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 I materiali ferrosi fra sovranità nazionale e giudice comunitario.


PASQUALE GIAMPIETRO


 

Sommario: 1. Una situazione critica. 2. Le cause dell’incertezza. 3. Quali rimedi? 3.1. Il ricorso alle sentenze della Corte di Giustizia. 3.1.1. Natura ed effetti della decisione 11 novembre 2004. 3.1.2. Nuove aperture della CGCE sulla nozione di rifiuto. 3.1.3. “Materia prima secondaria” e prodotto finale. 3.1.4. Il c.d. “partito del tutto rifiuto”. 3.2. La efficacia “vincolante” delle sentenze della CGCE. 3.3. I rapporti tra ordinamento interno e sistema comunitario. 3.4. Cenni di dottrina. 4. La presa di posizione del Ministero dell’ambiente. 5. Norma interna difforme dal diritto comunitario e obblighi di applicazione della P.A. e della polizia giudiziaria. 6. Ancora sui doveri della Pubblica amministrazione.

 

1. Una situazione critica - Le vicende giudiziarie, susseguitesi negli ultimi tre anni, relative al sequestro dei rottami ferrosi ad opera delle Procure della Repubblica dislocate in alcune aree strategiche del Paese per il commercio di detto materiale1 - provenienti dall’estero e destinati alle fonderie e/o acciaierie italiane - hanno rappresentato un caso emblematico di difficoltà, non solo di natura economico-commerciale, a danno delle imprese direttamente interessate, ma anche di vera e propria crisi della fisiologica e doverosa cooperazione delle stesse istituzioni (politiche, amministrative e giudiziarie) coinvolte nella vicenda.

E’ appena il caso di ricordare, in proposito, due dati significativi circa la rilevanza sociale ed economica (imprese coinvolte, dipendenti e fatturato) di tale settore commerciale e della sua incidenza, diffusione e visibilità come attività “para-industriale”2:
a) “il mercato delle materie prime secondarie” (fra cui il materiale ferroso) “ è di vitale importanza per un Paese, come il nostro, che, povero di materie prime, impegna nei cicli produttivi circa il 50 per cento di materie prime secondarie derivanti dai rifiuti”3;
b) i rottami ferrosi, cioè i rottami di acciaio e di ghisa, a livello mondiale, sono di fatto i materiali più riciclati del mondo, con una circolazione, movimentazione e riutilizzo (rifusione) per 318 milioni di tonnellate annue (dati riferiti al 2003).
Nel sistema Italia, ogni anno il settore del recupero dei rottami ferrosi e non ferrosi mette a disposizione dell’industria del riciclaggio (acciaierie, fonderie di metalli ferrosi, fonderie di metalli non ferrosi) 14,5 milioni circa di tonnellate di rottame che costituiscono il quantitativo attualmente disponibile nel nostro mercato (gettito nazionale), di cui 1/5 (pari 5 milioni di tonnellate) proviene dall’estero.
Si evidenzia, inoltre, per maggior chiarezza, che, nel 2003, la produzione nazionale di acciaio grezzo a “forno elettrico”, cioè esclusivamente mediante la rifusione di rottami ferrosi, ha coperto il 63% della produzione nazionale di acciaio la quale, complessivamente, ha raggiunto i 26,7 milioni di tonnellate, considerando, cioè, la somma delle produzioni da “forno elettrico” e di quelle da “convertitore all’ossigeno”4.
Non è, dunque, sfuggito alle categorie degli operatori direttamente implicati, ma anche alla più larga platea dei cittadini attenti e partecipi alla vita del Paese, che:
- non sempre l’operato della polizia giudiziaria (di sequestro d’urgenza degli scarti ferrosi) e della Autorità inquirente ha trovato l’avallo della magistratura giudicante5;
- gli orientamenti espressi dal Dicastero dell’ambiente e della difesa del territorio, in più occasioni6, non hanno riscontrato sicura e condivisa accoglienza delle Pubbliche amministrazioni, regionali e locali, quando non sono stati del tutto contestati - ovviamente in quanto non vincolanti oltre che ritenuti illegittimi - da alcuni Uffici giudiziari7;
- il Governo (con decreti legge) e il Parlamento (in sede di conversione del d. l. n. 138/2002 o di legge di delega n. 308/2004, sul riordino della materia ambientale), hanno apertamente dissentito, nella definizione e regolamentazione dei residui di produzione o di consumo - come nel caso dei rottami ferrosi non considerati “rifiuto” - tanto da orientamenti minoritari della magistratura (soprattutto inquirente8) che dagli indirizzi interpretativi degli Organi comunitari9, introducendo, nell’ordinamento giuridico interno, norme da molti ritenute in rotta di collisione con quelle poste dalle direttive, secondo l’interpretazione che ne forniva la stessa Corte di Giustizia10.

2. Le cause dell’incertezza - Ma ci si potrebbe, a questo punto, domandare: da dove nasce tale e tanto “sconquasso”? Quali sono le possibili cause di così vistosi attriti istituzionali con le connesse pregiudizievoli ricadute sulla efficienza di quel settore commerciale?

La risposta, a ben vedere è, per il giurista, relativamente semplice e sufficientemente nota. Essa va ricercata, sul piano giuridico-formale, (anche) nella permanente, elevata incertezza delle norme giuridiche applicabili alle operazioni di importazione, trasporto, sbarco, stoccaggio, movimentazione e riutilizzo dei rottami ferrosi, non risultando ancora…. “pacificamente” nota e, soprattutto, unanimemente condivisa, la loro natura (ovviamente giuridica) di “materia prima secondaria” (da intendere, più esplicitamente come “merce” contrapposta alla nozione di rifiuto).

E’, infatti, del tutto evidente che, dalla preventiva qualificazione dei rottami - come (sotto)prodotto o rifiuto - discende una diversa regolamentazione, volta a disciplinare le descritte fasi (dalla raccolta al riutilizzo), connotate da distinti oneri burocratici ed economici, fonte, a sua volta, di diversificate responsabilità di natura amministrativa, civile, penale, fiscale, ecc. Tutto ciò non può ovviamente considerarsi indifferente per gli operatori, i quali hanno, di recente, fatto sentire la loro voce, chiedendo (non sostegno politico o provvidenze economiche ma….) semplicemente certezza giuridica “nella confusa e difficile normativa attuale”11
A questo punto, ci si dovrebbe coerentemente chiedere: perché tale persistente e risalente…. incertezza normativa sulla qualificazione del rifiuto?

Anche di tale quesito la risposta è, in parte, agevole:
a) perché il fenomeno della gestione dei rifiuti (e, per correlazione, delle materie prime secondarie: non rifiuto) è stata fatto oggetto di discipline – giuridiche e tecniche - derivanti da ordinamenti diversi (norme internazionali, comunitarie, nazionali, regionali) non sempre omogenee e coerenti;
b) perché molti sono gli interpreti di tali disposizioni, a diversi livelli, con distinti approcci (con riferimento agli interessi pubblici o privati da tutelare) e con diversa efficacia dell’atto interpretativo (parere, sentenza, contestazione, ecc., vincolanti o meno), con risultati spesso – e comprensibilmente – divergenti (tot capita tot sententiae)! Partendo dal basso, si pensi, nell’ordinamento interno, all’interpretazione/applicazione fornita dalle autorità amministrative e di governo, centrali e locali; dalle autorità di vigilanza e controllo; dagli organi di polizia giudiziaria; dalla magistratura ordinaria e amministrativa; dal legislatore nazionale (per es. con norme di interpretazione autentica, come l’art. 14, legge n. 178/2002), dalla Corte costituzionale12; e, nell’ordinamento comunitario, dalla Commissione U.E. e dalla Corte di giustizia13;
c) perché, come spesso accade, non sempre gli interessi pubblici e quelli privati convergono all’atto della loro ponderazione e componimento, in sede interpretativa della norma e/o della sua applicazione (anche se spesso il conflitto, come nella materia considerata, potrebbe risultare, per alcuni aspetti, apparente….: v. oltre).

Tale complicato assetto istituzionale, che pure costituisce un modello elevato e maturo di democrazia (cioè di potere diffuso, decentrato e/o trasferito, all’interno dell’ordinamento ovvero dallo Stato nazionale alla Comunità europea), di fatto, ha generato e continua a generare possibili divaricazioni di “letture” e dunque incertezza e instabilità giuridica e della prassi (quando non contraddizione, fra le istituzioni, e paralisi del mercato).

Con la ulteriore, infelice conseguenza che la normativa sulla gestione dei rifiuti – come di qualsiasi altra disciplina - anziché assecondare, stimolare e dunque potenziare il mercato (nel caso, del recupero dei rottami ferrosi), lo deprime e, qualche volta, lo arresta del tutto, in manifesta dissonanza dai propositi stessi del legislatore, degli indirizzi del Governo e degli obiettivi dell’impresa!

3. Quali rimedi? - Se, dalla spiegazione del fenomeno, si passa alle possibili proposte di soluzione – per diradare le delineate incertezze – le risposte proponibili mi sembrano connotate da considerevoli difficoltà e comunque non appaiono di breve periodo. Prima, peraltro, di esprimere la mia personale opinione, occorre diradare il campo dell’attuale, concitato dibattito14, da falsi problemi e da altrettanto inidonei suggerimenti.

3.1. Il ricorso alle sentenze della Corte di Giustizia – Una prima soluzione assai problematica - che ha però incontrato il favore di una parte della magistratura (soprattutto inquirente) - riposa sull’affermazione di principio secondo cui, dopo la pronuncia della Corte di Giustizia dell’U.E., dell’11 novembre 2004, sulla definizione comunitaria di rifiuto e sulla incompatibilità dell’art. 14, legge n. 178/2002 cit., con tale nozione, tutti i problemi interpretativi sopra delineati, sarebbero risolti anche con riferimento ai rottami ferrosi derivanti da scarti di lavorazione industriale o artigianale oppure originati da cicli produttivi o di consumo”, ex art. 1, commi 25 e 29, della legge n. 308/2004 cit.15

Sia perché la sentenza dell’alto Consesso affronta direttamente la portata e gli effetti derivanti dalla norma nazionale (art. 14 cit.), fornendo una definizione di rifiuto che potrebbe ricomprendere i rottami ferrosi; sia in quanto la decisione fornisce una interpretazione autentica di tale nozione, che sarebbe vincolante per gli Stati membri e, nel loro ambito, vincolante per la Pubblica Amministrazione e per gli Organi giudiziari16.

In definitiva, dopo tale pronuncia, potrebbe legittimamente procedersi, in sede amministrativa e giurisdizionale, alla disapplicazione dell’art. 14 cit. in considerazione del rilievo giuridico che le sentenze della Corte lussemburghese sarebbero, come accennato, immediatamente vincolanti e direttamente applicabili anche in sede giurisdizionale.

3.1.1. Natura ed effetti della decisione 11 novembre 2004 – Occorre certamente prestare grande attenzione a questa sentenza, sia in considerazione degli interessi coinvolti dall’intervento dell’organo comunitario (mi riferisco soprattutto agli operatori dello specifico e consistente mercato del riutilizzo, riciclo, recupero dei residui e/o sottoprodotti industriali e di consumo, in generale, e dei rottami ferrosi, in particolare) sia perché, per quanto attiene al nostro Paese, essa era stata sollecitata proprio da un giudice italiano, ed aveva ad oggetto il significato e la portata dell’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 75/442 CEE, come modificata dalla direttiva 91/156 CE17.
La conclusione cui è pervenuto quel Collegio, con la sua decisione “interpretativa”18, per la sua complessità ed importanza - sia in relazione al merito (di pesante chiusura verso la nozione di “materia prima secondaria” che viene, sostanzialmente, ricondotta in quella di rifiuto) che alla sua efficacia negli ordinamenti interni - giustifica, credo, qualche ulteriore approfondimento, per rimuovere alcuni equivoci e fornire ulteriori messe a punto.

Nel rigoroso rispetto delle norme costituzionali del Trattato CE ed in conformità agli indirizzi del giudice comunitario e nazionale19 va, infatti, ribadito che la pronuncia del giudice lussemburghese ha natura di sentenza dichiarativa resa, in via pregiudiziale, ex art. 234 Trattato. Per ciò stesso, essa non riveste i caratteri della definitività e della irrevocabilità20.

E’altrettanto assodato, in dottrina21 e nella giurisprudenza comunitaria, che non esiste un effetto generale (erga omnes) di tali sentenze, neppure nei confronti della Corte che le ha adottate, perché essa stessa non si sente formalmente vincolata dai propri precedenti22 che può tranquillamente smentire o cambiare.

3.1.2. Nuove aperture della CGCE sulla nozione di rifiuto. Un esempio emblematico di tali revirement giurisprudenziali – che smentiscono tale presunta coerenza (di indirizzi interpretativi) e la “definitività” delle pronunce dichiarative - è stato fornito, di recente, dalla nota ordinanza della stessa Corte di Giustizia 15 gennaio 2004, proprio in tema di definizione della nozione di rifiuto, con riferimento alla qualificazione del pet coke. Quel Collegio, invero, svincolandosi, in modo netto, da un preesistente (non del tutto omogeneo), indirizzo restrittivo - come non hanno mancato di notare, anche se in chiave critica, autorevoli studiosi - introduce criteri accentuatamente innovativi che contraddicono precedenti assetti, e nella direzione opposta di restringere sostanzialmente (anziché ampliare), tale nozione23.

Non è, infatti, sfuggita l’assoluta novità del principio affermato in detto provvedimento secondo cui non è rifiuto quel materiale che venga riutilizzato “…. pur derivando da un processo di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo”, tutte le volte in cui esso “… può costituire un sottoprodotto del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi, perché può sfruttarlo e commercializzarlo a condizioni per lei più favorevoli, in un processo successivo e senza operare trasformazioni preliminari”24.

Si tratta, mi permetto di rilevare, alla luce del chiaro tenore della motivazione, di una espressa e assai chiara rivalutazione, da parte del Giudice comunitario, dell’elemento soggettivo della volontà dell’imprenditore il quale – nella vicenda decisa - considerava il coke da petrolio (ma lo stesso è a ripetersi per il materiale ferroso), non un materiale di cui “disfarsi”, ma una materia “prodotta volontariamente” e consapevolmente di cui l’impresa, da tempo .., intende riutilizzare (nel caso del pet coke) “con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della propria raffineria o di altre industrie” (espressioni tratte dalla massima).

Tale valorizzazione della volontà del produttore viene giustamente esaltata, dalla Corte, non solo nel caso di riutilizzo diretto del sottoprodotto, per es. all’interno della raffineria di provenienza, ma anche allorché il detentore del residuo produttivo intenda destinarlo presso altri processi produttivi (a cui, negli esempi fatti, tanto il coke che il materiale ferroso possono essere ceduti), con univoco superamento del precedente limite giurisprudenziale, del tutto irragionevole sul piano tecnico e giuridico, secondo il quale il riutilizzo del sottoprodotto doveva necessariamente avvenire, “tal quale”, all’interno dell’insediamento e “nel corso del processo di produzione”.

In definitiva, non può sfuggire che il provvedimento sul pet-coke si pone nel solco di un orientamento del giudice comunitario che, dopo le prime chiusure segnate dalla sentenza Tombesi del 25 giugno 1997 (per cui tutti gli “oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfi “ sono da considerare rifiuto “.. anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo”, anche all’interno dell’insediamento”: v. punto 52), ha espresso delle rilevanti aperture, soprattutto con la sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, per la quale sono esclusi da tale nozione “ i sottoprodotti il cui riutilizzo sia certo.. senza trasformazioni preliminari e nel corso del processo produttivo” (v. punto 36).

Ebbene, l’ordinanza del 15 gennaio 2004 (sul coke) richiama tale precedente e lo porta alle logiche e coerenti conseguenze quando, nel rispetto di dette condizioni, estende l’esclusione in favore di quei materiali che vengano effettivamente riutilizzati anche presso terzi. In tal senso, peraltro, poteva essere letto anche un passo specifico della decisione Palin Granit (punto 34 della motivazione) ove si legge che il produttore del sottoprodotto potrebbe volerlo “sfruttare o commercializzare a condizioni a lui favorevoli, in un processo successivo, senza trasformazioni preliminari”25.

3.1.3. “Materia prima secondaria” e prodotto finale. Nel novero di tale indirizzo collocherei anche la successiva decisione del giudice comunitario dell’11 settembre 2003, Avesta Polarit Crome26 ove, con riferimento ai detriti e alla sabbia di scarto derivanti da una attività mineraria (di estrazione del cromo da un materiale grezzo sottoposto a perforazione, digrossamento e raffinazione), si riconosce la natura di non rifiuto (sottoprodotto) ai detriti e sabbia riutilizzati tal quali “per un necessario riempimento di gallerie della miniera “(per sostenerle) mentre….. agli stessi detriti e sabbia “che saranno trasformati in conglomerati” viene attribuita la qualifica di rifiuti.

La spiegazione di tale anomalia è rappresentata dalla considerazione che:
1) i primi residui “sono utilizzati come materia nel processo industriale minerario… non possono essere considerate sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi… il gestore della miniera può identificare fisicamente i residui che saranno effettivamente utilizzati nelle gallerie e fornisce all’autorità garanzie sufficienti di tale riutilizzo (punti 37/39)”; mentre,
2) i secondi sono rifiuti “in quanto la loro utilizzazione per operazioni di costruzione o per altri usi è incerta.. “ e quanto “……ai detriti che saranno trasformati in conglomerati, poiché anche quando una tale utilizzazione sia probabile, essa necessita precisamente di un’operazione di recupero di una sostanza che, come tale, non è utilizzata né nel processo di produzione mineraria, né per l’uso finale previsto” (punto 41).

Non può sfuggire ad una più attenta riflessione che la distinzione operata dal giudice comunitario sub 1 e 2 contiene delle forzature e delle incoerenze che non possono essere condivise. Si rifletta, in particolare che, in entrambe le ipotesi, l’utilizzo dei residui da attività mineraria riguarda:
- gli stessi prodotti (detriti e sabbia);
- con la stessa natura e provenienza - e dunque con una identico rischio ambientale;
- di cui il detentore non intende disfarsi e che effettivamente riutilizza (per riempimento di gallerie o per realizzare conglomerati cementizi).

Si argomenta, da parte della Corte, che i primi sono utilizzati nel medesimo processo industriale minerario e gli altri no perché sarebbero sottoposti ad un trattamento di recupero. Ma anche tali spiegazioni non mi sembrano probanti.

I detriti e le sabbie destinati a riempire le gallerie (svuotate dall’estrazione del minerale) sono oggetto di una attività di bonifica e sistemazione ambientale che non ha nulla a che vedere – sul piano oggettivo (merceologico e classificatorio) - con la distinta attività mineraria di estrazione del cromo (anche se la legge prevede l’obbligo di ripristino delle miniere e delle cave). Si presenta dunque approssimativa e metaforica l’osservazione della Corte circa un “residuo utilizzato come materia” nello stesso “processo industriale”.
Mentre per i detriti e sabbie utilizzati per la produzione dei conglomerati (secondo caso), non ritengo giuridicamente appropriato affermare che essi sono sottoposti a recupero e dunque resterebbero nell’area dei rifiuti. Sembra, infatti, corretto obiettare che anche quei residui vengono utilizzati “tal quali”, come materia prima secondaria, unitamente ad altre materie prime (primarie o secondarie) impiegate per fabbricare conglomerati cementizi (prodotto finale).
Tanto il cemento che il calcestruzzo costituiscono agglomerati di materiali greggi: il primo, formato da calcare e argilla e, il secondo, da cemento, sabbia e ghiaia. Ciascuna di tali componenti rappresenta una materia prima (primaria o secondaria) che resta tale anche se si trasforma in un distinto (e diverso) prodotto “finale”: appunto il calcestruzzo.
E’ pertanto tecnicamente e giuridicamente improprio parlare delle sabbie come rifiuto, prima di essere “recuperate” nel prodotto “finale” (“conglomerato”).
Sarebbe, invece, più corretto definire il fenomeno come utilizzo di distinte materie prime (primarie o secondarie: sabbie, ghiaia, detriti) per realizzare un prodotto finale: cemento (che non esiste in natura), tenendo concettualmente distinto il prodotto (finale) dalle singole materie prime che lo compongono: è stato lo stesso giudice comunitario ad avvertire che, in alcuni casi, il residuo produttivo o di consumo si presenta come sottoprodotto, cioè, più propriamente come “beni, materiali o materie prime che, da un punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione” [punto 35 della sentenza Palin Granit Oy cit.)

Resta da segnalare, sempre in tema di (asserita) coerenza delle pronunce pregiudiziali del giudice comunitario che, da ultimo, con sentenza del 7 settembre 2004, la stessa Corte, invitata a ridefinire la nozione comunitaria di rifiuto in un episodio di idrocarburi infiltrati nel suolo, ha “equiparato il termine sito contaminato con il termine rifiuto…..” , con la conseguenza che “ai siti contaminati si applica quantomeno la normativa sui rifiuti” 27

Di fronte a tali significativi revirement giurisprudenziali, non mi sembrano dunque del tutto giustificate le preoccupazioni di chi obietta, per es., che “l’ordinanza sul pet-coke potrebbe prestarsi ad avallare la condotta di quei produttori di rifiuti che, per sottrarsi ai rigori della legge, dichiarino di aver programmato l’ottenimento di determinati residui così da giustificare un loro <<riutilizzo>> eseguito al di fuori dei controlli preventivi della pubblica amministrazione”28.

Non solo, sul piano metodologico, le preoccupazioni dettate dalla scarsa efficienza dei sistemi pubblici italiani - di controllo preventivo - non possono incidere, né poco né molto, sul problema ermeneutico di una corretta ricostruzione di una nozione giuridica comunitaria e nazionale, così come esplicitamente e univocamente individuata nell’ordinanza de qua29; ma anche in considerazione del fatto che le imprese che “programmano” di recuperare determinati residui, quali il pet coke o il materiale ferroso, non lo fanno, normalmente, per eludere la legge… ma, molto più realisticamente, perché trovano un rilevante tornaconto economico a “non abbandonare nell’ambiente” quel prodotto (sia esso voluto sia esso “il risultato finale di una scelta tecnica” pur sempre adottata e quindi voluta), ma a esitarlo, tal quale (ovvero previe operazioni di recupero), presso terzi30.

3.1.4. Il c.d. “partito del tutto rifiuto”. L’ordinanza 15 gennaio 2004 sul pet coke, proprio per la sua forte apertura verso il mercato del sottoprodotto (estraneo alla disciplina dei rifiuti), non è piaciuta al “partito del tutto rifiuto”, per usare, in senso rovesciato, la mediocre e fuorviante metafora introdotta da chi si batte per una categoria allargata di tale nozione, etichettando, sotto la denominazione indistinta del “partito del non rifiuto”, tutti coloro che (di fatto, la maggioranza degli studiosi, della magistratura, delle forze politiche [di entrambi gli schieramenti]ed istituzionali) optano per una sua lettura più congrua, ragionevole “e sostenibile”.

Nel tentativo di screditare una pronuncia non gradita, si è innanzitutto sottolineato che “…in realtà le motivazioni della corte appaiono poco convincenti,… l’ordinanza risulta quanto meno non congrua rispetto al principio che essa afferma… Risulta peraltro che questo ordinanza è comunque inaccettabile nella sostanza proprio alla luce della pregressa e consolidata giurisprudenza della corte”31.

Essa infatti si porrebbe in vistosa contraddizione con il principio basilare secondo cui .. “ l’effettiva esistenza di un rifiuto, ai sensi della direttiva, va accertata… tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia” e sulla considerazione che la Corte abbia tradito i suoi precedenti (“ Tale principio, infatti, così come formulato, non risulta affatto dalla giurisprudenza pregressa…”), il noto Autore prospetta due possibilità:
“a) la corte .. ritiene il pet coke direttamente un prodotto in base al principio che è prodotto volontariamente e viene utilizzato con certezza nel processo di produzione. Se così, si tratta di una novità perché mai la corte aveva affermato questo principio di identificazione del prodotto. Questa conclusione va, quindi scartata, perché, essendo innovativa, non si sarebbe potuta affermare con una semplice ordinanza motivata…”;
“b) la corte ritiene il pet coke un sottoprodotto escluso dall’ambito dei rifiuti in base alla sua pregressa giurisprudenza. Ma anche in tal caso, la conclusione è inaccettabile in quanto, come si è visto, mancano le condizioni, fra cui spicca quella relativa all’assenza di operazioni di trasformazione preliminare (e che nel dispositivo non viene neppure menzionata). Non è, quindi, applicazione di giurisprudenza pregressa pur trattandosi di semplice ordinanza motivata”.

A me sembra, invece, in coerenza con i precedenti rilievi, che possa delinearsi una terza spiegazione: che la Corte, la quale non è vincolata - come sottolineato - dalle sue precedenti decisioni, abbia voluto rafforzare alcuni criteri già formulati in passato, volti a valorizzare l’elemento della volontà del produttore/detentore del sottoprodotto, una volta verificato il suo oggettivo riutilizzo, senza pregiudicare, in alcun modo, il principio fondamentale di garantire le finalità e l’efficacia della direttiva, assicurato, per l’appunto, dall’accertamento dell’effettivo riutilizzo del sottoprodotto, presso lo stesso insediamento o presso terzi.

Ma anche a seguire, per mera ipotesi, che si tratti di una novità, essa non può “ essere scartata pregiudizialmente perché innovativa”, sia perché la potestà esclusiva della Corte - di interpretare le fonti del diritto comunitario, ex art. 234 del Trattato - le consente logicamente di modificare le sue precedenti interpretazioni (e dunque di innovare sino a “contraddire”32 i suoi stessi “ arresti”: gli esempi da citare sarebbero assai agevoli) sia, in quanto, la funzione nomofilattica che le compete (vigilare sull’esatta ed uniforme interpretazione della norma) risulta giuridicamente compatibile anche con netti revirement giurisprudenziali33.

Obiettare infine, sub a), che, a tale innovazione, sarebbe da ostacolo la natura del provvedimento (ordinanza anziché sentenza) si presenta come un mero formalismo giuridico – o, al peggio, come una “censura” all’operato (irrituale) della Corte - che, peraltro, non è in grado di modificare in nulla la sostanza delle conclusioni dalla stessa assunte.
Quanto alle considerazioni, sub b), riteniamo più affidabile l’opinione del giudice comunitario – che ritiene di essersi conformato “alla sua pregressa giurisprudenza” (peraltro minuziosamente citata e commentata) – limitandoci ad aggiungere, in punto di fatto, che, secondo la sentenza, il pet coke non ha subito “trasformazioni preliminari” (ovviamente di natura sostanziale: cioè operazioni di recupero che modificano l’identità della sostanza) in quanto detto combustibile deriva, direttamente, “dal processo di raffinazione del petrolio .. ed è il risultato di una scelta tecnica (il coke da petrolio non sarebbe necessariamente prodotto nelle operazioni di raffinazione)…”.
Si legge, infatti in sentenza che, “…. lo scopo di una raffineria” (cioè l’obiettivo voluto dall’imprenditore) “ è precisamente quello di produrre diversi tipi di combustibile a partire dal petrolio grezzo” (compreso il pet coke).

3.2. La c.d. efficacia “vincolante” delle sentenze della CGCE. Come è noto, la sentenza di accertamento pregiudiziale fissa il contenuto della norma comunitaria (per es. più ampio o più ristretto di quello ritenuto dal legislatore nazionale, in sede di trasposizione, ovvero dai giudici nazionali, con riferimento alla norma comunitaria direttamente applicabile) ma non ne modifica la natura e l’efficacia, che dipende dalla sua fonte di produzione o provenienza (la norma può essere posta dal Trattato o dal regolamento ovvero da una direttiva34).

Tanto il Tribunale di Terni che la Sezione distrettuale del riesame del Tribunale di Venezia citt., nel sollevare questione di legittimità costituzionale – con riferimento all’at. 1 cit. e alla legge n. 308/2004 - invocano a sostegno dell’efficacia vincolante delle sentenze della Corte di giustizia (e/o del conseguente dovere di disapplicazione della legge iniziale), ben note sentenze della Corte costituzionale (nn.170/1964; 113/1985; 389/ 1989; n. 111/1990).
Peraltro, quei giudici di merito non si avvedono che tale citazione, nel caso sottoposto alla loro giudizio, non è pertinente. Tutte le decisioni da essi invocate, infatti, si riferiscono a fonti comunitarie con effetti diretti nell’ordinamento interno e pertanto, anche solo per tale ragione giuridica (a parte i profili di rispetto del principio di legalità della pena in caso di disapplicazione), non possono essere richiamate per sostenere l’effetto diretto e vincolante delle sentenze del giudice comunitario che ha interpretato l’art. 1, primo comma, lett. a) della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 /CEE - cioè di due direttive “classiche” - prive di effetto immediato negli ordinamenti nazionali.

In proposito bastava rileggere il seguente passo della sentenza 389/1989 del giudice costituzionale (pur richiamata nelle due ordinanze!), cui si sono conformate le successive pronunce evocate, per ricostruire correttamente tale meccanismo (effetti della sentenza interpretativa correlati alla natura /efficacia della norma interpretata):
- “ Poiché ai sensi dell’art. 164 (oggi art. 234) del trattato, spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nella applicazione del medesimo trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative”.
-“Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente “effetti diretti” – vale a dire una norma dalla quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non vi è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate ”.

In conclusione: il giudice nazionale si limita ad applicare - ed è vincolato - dalla norma comunitaria (con la portata precettiva identificata dalla Corte di giustizia) non dalla sentenza interpretativa della Corte, come chiarito dalla dottrina35. Più specificamente: se la Corte interpreta una “norma comunitaria avente effetti diretti negli ordinamenti internile precisazioni e le integrazioni della Corte .. hanno la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate36.
Come dire che “.. al giudice si impone la non applicazione della norma interna confliggente e l’applicazione della norma comunitaria (se) provvista di effetto diretto37, con l’ulteriore specificazione che il giudice (e la P.A.) applicano sempre e comunque la norma comunitaria e non la sentenza del giudice comunitario (che si limita a fissane la portata precettiva, estendendone o restringendone il contenuto ma non mutandone la natura, con riferimento alla sua efficacia diretta o indiretta negli ordinamenti interni).

Peraltro, su tale messa a punto sistematica, conviene, da ultimo…, anche il Tribunale di Terni it., il quale - dopo aver richiamato, nella parte motiva della sua ordinanza, l’art. 11 e 117 della Cost. (che non sarebbero stati rispettati dal legislatore nazionale in quanto l’Italia avrebbe “.. violato i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario , .. vincoli che derivano anche dalle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte europea di giustizia, cfr., per tutte, le sentenze n. 170/1984 e n. 113/1985 della Corte Cost)” - qualche riga dopo aggiunge, in senso opposto:
- “Ma tale soluzione giuridica non appare convincente per lo scrivente giudicante, che ritiene dunque di non adottarla, per diversi motivi, in punto di diritto. In primo luogo vi è un indirizzo, proprio a proposito dei rottami metallici, della terza Sezione della Cassazione, che, in sostanza, nega radicalmente qualsiasi influenza alla giurisprudenza comunitaria se porta ad una limitazione della nozione di rifiuto, così come interpretata dall’art. 14…., soprattutto in base alla duplice argomentazione che tale definizione è contenuta non in un regolamento ma in una direttiva; e che “la interpretazione pregiudiziale che compete alla Corte di Giustizia riguarda il Trattato e gli atti delle istituzioni della Comunità .. non già atti del legislatore nazionale” (Cass. pen. Sez. 3, c.c. 13 novembre 2002, n. 1421, Passerotti…”.

Analogamente la Sezione Distrettuale del riesame di Venezia, cit., tradisce, sul punto, qualche incoerenza sistematica quando, per un verso, censura il nostro “… Paese (che si è sottratto agli obblighi derivanti dall’appartenenza sua all’Unione Europea…. spettando agli stati membri di adottare ogni misura necessaria per conformarsi alle direttive vincolanti” e, per altro verso afferma, nella stessa pagina (la 13° dell’originale della sentenza): “…. E’ ribadita la necessità di applicazione immediata, diretta e prevalente, nell’ordinamento interno, dei principi fissati [meno che da direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di interpretazione da parte della nominata sentenza della Corte di giustizia comunitaria]”.

Sul punto è doveroso, dunque, ribadire che:
- l’art. 1 della direttiva (75/42 e 91/156), non ha efficacia diretta nell’ordinamento italiano (coma ripetutamente affermato dallo stesso giudice comunitario) e, pertanto, la nozione di rifiuto che la Corte di Giustizia individua, in base a tale disposto, non è immediatamente efficace e vincolante, in forza della direttiva, né per i giudici nazionali né per la pubblica amministrazione.
- lo stesso vale, di conseguenza, per la sentenza della Corte di giustizia dell’11 novembre 2004, che non deve essere applicata dalla P.A. e dal giudice nazionale in quanto detta pronuncia si limita a definire, in modo vincolante, una norma che non è idonea a produrre effetti diretti negli ordinamenti degli Stati membri.

Giudici e amministrazione non possono applicare l’art. 1, della direttiva – secondo l’interpretazione datane l’11 novembre scorso ovvero direttamente la sentenza – disapplicando l’art. 14, in quanto, si ribadisce, la norma comunitaria (nella portata individuata dalla sentenza) non è provvista di effetto diretto.

3.3. I rapporti tra ordinamento interno e sistema comunitario. Su tale ultima affermazione di principio, ormai pacifica, resta esemplare, per linearità espositiva e per rigore sistematico, la più volte invocata (ed equivocata) sentenza della Corte costituzionale n. 170/1984 che scolpisce il rapporto fra i due ordinamenti (nazionale e Comunitario) nei seguenti termini:

I) “Occorre tuttavia, meglio chiarire come, riguardo al fenomeno in esame, si ponga il rapporto fra i due ordinamenti. Sovviene in proposito il seguente rilievo. La disciplina emanata mediante il regolamento della CEE38 è destinata ad operare, con caratteristica immediatezza, così nella nostra sfera territoriale, come in quella di ogni altro Stato membro; il sistema statuale, dal canto suo, si apre a questa normazione, lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli organi competenti a produrle. Ora, la Corte ha in altro giudizio affermato che l’esercizio del potere trasferito a detti organi viene qui a manifestarsi in un “atto”, riconosciuto nell’ordinamento interno come “avente forza e valore di legge” (cfr. sentenza n. 183/73).
Questa qualificazione del regolamento comunitario merita un cenno di svolgimento. Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria. Esse non devono, né possono, essere riprodotte o trasformate in corrispondenti disposizioni dell’ordinamento nazionale. La distinzione tra il nostro ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato.
Quel che si è detto nella richiamata pronunzia, va allora avvertito, altro non significa, in definitiva, che questo: l’ordinamento italiano – in virtù del particolare rapporto con l’ordinamento della CEE, e della sottostante limitazione della sovranità statale – consente, appunto, che nel territorio nazionale il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perché tale. A detto atto normativo sono attribuiti “forza e valore di legge” solo e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l’efficacia di cui è provvisto nell’ordinamento di origine”.

II) Quanto ai doveri del giudice italiano – di applicazione della fonte comunitaria e di disapplicazione della norma nazionale confliggente - lo stesso Collegio così argomenta univocamente:
- “ Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell’ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l’atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e valore”, che il Trattato conferisce al regolamento39 comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale”.

III) Ne consegue che - nel momento in cui i giudici rimettenti di Terni e Venezia si appellano alla funzione di garanzia (di applicazione diretta della normativa comunitaria) assolta dall’art. 11 e (attuale) dall’art. 117 Cost., per disattendere l’art. 14 cit. (e successivamente la legge n. 308/2004) e tener conto esclusivamente della direttiva U.E. (nella lettura datane dalla Corte lussemburghese) - essi sembrano disattendere l’insegnamento del nostro giudice costituzionale che, sul punto, così lucidamente insegna:
“… D’altra parte, la garanzia che circonda l’applicazione di tale normativa (comunitaria), è – grazie al precetto di cui all’art. 11 Cost., com’è sopra chiarito – piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità40 devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o successiva. Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della specie. L’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale”41.

IV) I vincoli posti dall’art. 11 (e dell’art. 117, ultima versione) Cost., appena descritti, presuppongono, comunque, che la normazione comunitaria risponda a determinati requisiti di efficacia (non soddisfatti dalle direttive classiche non autoapplicative) come, da ultimo, afferma la Corte con il seguente passo:
“ La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. Fuori dall’ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia; e d’altronde, è appena il caso di aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l’atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità.
Il regolamento comunitario va, dunque, sempre applicato, sia che segua, sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili: e il giudice nazionale investito della relativa applicazione potrà giovarsi dell’ausilio che gli offre lo strumento della questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell’art. 177 del Trattato. Solo così è soddisfatta la fondamentale esigenza di certezza giuridica, sempre avvertita nella giurisprudenza di questo Collegio, che impone eguaglianza e uniformità di criteri applicativi del regolamento comunitario per tutta l’area della Comunità Europea”.

Chiarito l’equivoco (il giudice non applica le sentenze d’oltralpe ma le norme comunitarie, ad efficacia diretta, come interpretate dalla Corte, previa disapplicazione della norma nazionale), si può concludere nel senso che l’art. 14 cit., nonché l’art. 1, comma 25/29, della legge n. 308 cit., sono ancora efficaci, in quanto vigenti e vincolanti - sia per la magistratura che per le amministrazioni pubbliche - in attesa della pronuncia della Corte costituzionale e/o sino a quando il Parlamento non li modificherà o abrogherà.

Nel frattempo.. (ed è il nostro tempo), la loro disapplicazione (o non applicazione) è vietata dalla legge italiana e non consentita dall’ordinamento dell’U.E. il quale esclude la immediata applicazione di una direttiva non self-executing (non autoapplicativa), come quella in esame, per creare obblighi a carico dei cittadini o peggio, per fondare un giudizio di responsabilità penale a loro danno.42

3.4. Cenni di dottrina. Anche la dottrina più attenta accoglie le conclusioni, appena sopra esposte, osservando43, fra l’altro, che “La sentenza 11 novembre 2004 non “cancella” la legge n. 178/02 (art. 14) e perciò si deve rifuggire da facili entusiasmi nel valutare le conseguenze che da essa derivano con riferimento ai procedimenti amministrativi e soprattutto penali per fatti concernenti la gestione dei residui di produzione o consumo. . ”.

L’apprezzato Autore - dopo aver premesso che “Nelle materie riservate alla sfera di competenza della Comunità, il giudice ordinario deve provvedere ad assicurare la piena e continua osservanza delle norme comunitarie direttamente applicabili, senza tener conto delle leggi nazionali, anteriori o successive, eventualmente confliggenti (v. Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170) …. (sicché) si potrebbe perciò sostenere che giudici e funzionari debbano far ricorso diretto alla nozione di rifiuto dettata dalla Cee, non applicando la normativa nazionale con essa confliggente” – aggiunge subito dopo:
“Sennonché, qualche dubbio in proposito si può sollevare sia perché il principio in questione non ci risulta che sia mai stato enunciato in ambito penale, in cui la disapplicazione di una norma, che si risolva in una operazione in malam partem, è incompatibile con l’art. 25 Cost., sia perché una direttiva di per sé non può creare obblighi a carico di un soggetto né può avere l’effetto, di per sé, e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”.
Mi permetto di aggiungere due postille:
- la materia ambientale non è “materia riservata alla sfera di competenza della Comunità”, in via esclusiva, ma rientra nella competenza “concorrente” della Comunità e degli Stati nazionali, governata dunque dal principio della sussidiarietà (se non di “residualità”44);
- “il ricorso diretto alla nozione di rifiuto dettato dalla CEE”, previa disapplicazione, non può essere in alcun modo consentito, perché, al di là della impropria espressione, detto ricorso riguarderebbe una nozione introdotta da una direttiva CEE (nel senso assegnatole dal giudice comunitario), la quale, prima ancora di non poter costituire fonte immediata di responsabilità penale negli ordinamenti interni, non è idonea ad essere immediatamente applicata da giudice nazionale in quanto priva di efficacia diretta negli Stati membri (come ricordato dalla sentenza n. 170/84 della Corte cost. cit. dallo stesso Autore).

In definitiva: né invocando l’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 75/42 cit. (come modificata dalla direttiva 91/156 CEE) né dando applicazione alle pronunce del giudice comunitario, equivocando sulla loro vera portata ed efficacia (v. retro) e magari invocando a giustificazione (apparente), le pronunce della Corte costituzionale (come chiarito appena sopra) o del Consiglio di Stato cit.45 ; e neppure appellandosi ad isolate sentenze della sez. 3° della Cassazione penale46, e comunque contraddette da orientamenti contrari, ormai consolidati47, è legittimo disapplicare l’art. 14 cit. e la legge n. 308/2004, nei commi afferenti il riutilizzo del materiale ferroso48. Quei disposti, come rilevato, possono essere espunti dall’ordinamento solo dal legislatore nazionale (con l’abrogazione) o dal giudice delle leggi (con dichiarazione di illegittimità costituzionale) in quanto essi non contraddicono una fonte comunitaria ad effetti diretti.

4. La presa di posizione del Ministero dell’ambiente – Nel panorama poco sopra delineato si è finalmente pronunciato, expressis verbis, anche se con non commendevole ritardo, lo stesso Ministero dell’ambiente49, prendendo posizione in modo assai netto (e in linea con le soluzioni sopra esposte) sui seguenti temi:
- la natura e gli effetti delle direttive sui rifiuti escludono una applicazione diretta della nozione comunitaria di rifiuto, previa disapplicazione dell’art. 14, legge 178;50
- l’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 75/442 CEE (modificata dalla successiva direttiva 91/156) non produce effetti immediati sulla situazione soggettiva dei cittadini o delle imprese51;
- “le autorità nazionali non potranno né dovranno disapplicare la norma nazionale, dato che la soluzione del conflitto è rimessa all’organo legislativo……”.

Dopo aver sottolineato, in termini di opportunità e di certezza del diritto che”…la disapplicazione della definizione italiana di rifiuto comporterebbe il venir meno, per gli operatori privati e pubblici, per gli organi di controllo e per i magistrati, di quei criteri di certezza e di uniforme applicazione delle norme necessari per il corretto svolgimento delle attività ed indispensabili quando vi sia la possibilità di incorrere in sanzioni penali o il dovere di irrogarle..”, il Dicastero dell’ambiente, così conclude:

“ Pertanto, in risposta ai quesiti sottoposti, questo Ministero, nelle more di una nuova formulazione della definizione di rifiuto aderente ai principi comunitari ed in attesa che la Commissione meglio identifichi e precisi detti principi, ritiene:
- che le Capitanerie di Porto e, più in generale, le autorità nazionali siano ancora vincolate all’interpretazione autentica che l’art. 14, L. 178/02 offre dell’art. 6 comma 1 lett. a) D. Lgs. 22/97;
- che la norma nazionale, risultante dal combinato disposto dell’art. 6 comma 1 lett. a) D. Lgs. 22/97 e dell’art. 14 L. 178/02 non possa/debba essere disapplicata con diretta applicazione della direttiva 75/442/CEE.

Per quanto esposto, nei paragrafi precedenti, il parere espresso autorevolmente dal Capo Gabinetto del Ministro merita consenso in considerazione della correttezza e chiarezza delle soluzioni date, circa le delicate questioni giuridiche sottopostegli, e della direttiva finale impartita sul “vincolo” delle Capitanerie di Porto, come di tutte le Autorità nazionali all’osservanza dell’art. 14, visto che la norma è ancora vigente e non disapplicabile, tanto per le Pubbliche amministrazioni che per l’autorità giudiziaria (ai sensi dell’art. 101, comma 2, della Costituzione :”I giudici sono soggetti soltanto alla legge”) salvo, per quest’ultima, il potere-dovere di chiederne l’annullamento dinanzi alla Corte costituzionale (come correttamente è stato fatto dalla magistratura più avvertita).52

Non mi sembra proficuo disquisire, in questa sede, sulla natura e sull’efficacia dell’atto amministrativo adottato dal Capo Gabinetto in quanto appare evidente che si tratta di un parere doverosamente rilasciato dal menzionato dicastero ad un Ufficio periferico (Reparto Ambiente Marino della Capitaneria di Porto di Venezia e Monfacone) che ne faceva richiesta urgente, con formulazione di specifici quesiti.53

Resta da sottolineare l’autorevolezza e l’efficacia di un tale parere – che si sostanzia in una vera e propria direttiva con ben chiari scopi operativi nei confronti delle autorità richiedenti e , più in generale “delle autorità nazionali”54 – tenuto conto che, per legge55, il Capo Gabinetto, nominato dal Ministro dell’ambiente, collabora con quest’ultimo nelle relazioni istituzionali, cura l’esame di tutti gli atti che passano alla firma del Ministro e del Sottosegretario e, pur nel rispetto delle distinte funzioni tra le funzioni di indirizzo politico e i compiti di gestione, “assume ogni utile iniziativa per favorire il conseguimento degli obietti stabiliti dal Ministro56.

5. Norma interna (difforme), P.A. e polizia giudiziaria. Più serio il problema derivante dal contrasto tra l’art. 14 cit. e la sentenza della Corte di giustizia che ne dichiara l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario. Ma come si è ampiamente precisato, nei precedenti paragrafi, la corretta soluzione non riposa, come pure è stato insistentemente sostenuto, con qualche approssimazione, nel “dare applicazione” alla sentenza comunitaria57 quanto, semmai, come infatti è avvenuto, nell’adire il giudice delle leggi (v. oltre)58.

Né può sostenersi, come è stato prospettato, che con il parere ministeriale, in oggetto “…si scarica il problema sull’anello più debole“ (le Capitanerie di porto “organi amministrativi e organi di polizia giudiziaria”) sicché, nell’ipotesi di direttive ministeriali ed ordini opposti dell’A.G. “il povero agente o ufficiale è quello che comunque ci va di mezzo, qualunque cosa faccia”.59

L’ordinamento interno e quello comunitario costituiscono un complesso sistema sufficientemente coordinato ed equilibrato per non far ricadere - sulla pubblica amministrazione e sulla polizia giudiziaria…. - un contrasto tra Dicastero dell’ambiente e qualche magistrato, delle tante Procure della repubblica, derivante da un accertata difformità della normativa nazionale al diritto comunitario.
Il contrasto, infatti, si risolve, come osservato retro, con i previsti meccanismi della applicazione (da parte della P.A. e dell’A. G.) della norma comunitaria ad efficacia diretta ovvero sollecitando (ad opera del giudice):
a) le procedure di infrazione (ex art- 226 del Trattato);
b) la pronuncia pregiudiziale del giudice lussemburghese (ex 234 cit.);
c) facendo ricorso alla Corte Costituzionale” .60

Come si vede non ricadiamo né in una situazione imprevista – da risolvere in sede amministrativa o di polizia giudiziaria….(?) - né “paradossale”, essendosi verificato, di frequente, che uno Stato membro non condivida gli orientamenti del giudice comunitario (tutt’altro che certi e coerenti, come sottolineato) e, mantenendo la propria normativa interna contraria, si proponga di modificarla gradualmente o di trovare soluzioni diverse (rispetto a quelle emerse in sede giurisprudenziale) nelle sedi legislative e/o esecutive (politiche) europee a ciò deputate.

In tutti questi casi, la norma nazionale – in contrasto con la fonte comunitaria priva di efficacia diretta – resta vincolante per tutti i soggetti dell’ordinamento interno (cittadino, pubblica amministrazione, polizia giudiziaria e magistratura61) sino a quando non sia abrogata (dal legislatore) o annullata (dalla Corte costituzionale)62.

6. Ancora sui doveri della Pubblica amministrazione. Con riferimento alla pubblica amministrazione, il principio fondamentale ribadito più volte dal giudice delle leggi, si può così riassumere:
- la p.a. ha il dovere di adottare il singolo atto previa individuazione della norma applicabile alla fattispecie concreta, raffrontando la normativa europea e quella nazionale (fenomeno non nuovo in quanto ciò accade altresì nel caso di applicazione di norme nazionali con diversa posizione gerarchica);
- di fronte ad atti normativi comunitari produttivi di effetti diretti, anche gli organi delle amministrazioni nazionali, così come gli organi giurisdizionali, sono tenuti a dare ad essi senz’altro applicazione a prescindere dal diritto nazionale vigente63.
- l’atto amministrativo adottato sulla base di questa attività interpretativa, verrà sottoposto a controllo della giurisdizione. Sarà il giudice a decidere se l’interpretazione adottata dalla P.A. che ha dato luogo all’applicazione dell’una o dell’altra norma (nazionale o comunitaria) sia corretta o meno64.

I) Il rapporto tra diritto europeo e diritto interno, con riferimento all’azione amministrativa, si riverbera sul regime di invalidità degli atti amministrativi nell’ambito del diritto nazionale in modo diverso, seconda la efficacia della norma comunitaria.

Ove detta norma abbia efficacia diretta negli ordinamenti interni, si considerino i seguenti casi:
1) l’atto amministrativo adottato in violazione di norme nazionali in vigore che però siano contrastanti con norme comunitarie, e perciò da disapplicare, è un atto amministrativo valido ai sensi della disciplina statale sull’invalidità degli atti amministrativi (il vizio della violazione di legge in questo caso non rileva perché la legge doveva essere disapplicata);
2) l’atto amministrativo adottato in conformità a norme nazionali contrastanti con norme comunitarie, e perciò da disapplicare in base ai predetti principi, è un atto amministrativo invalido (la norma interna non poteva essere applicata);65
3) ove l’atto amministrativo sia adottato sulla base di legge incostituzionale (con riferimento sia all’ordinamento comunitario che all’ordinamento costituzionale), il giudice non potrà decidere direttamente, circa l’incostituzionalità della norma, ma dovrà rinviare la questione alla Corte costituzionale. Dopo la pronuncia di incostituzionalità provvederà all’annullamento dell’atto.

II) Diversamente si pone la problematica - sull’invalidità degli atti amministrativi - nel caso di contrasto della norma interna con la fonte comunitaria priva di efficacia diretta (come nel nostro caso).
4) atti amministrativi adottati in conformità a norme nazionali, contrastanti con norme comunitarie (prive di effetto diretto): in tal caso “.. non sembra dubbio che l’amministrazione non possa non applicare la norma nazionale, ovviamente interpretandola laddove è possibile, in conformità con i principi delle direttive comunitarie . E’ questa, appunto, la vicenda che ci occupa per la quale il contrasto si pone fra norma interna (l’art. 14 della legge n. 178 cit. e alcuni comma dell’art. 1 della legge n. 308 menzionata) e norma comunitaria (l’art. 1, comma 1, lett. a) delle direttive comunitarie66 75/442 e 91/156 CEE). Esclusa ogni possibilità di conformazione, in via interpretativa, della legge interna a quella dell’U.E. - stante l’evidenza e la insanabilità del contrasto, come accertato dal giudice comunitario (con la sentenza Niselli) - si deve concludere nel senso che:
5) anche il giudice amministrativo (come quello ordinario) “… sarà tenuto ad applicare la normativa nazionale”;
6) in sede di impugnazione dell’atto amministrativo, ove “… il contrasto tra le due normative permane….. il meccanismo della disapplicazione non può funzionare… “, secondo “…l’orientamento prevalente, e a nostro giudizio corretto… (Cons. Stato, VI, 24.1.1989, n. 30)”67;
7) il giudice amministrativo (e quello ordinario) ovviamente “.. potrà sollevare davanti al giudice competente la questione di costituzionalità della norma nazionale difforme dai principi della direttiva o di altro atto comunitario privo di effetti diretti. Siamo infatti in uno dei casi, sopra considerati, in cui la questione del contrasto tra i due diritti resta affidata alla decisione della Corte costituzionale68.

Appare pertanto dissonante con il sistema giuridico appena delineato, sui rapporti fra ordinamento interno e diritto comunitario – oltre che occasione o possibile causa di diffusa conflittualità istituzionale – invitare i funzionari italiani a coordinarsi con gli organi inquirenti della magistratura, in luogo di adempiere ai propri doveri di conformazione alle direttive ministeriali, e prima ancora, all’obbligo inderogabile di applicare la norma statale, benché confliggente con quella comunitaria priva di efficacia diretta (e anche se impugnata di incostituzionalità), come sembra di poter intendere leggendo alcune proposte o suggerimenti di un noto magistrato69.

Si è già detto che altre – e di tutt’altro genere e livello - sono le sedi istituzionali in cui la Carta costituzionale ed il Trattato di Roma collocano la risoluzione di tali conflitti. La loro stessa evidenziazione (e richiesta di soluzione) viene, fra l’altro, affidata - dall’ordinamento interno e dell’U.E. - solo ad alcuni organi in possesso di determinate condizioni soggettive ed oggettive.
Come è noto, dagli stessi organi sono esclusi gli uffici della Procura della Repubblica i quali non risultano abilitati a sollevare direttamente né questioni di costituzionalità né rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, come i giudici. Il Procuratore della Repubblica, infatti, nel compimento dei suoi compiti, svolge “attività giudiziaria”, ex artt. 50/54 quater c.p.p. (per es. indagini preliminari) ma non “funzioni giurisdizionali” (quali quelle – riservate al giudice - di accertamento, nel pubblico dibattimento, nel rispetto delle garanzie del contraddittorio e con sentenza, del reato ipotizzato e contestato dalla pubblica accusa)70.

Conclusivamente:
- l’art. 14, legge n. 178 cit. e l’art. 1, commi 25/29 della legge n. 308 richiamata (sui materiali ferrosi) sino alla loro caducazione/sostituzione, nei termini indicati, restano norme di legge statale e, come tali, sono cogenti – anche se in contrasto con una direttiva non autoapplicativa, fatta oggetto di accertamento pregiudiziale della Corte di Giustizia e di impugnative di incostituzionalità;
- il vincolo riguarda sia la Pubblica amministrazione, centrale e locale, che la magistratura, giudicante ed inquirente, e dunque tutti “i funzionari italiani”, compresi gli organi di polizia amministrativa e giudiziaria71, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale72, della Corte di Giustizia dell’U.E.73, della Corte di cassazione penale74 e del Consiglio di Stato75;
- appare pertanto consequenziale affermare che l’eventuale disapplicazione di tali disposizioni, in applicazione immediata delle direttive sui rifiuti (erroneamente ritenute direttamente applicabili) o della sentenza 11 novembre 2004, Niselli (altrettanto indebitamente considerata vincolante ed immediatamente efficace per il giudice e la P.A.), ponendosi in aperto contrasto con il sistema di rapporti instaurati fra i due ordinamenti esaminati (interno e dell’U.E.76), secondo l’insegnamento univoco ed esplicito della giurisprudenza (comunitaria e nazionale) sopra rassegnata, potrebbe configurare, come è stato già prospettato77, una possibile ipotesi di responsabilità disciplinare e civile (obbligo di risarcimento dei danni) a carico del “funzionario statale” o del magistrato che, tramite la descritta condotta (di indebita disapplicazione della norma statale interna, attualmente vigente e non disapplicabile in base a direttiva non autoapplicativa o a decisione della CGE), nella piena, doverosa consapevolezza della sua persistente efficacia vincolante (in quanto non ancora caducata dal giudice delle leggi o abrogata dal Parlamento), abbia cagionato la violazione e/o la compressione di diritti soggettivi, anche di rango costituzionale (diritti di proprietà, di iniziativa economica privata, diritti della persona, ecc.), provocando un danno, patrimoniale e morale, ad un qualsiasi soggetto giuridico che ne sia intestatario (persona fisica, ente, impresa)78.

 

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1 Mi riferisco agli uffici giudiziari di Venezia, Udine e Terni. Merita segnalare che dai porti di Venezia passa circa l’80% del traffico italiano dei rottami ferrosi diretti ad acciaierie e fonderie. Da quanto si apprende dal quotidiano “ Il Sole 24 ORE,” del 26 gennaio scorso, dal primo “stop” (leggi: sequestro) di detto commercio a Marghera, nel corso del 2004, si sono perse circa 400 mila tonnellate di detto materiale. Mentre, nel più ampio arco di tempo che comprende il periodo 2000/2003, secondo stime attendibili dell’Autorità portuale, il costo complessivo dell’interruzione dell’attività commerciale si aggira a 5 milioni di euro.
2 Che, non può, per evidenti ed oggettive ragioni storiche e commerciali, essere denotato o, peggio, assimilato a episodiche e marginali forme occulte e/o incontrollate di riutilizzo indebito di residui produttivi ferrosi.
3 Così ricorda il Sottosegretario al Ministero dell’ambiente, on. S. Stefani, in risposta ad una interpellanza parlamentare rivoltagli, ai primi di febbraio scorso, da alcuni deputati DS, a seguito della nota pronuncia della Corte di giustizia dell’11 novembre 2004, Niselli, pubblicata in questa Rivista n. 23/2004, pag. 16, con mia nota.
4 Dati forniti dall’Assofermet, nelle note di presentazione al convegno organizzato a Milano, l’1 marzo scorso, di cui si fa cenno a nota 11.
5 Si pensi al caso recente del sequestro di alcune partite di rottami ferrosi operato, in via d’urgenza, dalla p.g. nel Porto di Monfalcone, nel gennaio di quest’anno, seguito dalla richiesta di convalida del sequestro d’urgenza, da parte della Procura della Repubblica di Venezia, respinta del G.I.P. presso il Tribunale di quella stessa città con successivo dissequestro dei materiali, in data ’8 febbraio 2005: in tema, v. oltre).
6 Da ultimo quelli contenuti nella missiva dell’Ufficio Gabinetto del ministro, del 17 gennaio 2005, a firma del prof. P. Togni: v., oltre, par. 4.
7 Mi riferisco, per es., alle disposizioni impartite, nell’episodio accennato del gennaio scorso, dalla Procura della Repubblica di Venezia alla P.G. per intervenire sui rottami ferrosi in movimentazione presso il porto di Venezia, in quanto considerati “rifiuti”, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell’11 novembre 2004 (su cui v., oltre, par. 3.1.), contro l’indirizzo opposto manifestato dal Governo. Sulla decisione dell’Organo comunitario, mi permetto di rinviare alla mia nota “Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto: l’interpretazione “autentica” per la CGE”, in questa Rivista, n. 23/2004, pag. 22 .
8 Su cui mi sia consentito richiamare P. Giampietro, Proposte ricostruttive della “nozione autentica di rifiuto”, ex art. 14, l. 178/2002”, in Riv. Giur. dell’Ambiente, n. 2/2004, pag. 233, con richiami di dottrina (n. 1) e giurisprudenza della suprema Corte (n. 3).
9 Sto pensando, soprattutto, alle “letture” fornite dalla Commissione e dalla Corte di Giustizia dell’U.E. in materia di disciplina comunitaria della gestione dei rifiuti, come rassegnate nel commento di cui a nota precedente.
10 Si richiama, in proposito, il contestato dettato dell’art. 14 della legge n. 178/2002 e quello della legge delega n. 308/2004, artt. 1, commi 25/29: su cui, v. infra. Su tale ultima legge, si vedano le lucide osservazioni di F. Peres, Attività siderurgiche e metallurgiche: ridisegnata la disciplina sui rottami, in questa Rivista, n. 3/2005, pag. 20 .
11 Questo appunto era l’obiettivo dichiarato nella locandina di presentazione del convegno organizzato dall’ASSOFERMET, a Milano, il 14 marzo scorso, i cui Atti sono riportati nel sito web www.assofermet.it.
12 Da ultimo chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 14, cit. e dei commi 25/29 dell’art. 1, della legge n. 308/2004, cit. da Tribunale di Venezia, Sezione Distrettuale del riesame, ordinanza 8 marzo 2005, inedita (su cui v. oltre) e da Tribunale di Rieti 2 febbraio 2005, inedita (limitatamente alla legge n. 308). Si segnala, altresì, che la Procura della Repubblica di Asti, in sede di richiesta di archiviazione rivolta al G.I.P. di detta città, il 13 gennaio 2005 (inedita), ha sollecitato detto giudice, in via preliminare, di dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativa al contrasto dell’art. 14, legge 178/2002, con gli artt. 11 e 117 Cost. (sui profili di costituzionalità si dirà a momenti).
13 Sui “rapporti fra l’ordinamento dell’unione europea e l’ordinamento interno”, alla luce del nuovo Trattato costituzionale”, v. il recentissimo volume curato da ASTRID, “LA Costituzione europea” – Un primo commento – a cura di F. Bassanini e G. Tiberi (presentazione di R. Prodi e conclusioni di G. Amato), Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 263 (di V. Cerulli Irelli e F. Pizzetti).
14 Non sempre, spiace rilevarlo, libero da preconcetti o, addirittura, da sottese opzioni ideologiche.
15 La nuova disciplina introdotta dalla legge n. 308, sui “rottami ferrosi e non ferrosi”, oggi vigente, contempla:
1) due ipotesi (e discipline) differenziate:
a) la prima, relativa ai rottami provenienti dall’estero (ex comma 27), che si completa con il richiamo al comma 28 (sulla regolamentazione di una nuova sezione speciale dell’Albo);
b) la seconda, afferente i rottami prodotti in Italia, ex art. 29, introduttivo del comma q-bis) dell’art. 6, comma 1, del decreto Ronchi, a cui vanno raccordati i commi 25 e 26.
Per quanto attiene a quest’ultima ipotesi, il legislatore configura due distinte fattispecie:
b1) “rottami ferrosi e non ferrosi 1) derivanti da operazioni di recupero, ex 31/33 o 27/28 d. lgs n. 22/97 - i quali sono, necessariamente, qualificati “materie prime secondarie” per attività metallurgiche e siderurgiche (ciò che proviene da operazioni di recupero, va qualificato, per legge, ex art. 4, comma 1, lett. b), decreto Ronchi ed ex art. 3, del D.M. 5.2.1998, “un prodotto, una materia prima o una materia prima secondaria”) – a condizione che: 2) rispondano a determinate specifiche tecniche (CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o altre e diverse, nazionali o internazionali). Tale ipotesi non è nuova né sul piano concettuale né su quello della disciplina, in quanto già contemplata dal D.M. 5.2.1998, Allegato 1, Suballegato 1, voce 3 “Rifiuti di metalli e loro leghe sotto forma metallica non disperdibile” ;
b2) “rottami ferrosi o non ferrosi che costituiscono 1) “scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, 2) che possiedono in origine (fin dall’origine) le caratteristiche indicate dalle specifiche tecniche di cui alla prima parte della lett. q-bis (v. sopra). Si tratta, in definitiva, di residui industriali che vengono considerati non rifiuti (materie prime secondarie) non perché fatti oggetto di attività di recupero – come nel caso precedente sub b1)- ma in quanto possiedono, fin dalla loro formazione, le caratteristiche tecniche di cui sopra (CECA, AISI, ecc.) e possono essere utilizzati “tal quali” o con trattamento preventivo minimale, nel senso previsto dall’art. 14, comma 2, lett. b) della legge n. 178/2002.
A tale esclusiva ipotesi si riferiscono le specificazioni, quasi del tutto superflue e ripetitive, dei commi 25 e 26, che richiamano e confermano la validità e vigenza dell’art. 14, legge n. 178, in cui correttamente si riporta la fattispecie dei rottami ferrosi - quali scarti di lavorazione ovvero originati da cicli produttivi o di consumo - costituenti “materia prima secondaria” per la siderurgia e metallurgia. Essi, infatti, non costituiscono oggetto dell’attività di “disfarsi” (inteso in senso pieno, comprensivo dell’attività svolta anche al presente: “si disfi”, in aggiunta a quanto previsto dall’art. 14, cit. che fa menzione solo della diversa condotta di chi “abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”), purché siano destinati, in modo effettivo, “all’impiego” anche presso altri e diversi cicli produttivi, tal quali, in quanto già in possesso delle ridette “specifiche tecniche” (tale ultima condizione non era esplicitata nell’art. 14, ma, in qualche modo risultava implicita, sia con riferimento alla utilizzabilità “tal quale” del rottame, sia per l’assenza, in fase di riutilizzo, di un pregiudizio all’ambiente” superiore a quello derivante dall’uso della materia prima vergine corrispondente). L’aver indicato le fonti di regolamentazione di tali specifiche tecniche ( CECA, AISI, ecc) rende la nuova disciplina stringente rispetto all’art. 14 cit. dove ci si limitava a pretendere che detti materiali non subissero “ interventi preventivi di trattamento” o subissero trattamenti preventivi minimali (appunto perché già in possesso delle specifiche pretese dal mercato di destinazione per il riutilizzo).
16 Nell’ordinanza della Sezione distrettuale del riesame del Tribunale di Venezia 8 marzo 2005, cit. a nota 12, si leggono, infatti espressioni del seguente tenore: “ la Corte di Giustizia, con la pronuncia dell’11 settembre 2004… ha stabilito un principio di diritto incompatibile con la possibilità di applicazione del citato articolo 14, legge 178…” (pag. 8 dell’originale del provvedimento); “.. la sentenza della Corte di giustizia .. orientata nel senso della necessaria “disapplicazione” della norma di diritto interno contrastante.. (come) la legge 15 dicembre 2004, n. 308” (sui materiali ferrosi: v. ivi, pag. 11); “.. la proposizione chiave dell’appello proposto dal p.m. avverso il diniego del g.i.p. risulta essere fondato: il contrasto tra la sentenza della Corte di Giustizia comunitaria e le norme interne (anteriori e successive alla statuizione della stessa), potrebbe dirsi risolto, in quanto, adeguandosi all’insegnamento della Corte costituzionale, funzionari e giudici italiani devono “non applicare” le disposizioni tutte che qualificano i rottami metallici come materie prime secondarie: non solo perché contrastanti con la interpretazione di “rifiuto” dichiarata conforme al diritto comunitario della Corte di giustizia ….” (ivi, pag. 13); “… E pertanto, ribadita la necessità di applicazione immediata, diretta e prevalente, nell’ordinamento interno dei principi fissati [meno che da direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di interpretazione da parte della nominata sentenza della Corte di giustizia comunitaria] …… dalla sentenze della Corte di giustizia comunitaria (così Corte Cost., sentenza n. 389/1989 e n. 113/1985), ancora una volta richiamato che, giusta sentenza C/ 457 di data 11 novembre 2004, il principio di diritto comunitario risulta essere incontrovertibile e che le nominate disposizioni di legge risultano essere con esse incompatibili …, il Tribunale ritiene sussistere, nel caso sottoposto al suo esame, condizioni vincolanti nel senso della disapplicazione delle norme di diritto interno in contrasto (tanto seguendo la traccia segnata dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 170/1984).
17 Com’è noto, il Tribunale di Rieti, in data 20 novembre 2002, adiva la Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, invitandola a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla nozione giuridica di rifiuto, secondo l’ordinamento comunitario e, conseguentemente, sulla “compatibilità comunitaria” di una norma nazionale (l’art. 14, della legge 178/2002) adottata, in via d’urgenza, dal governo - ma ratificata poi dal parlamento - che ne forniva una “definizione autentica”, con l’intento dichiarato e ben preciso di non assoggettare agli oneri economici (aggravi di spesa) e burocratici (perdite di tempo, incomprensioni e rischio di errori), propri della normativa sulla gestione dei rifiuti, quei “materiali residuali di produzione e di consumo” (come i rottami ferrosi) che fossero “effettivamente riutilizzati, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento” ovvero subendo trattamenti preliminari minimi (per es. cernita, compattazione, macinazione, vagliatura, ecc. e, quindi, non di “recupero completo”), nel medesimo o diverso ciclo produttivo (cioè presso il produttore o presso terzi), ovviamente senza recare pregiudizi all’ambiente.
18 Non di condanna dell’Italia o di annullamento di quella disposizione, come si è letto o sentito da alcuni primi commentatori, per quanto ho cercato di chiarire nel contributo indicato a nota 7.
19 Cioè sulla base delle stesse sentenze della Corte costituzionale citate nelle ordinanze di Terni e di Venezia che hanno sollevato le questioni di costituzionalità indicate, retro, a nota 12.
20 Il suo contenuto - di accertamento del significato e portata della norma comunitaria (e non di quella nazionale) - non è dato una volta per tutte (una sorta di sentenza passata in giudicato). All’opposto, essa non preclude affatto la riproponibilità della stessa questione (e dunque un ulteriore rinvio pregiudiziale sul medesimo tema) anche da parte del giudice rimettente (per chiedere chiarimenti) o di altri giudici, sulla base ovviamente di nuovi elementi e/o nuove prospettazioni. In definitiva, detta pronuncia vincola il Tribunale di Terni – che l’ha sollecitata – ma non le altre autorità giudiziarie (civili, penali, amministrative) le quali non condividano le sue conclusioni. In proposito è sufficiente rinviare ad un qualsiasi manuale di diritto comunitario, come quelli citati nella mia nota “Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto,” cit. e, da ultimo, al volume della ASTRID, “La costituzione europea , cit., a cura di F. Bassanini e G. Viveri, citt. pag. 266.
21 Cfr. G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, Bari, 1996, pag. 63.
22 V., fra le tante, Corte di giustizia 24 novembre 1993, cause C- 267-268/91 (sentenza Keck).
23 Nell’annotare la sentenza in Foro it. 2000, IV, col 150, V. Paone osserva, fra l’altro, che “ .. la pronuncia.. rischia di aggiungere ulteriori elementi di confusione nel dibattito tuttora aperto sulla conformità della legge n. 178/2002 al diritto comunitario”.
24 Così riassume un punto saliente della sentenza V. Paone, op. ult. cit.
25 Tale ultima espressione non è sfuggita a V. Paone, che, nell’annotare la sentenza, in Foro it. 2003, IV, col 510, osserva: “ la Corte di Giustizia sostiene che certi materiali possono essere sfruttati o commercializzati, a condizioni favorevoli per i detentore, in un processo successivo onde si può opinare – anche se con notevoli perplessità a riguardo – che la corte volesse anche riferirsi alla eventualità in cui il residuo sia consegnato a terzi che lo riutilizzano in un nuovo ciclo produttivo . . Siamo dell’avviso che vanno ristretti i casi in cui i residui riutilizzabili sono sottratti alla sfera di applicazione della normativa sui rifiuti alle ipotesi in cui si instauri un rapporto diretto tra produttore del residuo e suo utilizzatore (ad esempio i gusci d’uovo macinati per produrre fertilizzanti)”..
26 In Foro it. 2002, V, col 510.
27 Così si esprime D. Rottgen, in “Primi commenti alla nozione di rifiuto secondo la Corte CE”, in Ambiente, n. 1/2005, pag. 5 e ss. il quale, critica puntualmente, e correttamente, il giudice lussemburghese concludendo che “.. la definizione comunitaria di rifiuto contenuta nella direttiva non comprende beni immobili, quali, per esempio, il terreno inquinato presente in un sito.. Nonostante ciò, resta il fatto che la sentenza della Corte crea una sostanziale incertezza di diritto..” (v. pag. 12, ultima colonna). Altro che coerenza ed efficacia vincolante delle sentenze della Corte (sulle direttive classiche)…!
28 Così V. Paone, cit. a nota 25, il quale, peraltro, in un successivo contributo, “La nozione di rifiuto tra diritto comunitario e diritto penale, in Foro it., 2005, IV, col 19, a commento di Corte di giustizia 11 novembre 2004, cit., riassume la deroga alla nozione di rifiuto – con riferimento ai residui di produzione e consumo – alle seguenti condizioni (con qualche interessante apertura): “.. per garantire la massima protezione ambientale”: a) il riutilizzo del materiale non deve essere solo eventuale, ma certo; b) il riutilizzo deve avvenire senza la preliminare trasformazione del materiale; c) il riutilizzo deve avvenire nel corso dello stesso processo di produzione; d) il riutilizzo può avvenire anche in un processo successivo, rispetto a quello di provenienza, ma sempre senza trasformazioni preliminari; e) il riutilizzo deve avvenire, in ogni caso, senza arrecare danni all’ambiente”.
29 Ricostruzione da compiere secondo canoni di probità e neutralità interpretativa e non in base a prospettive e/o con scopi di prevenzione penale, certo giustificabili, nel singolo caso, ma non adottabili, in via generale e sistematica, con l’effetto di colpire tutti quegli operatori (sicuramente la grande maggioranza) che operano nella legalità.
30 Forse che non costituisce “criterio di riconoscimento” di una sostanza come merce e non come rifiuto “ il grado di probabilità del riutilizzo di tale sostanza senza operazioni di trasformazione preliminare” ( v. sentenza Palin Granit, punto 37, richiamata dal punto 37 dell’ordinanza, in esame)?
31 Così G. Amendola, in Foro it. 2004, IV, col. 151, “Rifiuti, prodotti, e sottoprodotti: il coke di Gela”.
32 In tali evenienze non si può parlare, ovviamente, di contraddizione in cui sarebbe incorso l’organo giudicante ma, più correttamente, di un suo mutamento di “orientamento”, del tutto previsto, nell’esercizio del potere giurisdizionale (quello che i francesi definiscono, con metafora marinaresca, revirement giurisprudenziale cioè “mutamento di rotta” o “virata” ).
33 Altrettanto si può dire per la nostra Corte di Cassazione che, pur investita dello stesso compito nomofilattico, ex art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, ha fatto spesso registrare, nei più disparati settori ordinamentali, profondi rivolgimenti di precedenti assetti: basti pensare, di recente, alla sentenza delle Sez. Un. n. 500/1999 la quale ha affermato la risaricibilità del danno da lesione di interessi legittimi (anziché dei soli diritti soggettivi), azzerando, con un colpo di penna, mezzo secolo di propria giurisprudenza contraria!
34 V. G. Tesauro, Diritto comunitario, 2003, pag. 285. Nello stesso senso, fra i tanti, v. G. Greco, Rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale, in Trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti e G. Greco, 1997, pag. 399. L’effetto diretto all’interno degli ordinamenti interni è prodotto dalla fonte giuridica comunitaria e non dalla sentenza del giudice lussemburghese.
35 V. G. Tesauro, op. cit., pag. 323 : “ .. I giudici e amministrazioni nazionali saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla Corte”.
36 Così Corte Costituzionale 11 luglio 1989, n. 389, cit.
37 Cfr. G. Tesauro, op. cit. pag. 285.
38 Non quindi della direttiva classica.
39 V. nota precedente.
40 V. nota precedente.
41 La Corte, sul punto, chiarisce: “In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall’abrogazione, o da alcun effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all’interno dello stesso ordinamento statale, ad opera delle sue fonti. Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta – è stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito – nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario. Il regolamento, occorre ricordare, è reso efficace in quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni. Diversamente accadrebbe, se l’ordinamento della Comunità e quello dello Stato – ed i rispettivi processi di produzione normativa – fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, tuttavia, essi, per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. Proprio in ragione, dunque della distinzione dei due ordinamenti, la prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si è con la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale è interamente attratta sotto il diritto comunitario”.
42 In tal senso, v. Corte di giustizia 26 settembre 1996, Arcaro; Id. 25 giugno 1997, Tombesi; Id. 1 settembre 2000, Collino e Chiappero; e, per il giudice nazionale v. Cass. pen. Sez. 3, 28 ottobre 1997 – 26 giugno 1997, n. 1699, Aprà nonché, da ultimo, Cass. pen. 3 sez. 13 dicembre 2002, Passerotti.
43 Per es., V. Paone, a commento della sentenza della Corte di giustizia 11 novembre 2004, in Foro it. 2005, IV, col. 16.
44 Cfr. . G. Tesauro, , op. cit., pagg. 97/101.
45 V., oltre, nota 57 ove un noto “parere” del 13 maggio 1992, di quel giudice è esaminato in termini più appropriati.
46 Non motivate sul punto, salvo richiami impropri a decisioni del giudice costituzionale (richiamanti però il Trattato o i regolamenti), come sopra indicato.
47 L’orientamento minoritario, che improvvisamente suggerisce di disapplicare la normativa nazionale per applicare le direttive comunitarie o le sentenze della Corte di Giustizia (che sarebbero “immediatamente e direttamente applicabili in Italia”, in ogni caso e senza alcuna distinzione in ordine alla fonte comunitaria interpretata con efficacia diretta o meno), è rappresentato, in specie, da Cass. pen. sez. 3°, 27 novembre 2002, ric. Ferretti, in Foro it., 2003, II, 116 (rel. Novarese); Id. 5 marzo 2002, ric. Amadori, in Foro it., 2002, II, 673, 681 (rel. Novarese);. Per l’indirizzo prevalente, sostanzialmente condivisibile, in quanto rispettoso del sistema costituzionale e comunitario delineato nel testo, si vedano, in particolare:, Cass. pen., sez. III, 13 novembre 2002, ric. Ronco; Cass. pen., sez. III, 13 dicembre 2002, ric. Passerotti, in Foro it., 2003, II, 116; Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2003, ric. Costa, in Foro it. 2003, II, 514, con nota di V. Paone; Cass. pen., sez. III, 11 febbraio 2003, ric. Mortellaro ; Cass. pen., sez. III, 31 luglio 2003, ric. Agogliati ed altri; Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 2003, ric. De Fronzo (le ultime due decisioni, con nota di commento a cura di S. Beltrame, in Ambiente, IPSOA, n.12/2003, pag. 1179); Cass. pen., sez. III, 13 dicembre 2002, ric. Pittini, in Ambiente & Sicurezza, con nota di Butti; Cass. pen., sez. III, 12 novembre 2003, ric. Puppo; Cass. 14 novembre 2003, Balistreri, Ced Cass., rv. 227393; Cass. 14 novembre 2003, Min. difesa; id. rv. 227554; Cass. 25 giugno 2003, Papa, inedita; Cass. 25 giugno 2003, Malpignano, inedita; Cass. 6 dicembre 2002, Belardinelli, Rivistambiente 2003, 980 (con nota di Prati); G.i.p. Trib. Palermo 14. 02.2004, in www.giuristiambientali.it; Trib. Caltanissetta 3 luglio 2003, Barbaro, Riv. Pen. 2003, 770; per il giudice amministrativo: cfr. TAR Veneto 28 maggio 2003, n. 3479/03 (reperibile sul sito web: www.giustizia-amministrativa.it); Cons. di Stato, sez V, 19 febbraio 2004, n. 674;.
48 Diverso discorso ovviamente è da fare se si invocasse, a mio avviso impropriamente, il regolamento comunitario n. 259/93, per le ragioni che esporranno in altra occasione.
49 Tramite il suo Capo Gabinetto che, con missiva a firma del Prof. Paolo Togni, del 17 gennaio 2005, in risposta alle richieste delle Capitanerie di Venezia e di Monfalcone ha fornito le precisazioni di cui al testo.
50 Questo il testo: “ E’ necessario, in primo luogo, precisare che la direttiva comunitaria sopra indicata non è self executing; in altre parole la direttiva di cui trattasi non è direttamente applicabile nell’ordinamento italiano, diversamente da quanto ipotizzato sub b) dalla Capitaneria che propone il quesito. La circostanza non merita ulteriore approfondimento essendo riconosciuta dalla stessa Corte di Giustizia oltre che dalla Corte di Cassazione. Tuttavia la precisazione appare opportuna in quanto il quesito si incentra sulla possibilità che la definizione italiana di rifiuto, come interpretata dal legislatore nazionale, sia stata direttamente modificata da una sentenza della Corte di Giustizia che ha interpretato una direttiva non direttamente applicabile. Ciò posto, occorre ricordare che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia producono effetti solo sulla norma comunitaria interpretata e non sull’ordinamento degli Stati membri; sarà poi la norma comunitaria, nell’interpretazione data dalla Corte, ad esplicare o meno effetti diretti nell’ordinamento interno a seconda della propria natura”.
51 In proposito così si argomenta: “.. Si parla di immediata applicabilità di una norma comunitaria (norma avente effetti diretti) quando la norma incide direttamente sulle situazioni soggettive dei cittadini degli Stati membri. Tale fattispecie non ricorre quando, come nel caso della direttiva cui si riferisce la sentenza interpretativa 11 novembre 2004 della Corte, la norma comunitaria pone obblighi non per i cittadini ma per gli Stati membri e può essere applicata nei vari ordinamenti solo attraverso l’intervento del legislatore nazionale.
Come ha più volte affermato la Corte Costituzionale solo le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono, senza tuttavia produrre effetti estintivi, rispetto alle norme nazionali con esse incompatibili. Esclusivamente in tale evenienza le autorità nazionali hanno il potere-dovere di risolvere il contrasto disapplicando la norma nazionale. Come detto, nel caso in esame, siamo in presenza di una norma comunitaria non direttamente applicabile, di conseguenza non insorge diretto contrasto tra la norma comunitaria, nella interpretazione datane dalla Corte di Giustizia e la norma nazionale con essa incompatibile; infatti le due normative si muovono su piani differenti e sono collegate esclusivamente dall’intervento del legislatore nazionale.
52 In proposito, oltre all’opinione riportata retro di V. Paone (v. nota 28), si legga quanto scritto, in conformità, da G. Amendola : “..Ha facile gioco, quindi, il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Ambiente, a rispondere, con nota del 17 gennaio 2005, che la direttiva non è affatto self executing e che, quindi, le norme in essa contenute non sono direttamente applicabili negli Stati membri. Il che è totalmente condivisibile ma nulla ha a che vedere con il problema posto…. In realtà, il contrasto esiste, ma riguarda l’art. 14 della legge 178/2002, la quale vuole fornire una <<interpretazione autentica della nozione di rifiuto>>; e riguarda la sentenza Niselli della Corte europea che ha dichiarato questo articolo contrastante con la normativa comunitaria, in quanto consente di sottrarre rifiuti alla relativa disciplina stabilita dalla Unione Europea. Quindi, il vero problema che bisogna porsi è quali conseguenze derivano da una sentenza della Corte europea la quale dichiari una norma italiana contrastante con la normativa Europea..”. (così in “Rottami metallici, Ministero dell’ambiente e Capitanerie di porto”, in www. Dirittoambiente.com) . Si è già detto, su tale distinto tema, che l’espressione
relativa “all’applicazione diretta della sentenza comunitaria” contiene un equivoco (perché il giudice e la P.A. applicano la norma comunitaria, non la sentenza interpretativa di essa) ed è giuridicamente erronea ove, tramite la sentenza, si voglia riconoscere efficacia diretta ad una norma di direttiva non self executing.
53 Onde mi risulta incomprensibile la distinta spiegazione, volta a svalutarne il peso giuridico del parere, secondo cui “.. ci troviamo preliminarmente a comprendere che i richiedenti hanno inteso richiedere un quesito, e non un parere”: così D. Carissimi, in www.dirittoambiente.com.
54 Ovviamente amministrative, per la rilevata soggezione della magistratura soltanto alla legge, con potestà di disapplicazione di ogni atto o provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo.
55 Ai sensi dell’art. 1, comma 3, del DPR n. 245/2001, recante Regolamento di organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro dell’ambiente, adottato ai sensi dell’art. 7, d. lgs del 30 luglio 1999, n. 300.
56 Tra questi obiettivi va certamente annoverato quello – più volte dichiarato dal Ministro dell’ambiente - del potenziamento del mercato dei residui produttivi, in generale, e dei materiali ferrosi, in particolare, secondo quanto disposto dall’art. 14, legge n. 178 cit., prima, e dalla legge n. 308/2004, dopo.
57 Dovrebbe risultare ormai chiaro che, quando il Consiglio di Stato, nel noto parere del 13 maggio 1992 cit. afferma che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia, “.. pur non importando la caducazione della norma interna ritenuta incompatibile, si traducono in un obbligo di attuazione della normativa comunitaria rivolto a tutti i soggetti giuridicamente tenuti all’attuazione delle leggi, ed in particolare alle autorità giurisdizionali e amministrative “, esso si riferisce, indubitabilmente, alle ipotesi in cui la sentenza comunitaria cada su norme aventi effetti diretti (e non è il caso della sentenza 11 novembre 2004, Niselli), come si desume dal seguente passo dello stesso parere: “… tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se sono dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme ….. del Trattato CE nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea >>. Nella fattispecie decisa dalla Corte di Giustizia del 10 dicembre 1991, in causa C-170/90 (in Foro it. 1992, IV, 225) – richiamata dal Consiglio di Stato cit. – il giudice comunitario, adito per risolvere una questione pregiudiziale, aveva dichiarato che il monopolio delle compagnie portuali di Genova (per le operazioni di carico e scarico), assicurato dall’art. 110, codice della navigazione, era incompatibile con le norme del Trattato (artt. 90, 30, 48 e 86 ) le quali pongono il divieto di restrizioni quantitative all’importazione, la libera circolazione dei lavoratori, il divieto di sfruttamento di posizione dominate ecc. cioè precetti costituzionali immediatamente efficaci negli ordinamenti interni. Si imponeva pertanto, ai giudici italiani e alla pubblica amministrazione, di disapplicare la norma interna ed applicare, in sua vece, gli articoli citt. del Trattato .. “nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia” (operazione che non può ripetersi nel nostro caso, come suggerisce G. Amendola, op. ult. cit., il quale, per giustificare l’obbligo di disapplicare la norma interna e di dare attuazione alla sentenza Niselli dell’11 novembre scorso, cita a sostegno della sua tesi proprio il parere del Consiglio di Stato, sopra riportata, senza avvedersi della distinta fattispecie decisa (né la P.A. né il giudice ordinario e/o speciale, potrebbero applicare la sentenza Niselli per dare applicazione alla direttiva 75/442, perché quest’ultima non riveste, come ripetuto, l’efficacia delle norme del Trattato o di quelle del regolamento).
58 E’ bensì vero che in alcune pronunce della Cassazione si è fatto cenno, con espressioni tralatizie e apodittiche, alla diretta applicazione delle sentenze della Corte di Giustizia ma, ove si confrontino tali pronunce con quelle, di gran lunga prevalenti che, all’opposto, affermano la vincolatività e dunque danno attuazione all’art. 14, cit. (di cui appare esemplare la decisione assunta da Cass. pen. Sez. 3, 13 dicembre 2002, ric. Passerotti, cit. a nota 47), ci si accorge, all’evidenza, ben oltre il criterio (favorevole) della prevalenza numerica, quale indirizzo meriti adesione, in base alla congruenza e adeguatezza delle motivazioni giuridiche poste a fondamento della scelta ermeneutica propugnata (sulla quale concorda, in questo caso, anche il Ministero dell’ambiente).
59 Così, G. Amendola, in Rottami metallici cit. pag. 6.
60 In tal senso, V. Cerulli Irelli – F. Pizzetti, La Costituzione europea cit., 2004, pag. 267 che notano: “Quanto alle norme giuridiche nazionali in contrasto (con fonti europee ad efficacia diretta), si è detto, in base alla costruzione sinora seguita, che esse devono essere disapplicate dal giudice. Tuttavia resta in piedi per esse, lo scrutinio di legittimità davanti alla Corte costituzionale laddove il contrasto si rilevi nei confronti della normativa comunitaria non produttiva di effetti diretti, la quale, quindi, come tale non può essere applicata dal giudice (Corte cost. sentenze nn. 170/84; n. 286/86). E la competenza della Corte costituzionale a sindacare leggi nazionali in contrasto con la normativa comunitaria viene affermata altresì nel caso di ricorsi in via principale rispettivamente dello Stato e delle regioni ai sensi dell’art. 127, Cost. (Corte cost., sent. n. 94/5).
61 V. nota precedente. In ordine al possibile richiamo del nuovo testo dell’art. 117, 1° comma, Cost. - il quale, com’è noto, stabilisce il rispetto << dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario >> come quello che, tra gli altri, limita, in punto di costituzionalità, la potestà legislativa sia dello Stato che delle regioni – la stessa dottrina, da ultimo citata, conferma che tale limite “… potrebbe indurre a predicare, senz’altro, l’incostituzionalità delle norme legislative nazionali in contrasto con il diritto europeo” da far valere dinanzi alla stessa Corte (op. cit. pag. 267).
62 Come sembra ammettere lo stesso Amendola, op. ult. cit., con la seguente considerazione: “… E’ una situazione paradossale, resa ancora più grave dall’approvazione, 14 giorni dopo la sentenza Niselli, di una espressa disposizione, contenuta nei commi 25-29 dell’art. 1 legge 15 dicembre 2004 n. 308, secondo cui, in sostanza e in diretto contrasto con la sentenza Niselli, l’art. 14 resta valido ed i rottami metallici sono sottratti alla disciplina dei rifiuti”. Si può personalmente non condividere una norma di legge dello Stato ma essa resta tale anche (e soprattutto) per il magistrato, nel periodo della sua vigenza, fatti salvi i rimedi indicati.
63 Sono soggetti << all’obbligo di disapplicare disposizioni contrastanti della legge interna non solamente i giudici nazionali ma anche quelli degli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali >> ( Corte giust., sent. 29.4.1999, Ciola, causa 224/97; precedentemente:, Corte giust., sent. 22.6.1989, f.lli Costanzo, causa 103/88).
64 Lo stesso giudice, nell’ambito del sindacato di legittimità sull’atto amministrativo, deciderà se sollevare questione di pregiudizialità comunitaria dinanzi alla Corte di giustizia o di costituzionalità davanti al giudice delle leggi.
65 Sarà il giudice amministrativo, in sede di giudizio sull’impugnazione dell’atto, a dichiarane l’invalidità appurando che, nella fattispecie, doveva essere applicata la norma europea in vece di quella nazionale (nell’incertezza, rimettendo la questione alla Corte di giustizia).
66 In tal senso, testualmente, V. Cerulli Irelli e F. Pizzetti, op. cit. 2004, pag. 275.
67 Secondo gli AA citati a nota precedente.
68 V. nota precedente.
69 Si veda G. Amendola, Rottami metallici, cit., in www.dirittoambiente.com , il quale afferma: “… Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, ma, a nostro sommesso avviso, in questa situazione, c’è una sola strada da indicare ai funzionari italiani: riferire, immediatamente e per iscritto al Procuratore della Repubblica competente per territorio qualunque caso dubbio, chiedendo espresse indicazioni ed allegando, se necessario, sia le indicazioni dell’Autorità amministrativa sia le indicazioni della giurisprudenza, comunitaria e nazionale, riportate in questa nostra nota”. Mi permetto di rilevare che le tre sentenze della Cass. pen. citate dall’Autore a sostegno della sua tesi, riportate retro , in testa a nota n. 45, costituiscono un isolato orientamento contrario all’indirizzo prevalente richiamato nella stessa nota.
70 Osserva, in proposito, G. Tesauro, op. cit, pag. 302: “Sono, in particolare, stati esclusi dalla nozione di giurisdizione, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, la pubblica accusa, come il Procuratore della Repubblica italiano: v. Procura Torino, causa C-74/95 e 129/95, sentenza 12 dicembre 1996, punti 18/19; e già Pretore di Salò, causa 14/86, sentenza 11 giungo 1987.
71 Per richiamare i destinatari dei suggerimenti di cui a nota 69, per i motivi indicati a par. 5.
72 Posto in luce, retro, a par. 3.3.
73 V. retro, nel testo, nonché nota 42 e, da ultimo, la sentenza della Corte di Giustizia 3.05.2005 (ricorrenti S. Berlusconi, S. Adelchi, M. Dell’Utri e altri) sul falso in bilancio, ove si ribadisce che: “ una direttiva non può avere come effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna dello Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati”.
74 Richiamata a nota 47 che ha dato applicazione all’art. 14 cit., salvo casi episodici e del tutto isolati.
75 Commentato a nota 57.
76 Esposti a par. 3.3. Diversa soluzione va ricercata in caso di contrasto fra norma interna e regolamento comunitario, ma non sembra il nostro caso (come si esaminerà, in altra occasione, con riferimento al regolamento 93/259 cit.).
77 Per es. dal capo di gabinetto del Ministro Matteoli, Paolo Togni, il quale, con toni molto perentori, ha dichiarato al presidente di Federacciai - come riferisce L. Di Pillo, su “Il Sole 24 Ore” del 26 gennaio scorso, pag. 20, che “.. la normativa vigente consente alle imprese danneggiate dai comportamenti irresponsabili e illegittimi dei magistrati di chiedere loro conto dei danni e il ministero sarà lieto di schierarsi a fianco degli operatori economicamente corretti...”.
78 Sulla responsabilità amministrativa – oggetto di accertamento da parte della Corte dei Conti - per violazione degli obblighi di servizio e sul grado di colpa del pubblico dipendente, v. da ultimo, M. Andreis, in La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione (a cura di F. Caringella e M. Protto), Zanichelli, Bologna, 2005, pag. 1821 e ss. Quanto alla responsabilità disciplinare del magistrato, essa è sempre connessa ad un comportamento, atto o provvedimento che ha cagionato un danno ingiusto, in quanto posto in essere contra ius. In altre parole si tratta di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario diverso da quello che avrebbe dovuto essere realizzato ove il responsabile avesse correttamente applicato alla fattispecie esaminata la norma giuridica corrispondente. Come è noto si richiede altresì un atteggiamento della volontà che assuma la forma del dolo o della colpa grave. Quest’ultima si configura, nel caso di erronea interpretazione delle norme giuridiche, quando tale erroneità derivi da negligenza inescusabile, vale a dire insuscettibile di giustificazione (nel nostro caso, la colpa andrebbe valutata con riferimento alle nozioni indicate di (sicura) validità e non disapplicabilità della norma nazionale, ancorché ritenuta in contrasto con direttive non autoapplicative in sede di accertamento pregiudiziale, prima del giudizio di validità della Corte costituzionale nel (pacifico) rapporto fra i due ordinamenti giuridici: comunitario e nazionale).

 


 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 6/10/2005

 

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