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La situazione italiana del pacs


SELENE PASCASI

 



Il 7 luglio 2005, su iniziativa del Senatore Gavino Angius del movimento politico di centrosinistra, veniva presentato all’esame del Senato il disegno di legge n. 3534 dal titolo “Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto”, assegnato il successivo 14 settembre alla Seconda Commissione Giustizia in sede referente. Con lo scioglimento delle Camere dello scorso 11 febbraio, che scandisce la fine della quattordicesima legislatura, il disegno, ancora non presentato all’esame dell’Assemblea plenaria, perde ogni valenza.


In attesa di sapere se e in quali termini nella prossima legislatura verrà presentato un nuovo progetto di legge in tal senso, l’iniziativa presa dal gruppo dell’Unione funge da spunto per critiche e riflessioni, da parte di gente comune e di addetti ai lavori, su un tema “caldo” dei nostri giorni: il ruolo oggi assunto dalle sempre più numerose forme “atipiche” di convivenza.


Finalità del disegno di legge era quella di dotare le unioni di fatto, non disciplinate dal regime civilistico del matrimonio, di una sorta di protezione giuridica, consentendo loro di optare per uno “strumento regolativo pattizio più snello e leggero”, intermedio tra l’assoluta mancanza di tutela della mera convivenza e il rigido formalismo del legame matrimoniale.

Il progetto, lungi dal voler imporre vincoli a quei soggetti che consciamente fuggono ogni regolamentazione del loro rapporto, intendeva offrire tutela legislativa al milione di famiglie di fatto che oggi vivono nel nostro paese spogliate di ogni aspettativa, specie in costanza di eventi particolari o di fasi patologiche del rapporto vissuto. Si pensi ai conviventi di lunga data i quali, nonostante la serietà e la stabilità del legame, si vedono negati il diritto di visita o di assistenza al partner malato, a causa del veto opposto dai parenti dello stesso.


Se alle coppie eterosessuali il disegno avrebbe offerto una nuova opzione, esso avrebbe dotato di prima tutela le unioni omosessuali, ad oggi non consentite per legge. In effetti, nel secondo articolo del progetto si leggeva che: “si intende per a) «patto civile di solidarietà»: l’accordo tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune; b) «unione di fatto»: la convivenza stabile e continuativa tra due persone, di sesso diverso o dello stesso sesso, che conducono una vita di coppia. La dicitura “o dello stesso sesso” stava proprio a sottolineare la possibilità, anche per le coppie omosessuali, di accedere alla normativa pattizia.

Tra gli effetti apportati da un eventuale approvazione del progetto, è doveroso richiamarne i più importanti, primo fra tutti la norma di cui all’art.15, che avrebbe esteso i diritti spettanti al coniuge, al “contraente legato al defunto da un patto civile di solidarietà iscritto nel registro dello stato civile”. In sintesi, si sarebbe aperta la via alla facoltà del de cuius di nominare il convivente quale destinatario dell’eredità, senza che venisse considerato al pari di un lascito a persone estranee, con le debite conseguenze in punto di tassazione. Di seguito, l’articolo 16, in tema di diritto al lavoro, avrebbe posto sullo stesso piano dei legittimi familiari, al fine del conseguimento di titoli di preferenza nei pubblici concorsi o di altri benefici, il contraente “un patto civile di solidarietà iscritto nel registro dello stato civile”.

Nel capo terzo del disegno di legge si leggono una serie di disposizioni atte ad equiparare la famiglia di fatto alla condizione giuridica di quella legittima, con interventi in materia di anagrafe, di assistenza sanitaria e penitenziaria, di interdizione e inabilitazione, di decisioni di carattere sanitario e circa la salute della persona. Di rilievo anche le modifiche conseguenti a quanto previsto dall’articolo 22 del progetto di riforma, ove “il contraente, straniero o apolide, di un patto civile di solidarietà con un cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica, se non vi è stato scioglimento o annullamento del patto stesso”. In punto di diritto penale sostanziale e processuale, l’approvazione della legge di introduzione del pacs, avrebbe portato con se la modifica delle disposizioni di cui agli articoli 199 del codice di rito e 307 del codice penale.

Senza voler entrare ancora di più nello specifico del progetto di legge, è interessante capire il substrato normativo e politico della scelta del termine “patto”, per meglio comprendere quali risvolti avrebbe avuto sulla nostra società l’eventuale approvazione del tal disegno.

La tentata riforma intendeva introdurre nel panorama normativo italiano il “patto civile di solidarietà” sulla falsariga dei Pacs francesi, al fine di allineare il nostro paese al trend europeo.


Il panorama europeo, seppur non omogeneo, appare teso verso un graduale riconoscimento delle convivenze more uxorio, a condizione che si tratti di unioni serie e durature, come sottolinea l’Europarlamento nel cd. “rapporto Sylla” del 3 settembre del 2003. In quel contesto, nel dar vita ad una risoluzione sui diritti umani, la Comunità esprime la necessità di porre sullo stesso piano il nucleo familiare fondato sul matrimonio e quello di fatto, incitando gli Stati Membri a riconoscere il diritto al matrimonio e all’adozione anche alle coppie diversamente formate, ivi comprese quelle omosessuali.


Non dimenticando la Danimarca, primo Paese al mondo teso al riconoscimento delle coppie “atipiche”, con la creazione, nel 1989, del “registreret partnerskab” cui annotare le sole unioni eterosessuali, è dal versante francese che arriva la vera svolta.


La legge n. 944 del 1999, introduce in Francia modifiche di rilevo al libro del codice civile intitolato alle “persone”. Per la prima volta si parla di “concubinato”, quale “unione di fatto caratterizzata da una convivenza stabile e continuativa tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso, che vivono in coppia” e di “pacs” quale “contratto concluso da due persone fisiche maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, per organizzare la loro vita in comune”.

Per le novità apportate, la norma francese è stata subito tacciata di incostituzionalità e portata al vaglio dell’organo consiliare deputatone al controllo, che col suo placet ne ha consentito la promulgazione. I dubbi sorgevano attorno alla natura del patto che, prima facie, era apparso come un’opzione rispetto al tradizionale matrimonio; in realtà, come chiariva le Conseil Constitutionel, la riforma non ha inteso introdurre un istituto in grado di incidere sullo stato civile delle parti, ma solo un nuovo modello contrattuale grazie al quale i soggetti contraenti potessero assumere l’obbligo reciproco di “aide mutuelle et materielle”, senza che “l'ètat civil des personnes qui le concluent ne subissant aucune modification”.

Oltre al sostegno, fungono da elementi distintivi la comune residenza, la vicinanza di interessi e il dovere di assistenza, solo patrimoniale, non potendo imporre ai partners il rispetto dei doveri morali, primo l’obbligo di fedeltà, discendenti dal vincolo coniugale. Circa gli aspetti meramente economici, sussiste solidarietà passiva reciproca per le obbligazioni nascenti dalla soddisfazione di necessità “familiari”, con possibilità di annotare nel contratto la volontà di optare per la comunione dei beni mobili acquistati successivamente alla firma del patto.

Ultime annotazioni sulla legge francese: appositi registri terranno memoria degli elementi significativi del contratto, anche al fine di identificare il dies a quo di un eventuale scioglimento. La rottura dell’unione coinciderà con l’annotazione di una comune volontà in tal senso, sotto forma di dichiarazione scritta presentata al Tribunale di competenza. Invero, il patto potrà sciogliersi altresì per volontà unilaterale, ma gli effetti si avranno solo decorsi tre mesi dal momento in cui il soggetto “recedente” avrà notificato il suo intento sia al partner che alla cancelleria di riferimento.

All’esempio della Francia segue quello del Belgio e della Spagna, che legalizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sostituendo i termini civilistici “madre e padre” e “moglie e marito” con “genitori” e “coniugi”. Sulla stessa linea d’onda, Germania, Svizzera, Polonia, Gran Bretagna, col famoso Civil partnership Bill, e altri Paesi europei.

Dando uno sguardo d’insieme alla situazione appena descritta, si evince che attualmente solo il nostro Paese, oltre Irlanda e Grecia, non prevede alcuna sorta di legislazione che dia veste giuridica alle unioni di fatto.

La normativa italiana attuale ruota tutta intorno al nucleo sociale stretto dal vincolo matrimoniale, previsto e tutelato dall’articolo 29 del testo costituzionale: la famiglia legittima.

La famiglia legittima è oggi l’unica formazione sociale formalmente riconosciuta dal legislatore e, pertanto, sola destinataria di tutela normativa; di contro, la famiglia di fatto, basata sulla mera affectio, resta allo stadio di società naturale, priva di copertura giuridica.

Ed è proprio nelle disposizioni relative alle formazioni sociali, di cui agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, che si cerca di trovare sostegno normativo per offrire tutela alle unioni “non coniugali”, inserendole nell’alveo dei nuclei sociali alternativi: unica soluzione possibile se si tiene presente l’impossibilità di applicazione analogica della normativa rivolta alla famiglia legittima.

Al vuoto normativo in materia di convivenze more uxorio, si è tentato di rimediare in tre differenti maniere: in primis, col ricorso ad una sorta di autoregolamentazione del rapporto; in secondo luogo, con l’intervento di giurisprudenza suppletiva e infine con l’ausilio della legislazione europea.

Circa il primo rilevo, pur apprezzando il tentativo di alcune coppie di colmare le lacune legislative sottoscrivendo convenzioni atte a regolare singoli aspetti della loro convivenza, il buon intento trova un limite invalicabile in materia di lasciti ereditari, laddove la disposizione di cui all’art. 458 del codice civile fa divieto, pena la nullità, di stipulare patti successori.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, dal canto suo, ha tentato vari approcci: talora riconducendo la fattispecie alla categoria delle obbligazioni naturali, talaltra intervenendo su singoli aspetti, come fa con la sentenza n. 2988/94 che riconosce al convivente in caso di uccisione del partner, la pretesa al risarcimento del danno morale e patrimoniale, nei confronti del terzo che ne abbia cagionato la morte.


Interessante è la tesi di chi afferma la possibilità di contrarre, anche in Italia, il patto civile di solidarietà, sulla base del sostegno offerto dalla Convenzione di Roma del 1980, stilata in tema di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Ivi si legge, all’articolo terzo, che “Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti” … a patto che la scelta risulti univoca e che la legge straniera indicata non contrasti con le cd. norme imperative.

Se ne deduce che, ove non pregiudizievole ad alcuna norma imperativa, ben potrebbe stipularsi nel nostro paese un pacs per regolamentare la convivenza more uxorio; si tratterebbe solo di optare, come la Convenzione consente, per la legge francese quale criterio legislativo alla luce del quale normare la singola unione.

Un rilievo negativo balza agli occhi: pur volendo aderire a tale visione, certo è che, un tale accordo non potrebbe produrre effetti al di fuori del nucleo contraente, giusta la carenza, in Italia, di strutture organizzative che registrino il patto, rendendolo opponibile a terzi.

La situazione si complica a seguito dell’intervento di riforma del diritto internazionale privato, con legge n. 218 del 1995, che restringe la scelta dei coniugi circa la legge “applicabile ai loro rapporti personali” al solo caso in cui si tratti di “legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede”.

Ridotta notevolmente la forbice di utilizzo della normativa francese, e al di là degli spunti giurisprudenziali, il disegno di legge italiano, citato nelle prime battute di questa riflessione, avrebbe potuto offrire talune delle garanzie invocate a gran voce.

Visto da vicino, il progetto di legge avrebbe consentito di sottoscrivere un “patto civile di solidarietà” in costanza di stabile convivenza tra i contraenti, comunanza di interessi, volontà di cooperazione e reciproco sostegno patrimoniale.

Se esso costituiva una speranza per le tante coppie di fatto in attesa di tutela giuridica, tante sono state le critiche rivolte al tentativo di introdurre la figura del pacs.

La principale critica al progetto de qua si radica nell’intendere il pacs alla stregua di una forma atipica di matrimonio, con la temuta conseguenza del forzoso riconoscimento delle coppie omosessuali; in effetti, si dimentica che si sarebbe trattato di una regolamentazione rivolta genericamente alle unioni di fatto, sia omo che eterosessuali.

Ci si è opposti, in secondo luogo, paventando, quale conseguenza del pacs, la modifica dello status della prole nascente dai soggetti vincolati dal patto, nonché degli stessi contraenti; in realtà, nel progetto, il Pacs rivestiva mera natura contrattuale, inidonea ad incidere sulla condizione giuridica dei soggetti coinvolti.

A conferma, l’art.4 del disegno di legge prevedeva, per la costituzione del rapporto, non già una “celebrazione”, bensì una semplice sottoscrizione dell’accordo, dinanzi “all’ufficiale dello stato civile presso il comune di residenza di uno dei contraenti, ovvero davanti al notaio territorialmente competente in ragione della residenza di uno dei contraenti”. Stessa direzione seguita dall’art. 9, che ritiene applicabili “in quanto compatibili, le norme del codice civile in materia di contratti”, con riferimento ai tipici criteri pattizi, laddove “ciascun contraente del patto civile di solidarietà è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza, collaborando alla vita di coppia, in ragione delle proprie capacità e possibilità”. Si delinea così la natura del patto, che fin dalla sua costituzione prende le distanze dalla figura matrimoniale per vestire i panni di un puro accordo fra le parti.

Espunte le perplessità descritte, non è di poco conto la critica di presunta incostituzionalità del patto civile di solidarietà, con riferimento all’art. 29 del testo costituzionale, che riconosce diritti solo alla famiglia intesa “come società naturale fondata sul matrimonio”.


Ebbene, se da un lato la Costituzione non riconosce altre forme di legame all’infuori del matrimonio, dall’altro non si pronuncia affatto su altre tipologie di convivenza, né vietandole e né autorizzandole. Questa considerazione, unita al dettato di cui all’articolo 3 della Carta, che impone egual trattamento per eguali situazioni di fatto, apre uno spiraglio di legittimità sul patto de qua. Tra l’altro, l’unione suggellata dal pacs, potrebbe agilmente collocarsi tra le “formazioni sociali” tutelate dall’articolo 2 del testo costituzionale, in quanto luoghi ove l’individuo esplica la propria personalità, intesa come diritto inviolabile dell’uomo.

Se l’annovero delle famiglie di fatto tra le formazioni sociali così garantite è principio ormai riconosciuto a più voci, la Consulta porta la discussione su altro piano: i conviventi, fuggendo lo status coniugalis, sono consci di rinunciare a qualsiasi tutela giuridica, ragion per cui sarebbe incostituzionale imporre loro una regolamentazione del rapporto. E’ esplicita la Corte quando afferma, nella sentenza n. 166 del 1998, che “la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il legislatore ha sancito in dipendenza del matrimonio” e che l’applicazione alle unioni di fatto di una disciplina normativa “potrebbe costituire una violazione dei principi di libera determinazione delle parti”.

Alle resistenze opposte dal mondo costituzionale, si aggiungono quelle provenienti dal mondo cattolico, a partire dalla Dott.ssa Navarini, docente di bioetica, che individua nella scelta di convivenza una volontà di vivere un rapporto senza aspettative, di portarlo avanti “finché dura” e di poterlo interrompere senza trauma alcuno. La Navarini riporta l’esempio di Arezzo, primo comune italiano ad istituire un registro per le unioni di fatto, al quale aderirono solo sette coppie, di cui cinque si sono sciolte, una ha contratto matrimonio e una sola è ancora iscritta. Aspra è anche la critica del vaticanista Marco Politi che si fa portavoce del timore della Chiesa cattolica di assistere al riconoscimento delle coppie gay, avvicinandole alle unioni legalizzate.

In ultimo, non certo per importanza, la parola del sommo Pontefice, per il quale “non si tratta qui di norme peculiari della morale cattolica, ma di verità elementari che riguardano la nostra comune umanità”, poiché “è un grave errore oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna effettiva esigenza sociale”.

Senza pretesa di aver delineato con chiarezza la situazione corrente in Italia e in Europa in punto di patto civile di solidarietà, giusta la discordanza di opinioni e la carenza di base normativa, i rilievi svolti potranno comunque fungere da elemento di riflessione. La discussa proposta di legge, cancellata con un colpo di spugna dal finire della quattordicesima legislatura, ha lasciato dietro di sé tracce indelebili, accendendo gli animi di dottrina, giurisprudenza, mondo cattolico e gente comune. Con molta probabilità, senza la presentazione di un tal disegno legislativo, non si sarebbero accesi i riflettori su una questione che nel nostro paese è troppo spesso trascurata: la tutela delle convivenze cd. “atipiche”.


Avv. Selene Pascasi

 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 12/03/2006


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