo di vertice dell’ente sovvenzionato, dipendete, strumentale
o sottoposto a vigilanza non esprima indirizzi in contrasto con le linee di
matrice comunale).
Per quanto infine concerne la norma contenuta nell’art. 42, co. 2, del TUEL, la
rimessione all’organo a composizione interamente elettiva della competenza a
deliberare tra l’altro su “… partecipazione dell’ente locale a società di
capitali …” e “indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli
enti dipendenti …”, pare ispirarsi ad un’accezione assai ampia della
relazione che può venire a configurarsi fra l’ente locale socio e la società
partecipata. Tanto sotto il profilo dell’entità della partecipazione – che nel
caso di specie non sembra assumere valore determinante – quanto dal punto di
vista del variabile atteggiarsi del legame tra i due soggetti, che specie alla
luce della summenzionata pronuncia del Consiglio di Stato ben potrebbe essere
ricostruito nei termini della ‘dipendenza’ (assunta quale categoria in cui
confluiscono quelle “ipotesi di rapporto di strumentalità o subordinazione
esistente tra il Comune e l’ente nei cui confronti la nomina (designazione o
revoca) ha effetto” ragionevolmente da reputarsi alternativa, stando al
tenore steso dell’art. 42, co. 2, rispetto alla “vasta categoria degli enti
sovvenzionati ovvero sottoposti a vigilanza da parte dell’ente locale”).
3.2. Le società di capitali nelle quali soggetti pubblici detengono il “controllo”. Il problema del controllo congiunto.
Sino ad un recente passato , persino per la giurisprudenza della Corte
costituzionale la detenzione del “controllo” di una società di capitali passava
in ogni caso, indipendentemente dalla natura del soggetto controllante, per il
possesso di una partecipazione maggioritaria era da intendersi, evidentemente,
una partecipazione pari o superiore al 50,1% del capitale sociale.
Emblematica, al riguardo, la nota decisione con la quale, agli inizi degli anni
Novanta del secolo scorso, la Corte ebbe a ribadire la persistenza delle
attribuzioni di vigilanza intestate alla magistratura contabile della l.
259/1958 sulle società a partecipazione statale.
Nell’escludere che la l. 359/1992 potesse avere determinato, attraverso la
regola generale sancita nel relativo art. 20, l’abrogazione tacita della l. 259
del 1958, sia pure con riferimento ai soli enti di trasformati di cui all’art.
15, a questa lettura opponendosi sia i contenuti che la natura della l. n. 259,
attraverso cui è stato attuato l’istituto del controllo specificamente previsto
in sede costituzionale dall’art. 100, co. 2 (sì da escludere di per sé
l’eventualità di una abrogazione tacita realizzata attraverso la formulazione di
una normazione quale quella adottata in tema di “privatizzazioni”, che appare
estranea alla materia del controllo affidato ala Corte dei conti), il giudice
delle leggi aggiunse che anche la veste formale assunta dalle società che sono
venute a sostituire gli enti pubblici economici sottoposti a trasformazione non
può dirsi caratterizzata da una naturale incompatibilità con i caratteri propri
del controllo affidato alla Corte dei Conti dalla costituzione e regolato dalla
l. n. 259.
“In proposito, si può richiamare la natura di “diritto speciale” che va
riconosciuta a dette società e che viene a emergere dal complesso della
disciplina adottata al fine di regolare il processo di “privatizzazione”: natura
che risulta connotata – come è stato ampiamente illustrato negli scritti
difensivi della ricorrente – sia dalla costituzione che dalla struttura e dalla
gestione delle nuove società e che viene a specificarsi attraverso la previsione
di norme particolari – differenziate da quelle proprie del regime tipico delle
società per azioni- sia in tema di determinazione del capitale sociale (v. artt.
15 e 16 d.l. 333/1992, convertito nella l. 359/1992 e d.l. 21 giugno 1993, n.
198, convertito nella l. 9 agosto 1993, n. 292), sia in tema di esercizio dei
diritti dell’azionista (spettanti al Ministro del tesoro, ma previa intesa con
altri Ministri: v. art. 15, co. 3, d.l. 333/1992), sia infine, in tema di patti
sociali, poteri speciali, clausole di gradimento, modifiche statutarie, quorum
deliberativi nelle assemblee, limiti al possesso di quote azionarie da parte dei
terzi acquirenti (v. delibera CIPE 30 dicembre 1992 e d.l. 389/1993, reiterato
con il d.l. 486/1993). Non senza, infine, considerare il vincolo esterno
connesso al fatto che i ricavi derivanti dalla cessione dei cespiti da dimettere
vanno destinati alla riduzione del debito pubblico (v. art. 16, co. 2, d.l. n.
333/1992).
Da questo complesso di norme emerge non solo il quadro delle finalità, dei
vincoli e delle condizioni di natura pubblicistica entro cui il processo di
“privatizzazione” si sta oggi sviluppando, ma anche la natura differenziata e
speciale delle società sorte dalla trasformazione dei precedenti enti pubblici
economici.
Rispetto a questo quadro ed a questa natura non può, dunque, considerarsi
dissonante il fatto che possa permanere, sia pure in via transitoria – e cioè
fino a quando le “dismissioni” non risulteranno effettivamente attuate – il
controllo sulla gestione finanziaria di cui alla l. n. 259: controllo destinato
a restare esterno alle società e a garantire l’informazione del Parlamento anche
durante la delicata fase di passaggio che si è aperta, nel sistema delle
partecipazioni statali, con l’avvio del processo di “privatizzazone”.
Ciò condusse alfine la Corte ad affermare la spettanza alla Corte dei conti nei
confronti delle società per azioni derivante dalla trasformazione dell’IR.I.,
dell’E.N.I., dell’I.N.A. e dell’E.N.E.L. del potere di controllo di cui all’art.
12 l. 259/1958: potere da esercitare nelle forme e nei limiti in precedenza
applicati e fino a quando permanga, rispetto al capitale delle stesse società,
la partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato”.
Siffatta conclusione, comunque destinata a spiegare effetto ai fini del
controllo di cui alla l. n. 259, non potrebbe ad ogni modo legittimare l’idea
che la fenomenologia della detenzione del “controllo” di una società di capitali
da parte di soggetti pubblici sia riscontrabile solamente laddove uno di essi
detenga a titolo individuale una partecipazione pari o superiore al 50,1% del
capitale sociale.
E’ nuovamente la Corte costituzionale, infatti, in una delle recenti decisioni
concernenti le fondazioni di origine bancaria, ad alzare il velo anche agli
effetti del diritto pubblico su un tema ben noto agli studiosi del diritto
commerciale in genere, e del diritto societario in specie.
Nel caso in questione, tra le censure di incostituzionalità sollevate da alcune
regioni, in riferimento in particolare all’art. 3 Cost., vi era anche quella
concernente lì’art. 11, co. 10, l. 448/2001, nella parte in cui disciplina il
fenomeno del controllo, da parte di una fondazione, di una società bancaria o di
un gruppo bancario, disponendo di una fondazione, di una società bancaria o di
un gruppo bancario, disponendo che “una società bancaria o capogruppo
bancario si considera controllata da una fondazione anche quando il controllo è
riconducibile, direttamente o indirettamente, a più fondazioni, in qualunque
modo o comunque sia esso determinato”.
la censura veniva mossa perché, ad avviso del rimettente, la norma de qua
avrebbe in tal modo sancito una irragionevole presunzione di controllo nel caso
in cui la somma delle partecipazioni bancarie di più fondazioni sia pari alla
quota di controllo, a prescindere dall’effettiva esistenza di accordi o di patti
di sindacato tra le stesse fondazioni.
La Corte, nel dichiarare infondata la questione, riscontrando l’assenza
dell’asserita irragionevolezza della norma e, quindi, la violazione, sotto tale
aspetto, dell’art. 3 Cost., ha osservato che va, in proposito esclusa “la
configurazione di una presunzione assoluta di controllo, ai fini di cui all’art.
6 del d. lgs. 153/1999, anche all’ipotesi in cui esso sia esercitato,
congiuntamente, da una pluralità di fondazioni che siano comunque tra loro
legate da appositi accordi finalizzati al controllo bancario e che devono
essere, in quanto tali, oggetto di specifica prova.
S’intende, allora, come presupposto della norma sia l’esistenza di un effettivo
controllo congiunto da parte di più fondazioni. Senza, ripetersi, che possa
dedursi dal semplice possesso di partecipazioni nella stessa azienda bancaria da
parte di più fondazioni la ricorrenza in capo a queste ultime di un controllo
congiunto, occorrendo fare, invece, riferimento alla nozione di controllo,
accolta dall’ordinamento vigente.
Sicchè, può dirsi che la portata della norma sia solo quella di ricomprendere
nella nozione di controllo l’esistenza di accordi di sindacato tra più
fondazioni”.
Patti o accordi di sindacato e controllo congiunto: proprio questo è, in
particolare ai fini che qui interessano, il passaggio argomentativi-chiave della
decisione della Corte.
A partire da detta sentenza, infatti, non è più seriamente revocabile in dubbio,
se pure mai lo sia stato, che nella nozione di “controllo” societario vada
compreso anche lo schema del controllo congiunto, realizzato cioè
cumulativamente da più soggetti – dalla natura omogenea (più fondazioni di
origine bancaria, più soggetti pubblici, ecc.) – di regola per il tramite di
parti o accordi di sindacato, per cui la (ormai) ampia definizione legale si
rinvia agli artt. 2341 bis e ter cod. civ., oltre che, in caso di quotazione dei
titoli rappresentativi del capitale sociale nei mercati regolamentati, agli artt.
121 ss. TUF.
E poiché nel più sta il meno, appare evidente che la decisione della Corte, su
un piano strettamente di diritto societario, supera, o forse sarebbe più esatto
dire eclissa del tutto quella del 1993, dando atto dell’acquisizione allo
strumentario di suprema regolazione ordinamentale di quella nozione di “controllo
di fatto” (realizzato cioè per il tramite di una partecipazione inferiore al
50,1% del capitale sociale), per lungo tempo uno dei rebus più intricati del
moderno diritto societario, sottintesa inevitabilmente alla nozione, assai più
complessa e ricca di sottili implicazioni, di “controllo congiunto”.
Nello stesso senso si pone, del resto, anche il coevo arresto della sez. V del
Consiglio di Stato, (sentenza n. 3864 del 30 giungo 2003), che ha respinto la
censura inerente lo “… strumento apprestato dall’art. 22, co. 3, lett. e) l.
n. 142/1990, per l’affermata insussistenza del requisito relativo al carattere
maggioritario della partecipazione dei singoli Comuni resistenti, e, dunque,
della portata lesiva del solo atto successivo di attribuzione della gestione del
servizio”, affermando che “… risulta agevole osservare che la peculiare
formula gestoria consentita dalla disposizione citata autorizza chiaramente, per
l’univoca formulazione letterale della previsione relativa alla partecipazione
di più soggetti pubblici, l’organizzazione in comune del servizio da parte di
diversi enti locali (ovviamente con il concorso di uno o più soci privati di
minoranza), sicchè la prevalenza del capitale pubblico va considerata con
riferimento all’insieme dei comuni titolari di partecipazioni nel capitale
sociale e non a ciascuno di essi (Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2002, n.
2298), anche perché, diversamente opinando, la titolarità in capo ad uno solo di
una quota superiore al 50% escluderebbe automaticamente, in palese contrasto con
la lettere e la ratio della norma, la stessa possibilità della partecipazione di
altri soggetti pubblici alla società”.
Si chiude dunque, con le intuibili ricadute anche in punto di ambito di
esplicazione delle attribuzioni della Corte in materia di controllo, uno
scenario nuovo, con il quale occorre in ogni caso misurarsi.
Ma è appropriato riconoscere al giudice contabile la competenza sulle
responsabilità di amministratori e dipendenti delle società, che attualmente
viene realizzata da esponenti aziendali (amministratori, direttori generali,
ecc.) nominati interamente o per la maggior parte, in coerenza con le regole
della democrazia societaria, dai soci di controllo.
E’ allora chiaro che, nelle società di capitali assoggettate al controllo di
fatto, eventualmente nella forma del controllo congiunto, da parte di soggetti
pubblici, responsabilità derivanti dalla gestione possono configurarsi in più
direzioni. Anche in tal caso, la prima e più ovvia forma è la responsabilità dei
titolari di competenze gestorie verso il socio pubblico e i soci pubblici, nel
caso di controllo congiunto. Oltre a questo, vi può però essere anche una
responsabilità – di tipo indiretto – verso i soci privati derivante dalla
cattiva gestione delle complessive risorse societarie ad opera degli esponenti
aziendali nominati, interamente o per la maggior parte, dal socio o dai soci
pubblici di controllo.
3.3. L’ente pubblico s.p.a.
Sin qui ci si è occupati dei casi nei quali, allo stato delle cose, il discrimen
fra società ricadenti nella sfera pubblica, in particolare agli effetti che qui
interessano, e società ricadenti invece al di fuori di siffatta sfera è fondato
su criteri che possono condurre a risposte variabili da caso a caso.
Vi sono anche, tuttavia, ipotesi nelle quali questa potenziale variabilità di
esito non si dà. Non si dà, in particolare, perché sicuro è da considerare
l’ancoraggio al settore pubblico del soggetto entificato in forma di società di
capitali.
A dare sicurezza, in proposito, è la recente, importantissima sentenza n.
363/2003 della Corte costituzionale, la quale ha statuito che la materia di
società per azioni di ‘Italia Lavoro’ (interamente partecipata dal Ministro del
Welfare, che esercita nei modi di legge i poteri del socio), non può valere dal
sola ad escludere detto soggetto dall’ambito di applicazione dell’art. 117, co.
2, lett. g) della Costituzione, che demanda alla competenza legislativa
esclusiva affidata allo Stato la materia “ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”. In tal senso,
puntualizza il giudice delle leggi, “milita la considerazione della totale
partecipazione azionaria del Ministro del tesoro, dei poteri di indirizzo
spettanti agli organi del Governo, ed in particolare al Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, nonché della predeterminazione eteronoma dei compiti e
delle funzioni pubbliche che la stessa società è chiamata a perseguire. In altri
termini, una società di questo tipo, costituita in base alla legge, affidataria
di compiti legislativamente previste e per essa obbligatorie, operante
direttamente nell’ambito delle politiche di un Ministero come strumento
organizzativo per il perseguimento di specifiche finalità, presenta tutti i
caratteri propri dell’ente strumentale, salvo quello di rivestire - per espressa
disposizione legislativa – la forma della società per azioni; e ciò, come detto,
non può di per sé assumere rilievo per negare la sussistenza della potestà
legislativa attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, co. 2, lett.
g), della Costituzione”.
Sarebbe però probabilmente erroneo pensare che quello appena descritto
rappresenti l’unico caso nel quale si imponga una simile conclusione.
In una prospettiva evolutiva della quale si danno già ampie premesse
giurisprudenziali,infatti, essa apre suscettibile di estensione ad un’ampia
gamma di fattispecie regolate da leggi speciali.
Questa impressione trae conforto, da ultimo, da un recente arresto del Consiglio
di Stato (Sez. V, n. 4771/2004). Nel caso di specie, il contenzioso prendeva
spunto dalla contestazione del ricorrente sul modo in cui a suo dire i primi
giudici avevano fatto applicazione della sentenza 19 settembre 999 della Corte
di Giustizia della Comunità Europea, cui il TAR Campania aveva richiesto una
pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 243 (già 177) del Trattato
istitutivo, circa la compatibilità dell’art.4, co. 6, della l. 29 marzo 1995, n.
95 (di conversione del d.l. 31 gennaio 1995, n. 26), che autorizza gli enti
locali a costituire società per azioni con la GEPI per lo svolgimento di servizi
pubblici, con i principi del diritto comunitario, con particolare riferimento al
diritto di stabilimento e di libera circolazione, di libera prestazione dei
servizi e della libera concorrenza.
Nella sua decisione, la Corte di giustizia, con riferimento al caso ad essa
sottoposto, escluse che potesse ravvisarsi il prospettato contrasto, sia perché
non erano stati forniti elementi sufficienti per valutare il contrasto con la
tutela della concorrenza, ma secondo il ricorrente egualmente i primi giudici
avrebbero dovuto valutare, nell’ambito delle loro attribuzioni, la potenziale
incompatibilità della ricordata norma del diritto nazionale con i principi
comunitari invocati, tenendo presente la giurisprudenza amministrativa, secondo
a quale la scelta del socio privato da parte dell’ente pubblico titolare della
maggioranza delle azioni deve avvenire mediante gara ad evidenza pubblica (Cons.
di Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192).
A fronte di simili argomenti, in sede di appello il Consiglio di Stato ha però
osservato che la costituzione di una società per azioni con la GEPI s.p.a. a
norma dell’art. 4, co. 6, del d.l. 26/1995, non può essere qualificata come
ipotesi di scelta del socio privato da parte dell’ente locale che sia socio di
maggioranza in una società per azioni a norma dell’art. 122 l. 142/1990,
rammentando che la giurisprudenza amministrativa aveva già avuto occasione di
pronunciarsi su analoga fattispecie, pervenendo alla conclusione della piena
legittimità dell’iniziativa, anche alla stregua del diritto comunitario (C.G.A.
23 luglio 2001, n. 410), facendo leva sulla speciale disciplina di cui all’art.
4, co. 6 e 8, del d.l. n. 26/1995, convertito in l. 95/1995.
Secondo i giudici amministrativi di appello, da un lato, la diretta
individuazione da parte del legislatore di un partner privato privilegiato (la
GEPI), in vista del conseguimento di specifiche ed infungibili finalità
occupazionali, rende di per sé in configurabile l’esperimento di una gara
pubblica dall’esito per definizione incerto; dall’altro, la previsione
legislativa di una fase necessaria di evidenza pubblica nella successiva (ed
obbligatoria, entro un quinquennio) procedura di alienazione della
partecipazione azionaria GEPI, consentono di superare ogni eventuale dubbio di
compatibilità della disciplina speciale di cui trattasi con la normativa
comunitaria di pubblici appalti, rimanendo comunque salvo il principio del
confronto concorrenziale, seppure differito al momento in cui, esaurite le
contingenti esigenze occupazionali giustificanti la presenza del socio
qualificato, la partecipazione societaria venga concretamente posta sul mercato.
Ma la parte forse più interessante della motivazione del giudice di seconde cure
riguarda la reiezione dell’obiezione facente leva su una presunta estraneità
dello scopo in concreto perseguito dall’ente locale rispetto ala finalità
tipizzata dal più volte richiamato art. 4, co. 6, d.l. 26/1995, quella cioè di
“favorire l’occupazione o la rioccupazione di lavoratori”, nel presupposto che
l’iniziativa in questione non avrebbe raggiunto lo scopo della salvaguardia dei
livelli occupazionali e quindi si sarebbe posta in contrasto con le finalità
tipiche degli interventi GEPI. Inoltre, in quanto società finanziaria, la GEPI
sarebbe stata sprovvista delle qualità necessarie allo svolgimento del pubblico
servizio.
Nel respingere a censura, il Consiglio di Stato osserva infatti che “occorre
tener conto … della profonda trasformazione subita dalla GEPI (anche e
soprattutto sul piano teleologico-funzionale) rispetto al modello originario, a
seguito delle modifiche legislative intervenute nel corso di oltre un ventennio”.
Alle sole finalità congiunturali previste dalla l. 184/1971 si è aggiunto, nella
nuova configurazione impressa alla Società dell’art. 5 l. 237/1993, un ben più
vasto ed incisivo ruolo operativo nell’ambito di procedimenti di
ristrutturazione e riconversione dell’apparato produttivo, in assolvimento di
una generale e qualificata funzione di sostegno ed incremento dell’occupazione.
in tale contesto, il riferimento operato dall’art. 4, co. 6, del d.l. n. 26/1995
al fine “di favorire l’occupazione o la rioccupazione di lavoratori” va
logicamente rapportato al nuovo assetto (anche statutario) riconosciuto alla
GEPI a seguito della novella del 1993, sì da rendere del tutto incongrue le
valutazioni in ordine all’insussistenza dei presupposti per un intervento
straordinario in settori economici in crisi, volto alla (sola) creazione di
nuove occasioni di lavoro da offrire a lavoratori in cerca di prima occupazione
o divenuti già disoccupati.
Il rilievo concernente l’inidoneità della GEPI sul piano tecnico alla gestione
del servizio pubblico, d’altra parte, risulta smentito dalla esplicita
previsione della normativa richiamata.
Occorre poi aggiungere che la costituzione di una società per azioni con la GEPI
si differenzia sostanzialmente della fattispecie della scelta da parte di un
ente locale del socio privatistico di minoranza, dovendo considerarsi che, fin
dalla sua istituzione con la l. 22 marzo 1971, n. 184, la GEPI ha operato con
capitale pubblico. Ne consegue, per il Consiglio di Stato, che nel caso in esame
si è in presenza dell’ipotesi di una società per azioni a capitale interamente
pubblico, istituita per la erogazione di servizi pubblici, oggi presa in
considerazione dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella
l. 24 novembre 2003, n. 326, che ha dettato una nuova formulazione dell’art. 113
del d.lgs. 267/2000.
Il testo attuale del detto art. 113, co. 5, lett, c), consente l’affidamento
dell’erogazione del servizio pubblico “a società a capitale interamente
pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale
sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria
attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
Tale formulazione, riproducendo alla lettera le espressioni usate dalla Corte di
Giustizia della Comunità Europea nella nota sentenza 18 novembre 1999 adottata
in causa 107/1998, Teckal s.r.l. c. Comune di Avano, deve, allo stato, ritenersi
conforme ai principi del diritto comunitario.
Va poi tenuto presente che l’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003 n. 269,
convertito nella l. 24 novembre 2003, n. 32, già citato, ha inserito nell’art.
113 del d. lgs. 267/2000 un co. 15 bis, con il quale si opera un effetto sanante
delle concessioni di servizi pubblici “con procedure diverse dall’evidenza
pubblica” in caso di società a capitale interamente pubblico, ancora una volta
“a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale
esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria
attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
Il punto è di estremo interesse anche perché fra le vicende della GEPI s.p.a. e
quelle di Italia Lavoro s.p.a. vi è un continuum, istituzionale e
operativo. Ricorda infatti la Corte costituzionale nella già citata sentenza n.
363 che quest’ultima società trova origine nella direttiva del Presidente del
Consiglio dei ministri 13 maggio 1997, la quale ha disposto che il Ministro del
tesoro, nell’esercizio dei diritti dell’azionista – assunti a seguito del
processo di privatizzazione e di riordino degli enti pubblici detentori delle
partecipazioni in GEPI s.p.a. – opera affinché quest’ultima “attribuisca ad
apposita società, costituita o costituenda, e della quale detenga l’intero
capitale la stessa GEPI s.p.a.” lo svolgimento dei compiti già affidati alla
GEPI in particolare dall’art. 2 della citata direttiva: “l’orientamento e la
formazione professionale già svolti dalla GEPI s.p.a.; la progettazione e la
gestione di progetti di lavori socialmente utili, finalizzati a stabili
occasioni di impiego e con particolare riferimento alle società miste, alle
cooperative sociali, ai servizi alla persona, all’autoimpiego, alle attività non
profit, al lavoro interinale e ad ogni altra forma di intervento che abbia come
obiettivo la promozione dell’occupazione, con esclusione dell’assunzione di
rapporti di lavoro in proprio”.
In attuazione di questa direttiva del Presidente del Consiglio è stata istituita
Italia Lavoro s.p.a., la quale, ai sensi dell’art. 4 dello statuto, ha come
oggetto “la promozione, la progettazione, la realizzazione e la gestione, sia
direttamente che indirettamente, di ogni attività di intervento finalizzati alla
promozione dell’occupazione sull’intero territorio nazionale, con riguardo
particolare alle aree territoriali depresse ed ai soggetti svantaggiati del
mercato del lavoro, con esclusione dell’assunzione di rapporti di lavoro in
proprio”.
3.4. Le figure societarie ricadenti nell’ambito di esplicazione della giurisdizione del giudice contabile.
Fissato nei termini – ancorché sintetici e approssimativi – di cui ai paragrafi
che precedono , il metro selettivo da utilizzare nei singoli casi, va detto che
la casistica applicativa è pressoché infinita.
In ambito statale, si tratta delle società partecipate, a volte congiuntamente,
dai vari Ministeri (Economia e Finanze in testa), ivi incluse la RAI s.p.a. e
l’ultima nata, ARCUS s.p.a., nonché della società a capitale misto, quale
innanzi tutto la Cassa Depositi e Prestiti; in ambito regionale e locale, si va
invece dalle finanziarie regionali alle società di gestione del trasporto
pubblico, dalle società create per la gestione di case da gioco alle società di
trasformazione urbana, dalle società di cui all’art. 6, co. 1 del d.lgs. n.
259/2003 ai moduli di gestione delle farmacie comunali, per finire con la
miriade di società ad oggetto sociale di ispirazione pubblicistica talora solo
presunta o perfino improbabile.
(*) Omesse le note e i riferimenti bibliografici, queste
pagine riproducono un capitolo del volume “Giurisdizione della Corte dei Conti e
Responsabilità amministrativo-contabile a dieci anni dalle riforme” a cura di
Massimiliano Atelli, pubblicato da Satura editrice, reso disponibile dal cortese
consenso di autore ed editore che vivamente si ringraziano.