La situazione italiana del pacs
SELENE PASCASI
In attesa di sapere se e in quali termini nella prossima legislatura verrà
presentato un nuovo progetto di legge in tal senso, l’iniziativa presa dal
gruppo dell’Unione funge da spunto per critiche e riflessioni, da parte di gente
comune e di addetti ai lavori, su un tema “caldo” dei nostri giorni: il ruolo
oggi assunto dalle sempre più numerose forme “atipiche” di convivenza.
Finalità del disegno di legge era quella di dotare le unioni di fatto, non
disciplinate dal regime civilistico del matrimonio, di una sorta di protezione
giuridica, consentendo loro di optare per uno “strumento regolativo pattizio più
snello e leggero”, intermedio tra l’assoluta mancanza di tutela della mera
convivenza e il rigido formalismo del legame matrimoniale.
Il progetto, lungi dal voler imporre vincoli a quei soggetti che consciamente
fuggono ogni regolamentazione del loro rapporto, intendeva offrire tutela
legislativa al milione di famiglie di fatto che oggi vivono nel nostro paese
spogliate di ogni aspettativa, specie in costanza di eventi particolari o di
fasi patologiche del rapporto vissuto. Si pensi ai conviventi di lunga data i
quali, nonostante la serietà e la stabilità del legame, si vedono negati il
diritto di visita o di assistenza al partner malato, a causa del veto opposto
dai parenti dello stesso.
Se alle coppie eterosessuali il disegno avrebbe offerto una nuova opzione, esso
avrebbe dotato di prima tutela le unioni omosessuali, ad oggi non consentite per
legge. In effetti, nel secondo articolo del progetto si leggeva che: “si intende
per a) «patto civile di solidarietà»: l’accordo tra due persone di sesso diverso
o dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e
patrimoniali relativi alla loro vita in comune; b) «unione di fatto»: la
convivenza stabile e continuativa tra due persone, di sesso diverso o dello
stesso sesso, che conducono una vita di coppia. La dicitura “o dello stesso
sesso” stava proprio a sottolineare la possibilità, anche per le coppie
omosessuali, di accedere alla normativa pattizia.
Tra gli effetti apportati da un eventuale approvazione del progetto, è doveroso
richiamarne i più importanti, primo fra tutti la norma di cui all’art.15, che
avrebbe esteso i diritti spettanti al coniuge, al “contraente legato al defunto
da un patto civile di solidarietà iscritto nel registro dello stato civile”. In
sintesi, si sarebbe aperta la via alla facoltà del de cuius di nominare il
convivente quale destinatario dell’eredità, senza che venisse considerato al
pari di un lascito a persone estranee, con le debite conseguenze in punto di
tassazione. Di seguito, l’articolo 16, in tema di diritto al lavoro, avrebbe
posto sullo stesso piano dei legittimi familiari, al fine del conseguimento di
titoli di preferenza nei pubblici concorsi o di altri benefici, il contraente
“un patto civile di solidarietà iscritto nel registro dello stato civile”.
Nel capo terzo del disegno di legge si leggono una serie di disposizioni atte ad
equiparare la famiglia di fatto alla condizione giuridica di quella legittima,
con interventi in materia di anagrafe, di assistenza sanitaria e penitenziaria,
di interdizione e inabilitazione, di decisioni di carattere sanitario e circa la
salute della persona. Di rilievo anche le modifiche conseguenti a quanto
previsto dall’articolo 22 del progetto di riforma, ove “il contraente, straniero
o apolide, di un patto civile di solidarietà con un cittadino italiano acquista
la cittadinanza italiana quando risiede legalmente da almeno cinque anni nel
territorio della Repubblica, se non vi è stato scioglimento o annullamento del
patto stesso”. In punto di diritto penale sostanziale e processuale,
l’approvazione della legge di introduzione del pacs, avrebbe portato con se la
modifica delle disposizioni di cui agli articoli 199 del codice di rito e 307
del codice penale.
Senza voler entrare ancora di più nello specifico del progetto di legge, è
interessante capire il substrato normativo e politico della scelta del termine
“patto”, per meglio comprendere quali risvolti avrebbe avuto sulla nostra
società l’eventuale approvazione del tal disegno.
La tentata riforma intendeva introdurre nel panorama normativo italiano il
“patto civile di solidarietà” sulla falsariga dei Pacs francesi, al fine di
allineare il nostro paese al trend europeo.
Il panorama europeo, seppur non omogeneo, appare teso verso un graduale
riconoscimento delle convivenze more uxorio, a condizione che si tratti di
unioni serie e durature, come sottolinea l’Europarlamento nel cd. “rapporto
Sylla” del 3 settembre del 2003. In quel contesto, nel dar vita ad una
risoluzione sui diritti umani, la Comunità esprime la necessità di porre sullo
stesso piano il nucleo familiare fondato sul matrimonio e quello di fatto,
incitando gli Stati Membri a riconoscere il diritto al matrimonio e all’adozione
anche alle coppie diversamente formate, ivi comprese quelle omosessuali.
Non dimenticando la Danimarca, primo Paese al mondo teso al riconoscimento delle
coppie “atipiche”, con la creazione, nel 1989, del “registreret partnerskab” cui
annotare le sole unioni eterosessuali, è dal versante francese che arriva la
vera svolta.
La legge n. 944 del 1999, introduce in Francia modifiche di rilevo al libro del
codice civile intitolato alle “persone”. Per la prima volta si parla di
“concubinato”, quale “unione di fatto caratterizzata da una convivenza stabile e
continuativa tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso, che vivono
in coppia” e di “pacs” quale “contratto concluso da due persone fisiche
maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, per organizzare la loro vita
in comune”.
Per le novità apportate, la norma francese è stata subito tacciata di
incostituzionalità e portata al vaglio dell’organo consiliare deputatone al
controllo, che col suo placet ne ha consentito la promulgazione. I dubbi
sorgevano attorno alla natura del patto che, prima facie, era apparso come
un’opzione rispetto al tradizionale matrimonio; in realtà, come chiariva le
Conseil Constitutionel, la riforma non ha inteso introdurre un istituto in grado
di incidere sullo stato civile delle parti, ma solo un nuovo modello
contrattuale grazie al quale i soggetti contraenti potessero assumere l’obbligo
reciproco di “aide mutuelle et materielle”, senza che “l'ètat civil des
personnes qui le concluent ne subissant aucune modification”.
Oltre al sostegno, fungono da elementi distintivi la comune residenza, la
vicinanza di interessi e il dovere di assistenza, solo patrimoniale, non potendo
imporre ai partners il rispetto dei doveri morali, primo l’obbligo di fedeltà,
discendenti dal vincolo coniugale. Circa gli aspetti meramente economici,
sussiste solidarietà passiva reciproca per le obbligazioni nascenti dalla
soddisfazione di necessità “familiari”, con possibilità di annotare nel
contratto la volontà di optare per la comunione dei beni mobili acquistati
successivamente alla firma del patto.
Ultime annotazioni sulla legge francese: appositi registri terranno memoria
degli elementi significativi del contratto, anche al fine di identificare il
dies a quo di un eventuale scioglimento. La rottura dell’unione coinciderà con
l’annotazione di una comune volontà in tal senso, sotto forma di dichiarazione
scritta presentata al Tribunale di competenza. Invero, il patto potrà
sciogliersi altresì per volontà unilaterale, ma gli effetti si avranno solo
decorsi tre mesi dal momento in cui il soggetto “recedente” avrà notificato il
suo intento sia al partner che alla cancelleria di riferimento.
All’esempio della Francia segue quello del Belgio e della Spagna, che legalizza
il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sostituendo i termini civilistici
“madre e padre” e “moglie e marito” con “genitori” e “coniugi”. Sulla stessa
linea d’onda, Germania, Svizzera, Polonia, Gran Bretagna, col famoso Civil
partnership Bill, e altri Paesi europei.
Dando uno sguardo d’insieme alla situazione appena descritta, si evince che
attualmente solo il nostro Paese, oltre Irlanda e Grecia, non prevede alcuna
sorta di legislazione che dia veste giuridica alle unioni di fatto.
La normativa italiana attuale ruota tutta intorno al nucleo sociale stretto dal
vincolo matrimoniale, previsto e tutelato dall’articolo 29 del testo
costituzionale: la famiglia legittima.
La famiglia legittima è oggi l’unica formazione sociale formalmente riconosciuta
dal legislatore e, pertanto, sola destinataria di tutela normativa; di contro,
la famiglia di fatto, basata sulla mera affectio, resta allo stadio di società
naturale, priva di copertura giuridica.
Ed è proprio nelle disposizioni relative alle formazioni sociali, di cui agli
articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, che si cerca di trovare sostegno
normativo per offrire tutela alle unioni “non coniugali”, inserendole nell’alveo
dei nuclei sociali alternativi: unica soluzione possibile se si tiene presente
l’impossibilità di applicazione analogica della normativa rivolta alla famiglia
legittima.
Al vuoto normativo in materia di convivenze more uxorio, si è tentato di
rimediare in tre differenti maniere: in primis, col ricorso ad una sorta di
autoregolamentazione del rapporto; in secondo luogo, con l’intervento di
giurisprudenza suppletiva e infine con l’ausilio della legislazione europea.
Circa il primo rilevo, pur apprezzando il tentativo di alcune coppie di colmare
le lacune legislative sottoscrivendo convenzioni atte a regolare singoli aspetti
della loro convivenza, il buon intento trova un limite invalicabile in materia
di lasciti ereditari, laddove la disposizione di cui all’art. 458 del codice
civile fa divieto, pena la nullità, di stipulare patti successori.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, dal canto suo, ha tentato vari
approcci: talora riconducendo la fattispecie alla categoria delle obbligazioni
naturali, talaltra intervenendo su singoli aspetti, come fa con la sentenza n.
2988/94 che riconosce al convivente in caso di uccisione del partner, la pretesa
al risarcimento del danno morale e patrimoniale, nei confronti del terzo che ne
abbia cagionato la morte.
Interessante è la tesi di chi afferma la possibilità di contrarre, anche in
Italia, il patto civile di solidarietà, sulla base del sostegno offerto dalla
Convenzione di Roma del 1980, stilata in tema di legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali. Ivi si legge, all’articolo terzo, che “Il contratto è
regolato dalla legge scelta dalle parti” … a patto che la scelta risulti univoca
e che la legge straniera indicata non contrasti con le cd. norme imperative.
Se ne deduce che, ove non pregiudizievole ad alcuna norma imperativa, ben
potrebbe stipularsi nel nostro paese un pacs per regolamentare la convivenza
more uxorio; si tratterebbe solo di optare, come la Convenzione consente, per la
legge francese quale criterio legislativo alla luce del quale normare la singola
unione.
Un rilievo negativo balza agli occhi: pur volendo aderire a tale visione, certo
è che, un tale accordo non potrebbe produrre effetti al di fuori del nucleo
contraente, giusta la carenza, in Italia, di strutture organizzative che
registrino il patto, rendendolo opponibile a terzi.
La situazione si complica a seguito dell’intervento di riforma del diritto
internazionale privato, con legge n. 218 del 1995, che restringe la scelta dei
coniugi circa la legge “applicabile ai loro rapporti personali” al solo caso in
cui si tratti di “legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel
quale almeno uno di essi risiede”.
Ridotta notevolmente la forbice di utilizzo della normativa francese, e al di là
degli spunti giurisprudenziali, il disegno di legge italiano, citato nelle prime
battute di questa riflessione, avrebbe potuto offrire talune delle garanzie
invocate a gran voce.
Visto da vicino, il progetto di legge avrebbe consentito di sottoscrivere un
“patto civile di solidarietà” in costanza di stabile convivenza tra i
contraenti, comunanza di interessi, volontà di cooperazione e reciproco sostegno
patrimoniale.
Se esso costituiva una speranza per le tante coppie di fatto in attesa di tutela
giuridica, tante sono state le critiche rivolte al tentativo di introdurre la
figura del pacs.
La principale critica al progetto de qua si radica nell’intendere il pacs alla
stregua di una forma atipica di matrimonio, con la temuta conseguenza del
forzoso riconoscimento delle coppie omosessuali; in effetti, si dimentica che si
sarebbe trattato di una regolamentazione rivolta genericamente alle unioni di
fatto, sia omo che eterosessuali.
Ci si è opposti, in secondo luogo, paventando, quale conseguenza del pacs, la
modifica dello status della prole nascente dai soggetti vincolati dal patto,
nonché degli stessi contraenti; in realtà, nel progetto, il Pacs rivestiva mera
natura contrattuale, inidonea ad incidere sulla condizione giuridica dei
soggetti coinvolti.
A conferma, l’art.4 del disegno di legge prevedeva, per la costituzione del
rapporto, non già una “celebrazione”, bensì una semplice sottoscrizione
dell’accordo, dinanzi “all’ufficiale dello stato civile presso il comune di
residenza di uno dei contraenti, ovvero davanti al notaio territorialmente
competente in ragione della residenza di uno dei contraenti”. Stessa direzione
seguita dall’art. 9, che ritiene applicabili “in quanto compatibili, le norme
del codice civile in materia di contratti”, con riferimento ai tipici criteri
pattizi, laddove “ciascun contraente del patto civile di solidarietà è tenuto a
comportarsi secondo buona fede e correttezza, collaborando alla vita di coppia,
in ragione delle proprie capacità e possibilità”. Si delinea così la natura del
patto, che fin dalla sua costituzione prende le distanze dalla figura
matrimoniale per vestire i panni di un puro accordo fra le parti.
Espunte le perplessità descritte, non è di poco conto la critica di presunta
incostituzionalità del patto civile di solidarietà, con riferimento all’art. 29
del testo costituzionale, che riconosce diritti solo alla famiglia intesa “come
società naturale fondata sul matrimonio”.
Ebbene, se da un lato la Costituzione non riconosce altre forme di legame
all’infuori del matrimonio, dall’altro non si pronuncia affatto su altre
tipologie di convivenza, né vietandole e né autorizzandole. Questa
considerazione, unita al dettato di cui all’articolo 3 della Carta, che impone
egual trattamento per eguali situazioni di fatto, apre uno spiraglio di
legittimità sul patto de qua. Tra l’altro, l’unione suggellata dal pacs,
potrebbe agilmente collocarsi tra le “formazioni sociali” tutelate dall’articolo
2 del testo costituzionale, in quanto luoghi ove l’individuo esplica la propria
personalità, intesa come diritto inviolabile dell’uomo.
Se l’annovero delle famiglie di fatto tra le formazioni sociali così garantite è
principio ormai riconosciuto a più voci, la Consulta porta la discussione su
altro piano: i conviventi, fuggendo lo status coniugalis, sono consci di
rinunciare a qualsiasi tutela giuridica, ragion per cui sarebbe incostituzionale
imporre loro una regolamentazione del rapporto. E’ esplicita la Corte quando
afferma, nella sentenza n. 166 del 1998, che “la convivenza more uxorio
rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il
legislatore ha sancito in dipendenza del matrimonio” e che l’applicazione alle
unioni di fatto di una disciplina normativa “potrebbe costituire una violazione
dei principi di libera determinazione delle parti”.
Alle resistenze opposte dal mondo costituzionale, si aggiungono quelle
provenienti dal mondo cattolico, a partire dalla Dott.ssa Navarini, docente di
bioetica, che individua nella scelta di convivenza una volontà di vivere un
rapporto senza aspettative, di portarlo avanti “finché dura” e di poterlo
interrompere senza trauma alcuno. La Navarini riporta l’esempio di Arezzo, primo
comune italiano ad istituire un registro per le unioni di fatto, al quale
aderirono solo sette coppie, di cui cinque si sono sciolte, una ha contratto
matrimonio e una sola è ancora iscritta. Aspra è anche la critica del
vaticanista Marco Politi che si fa portavoce del timore della Chiesa cattolica
di assistere al riconoscimento delle coppie gay, avvicinandole alle unioni
legalizzate.
In ultimo, non certo per importanza, la parola del sommo Pontefice, per il quale
“non si tratta qui di norme peculiari della morale cattolica, ma di verità
elementari che riguardano la nostra comune umanità”, poiché “è un grave errore
oscurare il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul
matrimonio, attribuendo ad altre forme di unione impropri riconoscimenti
giuridici, dei quali non vi è, in realtà, alcuna effettiva esigenza sociale”.
Senza pretesa di aver delineato con chiarezza la situazione corrente in Italia e
in Europa in punto di patto civile di solidarietà, giusta la discordanza di
opinioni e la carenza di base normativa, i rilievi svolti potranno comunque
fungere da elemento di riflessione. La discussa proposta di legge, cancellata
con un colpo di spugna dal finire della quattordicesima legislatura, ha lasciato
dietro di sé tracce indelebili, accendendo gli animi di dottrina,
giurisprudenza, mondo cattolico e gente comune. Con molta probabilità, senza la
presentazione di un tal disegno legislativo, non si sarebbero accesi i
riflettori su una questione che nel nostro paese è troppo spesso trascurata: la
tutela delle convivenze cd. “atipiche”.
Avv. Selene Pascasi
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 12/03/2006