AmbienteDiritto.it 

Legislazione  Giurisprudenza

 


 Copyright ©  Ambiente Diritto.it

 

 

LA GIURISDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI SULLE SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA NELL’ETA’ DELLA FUGA VERSO IL DIRITTO PRIVATO (*)

Massimiliano Atelli




Sommario: 3. Le società a partecipazione pubblica – 3.1. I riflessi pubblicistici sugli amministratori e dipendenti delle società partecipate dagli enti locali. – 3.2. Le società di capitali nelle quali soggetti pubblici detengono il “controllo”. Il problema del controllo congiunto. – 3.3. L’ente pubblico s.p.a. – 3.4. Le figure societarie ricadenti nell’ambito di esplicazione della giurisdizione del giudice contabile.

 


3. Le società a partecipazione pubblica.


Quale giudice per la gestione delle risorse pubbliche demandata a soggetti sprovvisti, nella conformazione e/o nell’agere, del tipico vestimentum amministrativo?


E’ in questa semplice ma essenziale domanda che si può condensare buona parte del percorso di ricerca di seguito esposto, che si rifà nell’intitolazione ad una celebre definizione di Mario Nigro. La domanda evidentemente non è nuova, e forse non lo sarà neppure, in parte almeno, la risposta finale. Non poco differenti dal passato, viceversa, appaiono le ragioni che possono dare fondamento, oggi, a quella risposta.


L’interrogativo che principia queste considerazioni cade in un momento di forte mutamento del sistema giuridico, se non di eccezionale tensione ordinamentale. al momento di licenziare le bozze di questo volume non è ancora nota la sorte definitiva del disegno di legge di riforma della legge generale sul procedimento amministrativo (AS 1281), che come noto introduce un principio – derubricando a modalità operativa ordinaria l’uso del diritto privato da parte dei pubblici poteri in genere – non etichettabile semplicemente come foriero di grande cambiamento.


Sul piano generale, tuttavia, la sorte de succitato d.d.l. riveste relativa importanza. Il suo tenore e l’impalcatura teorica che vi è sottesa valgono già a segnare, comunque, un momento di palese saldatura istituzionale tra indirizzi giurisprudenziali e legislativi, sancendo nei fatti il principio che – scomodando con poco riguardo Moravia – potemmo chiamare di “indifferenza” delle forme giuridiche, o , forse più appropriatamente, rifacendoci agli studiosi del diritto civile e commerciale, dovremmo qualificare di “neutralità delle medesime forme”.


In questa direzione un contributo, quale il presente lavoro si propone di essere, alla ricostruzione dello stato dell’arte a proposito del tema – a tratti sfuggente e ingiustamente se non frettolosamente sottovalutato – dell’attuale ambito di esplicazione della giurisdizione della Corte dei conti sui soggetti che gestiscono risorse pubbliche senza però far uso del tipico strumentario di diritto pubblico, non può che prendere le mosse da un unico, inevitabile punto di partenza: il diritto comunitario.


E’ infatti nel diritto comunitario che si esalta quella tendenza che, specie per quanto qui interessa ha profondamente segnato anche l’esperienza giuridica nazionale nell’ultimo decennio del secolo scorso e nel primo lustro si quello nuovo, alla neutralità delle forme giuridiche, e quella – speculare – all’adozione di criteri di valutazione i tipo sostanzialistico.


Un’attenta lettura del diritto comunitario conduce del resto a conclusioni che fanno strame di alcuni luoghi comuni assai ricorrenti nel dibattito interno, anche ai più alti livelli: in un sistema ideato ed edificato intorno all’asse portante della concorrenza fra gli operatori, in primo luogo di Paesi diversi dell’Unione, la figura dell’”impresa pubblica” non è, ad esempio, affatto bandita. Tutt’altro.


L’essenziale, per il diritto comunitario, non è assicurare la sparizione dalla scena di simili soggetti (con le inevitabili implicazioni di ordine finanziario) – la loro presenza e la loro azione possa tradursi in un inammissibile fattore di distorsione della concorrenza.


Ne consegue, in prima approssimazione, una provvisoria conclusione, apparentemente antistorica ma in realtà rilegittimata proprio alla luce del sistema di diritto dall’impronta più moderna: l’impresa pubblica, nelle sue distinte declinazioni, è modo di organizzazione dei pubblici poteri che ha pari diritto di cittadinanza e pari dignità, nell’Unione, rispetto alle realtà santificate non riconducibili a siffatto paradigma legale.


E’ necessario a questo punto specificare che, anche per il diritto comunitario, l’impresa pubblica si declina tanto nella formula impresa-ente quanto nello schema impresa-società di capitali, e ciò trova ulteriore conforto nella nozione, sempre di conio comunitario, di “organismo di diritto pubblico”.


Nel diritto interno, per organismo di diritto pubblico si intendono come noto le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano, gli enti pubblici territoriali e le loro unioni, gli enti pubblici non economici, ogni altro organismo dotato di personalità giuridica, istituito per soddisfare specifiche finalità d’interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale, la cui attività è finalizzata in modo maggioritario dallo Stato, dalle regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico, o la cui gestione è sottoposta al loro controllo o i cui organi d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la metà, da componenti designati dai medesimi soggetti pubblici.


Questa nozione è stata in più occasioni esaminata funditus dalla Corte di Giustizia CE e dal Consiglio di Stato.


La prima, in particolare, ha sottolineato come i bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale e commerciale siano, in genere, bisogni che, da un alto, sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e che, dall’altro, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce soddisfare direttamente ovvero nei confronti dei quali intende mantenere un’influenza determinante (v., in tal senso Corte Giust. CE, 10 novembre 1998, C – 360/1995, Arnhem – BFI Holding), affermando che, se è pur vero che la nozione di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale non esclude bisogni che siano parimenti soddisfatti o possano esserlo da imprese private, l’esistenza di una concorrenza articolate, e in particolare la circostanza che l’organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato, può costituire un indizio a sostegno del fatto che non si tratta di un bisogno, di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale.


Sulla base di tali premesse, la Corte ha escluso che sul piano funzionale un ente possa essere qualificato come organismo di diritto pubblico, laddove l’attività svolta:

 

- abbia natura economica e consista nell’offrire servizi sul mercato dietro versamento di un corrispettivo;
- tenda a soddisfare bisogni di natura commerciale
- miri al soddisfacimento di bisogni cui lo Stato preferisce in generale provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza determinante:
- abbia luogo in un contesto concorrenziale.

 

Sul punto, il Consiglio di Stato ha dal canto suo affermato che per bisogno non industriale o commerciale deve intendersi non già la non imprenditorialità della gestione, bensì la funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generale della collettività, e detto requisito deve reputarsi ricorrente nel caso di società costituita al principale fine di gestire (anche attraversale controllate) attività miranti a ottenere detto soddisfacimento, in settori tuttora solo in parte “liberalizzati”, secondo criteri non propri di un soggetto privato, ma influenzati dallo stretto legame della società al potere pubblico e dalla reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno – sull’attività dell’ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire.


va notato che la qualificazione come organismo di diritto pubblico non viene meno, peraltro, per il solo fatto che il soggetto in questione svolga anche altre attività, oltre a quelle sopraindicate. La Corte di Giustizia ha infatti chiarito che il requisito del fine del soddisfacimento di bisogni di interesse generale, non aventi carattere industriale o commerciale , non implica che il soggetto sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere, ed anzi consente l’esercizio di altre attività (cfr. Corte giust., 15 gennaio 1998, C – 44/1996, Mannesmann, punti 26 e 31-35).


Organismo di diritto pubblico deve peraltro essere considerato, come affermato dalla stessa Corte di Giustizia in materia di applicabilità della direttiva sugli appalti pubblici di forniture (Dir. Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE), anche la persona giuridicamente distinta dal soggetto pubblico laddove quest’ultimo “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano” (Corte giust. CE, 18 novembre 1999, C – 107/19998, Teckal). In altri termini, la costituzione di un soggetto con autonoma personalità giuridica non è di per sé sufficiente ad escludere l’appartenenza di quel soggetto all’apparato che lo controlla, ma anzi – laddove la sua attività si svolga essenzialmente per la controllante – viene a crearsi sostanziale identità tra organismo strumentale e soggetto pubblico “ausiliato” dallo stesso.


In quest’ultimo caso, la normativa europea in tema di appalti pubblici non può trovare tuttavia applicazione, perché laddove vi è delegazione interorganica o servizio affidato, in via eccezionale “in house”, manca un vero e proprio rapporto contrattuale tra due soggetti. I particolare, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa nel caso di ente locale che eserciti su un a distinta persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano, laddove per controllo analogo si intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica (situazione, questa, che si verifica in particolare quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario, il che consente l’affidamento diretto della gestione del servizio senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate).


Né si ritiene che in senso contrario possa rilevare il fatto che l’organismo strumentale potrebbe in astratto operare offrendo i propri servizi su un mercato aperto alla concorrenza, perché, sino a che detto oggetto si limiti a fornire servizi e beni principalmente alla controllante avente natura pubblica – il solo carattere concorrenziale del segmento di mercato interessato non è sufficiente ad escludere la possibilità che la società controllata si lasci guidare, in concreto, da considerazioni non economiche. In particolare, come rilevato dalla corte di giustizia, la società controllata potrebbe essere indotta a subire perdite economiche al fine di perseguire una determinata politica di acquisti dal soggetto controllante, da cui dipende strettamente (v. Corte giust. Ce, Arnhem vs. BFI Holding, punto 43).
Pertanto, laddove la controllata svolga la propria attività prevalentemente in favore della controllante, traendo da ciò la maggior parte dei propri proventi, è come se la controllante si fosse limitata ad operare lo scorporo di una propria branca interna attraverso la costituzione di un soggetto che, seppure formalmente distinto, è in realtà guidato chiaramente dagli stessi criteri che guidano il soggetto controllante. criteri che, in particolare nel caso delle società risultanti dalla trasformazione ex lege di enti pubblici, sono influenzati dal legame con il potere e le finalità pubbliche.
In simili ipotesi, anche la controllata va dunque considerata un organismo di diritto pubblico, svolgente attività strettamente funzionalizzata ai bisogni della controllante, di cui nella sostanza costituisce una divisione operativa, solo formalmente costituita in soggetto autonomo, il quale in effetti “partecipa” alle stesse finalità della controllante anche sotto il profilo dello scopo, teso appunto al soddisfacimento di bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale.


Risulta in tal modo chiaro che il quadro con il quale occorre misurarsi, ai fini che qui interessano, è assai articolato, e certamente il problema che se ne occupa non è riducibile al solo caso degli enti pubblici economici, figura del resto assolutamente residuale nell’odierno asseto organizzativo della p.a.


Che nell’ordinamento interno al ricostruibilità di una data figura soggettiva quale organismo di diritto pubblico non sia senza significato per il giudice contabile lo prova, meglio forse di ogni altra circostanza, un recente arresto giurisprudenziale del Consiglio di Stato in cui è esitato un contenzioso nel quale si deduceva, fra l’altro, l’inammissibilità per carenza di interesse dell’appello proposto da una concessionaria autostradale avverso la decisione di primo grado favorevole ad una ditta non aggiudicataria, sul rilievo che la qualificazione di organismo di diritto pubblico e comunque la statuizione relativa all’assoggettamento di una s.p.a. “alle regole di derivazione comunitaria per l’affidamento degli appalti di servizi, non le recherebbe alcun nocumento, consentendole, anzi, di conseguire, grazie al regime concorrenziale di aggiudicazione, pressi più vantaggiosi e”, si faceva notare in particolare dai difensori della concessionaria, “l’esenzione dalla responsabilità erariale (come da decisione della Corte dei conti, sez. giur. Lombardia 17 febbraio 2000, n. 296)”.


Estremamente interessante appare l’argomento in forza del quale il giudice amministrativo d’appello ha respinto l’eccezione, osservando come sia “evidente, per contro, che ciascun soggetto dotato della generale capacità negoziale e quindi di autonomia privata pleno jure, e tale è senz’altro la condizione di una s.p.a., anche se costituita con capitali di provenienza pubblica, ha interesse a riaffermare la propria libertà dai vincoli di natura pubblicistica che, al di là del fatto che possano o meno comportare in un singolo affare la possibilità di costi inferiori, costituiscono pur sempre un limite all’autonomia complessiva del soggetto e alle sue discrezionali autodeterminazioni organizzative e contrattuali”.


A questa conclusione andrebbe per nostro conto aggiunto che non appare oggi scontato neppure che all’agere di un soggetto pubblico a conformazione non societaria corrisponda esclusivamente lo svolgimento di un’attività che secondo le tecniche civilistiche sarebbe qualificata come no profit (basti pensare, su un piano generale, ala diffusione per abbonamento delle pubblicazioni realizzate da un ente pubblico, oppure alle ASL, che dispongono del c.d. reparto solventi per ricoveri a pagamento, su esplicita richiesta dell’interessato in cura da un medico che abbia optato per l’attività privata in ospedale, tenuto oltre tutto conto del fatto che, secondo lo schema tipico, in parte qua le aziende sanitarie svolgono attività – ad es. di locazione di locali ed erogazione di servizi tesi a rendere più confortevole la degenza – che ben potrebbero costituire l’oggetto sociale di una società di capitali appositamente costituita fra privati).


Non si intende tuttavia far ricorso ad un simile argomento, in questa sede, perché esporrebbe (non del tutto infondatamente, forse) all'obiezione che esso prova troppo.


Il problema, del resto, è fondamentalmente un altro: identificare l'odierno criterio di radicamento della giurisdizione della Corte dei conti, anche in ambito societario, sì da consentire l'individuazione delle forme organizzative ad essa assoggettate e del sistema di regole di riferimento.


Fatti nuovi rendono infatti attuale una domanda che tende a modularsi come segue: agli efetti del riparto di giurisdizione, ha effettivamente ancora un senso la distinzione – per lungo tempo tenuta ferma dalle Sezioni Unite, della Corte di cassazione (nei termini di cui si dà più e meglio conto in altre parti del presente volume) – fra atti espressione di attività di impresa e atti viceversa espressione di poteri autoritativi di autorganizzazione o di funzioni pubbliche tali da giustificare la giurisdizione del giudice contabile?


La risposta non può che essere negativa. Fondate ed idonee ragioni portano oggi a riconsiderare in modo radicale la distinzione fra illeciti compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale ed illeciti commessi nell'esercizio di poteri pubblici o di autorganizzazione dell'ente, quale criterio – a lungo fondante – ai fini del riparto di giurisdizione. Una distinzione, questa, affetta da una intrinseca limitatezza di prospettiva e piuttosto artificiosa già sul piano logico, in quanto poggiante su un assunto essenzialmente di tipo formale. L'idea, in particolare, che convivessero nell'ente pubblico economico due distinti filoni di attività, riportabili meccanicisticamente a due entità in rapporto, nella sostanza, di alterità soggettiva: l'ente pubblico tout court, per un verso, e l'ente pubblico-impresa, per altro verso. La medesimezza degli autori degli atti (amministratori e dipendenti) ascrivibili ai distinti filoni, quale corollario dell'unicità esteriore del plesso a conformazione pubblicistica, offriva una parvenza di tenuta ad una simile impalcatura concettuale.


Solamente muovendo da questa non condivisibile premessa, tuttavia, poteva ipotizzarsi preclusa l'indagine del giudice contabile perché asseritamente impossibilitata a condurre valutazioni sull'adozione o meno di criteri di corretta amministrazione da parte del dipendente, o della persona legata da rapporto di servizio con l'ente pubblico, alla luce dei principi generali che regolano le obbligazioni di diritto civile, con conseguente attrazione delle fattispecie de quibus alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario (Cass. Sez. un., 21 ottobre 1983 n. 6179, in Giur. it. 1984, III, 1, 295, Cass., sez. un. Civ., 2 ottobre 1993, n. 10381, in Giust. Civ. Mass., 1993, 1498; 22 maggio 1991, n. 5792; 2 marzo 1983, n. 1282).


Siffatto indirizzo di pensiero è però ormai consegnato alla storia delle relazioni fra le diverse giurisdizioni operanti nel nostro ordinamento. Si badi, esso non è stato rivisto, come pure era possibile che accadesse, specie alla luce dei suoi limiti (testé indicati), ma è stato invece semplicemente superato, in considerazione dell'evoluzione normativa nel frattempo intervenuta.


E questo passaggio è tanto più rilevante se si considera che esso è maturato proprio con riferimento a quegli enti pubblici economici per i quali la distinzione in questione fu, come si è detto, a suo tempo pretoriamente coniata. Nell'ordinanza n. 19667 del 2003, delle Sezioni Unite, queste ultime – premettendo che “non è seriamente contestabile la natura di ente pubblico economico del Consorzio in questione” - non hanno infatti mancato di osservare “che, per costante giurisprudenza, la giurisdizione della Corte dei conti è limitata alla responsabilità connessa all'esercizio di poteri autoritativi o di funzioni pubbliche ricadendo invece quella relativa all'attività gestionale nella giurisdizione ordinaria: se seguito, tale indirizzo comporterebbe l'affermazione, nella fattispecie in esame, della giurisdizione del giudice ordinario giacché i fatti, oggetto del giudizio di responsabilità, attengono allo svolgimento di un'operazione finanziaria, e dunque all'attività imprenditoriale dell'Ente”.


Sennonché, come è noto, la citata ordinanza conclude poi in senso opposto, affermando la giurisdizione della Corte dei conti proprio in un simile, emblematico caso, individuando il punto di svolta nell'art. 1, ult. co., della l. 20/1994, che ha esteso la giurisdizione del giudice contabile anche alla “responsabilità extracontrattuale, peraltro nei soli confronti di amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza”, realizzando in parte qua l'interpositio legistatoris ritenuta allo scopo necessaria anche dalla Corte costituzionale. Per i giudici di legittimità, infatti, “data l'ampia formulazione della norma, deve ritenersi che essa faccia riferimento anche agli enti pubblici economici, oltre che a quelli non economici ed alle amministrazioni”, deponendo “in tal senso la lettera e la ratio di essa... Se, in ordine alla giurisdizione, che continua ad essere attribuita al giudice ordinario, sulla responsabilità extracontrattuale di amministratori e dipendenti pubblici in danno di soggetti diversi da a amministrazioni od enti pubblici, quel che rileva, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., è che la condotta dell'agente sia contrassegnata da dolo o colpa ed abbia prodotto un danno ingiusto ad essa casualmente collegato (vedasi, da ultimo, Cass. Non. 9260/1997, 1045/1999, 3132/2001, e 3983 e 7630 del 2003), altrettanto è a dirsi per la stessa responsabilità dei medesimi soggetti in danno invece di amministrazioni ed enti diversi da quelli di appartenenza, devoluta invece alla Corte dei conti.


Il
discrimen tra le due giurisdizioni risiede infatti unicamente nella qualità del soggetto passivo, e, pertanto, nella natura -pubblica o privata – delle risorse finanziarie di cui esso si avvale, avendo il legislatore del 1994 inteso più incisivamente tutelare il patrimonio di amministrazioni ed enti pubblici, diversi da quelli cui appartiene il soggetto agente – e così, in definitiva, l'interesse pubblico -, con l'attribuzione della relativa giurisdizione alla Corte dei conti, presso la quale ( a differenza di quanto invece avviene, salvo eccezioni che qui non interessano, per il giudice ordinario), è istituito il procuratore regionale abilitato a promuovere i relativi giudizi nell'interesse generale dell'ordinamento giuridico (Cass., non. 12827/1982 e 9780/1998).
Per i giudizi di responsabilità extracontrattuale, così attribuiti al giudice contabile, sono sicuramente inutilizzabili gli argomenti (artt. 2093 e 2201 cod. cov., art. 409, n. 4, cod. proc. civ., assenza di controlli, inesistenza di norme pubblicistiche) come sopra addotti a sostegno del riparto di giurisdizione all'interno della categoria degli enti pubblici economici, di cui al risalente indirizzo sopra richiamato, non avendo il legislatore ritenuto di attribuire altresì rilevanza alle modalità della condotta del soggetto agente – e, in concreto, se essa violi norme di diritto pubblico o di diritto privato -, se non per i riflessi che esse comportano in tema di elemento soggettivo: indagine, peraltro, questa, che attiene ai limiti interni della giurisdizione e che, dunque, non rileva in questa sede.
Orbene, la norma innovativa di cui all'art. 1 ult. co. l. 20/1994 ha una sua evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale: se, infatti, nella responsabilità extracontrattuale in danno di amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, le modalità della condotta (violatrice di norma tanto di diritto pubblico che di diritto privato) del soggetto agente sono giuridicamente irrilevanti quanto alla giurisdizione, a maggior ragione esse lo sono divenute allorquando il danno sia stato cagionato alla stessa amministrazione di appartenenza, non essendo pensabile che il legislatore abbia voluto tutelare in misura meno incisiva quest'ultima.
Non a caso, del resto, l'art. 1 l. 20/1994 fa riferimento al comportamento degli amministratori e dipendenti pubblici soggetti a giudizio di responsabilità, nonché al “
fatto dannoso” ed al “danno”: è, dunque, l'evento verificatosi in danno di un'amministrazione pubblica il dato essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno stesso.
Deve, pertanto, affermarsi che sono attribuiti alla Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa, per i fatti commessi dopo l'entrata in vigore dell'art. 1 ult. co. l. 20/1994, anche nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici (restando invece per ali enti esclusa la responsabilità contabile, per la quale l'art. 45 r.d. n. 1214/1934 dispone che la presentazione del conto costituisce l'agente dell'amministrazione in giudizio, e, dunque, presuppone l'applicabilità di norme pubblicistiche, generalmente escluse, invece, per detti enti).
Non rileva in senso contrario a tale conclusione la mancata conversione in legge del d.l. 25 febbraio 1995, n. 47 – che all'art. 1, co. 4 prevedeva espressamente la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di tali soggetti -dovendosi ritenere che essa sia derivata proprio dalla consapevolezza della non necessità di introdurre una norma, resta inutile dalla introduzione della giurisdizione contabile anche sulla responsabilità extracontrattuale e dagli effetti da essa prodotti anche in tema di responsabilità contrattuale
”.


Così ripercorso il nucleo essenziale dell'iter argomentativo seguito dalle, Sezioni Unite, l'attenzione va ora incentrata sui punti-chiave dello schema motivazionale che la Cassazione in tal modo ci propone. Per l'effetto, se ne trae che, di fondo, la ragione per cui la giurisdizione è devoluta al giudice contabile ancorché nella specie si trattasse di ente pubblico economico parte di un contratto di investimento in strumenti finanziari va ricercata nell'irrilevanza giuridica -quanto, appunto, alla giurisdizione – delle “modalità della condotta (violatrice di norma tanto di diritto pubblico che di diritto privato) del soggetto agente”, laddove siano pubbliche “le risorse finanziarie di cui esso si avvale”. Il che è coerente con il condiviso assunto che in nessun caso l'adozione di forme privatistiche (per l'organizzazione del soggetto, per la sua attività, per ambedue le cose) potrebbe avere l'effetto di trasformare il denaro “pubblico”, - in ragione del suo provenire dalla finanza pubblica – in denaro non “pubblico”, del cui buon uso sia come tale consentito disinteressarsi.


La decisione, che, si badi, è l'unica -fra le tre succedutesi a breve distanza l'una dall'altra tra la fine del 2003 e l'inizio del 2004 – ad aver riguardo a fatti verificatisi successivamente all'entrata in vigore dell'art. 1, ult. co., della l. 20/1994, risolve a ben vedere il caso applicando quest'ultima norma in modo specifico, nella “sua evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale: se, infatti, nella responsabilità extracontrattuale in danno di amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli de appartenenza, le modalità della condotta (violatrice di norme tanto di diritto pubblico che di diritto privato) del soggetto agente sono giuridicamente irrilevanti quanto alla giurisdizione, a maggior ragione esse lo sono divenute allorquando il danno sia stato cagionato alla stessa amministrazione di appartenenza, non essendo pensabile che il legislatore abbia voluto tutelare in misura meno incisiva quest'ultima”.


Se ne trae allora che, per i fatti verificatisi successivamente all'entrata in vigore dell'art. 1. ult. co., della l. 20/1994, tanto ove il danno sia stato cagionato ad amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, quanto ove esso sia stato causato alla stessa amministrazione di appartenenza, è “l'evento verificatosi in danno di un'amministrazione pubblica il dato essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile, e non, o non più, il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno stesso”. E questo vale persino quando la condotta contestata consista nel compimento di operazioni di investimento finanziario da parte di amministratori o dipendenti di un ente pubblico economico.


Quanto precede è evidentemente foriero di rilevanti implicazioni, sul piano sistematico.


Se, infatti, il dato qualificante diviene la natura pubblica delle risorse finanziarie impiegate per effetto di comportamenti comunque finalizzati alla cura di interessi pubblici, è nuovamente nel diritto comunitario che possono trovarsi utili spunti. È quanto accade, ad esempio, nel caso della direttiva 2000/52, recepita nel nostro Paese mediante il d.lgs. n. 333/2003, con la quale i centri di produzione della normativa sopranazionale hanno dato una indicazione di metodo assai chiara, della quale il giudice contabile interno non può non tener conto.


In base al d.lgs. n. 333, ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici (le amministrazioni dello Stato, le regioni, comprese le regioni a statuto speciale, e le province autonome di Trento e Bolzano, gli enti locali e gli altri enti pubblici) possono esercitare, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina, deve tenere una contabilità separata se svolge, oltre alle attività relative ai prodotti o servizi per i quali le sono stati riconosciuti diritti speciali o esclusivi ovvero relative ai servizi di interesse economico generale della cui gestione l'impresa è stata incaricata, anche “attività distinte” dalle prime (da intendere come “le attività relative a ogni altro prodotto o servizio svolte dall'impresa medesima”).


La logica è assolutamente palese: la società-impresa pubblica è unica, ma in essa convivono masse patrimoniali distinte, ciascuna contraddistinta da un preciso vincolo di destinazione funzionale (il core business aziendale di ispirazione pubblicistica, per un verso, e le “attività distinte”, per altro verso). La rilevanza della distinzione spiega ad ogni modo effetto sul piano della tenuta della contabilità, sicché sarebbe inesatto parlare di patrimonio separato, nel senso civilistico dell'espressione, con riguardo in particolare ai cespiti 'dedicati' all'”attività distinta”.


Tenuto però conto che in base al d.lgs. n. 333 le imprese di cui sopra debbono tenere contabilità separate anche se i pubblici poteri detengano in esse (solamente) la maggioranza del capitale sottoscritto, oppure dispongano della (sola) maggioranza dei voti attribuiti alle quote emesse (cfr. art. 3 del decreto in parola), ne deriva che – agli effetti del diritto comunitario – è lo svolgimento da parte di una società a capitale misto pubblico-privato di “attività distinte” rispetto al core business aziendale di ispirazione pubblicistica ad imporre l'adozione di regole particolari per la tenuta della contabilità, risultando a tal fine di per sé non dirimente la sola provenienza eterogenea (sia pubblica che privata ) delle risorse complessivamente gestite. A nostro avviso, ciò milita eloquentemente ed in via ulteriore, ai fini che qui interessano, nel senso della conferma dell'odierna inutilizzabilità del tradizionale criterio distintivo fra illeciti compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale ed illeciti commessi nell'esercizio di poteri pubblici o di autorganizzazione dell'ente.


A questo punto, è chiaro però che se si tiene ferma siffatta conclusione con riferimento all'ambito degli enti pubblici economici, diviene di riflesso (e a maggior ragione) complicato adoperare il tradizionale criterio di cui si discorre per le società a partecipazione pubblica. Sarebbe infatti seriamente sostenibile, oggi, l'esclusione della giurisdizione della Corte dei conti in materia di azione di responsabilità su tutti indistintamente gli atti produttivi di danno non costituenti – con riferimento non anche agli enti pubblici economici e alle aziende speciali, bensì solamente alle societa partecipate – espressione in senso stretto di poteri autoritativi di autorganizzazione o di funzioni pubbliche?


La risposta non può che essere negativa.
La ragione non può stare, però, solamente nel pur importante riferimento contenuto nella l. 97/2001, concernente come noto la materia del rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e gli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, la quale prevede la comunicazione al competente procuratore regionale della Corte dei conti della “sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti” anche "di enti a prevalente partecipazione pubblica”. La ragione non può essere questa soltanto, perché avrebbe altrimenti carattere puntuale, laddove appare invece opportuno (e corretto) che essa sia di ordine sistematico.


Scriveva Paolo Maddalena, prima delle decisioni delle Sezioni Unite, della fine del 2003 e di inizio 2004, in un bel saggio: “non ha più rilevanza la distinzione tra attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato. Non ha più rilevanza la natura pubblica o privata del soggetto agente. L'attività amministrativa non si qualifica più tale perché posta in essere da una pubblica amministrazione, ma può essere anche da un soggetto privato. Dunque, proprio non si riesce più a capire come possa affermarsi che un ente pubblico economico o una s.p.a. A totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico servizio ed in tale esercizio produca un danno all'erario non debba esser soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti.

Se il problema è quello di far salve le scelte di carattere imprenditoriale, tale salvezza è già assicurata dalla norma della l. n. 639/1996, che sancisce l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. D'altro canto è da tener presente che la stessa Corte di cassazione, nella citata sentenza delle Sezioni Unite, 27 gennaio 2000, n. 71, ha distinto, come si è visto, l'attività consistente nello svolgimento di un servizio pubblico, che è caratterizzata da un elemento funzionale, e cioè dal soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse generale, dall'attività puramente imprenditoriale, caratterizzata unicamente dal perseguimento di fini di lucro. Ora, tale distinzione dovrebbe operarsi, non solo a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma anche a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e Corte dei conti. Non è infatti logicamente ammissibile, dopo tale precisazione, che si consideri attività imprenditoriale pura e semplice anche quella che consiste nell'espletamento di un pubblico servizio, soltanto ove si tratti della giurisdizione della Corte dei conti".


Provando a riassumere, per Maddalena un ente pubblico economico o una s.p.a. a totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico servizio producendo nell'esercizio di questo un danno all'erario non può non essere soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, e, in questo quadro, il problema di far salve le scelte di carattere imprenditoriale risulta ex se risolto dalla norma della l. n. 639/1996, che sancisce l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.


Nell'evidenziare che il paradigma indicato – lo svolgimento di un pubblico servizio – è esattamente il medesimo sul quale si fonda (almeno per il 50% dell’impianto motivazionale) la decisione delle Sezioni Unite, n. 3899, va aggiunto che ci sentiamo di concordare con l’illustre Autore, con le precisazioni che di seguito si espongono.


Anzitutto, Maddalena conferma che la via di una differenziazione di regime fra enti pubblici economici e società di capitali a partecipazione pubblica, e, nell’ambito di queste ultime, fra società a totale o prevalente capitale pubblico, non è più percorribile. Si tratta di un punto essenziale. L’essenzialità, a ben vedere, deriva dal fatto che l’attrazione alla giurisdizione del giudice contabile anche delle condotte di mala gestio realizzate in ambito societario è fondamentalmente alternativa rispetto al sistema di diritto comune regolato dalla recente novella al codice civile.


Il metro di determinazione della giurisdizione evolve dunque, in radice, dall’applicazione secondo una tecnica di tipo selettivo ad una di tipo, viceversa, attrattivo, e quindi esclusivista. Detto altrimenti: sarebbe a nostro avviso improprio pensare che, per il tramite dell’applicazione alle società a partecipazione pubblica della l. 639/2996, nella parte in cui sancisce l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, si possa risolvere il problema di far salve le scelte di carattere imprenditoriale assumendo di queste ultime un’accezione concettuale (atti espressione dell’attività di impresa vs. atti espressione di potestà pubblicistiche) elaborata con riferimento agli enti pubblici economici, anziché come termine di riferimento unico ed esclusivo in ambito societario.


A nostro parere, l’esportazione del modello previsto dalla l. 639/1996 alle società a partecipazione pubblica può infatti aver luogo soltanto in modo coerente. Allo stesso modo in cui essa dispone per la discrezionalità amministrativa spettante in ambito formalmente pubblicistico agli organi di amministrazione attiva, così – calata in ambito societario – detta norma può risolvere il problema di far salve le scelte di carattere imprenditoriale per il tramite dell’insindacabilità nel merito delle decisioni discrezionali solamente assicurando tout court una limitata franchigia da responsabilità, anziché determinando semplicemente la devoluzione ad altro giudice – quello ordinario – della cognizione delle cattive condotte gestorie realizzate nel compimento di atti espressione dell’attività di impresa.
Ciò detto, va evidenziato che a ben vedere neppure la sentenza n. 3899 (relativa, si badi, a fatti accaduti anteriormente all’entrata in vigore della l. 20/1994), esclude in modo netto che lo svolgimento di un pubblico servizio possa considerarsi circostanza (da sola) sufficiente ai fini della devoluzione della giurisdizione sulla società a partecipazione pubblica al giudice contabile, benché nello specifico caso esaminato finisca con l’attribuire carattere assorbente alla ritenuta configurabilità di un rapporto di servizio fra SO.GE.MI. e Comune. Scrivono infatti le Sezioni Unite: “… fermo il carattere pubblico del servizio relativo all’impianto e all’esercizio di mercati annonari all’ingrosso di Milano, anche escludendo che la SO.GE.MI. agisse come longa manus del Comune e quindi in una situazione di compenetrazione organica, non può certamente negarsi tra la suddetta società e l’ente territoriale si fosse stabilito un rapporto di servizio, ravvisabile ogni qual volta si instauri una relazione (non organica ma) funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto esterno nell’iter procedimentale dell’ente pubblico come compartecipe dell’attività a fini pubblici di quest’ultimo. Rapporto di servizio che, per costante giurisprudenza, implica l’assoggettamento ala giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno erariale, non rilevando in contrario la natura privatistica dell’ente affidatario e/o dello strumento contrattuale con il quale di è costituito ed attuato il rapporto in questione (ex plurimis, Cass., ordinanza 22 gennaio 2002, n. 715)”.
Nello stesso senso, di particolare pregio argomentativo e rilevanza sistematica si rivela anche l’affermazione secondo la quale “la istituzione e la gestione dei mercati all’ingrosso costituiscono un servizio pubblico, ai sensi della l. 125/1959, degli artt. 117 e 118 Cost. (e conseguente trasferimento di funzioni amministrative alle regioni a statuto ordinario: d.p.r. n. 7/1972 e n. 616/1977)”, e “le ragioni che giustificano l’intervento pubblico nella materia (come del resto con l’istituzione della SO.GE.MI.) sono quelle di interesse generale: la tutela dei consumatori sotto il profilo igienico – sanitario e della qualità dei prodotti, l’ausilio alla razionalizzazione del sistema distributivo, lo sviluppo di rapporti dirette tra produzione e distribuzione, la promozione dell’associazionismo tra gli operatori economici dei settori interessati, l’abbattimento dei costi, ecc.; interessi tutti rilevanti per la comunità locale interessata”. Siffatta affermazione fa infatti da piattaforma teorica all’importante, ulteriore conclusione secondo cui “la situazione non muta neppure con l’intervenuta liberalizzazione del settore, cosicché le delibere comunali, richiamate dai resistenti che ne vorrebbero dedurre l’esclusione del carattere di servizio pubblico, sembrano più correttamente interpretabili come la rinuncia del Comune a gestire direttamente tali attività, demandandola a un ente diverso (nella specie la SO.GE.MI., società per azioni a capitale pubblico si gran lunga prevalente)”.


Neppure, infine, si potrebbe evitare di dedicare un cenno puntuale all’inciso “… fermo il carattere pubblico del servizio relativo all’impianto e all’esercizio di mercati annonari all’ingrosso di Milano …”, nella parte in cui rettamente menziona in modo non indistinto il servizio relativo all’impianto e quello relativo all’esercizio di mercati annonari all’ingrosso. Esso riecheggia infatti quello schema duale “gestione della rete” / “gestione del servizio” che, innervando gli artt. 113 ss. del TUEL, pone con evidenza le premesse per u processo di moltiplicazione sulla scena dei players a partecipazione pubblica, sempre nel presupposto comune dell’adozione della forma societaria, naturalmente.


Si impone, a questo punto, una domanda ulteriore: quale perimetro per la giurisdizione del giudice contabile sulle società a partecipazione pubblica?


Va premesso, al riguardo, che dopo la recente sentenza n. 363/2003 della Corte costituzionale, di cui si dirà, la griglia di situazioni che occorre tener presente in ambito societario è , riassuntivamente, la seguente:


1. i casi nei quali la società di capitali è costituita ex lege ed è interamente partecipata da un soggetto pubblico, che tuttavia non può determinare in modo del tutto autonomo nell’esercizio dei poteri spettatigli in quanto socio, dovendo per converso ricercare allo scopo l’intesa con uno o più altri soggetti pubblici;
2. i casi nei quali la società di capitali è interamente partecipata da uno o più soggetti pubblici (cd. partecipazione totalitaria);
3. i casi nei quali la maggior parte (almeno il 50,1%) per capitale della società è detenuto da uno o più soggetti pubblici;
4. i casi nei quali la partecipazione dei soci pubblici ha carattere minoritario (si colloca cioè al di sotto del 50% del capitale sociale).


Inoltre, quali esperienze statisticamente meno significative o ricorrenti, ma certamente non trascurabili, vanno menzionati i residui enti pubblici economici e le aziende speciali di cui agli artt. 113 bis ss. del TUEL.


Questa è tuttavia solo la griglia di base, che può variamente declinarsi, in concreto. in particolare, in virtù dello schema del c.d. controllo congiunto, di cui si dirà, non è affatto scontato che nell’ipotesi n. 4 la società sfugga al “controllo” – nel significato che alla locuzione attribuisce il diritto societario – della mano pubblica. Allo stesso modo, occorre non trascurare l’eventualità che, nelle società a partecipazione pubblica minoritaria, la legge o lo statuto (o la loro combinazione) attribuiscano al socio pubblico poteri speciali di varia natura, esplicabili anche in sede extrassembleare (due esempi su tutti: gli artt. 2458 e 2459 cod. civ., sopravvissuti significativamente alla recente novellazione del diritto societario, nonché le norme contenute nella l. 474/1994).


E a confortare quasi in modo plastico l’idea che quello delle società a partecipazione pubblica in genere non rappresenti affatto un ambito soggettivo unitario sta, da ultimo, l’art. 1 co. 9, del d.l. 168/2004, convertito con modificazioni nella l. n. 191/2004, secondo il quale le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio dei diritti dell’azionista nei confronti delle (sole) società di capitali a totale partecipazione pubblica, adottano le opportune direttive per i c.d. consumi intermedi nel medesimo co. 9 indicati, comunicandole in via preventiva alla Corte dei conti.


Di qui, evidentemente, la reiterazione sotto altra forma della domanda già posta: residua, oggi, un problema di riparto d giurisdizione rispetto al giudice ordinario? Quale, in caso si risposta affermativa, la linea di demarcazione?


La risposta al primo quesito non può evidentemente, che essere positiva.


Nessuno, sinora, tanto meno le sezioni Unite e la dottrina, e per vero certamente non la Corte dei conti, ha mai affermato che la giurisdizione del giudice contabile debba estendersi su tutte indistintamente le società a partecipazione pubblica.


Tutt’altro. Laddove l’attività delle società partecipata non consista nello svolgimento di un servizio pubblico, non sia cioè caratterizzata anche da un elemento funzionale, quale il soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse generale, bensì si atteggi ad attività puramente imprenditoriale, caratterizzata unicamente dal perseguimento di fini di lucro, amministratori e dirigenti si situeranno al di fuori della giurisdizione del giudice contabile. Peraltro, in quest’ultimo caso, che pone la questione, né banale né tantomeno ad esito scontato, della sussistenza in capo ai pubblici poteri della libertà di costituire a discrezione soggetti di siffatto tipo, differente sarebbe ad ogni modo il destino dei legali rappresentanti del socio pubblico (ad es. il Sindaco o il Presidente della Provincia), eventualmente di minoranza, cui potrebbe contestarsi – nell’ipotesi di cattivo esercizio, con dolo o colpa grave, dei poteri tipici del socio (anche ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori) – tanto il danno diretto in ipotesi subito dall’azionista pubblico amministrato, quanto il danno indiretto che derivasse dalla soccombenza in liti con il socio privato per mala gestio, o concorso nella mala gestio, dell’impresa comune.


Va a questo punto sottolineato che, per il vigente diritto positivo, quella di “servizio pubblico” è nozione come noto non unitaria, in particolare in ambito locale. gli artt. 113 ss. del TUEL distinguono infatti fra i servizi pubblici locali attualmente classificati come “di rilevanza economica”, di cui all’art. 113, che per la loro potenziale incidenza sulla tutela della concorrenza rientrano secondo Corte csot., sentenza n. 274/2004, fra le materie riservate alla legislazione statale, e i servizi “privi di rilevanza economica” previsti dall’art. 113 bis, la cui nuova denominazione, adottata in conformità a tendenze emerse in sede di Commissione europea a decorrere dal settembre 2000, già di per sé indica secondo il giudice delle leggi “che il titolo di legittimazione per gli interventi del legislatore statale costituito dalla tutela della concorrenza non è applicabile a questo tipo di servizi, proprio perché in riferimento ad essi non esiste un mercato concorrenziale”.


Il problema della giurisdizione della Corte dei conti sulle società costituite per lo svolgimento di servizi pubblici in ambito locale si pone tuttavia per ambedue le tipologie, giacchè in base alla vigente normativa non solo la gestione dei servizi di rilevanza economica può essere affidata a società di capitali individuate con gara a evidenza pubblica o a società miste, i cui soci privati siano stati scelti con gara a evidenza pubblica, o a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici che la controllano, ma anche la gestione dei servizi privi di rilevanza economica può avvenire mediante affidamento diretto, oltre che ad istituzioni ed aziende speciali, anche a società a capitale interamente pubblico, con esclusione dei privati e delle società miste.


Ora, non sono ovviamente in discussione i casi in cui le responsabilità azionabili dal p.m. contabile, anche di tipo indiretto, trovino nella società a partecipazione pubblica una mera occasione, anziché la loro causa in senso tecnico. Il che accade, ad esempio, laddove i comportamenti fonte di danno erariale siano riferibili non già ad amministratori o dipendenti della società, bensì agli enti pubblici soci.


Da questo punto di vista, è appena il caso di evidenziare che Consiglio di Stato sez. V, 20 ottobre 2004, n. 6867 ha accordato al socio privato il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita degli utili per il mancato svolgimento del servizio pubblico affidato ad una s.p.a. a partecipazione pubblica maggioritaria prima costituita e poi rimasta inattiva per il dissidio insorto far i soci, e dal mantenimento dei costi di gestione della struttura societaria. Nella specie, l’ente locale aveva costituito con altri soggetti una società mista per lo svolgimento di un servizio pubblico, ma poi aveva preteso di esercitare unilateralmente un potere di recesso per motivi di opportunità che il Consiglio di Stato ha giudicato insussistente, non potendo il socio pubblico più recedere dal contratto costitutivo della società se non nei limiti in cui tale potere è consentito dalle norme di diritto comune. e per quanto qui soprattutto interessa, va notato che ai fini della quantificazione del danno per equivalente il supremo giudice amministrativo ha intimato all’Amministrazione di tener conto dei costi di gestione sostenuti dalla struttura societaria nonchè dei presumibili utili che sarebbero derivati dalla gestione del servizio, e, a quest’ultimo riguardo, di considerare quanto percepito da imprese che svolgono il medesimo servizio in contesti dimensionali o socio-ambientali paragonabili a quelli per cui nella specie era causa.


Analogamente, una responsabilità imputabile direttamente in capo al socio pubblico potrebbe configurarsi anche in relazione allo schema romanistico della culpa in eligendo. Se, infatti, come afferma il Consiglio di Stato, il socio pubblico, nella scelta del management, è comunque obbligato, in forza della normativa di diritto interno, il rispetto di criteri di professionalità, capacità ed indipendenza, persino le perdite di esercizio che dovessero verificarsi, e ridondare in danno del o degli eventuali soci privati, oltre che di quello pubblico, vadano considerate in qualche modo ‘annunciate’ o scontate, o altamente probabili, in ragione della pochezza tecnica del management, di una sua già sperimentata (altrove) incapacità gestoria, o di situazioni limite consimili, sarebbe singolare se non si potesse procedere con l’azione pubblica di responsabilità nei confronti di coloro che hanno deciso la nomina (e qui occorre evidentemente distinguere fra l’ipotesi del socio pubblico unico e quella della società con più soci pubblici o, ancora, a capitale misto pubblico-privato).

 

Tornando a questo punto alla domanda più volte prospettata, inerente ai limiti della giurisdizione del giudice contabile, particolari dubbi non dovrebbero allora esservene anzitutto nel caso di responsabilità cd. indiretta, e cioè nel particolare caso in cui uno o più soci privati vittoriosamente esperissero azione nei confronti del socio pubblico contestandogli la “perdita di valore” dell’azienda comune quale conseguenza della gestione realizzata dagli amministratori in maggioranza di nomina pubblica o (come più spesso accadrà) dall’amministratore delegato parimenti investito di poteri dalla maggioranza “pubblica” dei componenti il CdA. Nella misura in cui l’onere di ricapitalizzazione – qualunque forma dovesse assumere – finisse col gravare sul socio pubblico, gli amministratori o l’a.d. riconosciuti responsabili sarebbero chiamati a rispondere ad opera del p.m. contabile.


Per tal via, potrebbero in particolare contestarsi in sede giuscontabile i danni (risarciti, con la mediazione del giudice civile, e) cagionati con comportamenti di mala gestio ai soci privati, per la parte di risorse dagli stessi investite nell’azienda, o persino ad eventuali ulteriori soci pubblici che, pur facendo parte della compagine societaria, dal punto di vista amministrativo non fossero titolari del servizio pubblico affidato in gestione alla società.


Diversa appare invece l’ipotesi della responsabilità c.d. diretta, sempre nei confronti dell’ente locale – azionista, giacchè, in particolare nelle società con partecipazione pubblica minoritaria, si tratta di stabilire a quali condizioni il danno cagionato dall’amministratore 8anche se di nomina pubblica) alla società potrebbe risolversi, in via immediata, in un danno erariale, eventualmente misurabile anche in base alle risultanza di esercizio della società.


Da questo punto di vista, sarebbe per vero singolare ritenere che il p.m. contabile possa agite per responsabilità diretta nei confronti degli amministratori della s.p.a. mista per l’intero ammontare del danno da essi procurato con atti di gestione improntati a dolo o colpa grave. detto altrimenti, sarebbe singolare ammettere l’esercizio dell’azione pubblica di responsabilità intestata alla Procura regionale anche per la parte di danno destinata, secondo i comuni meccanismi societari, a gravare sui soci privati.


Responsabilità diretta e indiretta potrebbero allora preferibilmente combinarsi, in uno stesso caso. Per tal via, seguendo due distinti ma convergenti percorsi giurisdizionali (il secondo, evidentemente, in due tappe: prima dinanzi al giudice civile, ad iniziativa dei soci privati, indi davanti a quello contabile, ad iniziativa della relativa procura) potrebbero contestarsi agli amministratori di una s.p.a. a capitale misto i danni complessivamente derivanti da comportamenti di mala gestio.


In quest’ottica, particolare attenzione andrà pertanto prestata anche alla posizione e all’operato degli amministratori che risultassero, in base a circostanze univoche, non espressi dal socio pubblico, bensì da quelli privati. ove infatti – facendo applicazione dei criteri ermeneutica tipici della dinamica societaria, quale risultante all’esito della novellazione di cui si è detto – si appurasse una loro condivisione delle scelte compiute dalla totalità o dalla maggioranza degli altri amministratori, sarebbe incongruo ritenerli sottratti all’ambito di esplicazione della giurisdizione del giudice contabile.
Il punto vero, allora, potrebbe diventare un altro.


Nella misura in cui gli amministratori dotati di poteri, o, come più speso accadrà, l’amministratore delegato unico siano espressione di un o più soci pubblici che abbiano affidato alla società la gestione di un servizio pubblico, quale metro comportamentale si dovrà seguire in concreto nell’attività di gestione? Si dovrà, per essere più chiari, prestare comunque una particolare attenzione alle esigenze di stampo pubblicistico riferibili al socio o ai soci pubblici affidatari, oppure – in una logica di equidistanza da soci pubblici e privati - l’amministratore dovrà preoccuparsi soltanto di massimizzare i profitti, creando valore per l’azienda amministrata?


Si tratta di una questione a ben vedere essenziale, specie alla luce del novellato diritto societario. Secondo l’art. 2391, cod. civ., infatti, l’amministratore che abbia (a titolo personale o per conto di terzi) un interesse in una determinata delibera o operazione è tenuto a comunicare dettagliatamente la natura di tale interesse, non solo se configgente con quello comune ai soci, bensì perfino se astrattamente coincidente con quello della società. in base alla nuova disciplina, infatti, un amministratore portatore di un interesse comunque “alieno” rispetto a quello della società in sé, con riguardo ad una data operazione, non sarà esonerato da responsabilità mediante semplice astensione dal voto, dovendo invece comunque dare comunicazione del proprio interesse al CdA, affinché questo si rappresenti vantaggi e svantaggi possibili dell’operazione prospettata e deliberi con motivazione puntuale.


E’ dunque chiaro perché quello evidenziato rappresenti un punto essenziale. Nelle società a capitale misto deputate alla gestione di un pubblico servizio convivono permanentemente due opposte tensioni, quali nitidamente percepite in una recente decisione della sez. VI del Consiglio di Stato. Nell’esaminare la censura relativa alla mancanza dell’ulteriore requisito “negativo” di qualificazione dell’organismo di diritto pubblico, cioè l’istituzione tesa a “soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale”, il giudice amministrativo di appello ha infatti osservato che il motivo si compendiava fondamentalmente nella deduzione secondo la quale la mancanza di carattere industriale o commerciale va riscontrata allorché, sul presupposto dell’istituzione per soddisfare bisogni di interesse generale (non contestato in questa sede), l’attività “di produzione o scambio di beni e servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori o utenti” non sia “guidata da regole economiche”.


Sennonché per il consiglio di Stato “è chiaro che su quest’ultimo connotato non influisce la forma giuridica di società per azioni, normalmente destinata all’esercizio dell’impresa per perseguire l’utile secondo la misura che consente una redditività competitiva, ma che, nell’esperienza pubblicistica contemporanea, tende a prestarsi a tipi di attività non orientati a questa rigorosa economicità, e invece esercitati per organizzare la presenza pubblica, in termini di sostegno a settori economici o di erogazione di utilità sociali, con una politica di impresa colta, in varia misura, a derogare al principio della redditività, per addossare alla mano pubblica costi ritenuti indispensabili per garantire un certo livello di servizio pubblico, che l’esercizio privatistico puro non consentirebbe.
Nel caso che ci occupa, l’esercizio per previsione statutaria (art. 3 vigente Statuto) da parte dell’Autovie Venete dell’attività di costruzione ed esercizio di autostrade e strade è connessa dalla stessa norma statutaria proprio a “quanto richiesto da esigenze relative alla sicurezza del traffico o al mantenimento dei livelli di servizio”. la finalità così esplicitata risulta quindi tale da perseguire un interesse generale ulteriore rispetto a quello delle costruzioni e gestione stradale (il che integrerebbe di per sé, per la natura delle opere costruite e gestite, il prerequisito della soddisfazione di bisogni generali, assolvibile anche da una struttura privatistica in regime di pieno di impresa), ed introduce un obbligo di mandato “pubblicistico” che connota il perseguimento dell’interesse generale, così rapportato a esigenze qualitative, come prioritario, fino al punto da renderlo, se del caso, prevalente sul fine economico utilitaristico proprio dell’attività di impresa comune. L’assenza di finanziamento pubblico, fatta rilevare dalle appellanti, poi, non spiega il rilievo che esse li attribuiscono nel far emergere la gestione secondo necessari criteri di economicità; le stesse appellanti, infatti, espongono come la base finanziaria della s.p.a. sia fornita dal capitale pubblico – e ciò già costituisce un finanziamento pubblico che si riverbera in modo costante sui costi fissi – e dai pedaggi autostradali, che in un regime come quello attuale del servizio pubblico, alla luce delle segnalate finalità statutarie qualitative in funzione dell’interesse generale, si configurano piuttosto come un provento destinato a concorrere al finanziamento degli oneri sostenuti per la costruzione la manutenzione dell’infrastruttura, affinché non ricadano interamente sulla spesa pubblica. per comprendere ciò basti pensare che tali proventi sono ricavati da un volume di traffico e da una consistenza delle infrastrutture e dei relativi oneri di manutenzione e di qualità del servizio, determinate da un apolitica pubblicistica facente capo anzitutto alla Regione, volta alla promozione delle comunità territoriali di riferimento. La portata di traffico delle infrastrutture e la loro pianificazione e gestione non sono invece, né potrebbero esserlo a fronte del pubblico servizio, ad esistenza necessaria, cui sopperiscono, determinate in base ad un piano di impresa integralmente mirato a dimensioni e caratteristiche di investimento ottimali per raggiungere un utile economico.
Quanto finora esposto, fa emergere la connessione che nella organizzazione delle attività materiali corrispondenti ad un pubblico servizio si instaura rispetto ad una funzione pubblica che costituisce uno dei compiti indeclinabili e qualificanti di un ente pubblico dotato di una autonomia politico-amministrativa che si esprime in poteri normativi, pianificatori e operativi. nel caso in esame, è evidente la connessione fra la competenza in tema di viabilità che l’art 117 cost. demanda alla Regione, certamente riconducibile ad una funzione pubblica di governo e sviluppo del territorio, e i moduli organizzativi prescelti per realizzare tale funzione, che possono attuarsi anche nell’istituzione di organismi in forma di società per azioni
”.


Ma se così è – e non vi è ragione di credere che così non sia, alla luce delle considerazioni sin qui sviluppate – ne discende evidentemente un ulteriore motivo di riflessione, che riconduce al punto di partenza. Se, infatti, nel modello di società a partecipazione pubblica (totalitaria, maggioritaria o comunque di controllo) che, in modo convergente, ci propongono il legislatore , la giurisprudenza costituzionale, quella delle Sezioni Unite, della Corte di cassazione e quella del giudice amministrativo, nell’unitario scopo sociale indicato dallo statuto tanto profondamente si compendiano – rectius, possono/debbono/riescono a compendiarsi – funzioni di interesse pubblico finanziate con risorse parimenti pubbliche e attività d’impresa da svolgere nel mercato in competizione con altri players e, quindi, con una gestione aziendale acconcia e, se del caso, con contabilizzazione separata, non si può evitare di tornare con il pensiero all’antico discrimen tra atti espressione dell’attività d’impresa e quelli espressione di potestà pubblicistiche.


Seguendo la prospettiva sin qui illustrata, infatti, vieppiù finisce col risaltare l’artificiosità della costruzione teorica che, torniamo a dire, pare per vero ispirata da un approccio di tipo meccanicistico, quasi riflessivo di una vana illusione di chirurgica e asettica scomponibilità di ciò che, a maggior ragione in ambito societario, rappresenta viceversa un tutto indistinto. Gli atti di gestione degli amministratori di una società a partecipazione pubblica affidataria di un servizio pubblico, nello stesso momento in cui si pongono come attuativi della gestione di quest’ultimo attuano altresì l’oggetto sociale, quale condiviso obiettivo dei soci tutti, privati o pubblici che siano. In ambito societario, dunque, è ancor più evidente che il momento pubblicistico tradizionale (nelle sue declinazioni tipiche: autorganizzativo, ecc.) se c’è sta a monte, e fuori della società (ancorché tinteggiandone l’intero operare, attraverso la mediazione statutaria), non dentro, in una parte (soltanto9 di essa.


Ne consegue, quale fatale conclusione, un’ulteriore conferma, dell’inutilizzabilità nell’ambito qui considerato di quell’antica distinzione.


Diviene allora chiaro che – una volta preso atto del nuovo indirizzo interpretativo inaugurato dall’ordinanza n. 19667 delle sez. un. e facente leva in particolare sull’introduzione del cd. danno obliquo . in ambito societario l’interrogativo è uno solo: coeteris paribus, le società a partecipazione pubblica i cui amministratori o dipendenti abbiano realizzato comportamenti dannosi di mala gestio sono riconducibili, quanto meno, alla nozione di “amministrazione di appartenenza” di cui dell’art. 1, ult. co., l. n. 20/1994?


Detto altrimenti, poichè il punto di svolta ai fini della devoluzione alla giurisdizione del giudice contabile persino degli atti consistenti nel compimento di operazioni di investimento da parte di enti pubblici economici è per la Cassazione rappresentato dall’avvento dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994, e quindi del cd. danno obliquo, il vero nodo sta nello stabilire se – sviluppando il profilo squisitamente “relazionale” – dette società si atteggino in guisa tale da consentire di definirle comunque “amministrazioni” o, almeno, da permanere all’interno di un rapporto tecnicamente qualificabile come intercorrente “tra amministrazioni” (quella “di appartenenza”, da un alto, e quella “diversa” dall’altro lato).


Quale latitudine di significato, dunque, per la locuzione “amministrazione” (di appartenenza o diversa che sia) nell’ambito dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994?


Se infatti vi si ritenessero rientranti tutte o la gran parte delle società a partecipazione pubblica, il problema sarebbe evidentemente risolto, anche ai fini della configurabilità di ipotesi di responsabilità c.d. diretta nei confronti non già dell’azionista pubblico bensì della società/”amministrazione diversa”. Ora, nel momento in cui anche il giudice nazionale di ultima istanza individua finalmente quale discrimen tra le due giurisdizioni interne, la qualità del soggetto passivo, e, pertanto, la natura – pubblica o privata – delle risorse finanziarie di cui esso si avvale, sarebbe francamente difficile comprendere come potrebbero sottrarsi alla giurisdizione del giudice contabile società che, istituite per soddisfare bisogni di interesse generale, difettino del carattere industriale o commerciale perché le attività “di produzione o scambio di beni e servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori o utenti” non risultano “guidate da regole economiche”. Società, queste, tenute a seguire le regole dell’evidenza pubblica per quell’elementare esigenza di garanzia della par condicio tra le imprese aspiranti ad ottenere l’affidamento di commesse che suggella e sublima l’odierna saldatura fra l’interesse, essenzialmente nazionale, all’ottimizzazione e all’efficientamento di risorse finanziarie sempre più scarse, e quello, tipicamente comunitario, ad evitare che i conseguenti flussi di denaro provenienti – direttamente o mediatamente – dai pubblici poteri possano tradursi in un inammissibile fattore di distorsione della concorrenza, promuovendo l’azione di comportamenti virtuosi di gestione.


Realizzatasi questa saldatura, si danno allora perfino nuove vocazioni istituzionali, e in particolare si deve prendere atto della metamorfosi di un giudice, quello contabile nell’ordinamento interno, che nello svolgere il suo lavoro si sempre si fa ora, se si vuole in modo indiretto, anche custode del principio comunitario cardine di concorrenza.


E’ del resto l’identico destina cui è parallelamente andato incontro in questi anni il giudice amministrativo che, come noto quale giudice competente sovente annulla atti di aggiudicazione id gare d’appalto indette da società a partecipazione pubblica soltanto parziale. In simili casi, va notato, non è sostenuta da alcuno l’idea che la presenza di uno o più soci privati debba influenzare, mutandole, le regole di affidamento. All’unitario interesse societario al procacciamento di una fornitura, un esercizio o un lavoro, si correla così, ineluttabilmente, la condivisione da parte dell’intera compagine sociale delle regole di evidenza pubblica, talora proporzionalmente più onerose.


Nel momento in cui l’unica decisione della Cassazione – fra le tre succedutesi a breve distanza l’una dall’altra tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 – ad aver riguardo a fatti verificatisi successivamente all’entrata in vigore dell’art. 1, ult. co., l. 20/1994, sposta l’accento sulla natura delle risorse gestite, diviene chiaro che non può più darsi un sistema a due vie, nel quale, cioè, il finanziamento (si badi, anche “soltanto”) maggioritario da parte di pubblici poteri (si veda ad esempio l’art. 2 co. 1, lett. b, del d. lgs. n. 157 del 1995) consenta l’annullamento di un’aggiudicazione illegittima (o peggio, a seconda dei casi) ma non anche il perseguimento sul piano della responsabilità amministrativa della condotta di mala gestio di amministratori o dipendenti che l’avessero eventualmente determinata con dolo o colpa grave.


E’ in questa chiave di lettura che, anche per misurare la lunghezza del passo che l’ordinanza n. 19667 fa compiere all’intero sistema, pare doveroso tornare a sottolineare da dove si era partiti. Scriveva infatti nella sentenza n. 243/2001 (sulla quale sarebbe poi intervenuta la già citata decisione n. 3899 della Suprema Corte) la II sez. centrale della Corte dei conti che “rimanendo sul terreno degli enti locali, c’è da chiedersi perché un’amministrazione comunale deciderebbe di scegliere, per la gestione di un servizio, una forma tipicamente privatistica come la società di capitali, se dovesse rimanere pur sempre applicabile la normazione di diritto pubblico, anche in settori importanti come quello della responsabilità amministrativa”.


Se tutto questo è vero, sarebbe però non del tutto appagante ridurre alla riconducibilità alla sola nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico” la piattaforma argomentativi sulla quale fondare la giurisdizione della Corte dei conti sulle società a partecipazione pubblica.


Il ruolo di tutore istituzionale della finanza pubblica conferito alla magistratura contabile innanzitutto dalla Costituzione, spinge a non accontentarsi di questa prima conclusione perché si trascurerebbe in tal modo di valutare alcuni elementi di valenza sistematica, che paiono tenersi insieme l’un l’altro.


Procedendo per ordine, e rinviando ad altra sede per una trattazione più approfondita sul punto, è ormai evidente a tutti che il patto di stabilità esprime una sua cogente normatività, nella misura - particolare – in cui assurge negli ordinamenti interni a giustificazione costante dei continui “giri di vite” nella spesa pubblica cui gli esecutivi fanno ricorso nel tentativo di mantenere il richiesto rapporto del 3%.


In questo quadro si inseriscono anche i criteri correntemente applicati da Eurostat per determinare lo stock complessivo di disavanzo del settore pubblico nel suo complesso, essenziale per la verifica del rispetto dei parametri su cui poggia il patto di stabilità fra i Paesi dell’Unione.


L’esempio più recente, sul fronte interno, è quello di ANAS s.p.a.: a partire dal 2004 nel conto allo scopo redatto dalle autorità comunitarie non sono più considerati i flussi di risorse affluenti dal socio pubblico, nell’assunto che nell’anno possano essere conseguiti i requisiti per la configurazione della stessa quale “impresa market oriented” esterna al comparto delle Amministrazioni pubbliche. Requisiti, questi, che si compendiano nell’elementare regola secondo la quale l’impresa pubblica si colloca al di fuori di tale comparto se il totale delle entrate annue è costituito per oltre il 50% da ricavi da cessioni di beni e servizi.


Il punto nodale è rappresentato dunque dalla misura in cui l’attività dell’impresa pubblica tende alla profittevolezza, non dalla composizione eventualmente variabile dell’azionariato. In tal senso, non v’è dubbio che Eurostat includerebbe senza esitazioni nel comparto in parola le imprese pubbliche costituite in forma di società, nella cui compagine figurassero anche soci privati, sol che per queste il totale delle entrate annue non fosse costituito per oltre il 50% da ricavi da cessioni di beni e servizi. E se a questo punto si prova a combinare detto criterio con quello, di cui fa uso in ambito nazionale il Consiglio di Stato, propenso ad attribuire rilievo alla circostanza che le attività “di produzione o scambio di beni e servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori e utenti” svolte dalle società in discorso non risultino “guidate da regole economiche”, ne viene complessivamente fuori un identikit abbastanza preciso.


Si tratta, in una parola, innanzitutto delle società partecipate da soggetti pubblici maggioritariamente finanziate dallo Stato, dalle regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico e per le quali il totale delle entrate annue non sia costituito per oltre il 50% da ricavi da cessione di beni e servizi. Di società, cioè, con riferimento alle quali appare appropriato dire che le attività "di produzione o scambio di beni e servizi a favore di un’indifferenziata platea di operatori economici, consumatori o utenti” da esse svolte non risultano “guidate da regole economiche”.


Riteniamo che sia preferibilmente questo, allora, il criterio al quale vada ancorata la giurisdizione del giudice contabile, semprechè naturalmente sia provata la riconducibilità di ciascuna società, da riscontrarsi volta per volta, a quella nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico” nell’ambito della quale – come puntualizza il Consiglio di Stato – per bisogno non industriale o commerciale deve intendersi non già la non imprenditorialità della gestione, bensì la funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generali della collettività. E detto requisito deve reputarsi ricorrente nel caso di società costituita al principale fine di gestire (anche attraverso le controllate)attività miranti ad ottenere detto soddisfacimento, in settori tuttora solo in parte “liberalizzati”, secondo criteri non propri di un soggetto privato, ma influenzati dallo stretto legame della società al potere pubblico e dalla reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno, al di fuori del normale funzionamento dei meccanismi societari, sull’attività dell’ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire.


Si tratta, del resto, della stessa linea di tendenza in cui si colloca l’ordinanza n. 2316 del 22 aprile 2004 dal Consiglio di Stato, con la quale la sezione V ha rimesso alla Corte di giustizia, ai fini di una pronuncia pregiudiziale, il problema della compatibilità con l’ordinamento comunitario dell’affidamento di servizi pubblici a società per azioni a capitale pubblico, totale o maggioritario, cosiddetto “in house providing”, sotto un profilo ritenuto non ancora esaminato dalla Corte di giustizia.


Muovendo dal riferimento alla nota pronuncia pregiudiziale 18 novembre 1999 adottata in causa 107/98, Teckal s.r.l. c. Comune di Aviano, la sezione V ha fatto notare che nell’occasione la Corte ebbe ad affermare che bandire una gara per l’affidamento di appalti pubblici non è necessario solo nel caso in cui, nel contempo, l’Ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello che da esso esercitato sui propri servizi, e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’Ente o con gli Enti locali che la controllano, ma proprio l’espressione usata dalla Corte “… controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi …” propone secondo il giudice amministrativo nazionale d’appello un nuovo problema interpretativo, dovendosi stabilire quando il controllo esercitato presenti le caratteristiche volute dalla sentenza.


Più specificamente, ha aggiunto l’ordinanza n. 2316, si tratta di capire se il possesso dell’intero capitale del soggetto affidatario, in particolare una società per azioni, possa garantire quella situazione di dipendenza organica che normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione.


Da questo punto di vista, la Commissione della U.E. ha avuto occasione di esprimere il proprio autorevole avviso sul punto con la nota 26 giugno 2002, diretta al Governo Italiano per sollecitare ulteriori modificazioni all’art. 113 del d. lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dall’art. 35 co. 1, della l. n. 448 del 2001, nel quale si riscontravano disposizioni non conformi ai principi di diritto comunitario invocati anche nella presente fattispecie, osservando che per quanto riguarda in particolare la nozione di “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi” di cui alla giurisprudenza in discorso, “affinché tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario”. Viceversa, il “controllo contemplato nella sentenza Teckal fa infatti riferimento ad un rapporto che determina, da parte dell’amministrazione controllante, un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”.


Osserva sul punto l’ordinanza n. 2316 che, così esprimendosi, la Commissione sembra alludere ad un fenomeno giuridico assimilabile a quello delle aziende municipalizzate di cui al r.d. 15 ottobre 1925, n. 2578, nel quale si istituiva un nuovo soggetto, con capacità giuridica propria e propri organi, sottoposto peraltro a penetranti poteri di vigilanza da parte dell’Amministrazione (art. 16 ss. r.d. n. 2578/1925) e obbligato a svolgere la propria attività mediante contratti, scegliendo il contraente con procedure ad evidenza pubblica (art. 57 ss. del Regolamento di cui al d.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902).


Da questa premessa, la sezione V conclude significativamente che “l’affidamento diretto a società per azioni, del tutto autonome, salvo l’esercizio dei poteri propri del possessore della maggioranza delle azioni, secondo le norme del diritto commerciale comune, sembra esporre la gestione delle pubbliche risorse a procedure diverse da quelle destinate a garantire” non soltanto “una crescita del mercato interno… e il vantaggio per l’utenza”, bensì anche – e ai fini che qui interessano soprattutto – “l’economia nelle spese”.


Come la giurisprudenza ha già dimostrato (si veda la più volte menzionata Cons. Stato, sez. V, sent. n. 4711 del 2002), all’interno dello schema organizzativo dell’”in house providing” è proprio la nozione di “organismo di diritto pubblico” ad assumere, di regola, nuovamente un ruolo da protagonista. ruolo, questo, che si specifica essenzialmente, in concreto, nell’eteroindirizzamento delle attività societarie a fini di interesse pubblico generale anche al di là e prescindendo dal mero intento lucrativo, da parte del socio pubblico, totalitario o di maggioranza.


Troppe, e troppo importanti, sono in simili casi le deroghe – in primo luogo, in punto di fatto – rispetto al regime societario comune, le alterazioni dei normali meccanismi di funzionamento degli organismi societari con il conseguente effetto di compressione dell’autonomia funzionale degli organi societari con potestà deliberante, ivi inclusi gli amministratori, che pur quando non risultino di pregnanza tale da deporre nel senso della vera e propria natura pubblica delle società in questione, certamente escludono la configurabilità di un’attività di impresa gestita secondo criteri propri di un soggetto privato.


Come esattamente ha osservato nella decisione da ultimo menzionata il Consiglio di Stato, non si tratta di mettere in discussione l’imprenditorialità della gestione, ma di prendere atto di una funzionalizzazione al soddisfacimento di bisogni generali della collettività che trova espressione nell’influenza esplicabile sulla base dello stretto legame fra la società e il potere pubblico e della reale capacità di quest’ultimo di incidere dall’esterno sull’attività dell’ente, sì da garantirne la coerenza rispetto alle finalità pubbliche che attraverso lo stesso si intende perseguire.


Da tale punto di vista, per quanto qui soprattutto interessa, non si può non concordare con chi osserva che “va… certamente esclusa la giurisdizione di responsabilità tutte le volte in cui l’oggetto dell’accertamento richiesto al giudice contabile sia l’esistenza di un danno derivante da una perdita d’esercizio quale rischio-conseguenza insito in qualunque attività imprenditoriale.
Laddove, viceversa, sia individuabile una cattiva gestione da parte degli amministratori (in quanto esercitata in violazione di regole di buona amministrazione, con un uso distorto dei poteri e delle attribuzioni affidategli), psicologicamente colorata di dolo o colpa grave, doveroso appare l’intervento dell’organo pubblico titolare del potere d’azione per il risarcimento dei danni erariali e la conseguente giurisdizione del giudice contabile a conoscere e giudicare del fatto
”.


Poiché, d’altro canto, la stessa dottrina condivisibilmente afferma che “le scelte, operate dagli amministratori del’ente nell’ambito del corretto esercizio dell’attività d’impresa, per la migliore allocazione dei fattori della produzione dal fine del perseguimento dell’interesse generale di cui sono portatori, rientrano, analogamente alle scelte effettuate da qualunque altro soggetto pubblico, nella sfera della discrezionalità insindacabile”, rimane aperto il problema dell’identificazione del sistema di regole di riferimento ala luce del quale sindacare, pendenti delle società a partecipazione pubblica. più esattamente, è necessario determinare il quadro degli standards comportamentali con cui riempire di contenuti puntuali le categorie concettuali riassunte in modo efficace nella formula della “cattiva gestione da parte degli amministratori (in quanto esercitata in violazione di regole di buona amministrazione, con un uso distorto dei poteri e delle attribuzioni affidategli” o simili, e da utilizzare quindi come cartina di tornasole nella difficile opera di comparazione cui è chiamato il giudice contabile in sede di responsabilità.


A parere di chi scrive, questo quadro non può che essere ricavato, combinando insieme le strutture di giudizio tipiche del contenzioso giuscontabile di responsabilità, quali mutuate dalle norme in origine dettate per il personale pubblico tradizionale, con il nuovo catalogo comportamentale disegnato in modo indistinto per amministratori e dipendenti (v. art. 2396 cod. civ.) delle società di capitali dal diritto societario novellato (artt. 2380 bis ss. cod. civ.). tenere separati questi elementi, infatti, significherebbe esprimere all’indirizzo di fattispecie complesse giudizi viceversa affetti da eccesso di semplificazione.


Così la condotta in concreto tenuta da amministratori e dipendenti delle società di cui si discorre, in quanto riconducibili allo schema legale delle “amministrazioni diverse” di cui all’art. 1, ult. co., l. n. 20/1994, andrà vagliata alla luce di regole di buona amministrazione da ricercarsi negli artt. 2392 ss. cod. civ., ma con la mediazione delle regole tipiche di responsabilità pubblica rinvenibili, anzitutto (ancorché non esclusivamente), nell’art. 1, co. 1 e 1 ter, della predetta legge.


In tal modo, tenendo fermo il limite, afferente all’elemento psicologico, del dolo o almeno della colpa grave, e quello dell’insindacabilità nel merito delle scelte di gestione compiute da amministratori e dipendenti, perfino il problema – certo non irrilevante con riferimento a società di gestione di servizi pubblici – posto dall0’art. 3, co. 2 ter, del d.l. n. 543 del 1996, convertito nella l. n. 639 del 1996 (“l’azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi”), potrebbe allora perdere buona parte della sua potenziale criticità.



 

3.1. I riflessi pubblicistici sugli amministratori e dipendenti delle società partecipate dagli enti locali.
 

Nell’interrogarsi sulla giurisdizione del giudice contabile sulle società a partecipazione pubblica, in particolare in ambito locale, sarebbe del tutto inappropriato trascurare gli spunti ricavabili da taluni interessanti frammenti di diritto positivo.

 

Nel minimo, e in estrema sintesi , sembra necessario prestare attenzione in particolare:

 

- all’art. 60, co. 1,. n. 10, del TUEL, in base al quale scontano la misura restrittiva delle libertà politiche fondamentali consistente nell’ineleggibilità, tra gli altri, “i legali rappresentanti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del comune o della provincia”;

- all’art. 50, co. 8, del TUEL, secondo il quale “sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni”;

- all’art. 42, co. 2 del TUEL, che rimette all’organo a composizione interamente elettiva, tra l’altro, di deliberare su “assunzione diretta dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell’ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione” e “indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza”.

 

Interessante appare anzitutto l’art. 60, co. 1. n. 10, del TUEL, che dispone una misura tanto restrittiva delle libertà politiche fondamentali quale solo l’ineleggibilità può essere, nei sistemi democratici. La misura restrittiva non colpisce tuttavia indiscriminatamente, limitando i propri effetti, per quanto qui interessa, ai soli “legali rappresenti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del comune o della provincia”.


E’ dunque proprio il carattere maggioritario della partecipazione dell’ente locale a fare la differenza. La disposizione, che deve comunque ritenersi applicabile non solo ai casi di controllo isolato ma anche a quelli in cui il carattere maggioritario della partecipazione consegua alla sommatoria delle partecipazioni intestate a più enti locali, appare per più versi significativa.
Se infatti essa da un lato discrimina talune persone fisiche nel pieno godimento delle libertà politiche a seconda dell’entità della partecipazione detenuta nella società mista dall’ente locale, finendo indirettamente con l’attribuirgli una connotazione spiccatamente pubblicistica in caso di partecipazione (anche soltanto) maggioritaria, dall’altro lato, però, accomuna in un’identica sorte tutti indistintamente gli amministratori provvisti della rappresentanza legale, ivi inclusa cioè quella parte di essi eventualmente espressa dai soci privati. La disposizione non appare dunque di particolare pregio tecnico, pur serbando intatta la capacità di veicolazione di un significato sostanziale ben preciso e di essenziale rilevanza per il diritto pubblico: non può corrersi il rischio che la posizione di gestore di risorse per la maggior parte di provenienza pubblica venga strumentalizzata al fine di realizzarne una proficua capitalizzazione in un successivo appuntamento elettorale riguardante proprio l’ente locale socio di maggioranza.


Riguardo invece all’art. 50, co. 8, del TUEL, giova sottolineare che il Consiglio di Stato ha di recente affermato come l’opzione ermeneutica secondo cui il potere di nomina, designazione e revoca sussisterebbe solo nelle ipotesi di rapporto di strumentalità o subordinazione esistente tra il Comune e l’ente nei cui confronti la nomina (designazione o revoca) ha effetto non trova alcun testuale appiglio nel dato normativo e finisce per escludere dal suo ambito applicativo la vasta categoria degli enti sovvenzionati ovvero sottoposti a vigilanza da parte dell’ente locale. nel caso in esame, il legame che avvinceva il Comune e l’ente non era mediato dalla sola previsione statutaria bensì corroborato anche da una convenzione con la quale il Comune aveva assunto l’onere di finanziare i costi dell’ente medesimo. Alla luce di tali dati il giudice amministrativo di appello ha ritenuto che non è revocabile in dubbio che il Sindaco (sulla base dei criteri fissati dall’organo consiliare) fosse titolare del potere di revoca attesa l’influenza sulla politica amministrativa dell’Ente Pubblico di una attività finanziata dal medesimo (e della correlativa esigenza che l’organo di vertice dell’ente sovvenzionato, dipendete, strumentale o sottoposto a vigilanza non esprima indirizzi in contrasto con le linee di matrice comunale).


Per quanto infine concerne la norma contenuta nell’art. 42, co. 2, del TUEL, la rimessione all’organo a composizione interamente elettiva della competenza a deliberare tra l’altro su “… partecipazione dell’ente locale a società di capitali …” e “indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti …”, pare ispirarsi ad un’accezione assai ampia della relazione che può venire a configurarsi fra l’ente locale socio e la società partecipata. Tanto sotto il profilo dell’entità della partecipazione – che nel caso di specie non sembra assumere valore determinante – quanto dal punto di vista del variabile atteggiarsi del legame tra i due soggetti, che specie alla luce della summenzionata pronuncia del Consiglio di Stato ben potrebbe essere ricostruito nei termini della ‘dipendenza’ (assunta quale categoria in cui confluiscono quelle “ipotesi di rapporto di strumentalità o subordinazione esistente tra il Comune e l’ente nei cui confronti la nomina (designazione o revoca) ha effetto” ragionevolmente da reputarsi alternativa, stando al tenore steso dell’art. 42, co. 2, rispetto alla “vasta categoria degli enti sovvenzionati ovvero sottoposti a vigilanza da parte dell’ente locale”).



 

3.2. Le società di capitali nelle quali soggetti pubblici detengono il “controllo”. Il problema del controllo congiunto.


Sino ad un recente passato , persino per la giurisprudenza della Corte costituzionale la detenzione del “controllo” di una società di capitali passava in ogni caso, indipendentemente dalla natura del soggetto controllante, per il possesso di una partecipazione maggioritaria era da intendersi, evidentemente, una partecipazione pari o superiore al 50,1% del capitale sociale.
Emblematica, al riguardo, la nota decisione con la quale, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, la Corte ebbe a ribadire la persistenza delle attribuzioni di vigilanza intestate alla magistratura contabile della l. 259/1958 sulle società a partecipazione statale.


Nell’escludere che la l. 359/1992 potesse avere determinato, attraverso la regola generale sancita nel relativo art. 20, l’abrogazione tacita della l. 259 del 1958, sia pure con riferimento ai soli enti di trasformati di cui all’art. 15, a questa lettura opponendosi sia i contenuti che la natura della l. n. 259, attraverso cui è stato attuato l’istituto del controllo specificamente previsto in sede costituzionale dall’art. 100, co. 2 (sì da escludere di per sé l’eventualità di una abrogazione tacita realizzata attraverso la formulazione di una normazione quale quella adottata in tema di “privatizzazioni”, che appare estranea alla materia del controllo affidato ala Corte dei conti), il giudice delle leggi aggiunse che anche la veste formale assunta dalle società che sono venute a sostituire gli enti pubblici economici sottoposti a trasformazione non può dirsi caratterizzata da una naturale incompatibilità con i caratteri propri del controllo affidato alla Corte dei Conti dalla costituzione e regolato dalla l. n. 259.


“In proposito, si può richiamare la natura di “diritto speciale” che va riconosciuta a dette società e che viene a emergere dal complesso della disciplina adottata al fine di regolare il processo di “privatizzazione”: natura che risulta connotata – come è stato ampiamente illustrato negli scritti difensivi della ricorrente – sia dalla costituzione che dalla struttura e dalla gestione delle nuove società e che viene a specificarsi attraverso la previsione di norme particolari – differenziate da quelle proprie del regime tipico delle società per azioni- sia in tema di determinazione del capitale sociale (v. artt. 15 e 16 d.l. 333/1992, convertito nella l. 359/1992 e d.l. 21 giugno 1993, n. 198, convertito nella l. 9 agosto 1993, n. 292), sia in tema di esercizio dei diritti dell’azionista (spettanti al Ministro del tesoro, ma previa intesa con altri Ministri: v. art. 15, co. 3, d.l. 333/1992), sia infine, in tema di patti sociali, poteri speciali, clausole di gradimento, modifiche statutarie, quorum deliberativi nelle assemblee, limiti al possesso di quote azionarie da parte dei terzi acquirenti (v. delibera CIPE 30 dicembre 1992 e d.l. 389/1993, reiterato con il d.l. 486/1993). Non senza, infine, considerare il vincolo esterno connesso al fatto che i ricavi derivanti dalla cessione dei cespiti da dimettere vanno destinati alla riduzione del debito pubblico (v. art. 16, co. 2, d.l. n. 333/1992).
Da questo complesso di norme emerge non solo il quadro delle finalità, dei vincoli e delle condizioni di natura pubblicistica entro cui il processo di “privatizzazione” si sta oggi sviluppando, ma anche la natura differenziata e speciale delle società sorte dalla trasformazione dei precedenti enti pubblici economici.
Rispetto a questo quadro ed a questa natura non può, dunque, considerarsi dissonante il fatto che possa permanere, sia pure in via transitoria – e cioè fino a quando le “dismissioni” non risulteranno effettivamente attuate – il controllo sulla gestione finanziaria di cui alla l. n. 259: controllo destinato a restare esterno alle società e a garantire l’informazione del Parlamento anche durante la delicata fase di passaggio che si è aperta, nel sistema delle partecipazioni statali, con l’avvio del processo di “privatizzazone”.
Ciò condusse alfine la Corte ad affermare la spettanza alla Corte dei conti nei confronti delle società per azioni derivante dalla trasformazione dell’IR.I., dell’E.N.I., dell’I.N.A. e dell’E.N.E.L. del potere di controllo di cui all’art. 12 l. 259/1958: potere da esercitare nelle forme e nei limiti in precedenza applicati e fino a quando permanga, rispetto al capitale delle stesse società, la partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato”.


Siffatta conclusione, comunque destinata a spiegare effetto ai fini del controllo di cui alla l. n. 259, non potrebbe ad ogni modo legittimare l’idea che la fenomenologia della detenzione del “controllo” di una società di capitali da parte di soggetti pubblici sia riscontrabile solamente laddove uno di essi detenga a titolo individuale una partecipazione pari o superiore al 50,1% del capitale sociale.
E’ nuovamente la Corte costituzionale, infatti, in una delle recenti decisioni concernenti le fondazioni di origine bancaria, ad alzare il velo anche agli effetti del diritto pubblico su un tema ben noto agli studiosi del diritto commerciale in genere, e del diritto societario in specie.


Nel caso in questione, tra le censure di incostituzionalità sollevate da alcune regioni, in riferimento in particolare all’art. 3 Cost., vi era anche quella concernente lì’art. 11, co. 10, l. 448/2001, nella parte in cui disciplina il fenomeno del controllo, da parte di una fondazione, di una società bancaria o di un gruppo bancario, disponendo di una fondazione, di una società bancaria o di un gruppo bancario, disponendo che “una società bancaria o capogruppo bancario si considera controllata da una fondazione anche quando il controllo è riconducibile, direttamente o indirettamente, a più fondazioni, in qualunque modo o comunque sia esso determinato”.


la censura veniva mossa perché, ad avviso del rimettente, la norma de qua avrebbe in tal modo sancito una irragionevole presunzione di controllo nel caso in cui la somma delle partecipazioni bancarie di più fondazioni sia pari alla quota di controllo, a prescindere dall’effettiva esistenza di accordi o di patti di sindacato tra le stesse fondazioni.


La Corte, nel dichiarare infondata la questione, riscontrando l’assenza dell’asserita irragionevolezza della norma e, quindi, la violazione, sotto tale aspetto, dell’art. 3 Cost., ha osservato che va, in proposito esclusa “la configurazione di una presunzione assoluta di controllo, ai fini di cui all’art. 6 del d. lgs. 153/1999, anche all’ipotesi in cui esso sia esercitato, congiuntamente, da una pluralità di fondazioni che siano comunque tra loro legate da appositi accordi finalizzati al controllo bancario e che devono essere, in quanto tali, oggetto di specifica prova.


S’intende, allora, come presupposto della norma sia l’esistenza di un effettivo controllo congiunto da parte di più fondazioni. Senza, ripetersi, che possa dedursi dal semplice possesso di partecipazioni nella stessa azienda bancaria da parte di più fondazioni la ricorrenza in capo a queste ultime di un controllo congiunto, occorrendo fare, invece, riferimento alla nozione di controllo, accolta dall’ordinamento vigente.


Sicchè, può dirsi che la portata della norma sia solo quella di ricomprendere nella nozione di controllo l’esistenza di accordi di sindacato tra più fondazioni”.


Patti o accordi di sindacato e controllo congiunto: proprio questo è, in particolare ai fini che qui interessano, il passaggio argomentativi-chiave della decisione della Corte.


A partire da detta sentenza, infatti, non è più seriamente revocabile in dubbio, se pure mai lo sia stato, che nella nozione di “controllo” societario vada compreso anche lo schema del controllo congiunto, realizzato cioè cumulativamente da più soggetti – dalla natura omogenea (più fondazioni di origine bancaria, più soggetti pubblici, ecc.) – di regola per il tramite di parti o accordi di sindacato, per cui la (ormai) ampia definizione legale si rinvia agli artt. 2341 bis e ter cod. civ., oltre che, in caso di quotazione dei titoli rappresentativi del capitale sociale nei mercati regolamentati, agli artt. 121 ss. TUF.


E poiché nel più sta il meno, appare evidente che la decisione della Corte, su un piano strettamente di diritto societario, supera, o forse sarebbe più esatto dire eclissa del tutto quella del 1993, dando atto dell’acquisizione allo strumentario di suprema regolazione ordinamentale di quella nozione di “controllo di fatto” (realizzato cioè per il tramite di una partecipazione inferiore al 50,1% del capitale sociale), per lungo tempo uno dei rebus più intricati del moderno diritto societario, sottintesa inevitabilmente alla nozione, assai più complessa e ricca di sottili implicazioni, di “controllo congiunto”.


Nello stesso senso si pone, del resto, anche il coevo arresto della sez. V del Consiglio di Stato, (sentenza n. 3864 del 30 giungo 2003), che ha respinto la censura inerente lo “… strumento apprestato dall’art. 22, co. 3, lett. e) l. n. 142/1990, per l’affermata insussistenza del requisito relativo al carattere maggioritario della partecipazione dei singoli Comuni resistenti, e, dunque, della portata lesiva del solo atto successivo di attribuzione della gestione del servizio”, affermando che “… risulta agevole osservare che la peculiare formula gestoria consentita dalla disposizione citata autorizza chiaramente, per l’univoca formulazione letterale della previsione relativa alla partecipazione di più soggetti pubblici, l’organizzazione in comune del servizio da parte di diversi enti locali (ovviamente con il concorso di uno o più soci privati di minoranza), sicchè la prevalenza del capitale pubblico va considerata con riferimento all’insieme dei comuni titolari di partecipazioni nel capitale sociale e non a ciascuno di essi (Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2002, n. 2298), anche perché, diversamente opinando, la titolarità in capo ad uno solo di una quota superiore al 50% escluderebbe automaticamente, in palese contrasto con la lettere e la ratio della norma, la stessa possibilità della partecipazione di altri soggetti pubblici alla società”.


Si chiude dunque, con le intuibili ricadute anche in punto di ambito di esplicazione delle attribuzioni della Corte in materia di controllo, uno scenario nuovo, con il quale occorre in ogni caso misurarsi.


Ma è appropriato riconoscere al giudice contabile la competenza sulle responsabilità di amministratori e dipendenti delle società, che attualmente viene realizzata da esponenti aziendali (amministratori, direttori generali, ecc.) nominati interamente o per la maggior parte, in coerenza con le regole della democrazia societaria, dai soci di controllo.


E’ allora chiaro che, nelle società di capitali assoggettate al controllo di fatto, eventualmente nella forma del controllo congiunto, da parte di soggetti pubblici, responsabilità derivanti dalla gestione possono configurarsi in più direzioni. Anche in tal caso, la prima e più ovvia forma è la responsabilità dei titolari di competenze gestorie verso il socio pubblico e i soci pubblici, nel caso di controllo congiunto. Oltre a questo, vi può però essere anche una responsabilità – di tipo indiretto – verso i soci privati derivante dalla cattiva gestione delle complessive risorse societarie ad opera degli esponenti aziendali nominati, interamente o per la maggior parte, dal socio o dai soci pubblici di controllo.



 

3.3. L’ente pubblico s.p.a.


Sin qui ci si è occupati dei casi nei quali, allo stato delle cose, il discrimen fra società ricadenti nella sfera pubblica, in particolare agli effetti che qui interessano, e società ricadenti invece al di fuori di siffatta sfera è fondato su criteri che possono condurre a risposte variabili da caso a caso.


Vi sono anche, tuttavia, ipotesi nelle quali questa potenziale variabilità di esito non si dà. Non si dà, in particolare, perché sicuro è da considerare l’ancoraggio al settore pubblico del soggetto entificato in forma di società di capitali.


A dare sicurezza, in proposito, è la recente, importantissima sentenza n. 363/2003 della Corte costituzionale, la quale ha statuito che la materia di società per azioni di ‘Italia Lavoro’ (interamente partecipata dal Ministro del Welfare, che esercita nei modi di legge i poteri del socio), non può valere dal sola ad escludere detto soggetto dall’ambito di applicazione dell’art. 117, co. 2, lett. g) della Costituzione, che demanda alla competenza legislativa esclusiva affidata allo Stato la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”. In tal senso, puntualizza il giudice delle leggi, “milita la considerazione della totale partecipazione azionaria del Ministro del tesoro, dei poteri di indirizzo spettanti agli organi del Governo, ed in particolare al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, nonché della predeterminazione eteronoma dei compiti e delle funzioni pubbliche che la stessa società è chiamata a perseguire. In altri termini, una società di questo tipo, costituita in base alla legge, affidataria di compiti legislativamente previste e per essa obbligatorie, operante direttamente nell’ambito delle politiche di un Ministero come strumento organizzativo per il perseguimento di specifiche finalità, presenta tutti i caratteri propri dell’ente strumentale, salvo quello di rivestire - per espressa disposizione legislativa – la forma della società per azioni; e ciò, come detto, non può di per sé assumere rilievo per negare la sussistenza della potestà legislativa attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, co. 2, lett. g), della Costituzione”.


Sarebbe però probabilmente erroneo pensare che quello appena descritto rappresenti l’unico caso nel quale si imponga una simile conclusione.


In una prospettiva evolutiva della quale si danno già ampie premesse giurisprudenziali,infatti, essa apre suscettibile di estensione ad un’ampia gamma di fattispecie regolate da leggi speciali.


Questa impressione trae conforto, da ultimo, da un recente arresto del Consiglio di Stato (Sez. V, n. 4771/2004). Nel caso di specie, il contenzioso prendeva spunto dalla contestazione del ricorrente sul modo in cui a suo dire i primi giudici avevano fatto applicazione della sentenza 19 settembre 999 della Corte di Giustizia della Comunità Europea, cui il TAR Campania aveva richiesto una pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 243 (già 177) del Trattato istitutivo, circa la compatibilità dell’art.4, co. 6, della l. 29 marzo 1995, n. 95 (di conversione del d.l. 31 gennaio 1995, n. 26), che autorizza gli enti locali a costituire società per azioni con la GEPI per lo svolgimento di servizi pubblici, con i principi del diritto comunitario, con particolare riferimento al diritto di stabilimento e di libera circolazione, di libera prestazione dei servizi e della libera concorrenza.


Nella sua decisione, la Corte di giustizia, con riferimento al caso ad essa sottoposto, escluse che potesse ravvisarsi il prospettato contrasto, sia perché non erano stati forniti elementi sufficienti per valutare il contrasto con la tutela della concorrenza, ma secondo il ricorrente egualmente i primi giudici avrebbero dovuto valutare, nell’ambito delle loro attribuzioni, la potenziale incompatibilità della ricordata norma del diritto nazionale con i principi comunitari invocati, tenendo presente la giurisprudenza amministrativa, secondo a quale la scelta del socio privato da parte dell’ente pubblico titolare della maggioranza delle azioni deve avvenire mediante gara ad evidenza pubblica (Cons. di Stato, sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192).


A fronte di simili argomenti, in sede di appello il Consiglio di Stato ha però osservato che la costituzione di una società per azioni con la GEPI s.p.a. a norma dell’art. 4, co. 6, del d.l. 26/1995, non può essere qualificata come ipotesi di scelta del socio privato da parte dell’ente locale che sia socio di maggioranza in una società per azioni a norma dell’art. 122 l. 142/1990, rammentando che la giurisprudenza amministrativa aveva già avuto occasione di pronunciarsi su analoga fattispecie, pervenendo alla conclusione della piena legittimità dell’iniziativa, anche alla stregua del diritto comunitario (C.G.A. 23 luglio 2001, n. 410), facendo leva sulla speciale disciplina di cui all’art. 4, co. 6 e 8, del d.l. n. 26/1995, convertito in l. 95/1995.


Secondo i giudici amministrativi di appello, da un lato, la diretta individuazione da parte del legislatore di un partner privato privilegiato (la GEPI), in vista del conseguimento di specifiche ed infungibili finalità occupazionali, rende di per sé in configurabile l’esperimento di una gara pubblica dall’esito per definizione incerto; dall’altro, la previsione legislativa di una fase necessaria di evidenza pubblica nella successiva (ed obbligatoria, entro un quinquennio) procedura di alienazione della partecipazione azionaria GEPI, consentono di superare ogni eventuale dubbio di compatibilità della disciplina speciale di cui trattasi con la normativa comunitaria di pubblici appalti, rimanendo comunque salvo il principio del confronto concorrenziale, seppure differito al momento in cui, esaurite le contingenti esigenze occupazionali giustificanti la presenza del socio qualificato, la partecipazione societaria venga concretamente posta sul mercato.


Ma la parte forse più interessante della motivazione del giudice di seconde cure riguarda la reiezione dell’obiezione facente leva su una presunta estraneità dello scopo in concreto perseguito dall’ente locale rispetto ala finalità tipizzata dal più volte richiamato art. 4, co. 6, d.l. 26/1995, quella cioè di “favorire l’occupazione o la rioccupazione di lavoratori”, nel presupposto che l’iniziativa in questione non avrebbe raggiunto lo scopo della salvaguardia dei livelli occupazionali e quindi si sarebbe posta in contrasto con le finalità tipiche degli interventi GEPI. Inoltre, in quanto società finanziaria, la GEPI sarebbe stata sprovvista delle qualità necessarie allo svolgimento del pubblico servizio.


Nel respingere a censura, il Consiglio di Stato osserva infatti che “occorre tener conto … della profonda trasformazione subita dalla GEPI (anche e soprattutto sul piano teleologico-funzionale) rispetto al modello originario, a seguito delle modifiche legislative intervenute nel corso di oltre un ventennio”. Alle sole finalità congiunturali previste dalla l. 184/1971 si è aggiunto, nella nuova configurazione impressa alla Società dell’art. 5 l. 237/1993, un ben più vasto ed incisivo ruolo operativo nell’ambito di procedimenti di ristrutturazione e riconversione dell’apparato produttivo, in assolvimento di una generale e qualificata funzione di sostegno ed incremento dell’occupazione. in tale contesto, il riferimento operato dall’art. 4, co. 6, del d.l. n. 26/1995 al fine “di favorire l’occupazione o la rioccupazione di lavoratori” va logicamente rapportato al nuovo assetto (anche statutario) riconosciuto alla GEPI a seguito della novella del 1993, sì da rendere del tutto incongrue le valutazioni in ordine all’insussistenza dei presupposti per un intervento straordinario in settori economici in crisi, volto alla (sola) creazione di nuove occasioni di lavoro da offrire a lavoratori in cerca di prima occupazione o divenuti già disoccupati.


Il rilievo concernente l’inidoneità della GEPI sul piano tecnico alla gestione del servizio pubblico, d’altra parte, risulta smentito dalla esplicita previsione della normativa richiamata.


Occorre poi aggiungere che la costituzione di una società per azioni con la GEPI si differenzia sostanzialmente della fattispecie della scelta da parte di un ente locale del socio privatistico di minoranza, dovendo considerarsi che, fin dalla sua istituzione con la l. 22 marzo 1971, n. 184, la GEPI ha operato con capitale pubblico. Ne consegue, per il Consiglio di Stato, che nel caso in esame si è in presenza dell’ipotesi di una società per azioni a capitale interamente pubblico, istituita per la erogazione di servizi pubblici, oggi presa in considerazione dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella l. 24 novembre 2003, n. 326, che ha dettato una nuova formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 267/2000.


Il testo attuale del detto art. 113, co. 5, lett, c), consente l’affidamento dell’erogazione del servizio pubblico “a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.


Tale formulazione, riproducendo alla lettera le espressioni usate dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea nella nota sentenza 18 novembre 1999 adottata in causa 107/1998, Teckal s.r.l. c. Comune di Avano, deve, allo stato, ritenersi conforme ai principi del diritto comunitario.


Va poi tenuto presente che l’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito nella l. 24 novembre 2003, n. 32, già citato, ha inserito nell’art. 113 del d. lgs. 267/2000 un co. 15 bis, con il quale si opera un effetto sanante delle concessioni di servizi pubblici “con procedure diverse dall’evidenza pubblica” in caso di società a capitale interamente pubblico, ancora una volta “a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.


Il punto è di estremo interesse anche perché fra le vicende della GEPI s.p.a. e quelle di Italia Lavoro s.p.a. vi è un continuum, istituzionale e operativo. Ricorda infatti la Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 363 che quest’ultima società trova origine nella direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 13 maggio 1997, la quale ha disposto che il Ministro del tesoro, nell’esercizio dei diritti dell’azionista – assunti a seguito del processo di privatizzazione e di riordino degli enti pubblici detentori delle partecipazioni in GEPI s.p.a. – opera affinché quest’ultima “attribuisca ad apposita società, costituita o costituenda, e della quale detenga l’intero capitale la stessa GEPI s.p.a.” lo svolgimento dei compiti già affidati alla GEPI in particolare dall’art. 2 della citata direttiva: “l’orientamento e la formazione professionale già svolti dalla GEPI s.p.a.; la progettazione e la gestione di progetti di lavori socialmente utili, finalizzati a stabili occasioni di impiego e con particolare riferimento alle società miste, alle cooperative sociali, ai servizi alla persona, all’autoimpiego, alle attività non profit, al lavoro interinale e ad ogni altra forma di intervento che abbia come obiettivo la promozione dell’occupazione, con esclusione dell’assunzione di rapporti di lavoro in proprio”.


In attuazione di questa direttiva del Presidente del Consiglio è stata istituita Italia Lavoro s.p.a., la quale, ai sensi dell’art. 4 dello statuto, ha come oggetto “la promozione, la progettazione, la realizzazione e la gestione, sia direttamente che indirettamente, di ogni attività di intervento finalizzati alla promozione dell’occupazione sull’intero territorio nazionale, con riguardo particolare alle aree territoriali depresse ed ai soggetti svantaggiati del mercato del lavoro, con esclusione dell’assunzione di rapporti di lavoro in proprio”.



 

3.4. Le figure societarie ricadenti nell’ambito di esplicazione della giurisdizione del giudice contabile.


Fissato nei termini – ancorché sintetici e approssimativi – di cui ai paragrafi che precedono , il metro selettivo da utilizzare nei singoli casi, va detto che la casistica applicativa è pressoché infinita.


In ambito statale, si tratta delle società partecipate, a volte congiuntamente, dai vari Ministeri (Economia e Finanze in testa), ivi incluse la RAI s.p.a. e l’ultima nata, ARCUS s.p.a., nonché della società a capitale misto, quale innanzi tutto la Cassa Depositi e Prestiti; in ambito regionale e locale, si va invece dalle finanziarie regionali alle società di gestione del trasporto pubblico, dalle società create per la gestione di case da gioco alle società di trasformazione urbana, dalle società di cui all’art. 6, co. 1 del d.lgs. n. 259/2003 ai moduli di gestione delle farmacie comunali, per finire con la miriade di società ad oggetto sociale di ispirazione pubblicistica talora solo presunta o perfino improbabile.


(*) Omesse le note e i riferimenti bibliografici, queste pagine riproducono un capitolo del volume “Giurisdizione della Corte dei Conti e Responsabilità amministrativo-contabile a dieci anni dalle riforme” a cura di Massimiliano Atelli, pubblicato da Satura editrice, reso disponibile dal cortese consenso di autore ed editore che vivamente si ringraziano.