La nozione di
rifiuto fra Cassazione Penale e Corte Costituzionale
PASQUALE GIAMPIETRO
1. Un chiarimento finale. La presente nota mi é stata suggerita da una
recente pronuncia del giudice di legittimità1
la quale, per la significatività del caso esaminato (deposito di materiale vario
in un cantiere di impresa che, occupandosi di costruzione di strade, intendeva
riutilizzarlo per la formazione di sottofondi e tappeti bituminosi) ma,
soprattutto, per il rigore e la limpidezza della motivazione, giustifica
certamente una ulteriore riflessione sulla importante e tormentata esperienza
(legislativa, giurisprudenziale e di prassi amministrativa, nella concreta
regolazione del mercato dei residui produttivi) “innescata” dalla definizione
autentica della nozione giuridica di rifiuto, adottata con l’art. 14, del
d.l. n. 138/2002, convertito in legge n. 178/2002
Con espressioni sintetiche, ma di notevole profondità, essa ripropone, negli
esatti termini, i più rilevanti problemi che quella norma aveva sollevato,
indicando le corrette soluzioni alle tante questioni di diritto interno,
comunitario e costituzionale che i giudici di merito e di legittimità avevano,
in precedenza, sollevato, e, con diversità (e spesso incompatibilità) di
accenti, risolto.
In tal modo la decisione assolve egregiamente a quella funzione di
“nomofilachia” (“cioè di esatta osservanza ed uniforme interpretazione della
legge”) a cui la Corte di cassazione è chiamata2,
rendendo probabilmente superfluo un eventuale ricorso alle Sezioni Unite per
ricomporre un conflitto di indirizzi, in seno alla stessa sezione…, che vedeva
contrapposti due orientamenti di pensiero (l’uno, isolato e minoritario e
l’altro, assolutamente prevalente), che non meritavano di coesistere più oltre3.
2. La posizione delle parti. In punto di fatto i due ricorrenti –
cui era stata contestata, in cooperazione, la contravvenzione di deposito
incontrollato di rifiuti speciali, ex art. 51, comma 2 e, solo per il secondo,
di trasporti dei suddetti rifiuti senza autorizzazione – si difendevano, in
diritto, rilevando, soprattutto, che i materiali depositati presso il cantiere
della ditta di costruzione di strade (del primo imputato), erano da considerare,
per la loro intrinseca natura, “materia prima secondaria” (terre,
cemento, mattoni, ferro legno, ecc.) e, come tali, destinati al reimpiego, ai
sensi del menzionato art. 14.
A sua volta il Pubblico ministero, dato per scontato il carattere
“vincolante” delle sentenze della Corte di giustizia e della decisione
quadro 2003/80/GAI del Consiglio U.E. del 27.1.2003 (relativa alla protezione
dell’ambiente attraverso il diritto penale) - nei confronti del giudice
nazionale - ravvisava che il vero conflitto da superare non consistesse
tanto nella scelta tra una interpretazione adeguatrice al diritto comunitario
della normativa nazionale e una applicazione della norma nazionale (art. 6) come
interpretata dall’art. 14, legge n. 1784,
quanto, piuttosto, nel contrasto fra una interpretazione doverosamente conforme
al diritto comunitario (che prevale sulla norma interna incompatibile) e
un’interpretazione rispettosa del sistema costituzionale italiano il quale
considera prevalente il principio della legge penale più favorevole, ai sensi
dell’art. 2, c. p., quale corollario della norma di cui all’art. 25, comma 2
Cost. (“controlimite” alla limitazione della sovranità nazionale derivante dal
diritto comunitario, ex artt. 11 e 117 Cost.).
In subordine, la Pubblica accusa insisteva, ove non fosse sollevata questione di
costituzionalità, affinché la Suprema corte rigettasse i ricorsi - fondati
sull’art. 14 cit. – dovendo far propria l’interpretazione della sentenza
della Corte di Giustizia 11 novembre 2004, Niselli, che, com’è noto, ritiene
la disposizione italiana incompatibile con la nozione comunitaria di rifiuto (in
quanto più restrittiva)5.
3. Quando non c’è “disapplicazione” della norma nazionale. La Cassazione,
in esame, prende le mosse sul piano sistematico, sotteso all’ordine
argomentativo, proprio dal tema centrale del ravvisato contrasto tra norma di
interpretazione autentica, di cui all’art. 14 cit., e nozione di rifiuto,
come individuata dalla giurisprudenza comunitaria. E, dato per ammesso
(piuttosto che convincentemente dimostrato, a punti 5 e 6 della motivazione6)
che l’art. 14 “ha carattere modificativo e non interpretativo” di tale nozione
(punto 6), conclude nel senso che “…il legislatore nazionale non può
controqualificare il rifiuto come materia prima solo sulla base di una attuale o
potenziale utilizzazione”.
Ma, proprio nel momento in cui la Corte intende porre in luce “le conseguenze
giuridiche che discendono da questa innegabile incompatibilità” (punto 7),
in una sorta di definitiva messa a punto finale dello “status questionis”
– che ha visto anche nei gradi più alti della giurisdizione, affermazioni a
volte apodittiche e/o prospettazioni non meditate, presentate però come sicuri
assiomi di diritto comunitario – essa cancella, con penetrante e icastica
motivazione, una gran messe di reiterati luoghi comuni che, diffusi in
più sedi e con autorevole perentorietà, avevano finito per assumere le sembianze
di mezze verità, oscurando la corretta soluzione dei veri problemi.
Recuperando un compito nomofilattico che, altrimenti, si sarebbe dovuto
attendere, chi sa per quanto tempo ancora…., dalle Sezioni unite (e chi sa con
quali conseguenze pratiche sul mercato del riutilizzo…), si è colta l’occasione,
con scelta sicuramente meritoria, per sbarrare definitivamente la strada
a molte delle più importanti “vie” per le quali parte della dottrina e della
giurisprudenza (anche di merito) era pervenuta alla “sterilizzazione”, di fatto,
dell’art. 14, partendo, innanzi tutto, dal noto (e mal-inteso) principio
della “prevalenza e della immediata applicabilità del diritto comunitario”
(punto 7).
Da quel criterio, certo e indefettibile, si era, infatti, desunta e suggerita,
con vigore e insistenza - alla magistratura tutta [inquirente e giudicante],
alla Pubblica amministrazione e, persino, agli organi di polizia, giudiziaria e
amministrativa… - la derivata regola, pratica e tranciante, della
“disapplicazione” della norma interna, sempre ed in qualsivoglia tipo di
conflitto… con le fonti dell’U.E.
La decisione, in commento, “cassa” , a chiare lettere, tale soluzione giuridica
non già perché non ritenga condivisibile il principio della prevalenza del
diritto comunitario sul diritto interno ma, assai più semplicemente, in
quanto non ne ricorrono, nello specifico, le condizioni: quel principio,
infatti, è indissolubilmente connesso (e dipendente) dall’effetto diretto
della norma comunitaria che, nel caso in decisione, (contrasto dell’art. 14,
con le direttive 75/442 e 91/156), manca affatto7.
Sottolinea la Corte che, per superare l’art. 14, il giudice nazionale dovrebbe
applicare, in sua vece, il diritto comunitario il quale, peraltro, assumendo la
forma (“atto-fonte”) della direttiva classica (contenente norme non
autoapplicative), non può avere effetti diretti nell’ordinamento nazionale - in
mancanza di una corretta legge di trasposizione - neanche tramite
l’intermediazione dell’autorità giudiziaria dello Stato membro.
Sotto tale ultimo profilo, sono nel giusto, sottolinea e ribadisce la sentenza,
quelle pronunce che formano “l’orientamento prevalente” della Corte di
cassazione, secondo cui “l’art. 14 è vincolante per il giudice italiano
giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è .. self-executing..”.8
3.1. I limiti (intriseci) delle sentenze della Corte di giustizia. Alla
“prevalenza del diritto comunitario” si raccorda l’ulteriore motivo in forza
della quale, ove non si possa applicare immediatamente la direttiva (non
correttamente attuata o suppostamente “limitata” dall’art. 14), sarebbe
consentito, comunque, “eludere” la norma nazionale in ossequio all’obbligo
(sempre di matrice comunitaria) di dare applicazione alle sentenze della
Corte di Giustizia la cui interpretazione del diritto comunitario
risulterebbe comunque “vincolante” per il giudice nazionale.
A sostegno di tale efficacia diretta e vincolante (questa volta delle
decisioni del giudice comunitario) si invocava il reiterato (e ritenuto
conforme) insegnamento della Corte costituzionale, la quale, in più occasioni,
avrebbe dato atto dell’assoggettamento del giudice nazionale alle pronunce della
Corte lussemburghese.
E’ stato sufficiente che il giudice di legittimità ….. rileggesse quelle stesse
sentenze del giudice costituzionale (citate, per sostenere la tesi opposta….,
dall’orientamento giurisprudenziale e dottrinale confutato9),
per dichiarare “non accoglibile questo argomento” (punto 8) - espressamente
valorizzato nella memoria scritta del P.M. con esplicito riferimento alla
sentenza Niselli cit. - sulla elementare considerazione che:
“.. la pronuncia della Corte di giustizia, che precisa o integra il significato
di una norma comunitaria, ha la stessa efficacia di quest’ultima, sicché
la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell’ordinamento
nazionale, se e in quanto lo sia anche la norma interpretata”
.10
Trattasi di soluzione correttissima, rintracciabile nell’insegnamento del
giudice costituzionale come nella dottrina comunitaria (nazionale e d’oltralpe),
che discende dalla constatazione che:
a) i contenuti normativi enucleati dalla Corte non sono, sul piano
logico-giuridico, entità diverse e distinte dalle norme contenute nella
disposizione interpretata (la cui portata non esiste di per sé ed
oggettivamente, al di fuori delle interpretazioni che ne dà quel giudice);
b) l’interpretazione della Corte non modifica, normalmente, la tipologia
dell’atto-fonte sicché qualunque sia il significato attribuito alla norma (più
ristretto o più esteso) quest’ultima conserva l’efficacia propria
dell’atto che l’ha prodotta (cioè, di volta in volta: norma del
Trattato, del regolamento, della direttiva), fatto salvo il caso in cui sia lo
stesso giudice comunitario ad attribuire alla norma una efficacia diretta
nonostante che tale requisito non sia posseduto, all’origine, dall’atto fonte
(come quando essa riconosca che alcune norme della direttiva, considerata sino
al momento della pronuncia, una direttiva “classica”, devono considerarsi
dettagliate e incondizionate ovvero, per es., che alcuni divieti del
Trattato rivestano efficacia diretta11);
c) non ricorre tale ultimo caso (di presenza di norme dettagliate e
incondizionate) con riferimento alle direttive 75/442 e 91/156 CEE (né la
sentenza Niselli ha riconosciuto efficacia diretta all’art. 1, comma 1, lett. a)
della direttiva cit. sulla nozione di rifiuto).
4. La materia propria del regolamento 259/93. Una alternativa autonoma
molto accreditata, perché di facile praticabilità (oltre che episodicamente
suggerita dalla stessa Corte di giustizia), era rappresentata dalla “proposta”
di ricercare la nozione di rifiuto nel regolamento CEE n. 259/199312,
quale fonte normativa con efficacia diretta negli ordinamenti interni.
Tale brillante espediente, fatto propria dalla stessa terza sezione, in due
isolate decisioni13,
pur avendo il merito di evitare, alla radice, le obiezioni sollevate alle due
precedenti soluzioni, risulta definitivamente (anche se parzialmente)
abbandonato dal giudice di legittimità in base ad argomenti di rilevante
peso:
a) innanzi tutto con una eccezione “per materia”: il recepimento della nozione di rifiuto, come definito dalla direttiva, potrà essere invocato, a tutto concedere, “limitatamente alle” (materie delle) “spedizioni di rifiuti che, a scopo di sorveglianza, devono essere previamente notificate e munite di documento di accompagnamento”. Ne deriva, contrario sensu, che “… detta nozione quindi non è direttamente applicabile per tutte le altre materie diverse dalla spedizione dei rifiuti” (come nel caso deciso);
b) in termini di principio ciò comporta che: “non si può quindi parlare, a tale riguardo, di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale ed illimitato”, come si desume storicamente, ripercorrendo la giurisprudenza comunitaria che “.. ha sempre focalizzato il suo esame”, in sede di accertamento pregiudiziale “della nozione comunitaria di rifiuto, sulla direttiva 75/442…” (argomento che non è stato utilizzato neppure “… dalla Commissione U.E. .. nella procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano”).
Anche tale conclusione
è pienamente da condividere. Qui basti ricordare, a riprova storica degli
argomenti forniti dalla Corte, che l'idea di porre a fondamento -
della nozione giuridica di rifiuto - un regolamento, anziché una direttiva
(assai meno stringente e vincolante del primo), è stata sempre rifiutata dagli
Stati membri, a partire degli anni '70 in poi, per ovvie ragioni pratiche, anche
se non del tutto nobili…(di conservazione di una maggiore libertà di manovra,
nella trasposizione della direttiva, al fine di agevolare i propri mercati
interni).
In nessun altra delle tante sentenze della Corte di giustizia, seguite
alla decisione Tombesi del 25.6.1997 (che inopinatamente prospettò questa
forzata lettura), fu riproposta o rafforzata tale isolata decisione14,
nonostante la ricchezza della giurisprudenza in materia di gestione di rifiuti
(ed altrettanto può dirsi per il giudice di legittimità italiano15).
D’altronde, ragionando a contrario, ove le conclusioni della sentenza
Tombesi fossero state (implicitamente o esplicitamente) accolte dal giudice di
Strasburgo, dal 1997al 2005, e poi dalle giurisdizioni degli ordinamenti
interni, non si sarebbe mai neppure configurato un contrasto - di
fatto acuto e tuttora persistente - fra ordinamenti nazionali (non solo
dell’Italia ma anche di altri Stati europei) e direttiva comunitaria cit. sulla
tormentata “questione” della nozione di rifiuto, in quanto, per i principi
richiamati della preminenza dei detta fonte comunitaria (regolamento),
ogni organo statuale (giudice o P.A.) avrebbe potuto e dovuto dare applicazione
(anche nella movimentazione dei rifiuti "all'interno di qualsiasi Stato
membro") alla nozione di rifiuto posta dal regolamento n. 93/259 cit.
(secondo la “tesi”, inaccettabile, della sentenza Tombesi: v. punto 46 della
motivazione). Il che, come è noto, non è stato….16.
Nel merito la sentenza Tombesi, ove la si esamini con la dovuta attenzione, alla
luce della più recente giurisprudenza della stessa Corte, risulta non solo molto
fragile nell’impianto motivazionale, ma, soprattutto, totalmente superata nei
principi di diritto che propone (sul principio di legalità in materia
penale), in modo oscuro quando non apodittico.
Ciò vale, soprattutto, per l’affermata applicazione della nozione
“regolamentare” di rifiuto, “…. anche alle spedizioni dei rifiuti all’interno
di qualsiasi Stato membro” (punto 46) la quale, presenta tre lati oscuri:
1) offre una “lettura” dell’art. 2, lett. a) del regolamento rimasta “lettera
morta” nelle prassi seguite dai 25 Stati membri dell’U.E., i quali si guardano
bene dal dare ascolto a tale originale “suggerimento”, continuando a regolare la
movimentazione dei rifiuti, all’interno dei confini nazionali, secondo la
definizione di rifiuto adottata dal proprio diritto interno, in modo del
tutto legittimo;
2) si fonda su una motivazione (contenuta al punto 45) talmente sottile da
risultare inconsistente17;
3) non si fa carico delle conseguenze concrete di una tale lettura e cioè della
impraticabilità di uno “scenario” costituito da…. 25 ordinamenti interni in cui
coesistano due nozioni di rifiuto: quella derivante dalla norma interna
di trasposizione delle direttive citt. – che regola le fasi di deposito,
stoccaggio, trattamento, discarica, recupero, ecc. del rifiuto; e la seconda,
imposta dal regolamento 259/93 (ex art. 2, comma 1, lett. a) cit.), direttamente
efficace nei singoli Stati, e sovente difforme dalla prima.., che veicolerebbe
in continuum le definizioni, non sempre coerenti, della Corte di
giustizia, per il solo, specifico segmento (della filiera del rifiuto)
relativo al trasporto all’interno dei 25 confini statali….
Risultano, altresì, del tutto superati i passaggi argomentativi contenuti nei
punti 42 e 43 della motivazione,18
con riferimento al caso di una legislazione interna che, modificando la norma
extrapenale preesistente (per es. restringendo il concetto di rifiuto, come si
assume per effetto dell’art. 14, cit.) e ponendosi in contrasto con una fonte
comunitaria, determini una riduzione della punibilità a condotte prima
penalmente rilevanti. La sentenza Tombesi, infatti, considerando ammissibile
la questione pregiudiziale di interpretazione, proposta dai giudici rimettenti,
mostra di ritenerla compatibile con i limiti posti dal rispetto del principio
di legalità19.
Ma (oggi può sicuramente dirsi che) si sbagliava…!20
5. Conclusioni. I passaggi finali della decisione in esame (punti 9 e
10), una volta escluse le fallaci soluzioni giuridiche passate in rassegna
(della disapplicazione della norma nazionale in contrasto con il diritto
comunitario; di applicazione diretta delle sentenze della CGCE; di ricorso al
regolamento CEE 259/93) approdano, coerentemente, all’unica via possibile, per
ripristinare la legalità comunitaria che si assume violata: “.. non v’è altra
strada” per il giudice nazionale ”che quella di sollevare questione di
legittimità costituzionale della norma interna confliggente”, ai sensi degli
artt. 11 e 117 Cost.21,
anche se in termini diversi da quelli avanzati nella memoria del P.M., in sede22
e comunque non ricorrenti, nel caso scrutinato.
Per tale ultimo profilo, nel momento in cui il giudice di legittimità rileva il
difetto del presupposto della “rilevanza”- “.. giacché il giudice di
merito, con adeguata motivazione… ha escluso la riutilizzazione certa e
oggettiva dei materiali de quibus e quindi l’applicabilità dell’anzidetto
art. 14” – esso, implicitamente ma univocamente, conferma la validità,
vigenza e vincolatività di quest’ultima norma (anche se non applicabile alla
fattispecie, per mancanza di alcuno dei suoi presupposti di fatto), in attesa
del responso del giudice delle leggi.
_____________________________
1
Faccio riferimento a Cass. pen. Sez. III, 4 marzo -13 maggio 2005, Pres.
Zumbo, est. Onorato, già rassegnata e massimata da P. Fimiani, in Ambiente &
Sicurezza, n. 12/2005, pag. 104. Con specifico riferimento agli argomenti
trattati, cfr. M. Medugno: “Con la sentenza 15 marzo 2005, n. 9503 nozione di
rifiuto nuovamente centrale”, pag. 35. Il testo integrale della sentenza della
Cassazione penale, sez, III 13 maggio 2005, n. 17836, è disponibile nella
sezione “Documentazione integrativa” del sito htpp://www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com
2 Ai sensi dell’art. 65 del R.D. n. 12/1941 sull’ordinamento
giudiziario.
3 Indirizzi puntualmente richiamati a punto 7 della sentenza.
4 Tale dilemma non si porrebbe, a suo parere, stante la
precedenza della prima alternativa in ragione della prevalenza del diritto
comunitario su quello statuale, che imporrebbe comunque la interpretazione
adeguatrice di quest’ultimo al primo (tesi non condivisibile e correttamente
rifiutata dalla Corte: v. oltre).
5 Sul significato e la portata di questa decisione, mi sia
consentito rinviare a P. Giampietro, in questa Rivista, n. 23/2004, pag. 22.
6 Per le ragioni che ho tentato di esplicitare in “ Proposte
ricostruttive della “nozione autentica” di rifiuto, ex art. 14, l. 178/2002, in
Riv. Giur. dell’ambiente, n. 2/2004, pag. 233 e ss.
7 Proprio, infatti, per garantire la prevalenza del
diritto comunitario, la Corte di Giustizia ha ritenuto che una “disposizione”
comunitaria, ove possa esprimente una “norma” chiara, precisa e non condizionata
dall’intervento del legislatore nazionale, debba essere direttamente applicata,
senza attendere la sua attuazione nell’ordinamento interno. Nell’effetto diretto
si annette, dunque, una componente sanzionatoria nei confronti degli Stati
inadempienti e/o negligenti, rispetto agli impegni posti dalle fonti comunitarie
(ovvero nel caso in cui esse vengano attuate in modo scorretto o incompleto); ed
una componente di garanzia per i singoli, i quali possono far valere i
propri interessi, tutelati dal diritto comunitario, anche contro lo Stato
inadempiente.
8 Come viene chiarito nella manualistica corrente l’effetto
diretto non dipende tanto dalla tipologia dell’atto (“atto-fonte”) ma
dalla struttura della singola disposizione e della norma che può esserne
ricavata tramite l’interpretazione. È l’interprete a riconoscere le norme
che hanno l’effetto diretto, senza l’intermediazione di ulteriori atti (self-executing).
Alla Corte di giustizia è riservata tale l’interpretazione, in forma vincolante,
del diritto comunitario, anche se non in modo rigido e definitivo (nel
senso che essa può mutare avviso, nel tempo, sul significato e portata della
stessa norma comunitaria, in precedenza interpretata). Combinando il criterio
dell’atto-fonte con le caratteristiche delle norme contenute nelle
varie disposizioni, si hanno le seguenti quattro possibilità: 1) norma
direttamente efficace da atto direttamente applicabile (tali sono, per lo più,
le norme dei regolamenti); 2) norme non direttamente efficaci da atti
direttamente applicabili (per es. le norme di regolamenti che si limitano a
prefigurare un quadro normativo che dovrà essere successivamente attuato); 3)
norme direttamente efficaci da atti non direttamente applicabili (per es.
divieti posti da direttive dettagliate o dagli stessi Trattati, come
interpretati dalla Corte di Giustizia); 4) norme non direttamente
efficaci da atti non direttamente applicabili (tali sono le norme derivanti
dalle direttive “classiche”, come quelle sulla gestione dei rifiuti citate).
9 In particolare, Corte cost. n. 389/1989; n. 94/1995 e n.
85/2002, menzionate in sentenza.
10 Viene in tal modo “corretta” la pur pregevole sentenza,
della stessa sezione, del 15 aprile 2003, n. 17656, ric. Gonzales ed altro,
la quale annulla l’ordinanza del Tribunale di Caltanisetta “…per non aver
affrontato la questione della distinzione tra prodotto e rifiuto alla stregua
dell’art. 14, del d.l. 138/2002, comparato alle prescrizioni immediatamente
operative nel nostro ordinamento ed in particolare ai criteri direttivi indicati
nella sentenza 18 aprile 2002, …”. Merita rilevare che tale pronuncia: a)
ritiene che la nozione di rifiuto sia stata “… recepita dal regolamento 259/93,
senza però alcun approfondimento e senza sostenere se, in tal modo, venga
operata una vera e propria “novazione della fonte” (da direttiva a regolamento);
ed, infine, senza delimitare la materia (o le operazioni di gestione) in cui si
debba applicare tale nozione; b) afferma il principio tralatizio “… della
diretta e immediata applicazione in Italia delle sentenze della Corte di
Giustizia”, ma non considera che le sentenze della Corte costituzionale, citate
a sostegno della interpretazione offerta, non si riferiscono a direttive
“classiche” ma a norme direttamente efficacia negli ordinamenti interni
(regolamenti e Trattato); c) aderisce alla tesi “.. dell’orientamento
dottrinario che ammette la prevalenza del diritto comunitario” (anche nei
rapporti con il diritto penale interno), “ qualora si tratti di definizioni
legali di elementi normativi della fattispecie penale.. soggetti alla
determinazione delle norme comunitarie “ (come la nozione di rifiuto), ma non
presta attenzione né distingue a seconda che tale “determinazione” derivi da
“atti-fonte” (o da norme) con efficacia diretta ovvero privi di tale efficacia
(come nel caso delle direttive non self-executing). Su quest’ultimo tema,
da ultimo, si è pronunciato il Giudice comunitario, in senso opposto alla tesi
enunciata dalla sentenza Gonzales, nel rispetto del principio di legalità del
reato e della pena, ex art. 25, comma 2, Cost. (v. oltre par. 5).
11 V. retro, le esemplificazione di nota 3.
12 “Relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni
di rifiuti all’interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal
suo territorio”.
13 Peraltro, sottolinea la sentenza, dello stesso relatore: la
n. 2125/2003, ric. Ferretti e la n. 14762/2002, ric. Amadori.
14 Se si esclude la citazione (senza alcuna aggiuntiva
motivazione) di Corte di Giustizia 25 giugno 1998, causa C-192/1996.
15 Salvo le due pronunce di cui a nota 7.
16 Ché, all’opposto, tutto il contenzioso avutosi sui tentativi
“definitori” del concetto verte, da sempre ed esclusivamente, sull'art. 1,
lett. a) della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156,
e non consta che, nella giurisprudenza e dottrina degli Stati membri dell'U.E.,
si sia risolto il problema sposando la tesi di una nozione comunitaria di
rifiuto, vincolante per tutti, grazie all'applicazione diretta
dell'art. 2, lett. a) del regolamento cit. (che, peraltro, si limita a
rinviare all'art. 1, lett. a) della direttiva 75/442 cit.), senza alcuna pretesa
di rifondazione formale, su di una distinta fonte di produzione normativa, del
concetto.
17 Sulla considerazione che l’art. 13, comma 1, il quale
riguarda la spedizione dei rifiuti all’interno degli stati membri, richiama,
per escluderli, unicamente i Titoli II, VI e VIII, del regolamento, e
non il Titolo I (ove si trova l’art. 2, lett. a), sulla definizione di
rifiuto), se ne inferisce che tale definizione si estende anche alla
spedizione dei rifiuti all’interno dei singoli Stati. Argomentazione speciosa
cui è agevole obiettare che, se le definizioni dell’art. 2, concernono, cioè
sono poste “.. ai sensi del presente regolamento….” (vale a dire ad esso
strettamente funzionali) e se il regolamento “… si applica alle spedizioni di
rifiuti all’interno della Comunità, nonché in entrata ed in uscita dalla stessa”
(v. art. 1, comma 1), dette definizioni attengono e ricadono
necessariamente ed esclusivamente in tale ultimo e specifico ambito
regolamentare. Esse non possono, per ciò stesso, venire estese a materie e
discipline diverse e dunque non sono riferibili, in alcun modo, alla
spedizione dei rifiuti all’interno di ciascuno Stato membro (tale argomento
sostanziale e sistematico non può essere pretermesso in favore di un
criterio formale ed estrinseco di richiami (approssimativi) dell’art. 13,
comma 1, cit. il quale, a seguire la logica della Corte, comporterebbe altresì
l’applicazione di eventuali norme contenute nei Titoli IV, V, VI del regolamento
- alle spedizioni interne - in quanto Titoli non richiamati dalle esclusioni
dell’art. 13, comma 1!
18 In cui si osserva che una direttiva, non trasposta,
non può creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta
valere in quanto tale nei confronti dello stesso (nel nostro caso, a fini
penali), salvo il caso in cui all’epoca in cui sono stati commessi i fatti,
oggetto della causa a quibus, essi potevano essere puniti in base
al diritto nazionale e che i decreti legge - che li hanno sottratti alle
sanzioni - sono entrati in vigore soltanto successivamente.
19 Si noti, peraltro, che il rilevante passaggio della
motivazione (della sentenza Tombesi), purtroppo ingiustificatamente ellittica
sul punto, viene riferito esclusivamente al contrasto fra le limitazioni
introdotte dai decreti legislativi italiani e la più ampia nozione di rifiuto
che deriverebbe dalla “…applicazione del regolamento n. 259/93” (v. punto
43, in fondo) e non delle direttive “classiche” n. 75/442 e 91/156. Il
principio sarà ripreso, come è noto, dalla sentenza della Corte di giustizia
11 novembre 2004, ric. Niselli (punto 30) ma rapportato questa volta, senza
motivazione alcuna ed in modo azzardato, alle direttive (“.. non vi è
motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero derivare dal principio di
legalità delle pene per l’applicazione della direttiva 75/442..”).
20 Su tale punto decisivo, per ragioni di spazio, mi limito a
rinviare il lettore, per una ampia e convincente dimostrazione del denunciato
errore, alla sentenza della Corte di Giustizia 3 maggio 2005, Cause
riunite C- 387, 391, 403/02 (in Guida al diritto, n. 20/2005, pag. 93, con nota
di A. di Martino, Possibile applicazione della pena più mite anche se affetta da
illegittimità “europea”) in materia di falso in bilancio. Trattasi del noto caso
di una legge sopravvenuta più favorevole, con effetti depenalizzati, la quale,
seppure in conflitto con la direttiva comunitaria, deve essere applicata anche a
fatti commessi prima della sua entrata in vigore, nel rispetto del
principio di legalità (che si estende a ricomprendere anche “la
retroattività della legge più favorevole: così detto favor rei).
Sulla importante sentenza, che contraddice e “riforma” la sentenza Niselli, cfr.
V. Onida, Quando il giudice decide a metà, ne “Il Sole 24 ORE”, del 4 maggio
2005, pag. 6. Sulla stesa decisione, v. L. Mezzetti, Il falso in bilancio
fra Corte di giustizia e Corte Costituzionale italiana (passando attraverso i
principi supremi dell’ordinamento costituzionale…)”, in www.giurcost.org/studi/Mezzetti.html.
Da ultimo, in ordine al nuovo ed innovativo indirizzo della Corte Costituzionale
sulle “norme penali di favore”, si rimanda alla sentenza 26 maggio – 1°
giugno 2004, n. 161, sempre in tema di falso in bilancio. Che il principio della
applicazione retroattiva della legge penale più favorevole sia consacrato
dal diritto internazionale, da quello comunitario (Carta di Nizza e Nuova
Costituzione europea, art. 49) e dal sistema costituzionale italiano
(quale principio supremo dell’ordinamento, ricadendo nella riserva di legge in
materia penale, considerata un “controlimite” alla prevalenza del diritto
comunitario) è opinione consolidata in dottrina (v. gli AA. citati sopra ed ivi
ampi richiami bibliografici e giurisprudenziali).
21 In tal senso, v. P. Giampietro, Rapporti più corretti fra
decreto Ronchi e direttive trasposte, in Ambiente 1997, 4, pag. 297; Id.
La nozione “autentica” di rifiuto e di alcune reazioni di rigetto: dalla
incostituzionalità della legge alla sua disapplicazione”, ivi, n. 12, 2002, pag.
1133.
22 Il quale aveva ravvisato il conflitto tra “l’interpretazione
conforme al diritto comunitario e quella conforme al diritto costituzionale”
(con riferimento al principio dell’applicazione della legge penale più
favorevole di cui all’art. 2, c.p. inteso come corollario dell’art. 25 Cost.) e
non già, come ritiene la Cassazione, fra diritto interno e direttiva
comunitaria non autoapplicativa. In definitiva, se l’ordinamento comunitario
e quello interno vanno considerati come separati, secondo l’insegnamento del
giudice costituzionale, qualora il giudice ritenga la questione di
costituzionalità rilevante (diversamente dal caso deciso) e “non
manifestamente infondata”, ex art. 1, legge costituzionale n. 1/1948 (e non,
come è stato detto: “fondata”, essendo riservato – il giudizio di
fondatezza - alla Corte costituzionale e non al giudice ordinario), deve
sospendere il giudizio, ex art. 23, comma 2, legge n. 87/1953, senza
applicare la norma sospetta (e senza, per questo, diventare, secondo una
infelice espressione, “un giudice più nazionalista” e meno comunitario…). Nel
caso opposto, è tenuto a dare applicazione a quel disposto, nel rispetto
dell’art. 101, comma 2, Cost., come ha costantemente fatto, sino ad ora, il
Supremo collegio, con le due eccezioni ricordate, sino a quando esso non
venga annullato (e sempre che lo sia) dalla Corte costituzionale, non potendo
disapplicarlo in base alle direttive o al regolamento citati né, infine, in
forza delle censure della Corte Costituzionale (le quali non possiedono alcuna
efficacia caducatoria, diretta o indiretta, sul diritto interno, attesa la
evidenziata separazione dei due ordinamenti). Sollevare la questione di
costituzionalità non significa ovviamente, in termini giuridici, “non
applicare” l’art. 14 (nel senso tecnico di “non applicazione di norma
interna confliggente con norma comunitaria autoapplicativa”) ma, più
propriamente, sospenderne l’applicazione, ex lege, in attesa che il
giudice costituzionale diradi il sollevato dubbio di sua conformità comunitaria,
fatti salvi i limiti delle ricadute “penali” (da escludere, a mio avviso:
v. nota 20) a carico degli imputati, nei processi pendenti, di cui si è fatto
cenno. Sugli esiti del futuro giudizio costituzionale (di fondatezza,
infondatezza o inammissibilità) “la partita” mi sembra, allo stato, del tutto
aperta……
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 21/11/2005