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Apparato rimediale e ripartizione dell’onere della prova nell’intermediazione finanziaria secondo il più recente diritto giurisprudenziale.

 

FILIPPO DURANTE


 


1. Le conseguenze giuridiche dell’inadempimento.

Dopo un decennale ed assordante silenzio in materia, rotto esclusivamente da qualche sporadico assolo, la giurisprudenza di merito negli ultimi mesi ha registrato copiosi interventi in materia di servizi d’investimento: l’inversione di tendenza - ascrivibile anche ad una maturata consapevolezza, diffusasi tra soggetti del mercato, avvocati e giudici, della complessità della disciplina settoriale – va addebitata soprattutto alla recente emersione di molteplici scandali finanziari e alla maggiore speditezza del rito societario introdotto con il D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, così come successivamente novellato.


Dall’analisi degli ultimi arresti giurisprudenziali, caratterizzati da uno straripante ricorso agli obiter dicta, sono emersi, tuttavia, orientamenti reciprocamente conflittuali con riferimento al dirimente tema dell’apparato rimediale che consegue alla violazione degli obblighi di condotta pendenti in capo agli intermediari.


Un primo orientamento individua il discrimen tra nullità e risoluzione per inadempimento del contratto nella qualificazione, rispettivamente, come genetici ovvero come funzionali dei vizi riscontrati (Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004; Tr. Ferrara, 27 febbraio 2005, n. 217; Tr. Genova, 15 marzo 2005). A seguire tale impostazione, determinano la nullità relativa del contratto - anche virtuale, per violazione di norme imperative – tutti gli inadempimenti che abbiano inciso sulla conclusione del contratto, quand’anche tale conseguenza giuridica non sia specificamente prestabilita dal legislatore, ancorché siano stati violati obblighi non specifici e finanche allorché risultino violate esclusivamente disposizioni regolamentari della Consob, imponendo queste ultime dei comportamenti immediatamente ed obbligatoriamente esigibili (Tr. Ferrara, 27 febbraio 2005, n. 217). La suddetta soluzione interpretativa muove dall’assunto secondo cui, anche in virtù dell’art. 47 della Cost. e dell’art. 5 del D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (di seguito TUF), tutte le regole, di fonte primaria e secondaria, introdotte nel nostro ordinamento a presidio del risparmio, debbano essere qualificate come di ordine pubblico: a suffragio della tesi, talune corti di merito hanno valorizzato le disposizioni del TUF che prescrivono sanzioni amministrative pecuniarie in caso di condotte patologiche poste in essere dall’intermediario (Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004; n. 217; Tr. Genova, 15 marzo 2005).


Ciò nonostante, gli inadempimenti che costituiscono vizi funzionali del rapporto già in essere, secondo la giurisprudenza de quo, dovrebbero determinare esclusivamente il risarcimento dei danni ovvero, se ne sussistono i presupposti, anche la risoluzione del contratto, cui conseguono altresì gli obblighi restitutori in capo alle parti: a tal riguardo, forzatamente, sono stati qualificati come successivi alla stipula del negozio tutti gli inadempimenti all’obbligo di comportarsi in maniera diligente, ed a sostegno di tale posizione è stato addotto il disposto del sesto comma dell’art. 23 del TUF, che, sia pure in materia di onere della prova, sembrerebbe individuare quale rimedio alle condotte poste in essere in dispregio del dovere di diligenza il risarcimento del danno, e non la nullità (Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004).


L’individuazione del momento d’insorgenza del vizio quale elemento discriminatorio tra la nullità e la risoluzione, in vero, non può prescindere dalla qualificazione delle operazioni relative successive al contratto-programma quali momenti esecutivi dello stesso. Infatti, è insegnamento consolidato quello secondo cui l’eventuale contratto-programma, generalmente quello di conto corrente, deposito titoli e prestazione di servizi finanziari, è la fonte del rapporto negoziale (Tr. Palermo, 17 gennaio 2005; Tr. Roma, 25 maggio 2005; Tr. Bari, 26 maggio 2005/20 giugno 2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005; Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005), mentre i successivi negozi d’investimento si presentano quali operazioni meramente esecutive dello stesso; non è escluso, tuttavia, che anche un contratto di negoziazione involgente un semplice ordine possa risultare autonomamente costitutivo di un rapporto negoziale, se a monte non sia stato concluso un master agreement.


Ebbene, combinando le due teorie, in caso di condotte antecedenti alla conclusione del negozio, risulta accertabile, su istanza di parte, la nullità del negozio di investimento stipulato indipendentemente dalla formalizzazione di un precedente accordo-quadro, e viceversa dovrebbe essere considerato risolubile un analogo contratto, in caso di identiche condotte, se a monte vi sia un master-agremment. In tal caso, dovrebbe essere considerato risolto, tuttavia, esclusivamente il singolo contratto esecutivo (Tr. Bari, 26 maggio/20 gugno 2005), a meno che la gravità dell’inadempimento non sia tale da travolgere l’intero blocco di rapporti che trovano la propria fonte nel contratto-base.


Altra giurisprudenza – è, questo, il secondo orientamento - ritiene suscettibile di declaratoria di nullità solo il contratto viziato da condotte contrarie alle regole del TUF, sebbene tali disposizioni siano generiche, non sanzionino espressamente gli inadempimenti con l’invalidità ed afferiscano a prestazioni da porre in essere successivamente alla stipula del negozio. Viceversa, le violazioni delle disposizioni regolamentari della Consob – cui pure viene riconosciuta valenza normativa e capacità di incidere sull’efficacia dei rapporti interprivati – troverebbero quale rimedio esclusivamente il risarcimento del danno subito dall’investitore.


Non ha trovato accoglimento nelle corti, invece, la teoria, pur prospettata da una dottrina minoritaria, secondo cui le regole fissate dall’Autorità indipendente avrebbero efficacia esclusivamente verticale e pubblicistica, relativa alle sanzioni pecuniarie amministrative irrogabili dalla Consob ai soggetti abilitati, e non anche efficacia orizzontale: secondo taluni autori, gli enunciati de quibus potrebbero assumere esclusivamente una funzione deontologica nei rapporti interprivati, ma non potrebbero essere dal giudice individuati come generanti norme imperative né come parametro (non solo per emettere pronunce dichiarative o costitutive dell’invalidità o della risoluzione di un contratto, ma anche) per condannare l’intermediario a risarcire il pregiudizio patrimoniale patito dal cliente. In particolare, le predette regole dovrebbero considerarsi vincolanti per gli intermediari onde non incorrere nelle sanzioni amministrative e nei poteri interdettivi ad esse direttamente collegati, ma non anche idonee ad avere efficacia diretta sulla relazione intermediario-investitiore e sulla legittimità dei relativi atti negoziali, in assenza di una disposizione di fonte primaria che, come invece accade per l’art. 117, ottavo comma del TUB (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), individui espressamente nella violazione delle regole contenutistiche rinviate un fatto punito con conseguenze privatistiche (P. LAZZARA, La potestà regolamentare della Commissione Nazionale per le società e la borsa in materia d’intermediazione finanziaria, in Riv. Amm. e delle Acque Pubbl., 1995, p. 720).


Giunge a conclusioni diametralmente opposte il terzo orientamento, che ha trovato taluni riscontri giurisprudenziali, secondo cui – atteso che tutte le norme in tema di intermediazione mobiliare, anche quelle attuative e regolamentari, avrebbero carattere di ordine pubblico economico – sarebbero sanzionabili con la nullità del contratto solo i comportamenti resi in dispregio di norme specifiche (ineriscano o meno alla stipula del negozio), mentre determinerebbero esclusivamente obblighi risarcitori i contegni contrari al generico obbligo di diligenza e di prudenza (Tr. Monza, 16 dicembre 2004; Tr. Parma, 14 marzo 2005; Tr. Parma, 16 giugno 2005). Tale summa divisio, apparentemente fondata su un criterio ragionevole, è stata tuttavia oggetto di aspre critiche: in sostanza, si è detto, l’orientamento de quo conduce al paradosso di considerare nulli i contratti viziati da violazioni di norme di fonte secondaria, generalmente caratterizzate da un contenuto più circostanziato, e di irrogare una sanzione meno invasiva nel caso di comportamenti antinomici rispetto agli obblighi imposti dal TUF. A tali obiezioni, parte della giurisprudenza ha replicato individuando un unico corpus nel complesso normativo risultante dal combinato disposto delle disposizioni del TUF e della Consob: sanzionare con la nullità solo la violazione di regole specifiche, pertanto, significherebbe irrogare la “pena” più grave esclusivamente nei casi in cui il contenuto degli obblighi del TUF sia implementato ed arricchito dalle specificazioni di dettaglio delle norme regolamentari (Tr. Parma, 16 giugno 2005). In tale ottica, è stato sostenuto che il Regolamento Consob 1 luglio 1998 n. 11522 (di seguito Regolamento Intermediari), in virtù della delega sussistente all’art. 6 del TUF, contiene disposizioni immediatamente precettive e di natura imperativa, espressione di una potestà ontologicamente normativa, come tali evidentemente vincolanti nei rapporti esterni ed appartenenti a pieno titolo all’ordinamento giuridico generale, a meno che non si tratti di regole sostanzialmente indipendenti (Tr. Firenze, 30 maggio 2004).


Un’ulteriore giurisprudenza, anche diffusa, configura il quarto orientamento e giunge a conclusioni discutibili, quali la sussistenza di un generalizzato rimedio della nullità in tutti i casi di violazione delle regole di condotta. Sarebbero ex se nulli – qualora l’investitore agisca in tal senso – tutti i contratti in qualsiasi modo caratterizzati da un comportamento antitetico rispetto alle regole poste in materia di intermediazione mobiliare (Tr. Palermo, 17 gennaio), quand’anche si tratti di norme di fonte secondaria (Tr. Firenze, 18 febbraio 2005), dal contenuto generico o anche indeterminato (Tr. Brindisi, 21 febbraio 2005; Tr. Mantova, 30 aprile 2005), che non stabiliscano tassativamente tale forma d’invalidità quale rimedio (Tr. Venezia, 27 ottobre 2004) e che abbiano ad oggetto attività successive alla stipula del relativo contratto. Portando alle estreme conseguenze il ragionamento de quo, una corte di merito – addivenendo, probabilmente, ad un risultato eccessivamente vessatorio per le ragioni dell’intermediario – ha addirittura negato che dalla nullità del contratto di negoziazione discenda l’obbligo in capo all’investitore di restituire i prodotti finanziari acquistati, nel caso in cui la difesa della banca non abbia formulato tale richiesta nelle proprie conclusioni (Tr. Mantova, 18 marzo 2004).


Inoltre, una corte di merito, facendo applicazione dell’art. 1352 c.c., ha qualificato come nullo un ordine impartito oralmente nell’ambito di un contratto di gestione dei portafogli individuali, sebbene la L. 1/1991 non prevedesse tale specifica sanzione, nel caso in cui il contratto-quadro imponeva la forma scritta, benché non espressamente ad substantiam actus (Tr. Bari, 26 maggio/20 giugno 2005). La stessa pronuncia, più in generale, pur riconoscendo al contratto di mandato natura archetipica rispetto ai negozi relativi ai servizi d’investimento, ha escluso che possa farsi applicazione della regola di cui all’art. 1711 c.c.: l’atto dell’intermediario eccedente rispetto ai poteri contrattualmente fissati comporta, a seconda delle teorie, la nullità del contratto, la risoluzione dello stesso ovvero il risarcimento dei danni, ma non certo – in caso di mancata ratifica del risparmiatore – il consolidamento degli effetti contrattuali in capo alla banca e l’inopponibilità degli stessi al risparmiatore. Di contro, una diversa giurisprudenza, attribuendo alla disciplina generale della rappresentanza una funzione integrativa rispetto alle lacune della normativa di settore, ha considerato la mancata contestazione degli estratti del conto corrente e l’incasso delle cedole come ipotesi di ratifica dell’operato del falsus procurator ex art. 1399 c.c..


Leitmotiv dei precedenti orientamenti, pertanto, è la configurazione della nullità quale rimedio utilizzabile anche al ricorrere di fattispecie per le quali tale sanzione non è tassativamente prevista: sebbene l’art. 23 comma 3 del TUF stabilisca che esclusivamente l’invalidità prevista dai precedenti due commi della medesima disposizione possa essere fatta valere dal solo cliente, tuttavia, le pronunce esaminate hanno escluso che in materia di servizi d’investimento l’accertamento della nullità del contratto possa mai essere richiesto dall’intermediario o rilevato d’ufficio, nonostante sussista nel nostro ordinamento un “numerus clausus” di ipotesi di nullità relativa.


In questa congerie di posizioni giurisprudenziali, la quinta tesi, condivisibile e riccamente argomentata, quantunque ancora minoritaria, è quella sinora consolidatasi nei tribunali di Roma e Milano. La corte capitolina e quella milanese sostengono, infatti, che possono determinare la nullità del contratto solo i comportamenti tassativamente sanzionati in tal senso dalla legge: la mancata stipula di un contratto-quadro, ovvero di un contratto autonomo relativo allo svolgimento di servizi d’investimento, in forma scritta, ovvero nell’altra forma prescritta ai sensi dell’art. 23 comma 1 del TUF; la pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente o di ogni altro onere a suo carico, in violazione dell’art. 23 comma 2 del TUF.


In tutti gli altri casi, il comportamento negligente dell’intermediario trova esclusivamente un rimedio risarcitorio ovvero, se l’inadempimento ha un’oggettiva attitudine a compromettere l’equilibrio negoziale o l’integrità del mercato, è suscettibile di determinare la risoluzione del contratto, con effetti restitutori (Tr. Roma, 8 ottobre 2004, n. 29207; Tr. Roma, 11 marzo 2005; Tr. Roma, 25 maggio 2005; Tr. Milano, 15 giugno 2005; Tr. Milano, sent. n. 7555/2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005; Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539).


Propendono per la fondatezza di tale tesi i principi di tassatività, legalità e certezza del diritto, ma anche l’impossibilità di qualificare le regole relative all’intermediazione mobiliare come di ordine pubblico, non essendo sufficiente, a tal fine, invocare la norma costituzionale che tutela il risparmio (Tr. Milano, 25 luglio 2005).


Non è possibile, secondo tale orientamento, sanzionare con la nullità virtuale i comportamenti contrari alle altre disposizioni di fonte primaria e secondaria, anche perché trattasi di norme poste a tutela non di interessi pubblici, ma individuali o al massimo generali: in tale ultimo caso, si tratterebbe di norme prescrittive ed impositive, collocate a presidio di un interesse pubblico di carattere settoriale, e non al vertice gerarchico dell’ordinamento, così come accade per le norme tributarie, di cui è pacifica la natura non imperativa (Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539). Il principio secondo cui tali norme non sarebbero presidiate dalla nullità virtuale, è stato ancora scritto, non si porrebbe in contrasto con la pronuncia della Cassazione, sez. I, del 07.03.2001 n. 3272, che invece ha comminato tale sanzione: in tal caso, infatti, si verteva in un’ipotesi assolutamente peculiare, l’abusivo esercizio dell’attività di intermediazione, di difformità tra la fattispecie concreta e lo schema normativo (Tr. Roma, 25 maggio 2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005).


Ancora, non è possibile desumere l’asserita natura imperativa delle norme dalla qualificazione, da parte del TUF, degli obblighi ivi contenuti in termini di illecito amministrativo: anzi, il fatto che il TUF stabilisca specificamente uno spettro di conseguenze eterogenee per le diverse fattispecie – nullità dei contratti, sanzioni amministrative pecuniarie, provvedimenti sostitutivi, interdettivi o ingiuntivi – costituisce un motivo ulteriore per escludere un generalizzato utilizzo della sanzione dell’invalidità nei rapporti civilistici, atteso che se il legislatore avesse voluto introdurre tale conseguenza giuridica l’avrebbe individuata espressamente (Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539). L’argomentazione è ancor più degna di nota, se solo si rileva che – a differenza dei casi tipizzati di cui ai primi due commi dell’art. 23 – l’asserita nullità derivante dalla violazione delle altre regole di condotta imposte all’intermediario si presenterebbe quale assoluta e rilevabile d’ufficio, anche a svantaggio del cliente (Tr. Roma, 25 maggio 2005).


Infine, sono stati valorizzati l’argomento letterario desumibile, un po’ forzatamente, dal sesto comma dell’art. 23 del TUF – che, sebbene in materia di onere della prova, sembra correlare alla violazione dell’obbligo di diligenza solo il risarcimento del danno -, nonché l’esplicita esclusione del rimedio della nullità nell’ipotesi, talvolta davvero perniciosa, di stipula di un contratto in conflitto d’interesse.


Di contro, resta ancora inesplorato dalle corti di merito il tema degli effetti derivativi della declaratoria di nullità che colpisca il contratto-programma rispetto alle sorti degli accordi che ne costituiscano attuazione (A. Abbate, Primi orientamenti della giurisprudenza sul “caso Cirio”, in Mondo Bancario, maggio-giugno 2005, p. 33).


La giurisprudenza, tuttavia, si è espressa copiosamente, dividendosi quantomeno in due filoni, con riguardo ai presupposti necessari per l’emissione di una sentenza costitutiva di annullamento, per vizi della volontà del risparmiatore, del contratto riguardante servizi d’investimento. Si prescinde, in tale sede, dalle ipotesi patologiche del dolo e della violenza morale, non presentatesi diffusamente all’esame delle corti e, in ogni caso, condizionate principalmente dalla necessità di un’esatta ricostruzione degli accadimenti fattuali.


Ebbene, un orientamento maggiormente permissivo individua un errore essenziale “sull’oggetto del contratto”, ovvero “sull’identità dell’oggetto della prestazione”, o ancora “sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento…deve ritenersi determinante del consenso”, ai sensi dell’art. 1429 c.c., nella inveritiera o distorta rappresentazione del rapporto tra rischio e rendimento dell’operazione finanziaria eseguita (Tr. Parma, 16 giugno 2005). Tale errore è, inoltre, considerato “riconoscibile” ai sensi dell’art. 1431 c.c. allorché, “in relazione…alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”: orbene, i doveri professionali ed il maggior grado di diligenza richiesto all’intermediario rendono al risparmiatore meno gravoso, ma pur sempre ponderoso, l’assolvimento dell’onere della prova circa la possibilità per il soggetto abilitato, in chiave prognostica, di conoscere i differenti presupposti di fatto che avrebbero successivamente inciso sul rendimento dell’investimento. Sennonché, una giurisprudenza è giunta, mediante un itinerario logico-giuridico farraginoso, a conclusioni davvero abnormi, allorché ha sgravato l’investitore del suddetto onere della prova proprio nelle fattispecie in cui è pacifica l’incolpevole ignoranza circa l’effettiva configurazione della realtà da parte dell’intermediario, per tabulas impossibilitato ad essere originariamente edotto, ad esempio, di una situazione patrimoniale e finanziaria della società emittente abilmente mascherata. Ed infatti, una corte di merito, utilizzando un orientamento espresso dal giudice di nomofilachia in un contesto in vero dissimile, ha ritenuto di non individuare la riconoscibilità quale condicio sine qua non dell’annullamento del contratto per errore, allorché la falsa rappresentazione della realtà sia bilaterale e, pertanto, involga sia l’investitore e sia l’intermediario (Tr. Parma, 16 giugno 2005): la suddetta opzione ermeneutica, risulta, tuttavia, eccessivamente pregiudizievole per il soggetto abilitato, che, a prescindere dalla diligenza prestata, si vede esposto all’annullamento di operazioni finanziarie fondate esclusivamente su un errore essenziale, nonostante non fosse oggettivamente nelle condizioni di conoscere la reale consistenza dei fatti.


Un orientamento maggiormente prudente, ferma la necessaria “riconoscibilità” dell’errore, non considera essenziale la falsa rappresentazione che ricade unicamente su circostanze secondarie, le quali si riverberino sulla valutazione di convenienza dell’affare e, pertanto, sul rapporto tra rischio e rendimento: risulta, invece, essenziale – a parte l’ipotesi di scuola di un’operazione di borsa effettuata sul presupposto della sua non aleatorietà, che probabilmente recherebbe conseguenze diverse dal semplice annullamento dell’operazione – esclusivamente l’errore che ricada sulla particolare tipologia di servizio d’investimento effettuata, ovvero sulla conformazione o sulle caratteristiche individuanti dello strumento finanziario oggetto dell’operazione (Tr. Roma, 25 maggio 2005).
A tal fine, un’apprezzata giurisprudenza di merito, restringendo sensibilmente l’ambito di applicazione dell’annullabilità, ha escluso che possa mai considerarsi qualità contraddistintiva dello strumento finanziario qualsivoglia elemento che si rifletta sulla rischiosità dell’investimento, costituendo tale connotazione, quantunque con gradazioni diverse, un fattore che innerva la stessa funzione economico-sociale dei contratti d’investimento (Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539).


Sembra condivisibile, ma meritevole di ulteriore approfondimento con riguardo alle peculiari caratteristiche dei mercati finanziari, infine, l’assunto secondo cui configurerebbe convalida tacita del contratto annullabile, ai sensi dell’art. 1444 secondo comma c.c., la successiva alienazione, da parte del risparmiatore, dei prodotti finanziari originariamente acquisiti mediante un contratto stipulato sulla base di vizi della volontà: la fuoriuscita dei citati prodotti dal proprio portafoglio, ottenuta avverso un corrispettivo, denoterebbe, infatti, la volontà di consolidare gli effetti del negozio annullabile e precluderebbe o renderebbe maggiormente gravoso l’assolvimento dell’eventuale obbligo restitutorio (Tr. Bologna, n. 1842 del 31.05.2005). Analogamente, è stata considerata come convalida tacita l’apprensione, per un determinato periodo di tempo, delle cedole relative agli interessi corrisposti dall’emittente (Tr. Roma, 25 maggio 2005).



2. L’onere della prova.


Il sesto comma dell’art. 23 del TUF stabilisce, in tema di ripartizione dell’onus probandi, che “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.


Trattasi, in vero, di disposizione ermetica, che desta perplessità finanche circa il proprio ambito di applicazione: ciò nonostante, la cennata regola ha contribuito notevolmente all’elezione degli intermediari, e non già degli emittenti, come controparti processuali predilette dai risparmiatori traditi.


Costituisce jus receptum, tuttavia, il principio secondo cui la citata regola probatoria non assume rilievo nell’ambito dei giudizi accertativi ovvero costitutivi dell’invalidità dei contratti e di quelli relativi alla risoluzione degli accordi: la specificazione “nei giudizi di risarcimento dei danni”, infatti, offre un argomento letterale granitico a supporto di tale orientamento.


Ne consegue che nelle controversie afferenti all’annullabilità dei negozi giuridici, spetterà all’investitore il carico probatorio relativo ai “fatti su cui l'eccezione si fonda”, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c.: ad esempio, nel caso in cui il risparmiatore lamenti il dolo dell’intermediario, dovrà provare sia gli artifizi o i raggiri asseritamene perpetrati dal soggetto abilitato, sia la falsa rappresentazione della realtà che ne è conseguita, sia il relativo nesso eziologico (Tr. Palermo, 17 gennaio 2005; Tr. Genova, 15 marzo 2005): pertanto, non sarà sufficiente a tal fine la produzione, da parte del cliente, della prova circa la mera convocazione da parte della Banca nei locali dell’agenzia finalizzata alla proposta di talune operazioni (Tr. Mantova, 18 marzo 2004).


Analogamente, nei giudizi volti ad accertare la nullità dei contratti d’investimento, il risparmiatore non potrà beneficiare di alcun alleggerimento probatorio, dovendo anzi fornire la prova della violazione da parte dell’intermediario di specifiche norme imperative ovvero della sussunzione della fattispecie concreta nell’ambito delle altre ipotesi di nullità previste dall’ordinamento.


Se il suddetto orientamento appare, in astratto, predominante, non mancano pronunce che forniscono alla suddetta regola, in concreto, un’applicazione paternalistica nei confronti del risparmiatore: ad esempio, è stata avanzata l’ipotesi secondo cui, in un giudizio volto ad accertare la nullità di un contratto per violazione dell’art. 28 comma 2 del Regolamento Intermediari, disposizione inerente agli obblighi informativi, pur non potendo venire in rilievo la ripartizione del carico probatorio introdotta dall’art. 23 comma 6, spetterebbe all’intermediario l’onere di provare che le notizie fornite in sede di stipulazione del negozio fossero “necessarie” e sufficienti a consentire all’investitore di compiere scelte consapevoli (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).


Un’altra giurisprudenza, invece, desume dal tenore letterale del sesto comma dell’art. 23 comma 6 non solo il principio secondo cui la suddivisione del carico probatorio ivi previsto non opera nei giudizi volti ad accertare o costituire l’invalidità del negozio, ma anche un argomento a favore della tesi per cui la violazione delle regole di “duty diligence” potrebbe comportare solo il risarcimento dei danni cagionati al cliente, e giammai la nullità, l’annullamento o la risoluzione del contratto (Tr. Milano, 25 luglio 2005; in un certo senso, Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004): la norma in materia di ripartizione degli oneri probatori, pertanto, sarebbe prevista solo con riferimento alle domande risarcitorie per la semplice ragione che solo tali giudizi sarebbero ammissibili, o destinati ad una delibazione di accoglimento, in caso di violazione delle regole di condotta da parte degli intermediari.


Il consolidamento dell’aggravio probatorio addossato sull’intermediario nell’ambito dei servizi d’investimento, inoltre, vale esclusivamente con riguardo al profilo della diligenza prestata: ferme le regole in materia di simulazione, pertanto, spetterà all’investitore eventualmente provare che, sotto le mentite spoglie di un contratto di negoziazione, in ipotesi si celi un’offerta del prodotto rivolta ad un numero indeterminato di potenziali controparti contrattuali, e dunque una sollecitazione all’investimento (Tr. Trani, 7 giugno 2005).


Salvo quanto si accennerà circa la natura asseritamene derogatoria e speciale della regola presente al sesto comma dell’art. 23 del TUF rispetto ai principi generali, ci si è, inoltre, interrogati circa la sfera dei soggetti processuali che risultano incisi dalla stessa: appare assolutamente condivisibile la non assoggettabilità a tale norma della Consob, nei giudizi in cui la Commissione è convenuta per asserite responsabilità per omessa vigilanza (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005), mentre solleva perplessità il richiamo della citata disposizione ai soli “soggetti abilitati”. Sono tali, ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. r del TUF, infatti, esclusivamente “le imprese di investimento, le Sgr, le società di gestione armonizzate, le Sicav nonché gli intermediari finanziari iscritto nell’elenco previsto dall’art. 107 del T.U. bancario e le banche autorizzate all’esercizio dei servizi d’investimento”, di guisa che, nei giudizi relativi alle offerte fuori sede, il maggiore carico probatorio (ovvero addirittura l’inversione del relativo onere) sarebbe imposto solo all’intermediario, e non anche al promotore finanziario, che agisce con vincolo di monomandato e sia anch’esso convenuto, benché sia stabilita ex art. 31 comma 3 del TUF una particolare responsabilità oggettiva e solidale dell’intermediario per i danni arrecati da quest’ultimo.


Sempre un orientamento giurisprudenziale fondato su una sofisticata - e forse eccessivamente formale - ermeneusi del tenore letterale del sesto comma dell’art. 23 del TUF, ha desunto dalla presenza del termine “cliente” e dall’espressione “nello svolgimento dei servizi d’investimento” il principio secondo cui la regola ivi contenuta varrebbe solo con riferimento alla responsabilità contrattuale, e non anche a quella extracontrattuale derivante da rapporti negoziali (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).


La questione è tutt’altro che di lana caprina, atteso che, in vero, nel caso di responsabilità aquilana il disposto del TUF determinerebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova, attesa la sussistenza nel diritto comune della regola generale, secondo cui è il danneggiato a dover provare la violazione del principio del neminem laedere.


Nel caso di responsabilità contrattuale, di contro, già il regime ordinario impone al debitore di dover provare l’adempimento delle proprie obbligazioni e la diligenza prestata nell’esecuzione del negozio, di talché, in presenza di un danno subito dalla controparte, si presume la colpa dell’obbligato: soprattutto in dottrina, ci si è chiesti, pertanto, quale possa essere il reale contenuto innovativo del principio stabilito dall’art. 23 comma 6 del TUF.


Non è mancata, in tal senso, una giurisprudenza che ha considerevolmente ridimensionato la portata dell’art. 23 comma 6 del TUF, avanzando l’ipotesi che la disposizione ivi contenuta, ad onta della solennità della formula, assuma un valore meramente simbolico, assolutamente “ridondante” e, anzi, pleonastico e specularmene reiterativo della presunzione legale juris tantum di cui all’art. 1218 c.c. (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).


Altri orientamenti, tuttavia, hanno attribuito una portata parzialmente derogatoria alla norma in questione, ovvero hanno individuato anche in chiave storica la ratio di un enunciato che, in vero, sembra esclusivamente ripropositvo di una regola generale.


In particolare, si è sostenuto che, in materia di servizi d’investimento, la correttezza approntata dall’intermediario nell’esecuzione dei propri compiti non andrebbe letta in chiave meramente formale, dovendo improntarsi, viceversa, il comportamento dei soggetti abilitati a canoni di onestà, professionalità e scrupolosità che trascendano l’osservanza procedurale delle regole testuali per innervare la sostanza dei rapporti: la disposizione in esame, pertanto, costituirebbe il precipitato del peculiare atteggiarsi degli obblighi di lealtà e buona fede nell’ambito dell’intermediazione mobiliare e, pertanto, si presenterebbe (se non come necessaria, almeno come) opportuna per attribuire, anche con riguardo al rispetto sostanziale del complesso di norme di settore, la spettanza dell’onus probandi in capo al contraente generalmente più forte (Tr. Firenze, 18 febbraio 2005).


Per esulare dalle teorizzazioni astratte, il comma oggetto di commento è stato interpretato come un grimaldello utilizzato dal legislatore per imporre all’intermediario un carico probatorio afferente anche al quid pluris di correttezza, rigore e serietà che gli compete, rispetto allo standard previsto dagli artt. 1175 e 1776 primo comma c.c.: la banca o la Sim, pertanto, dovranno provare, in relazione alla fattispecie concreta controversa, anche il peculiare grado di diligenza confacente alla “natura dell’attività” professionale esercitata, ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 c.c., nonché la corrispondenza concreta del proprio comportamento a tale parametro.


Condivisibile è la raffinata teoria che individua nella scrupolosità del legislatore la volontà di disciplinare diversamente la prova liberatoria nel caso di mancato o tardivo adempimento del soggetto abilitato: non sarebbe pertanto, sufficiente provare la dipendenza del non puntuale assolvimento degli obblighi negoziali dall’“impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Meglio ancora, si è affermato che l’impossibilità della prestazione non imputabile all’obbligato assumerebbe, nell’ambito dei servizi d’investimento, natura esimente non mediante il riferimento al generico parametro dell’impegno esigibile in concreto, bensì con specifico rimando alla puntuale conformità dell’attività svolta alle tipiche e peculiari norme del TUF e del Regolamento Intermediari (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005). Purtuttavia, la stessa giurisprudenza ammette che il reiterato utilizzo, da parte del legislatore del TUF, di clausole elastiche, come tali suscettibili di assumere contenuti differenti a seconda delle diverse fattispecie e dell’evoluzione dei tempi, rende spesso impossibile determinare in chiave prognostica la portata delle regole di condotta imposte agli intermediari, di talché al massimo l’art. 23 comma 6 potrebbe rendere maggiormente ponderosa la prova liberatoria, senza tuttavia alcuna enfatizzazione delle norme tipiche del comparto.


Ancora, un altro orientamento ha tratto, dalla specialità dell’ordinamento di settore, l’autonomia della regola de quo rispetto alla complessiva disciplina civilistica della responsabilità contrattuale. Nello specifico, si è sostenuta l’inderogabilità della norma del TUF, in virtù della quale non potrebbe operare l’attenuazione della responsabilità, e del connesso carico probatorio, neanche qualora, ai sensi dell’art. 2236 c.c., si potessero considerare le prestazioni finanziarie come implicanti “soluzioni di problemi tecnici di speciale difficoltà” e, forzatamente, si potesse assimilare l’intermediario al prestatore d’opera.
All’assunto, che non si condivide, secondo cui l’art. 23 comma 6 del TUF opererebbe in deroga al secondo comma dell’art. 1224 c.c., di modo tale che all’intermediario spetterebbe provare non solo la propria diligenza, ma altresì l’assenza del maggior danno asserito di cui si lamenta l’investitore, si affianca l’orientamento, maggiormente dotato di pregio giuridico, in base al quale, in deroga all’art. 1229 c.c., nella prestazione dei servizi d’investimento non sarebbe ammissibile un patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità dell’intermediario per colpa lieve.


Nello sforzo, talvolta incauto, di colorare l’enunciato in questione di significati ulteriori rispetto a quelli che emergono dalla disciplina generale della responsabilità contrattuale, inoltre, sono state desunte dal testo del medesimo particolari evidenze in materia di prevedibilità del danno, in parziale distonia con l’art. 1225 c.c.: se è l’intermediario a dover provare la propria diligenza, si è sostenuto, allora risulta risarcibile anche un danno ulteriore rispetto al pregiudizio che avrebbe potuto essere pronosticato ex ante, non solo allorché il vulnus aggiuntivo sia dipeso dal dolo dell’operatore, ma in tutti i casi in cui questi non si sia puntualmente conformato ai rigorosi standard prescritti. La risultanza ermeneutica, pur originale e dotata di particolare dignità, appare censurabile allorché ricava da una disposizione in tema di onere della prova una regola di diritto sostanziale afferente ad un profilo, i danni ulteriori, per nulla lambito dall’enunciato normativo: in ogni caso, il precetto desunto andrebbe contestualizzato in un settore caratterizzato dall’ontologica sussistenza dell’alea negoziale, profilo rispetto al quale il tema della prevedibilità dei pregiudizi non può certo ritenersi indifferente.


E’ stato, altresì, sostenuto, che la sussistenza della regola speciale di cui all’art. 23 comma 6 escluderebbe, nell’ambito dei servizi d’investimento, l’applicazione dell’art. 1227 c.c., di talché il concorso colposo dell’investitore nell’emersione del danno non darebbe luogo a diminuzione del risarcimento del danno: l’interpretazione appare forzata e, in vero, strumentale. Maggiormente degno di nota è, invece, l’orientamento in base al quale, ricorrendo l’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1227 c.c., dovrà essere l’intermediario-debitore, e non l’investitore-creditore, a provare l’entità dei danni che quest’ultimo avrebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).


La giurisprudenza, inoltre, appare contrastante sul vero pomo della discordia, vale a dire la spettanza dell’onere della prova in materia di nesso di causalità, intercorrente tra l’inadempimento-violazione degli obblighi di condotta del soggetto abilitato ed il danno patrimoniale subito dal cliente. In vero, una teoria, maggioritaria solo in dottrina, individua nella differente imputabilità del carico probatorio il terreno discretivo tra la regola generale di cui all’art. 1218 c.c., secondo cui è il creditore danneggiato a dover dimostrare l’esistenza di una derivazione eziologica tra inadempimento e pregiudizio, e quella derogatoria di cui all’art. 23 comma 6 del TUF, che opererebbe un’inversione dell’onere, addossando sull’intermediario il compito di provare l’assenza del nesso di causalità (Tr. Roma, 8 ottobre 2004, n. 29207). Più condivisibile, invece, appare l’orientamento predominante in giurisprudenza, secondo cui la disposizione della cd. Legge Draghi afferisce alla prova della diligenza, e non del nesso di causalità (Tr. Bari, 3 maggio 2001): sarà, pertanto, il risparmiatore – anche mediante il ricorso a regole presuntive – a dover dimostrare (non solo) che, se l’intermediario avesse ottemperato scrupolosamente alle regole di condotta, il cliente si sarebbe orientato diversamente nell’individuazione dell’operazione da eseguire (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005), ma anche che il pregiudizio patrimoniale subito è conseguenza diretta ed immediata della negligenza del soggetto abilitato e non, invece, delle normali fluttuazioni del mercato o di altre variabili esogene (Tr. Milano, 25 luglio 2005).


Nessun dubbio sorge, invece, circa la riconducibilità al risparmiatore dell’onere di allegare i fatti costitutivi della domanda e, pertanto, di provare sia l’an e sia il quantum dell’asserita vulnerazione economica.


Una giurisprudenza, invece, non esclude che l’enunciato di cui al sesto comma dell’art. 23 del TUF – sostanzialmente ripropositivo dell’art. 13 comma 10 della L. 1/1991 e dell’art. 18 comma 5 del D.Lgs. 415/1996 -, all’epoca della sua entrata in vigore, si connotasse di un contenuto normativo ulteriore. Infatti, in quel contesto storico costituiva jus receptum il principio secondo cui la presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c non opererebbe in caso di inesatto adempimento ovvero di violazione di un obbligo accessorio, come quello d’informazione, incombendo in tal caso sul deducente l’onere della prova della negligenza dell’obbligato (ex multis, C.C., sez. I, 15 ottobre 1999, n. 11629; Tr. Roma, 15 febbraio 2000): risultava evidente, al cospetto del citato orientamento, allora pietrificato, la portata derogatoria della regola che, viceversa, in materia di servizi d’investimento, estende la presunzione di colpa anche nel caso di exceptio non rite adimpleti contractus ed elegge, a tal fine, anche gli obblighi generalmente considerati accessori al ruolo di doveri fondamentali. Tale connotazione derogatoria, tuttavia, è sfumata allorché è intervenuto il revirement giurisprudenziale delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (C.C., ss.uu., 30 ottobre 2001, n. 13533), successivamente contraddetto solo da sporadiche pronunce di giudici di merito (Corte d’Appello Bari, 30 giugno 2004; Tr. Monza, 1 marzo 2004), in virtù del quale “anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento” (conformemente, C.C., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297; C.C., sez. lav., 9 febbraio 2004, n. 2387).


Sennonché, l’affannoso tentativo di attribuire al disposto in esame un senso normativo maggiormente favorevole al risparmiatore, per non considerare la regola ivi prevista come inutiliter data, ancora oggi non fa i conti con la sua immanente natura eccezionale rispetto alla disciplina di diritto civile. Ed infatti, se è innegabile che nella responsabilità contrattuale spetta generalmente all’obbligato provare la non imputabilità al suo operato dell’inadempimento, è altrettanto vero che una giurisprudenza ha teorizzato il principio speciale secondo cui “nelle obbligazioni di mezzo, ai sensi degli artt. 1176 e 1218 c.c., quando la prestazione del debitore non è mancata, grava sul creditore l’onere di allegare e provare…la condotta colposa del debitore per violazione dell’obbligo di diligenza” (C.C., sez. lav., 4 dicembre 1990, n. 11652). In particolare, “nelle obbligazioni di mezzi, l’aleatorietà del risultato fa sì che spetti all’attore la prova della mancanza di diligenza nell’esecuzione della prestazione” (M. Salvatore, Servizi d’investimento e responsabilità civile, Milano, 2004, p. 389). Alla luce di tale principio, l’art. 23 comma 6 – al di là dei suoi significati ulteriori – avrebbe il merito di ripristinare la regola civilistica generale di cui all’art. 1218 c.c. anche per quelle particolari obbligazioni di mezzo derivanti dalla prestazione dei servizi d’investimento.


Finanche qualora il citato orientamento dovesse mutare, soprattutto alla luce dell’esponenziale assottigliamento delle labili differenze intercorrenti tra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzo, residuano, tuttavia, profili con riferimento ai quali innegabilmente l’art. 23 comma 6 del TUF assume a tutt’oggi caratteri di originalità.


Si consideri, per esempio, il divieto di compiere operazioni non adeguate di cui all’art. 29 comma 1 Regolamento Intermediari. Ebbene, la giurisprudenza, relativamente alla responsabilità contrattuale, è granitica nell’affermare che spetta sempre al creditore la prova dell’inadempimento e della negligenza dell’obbligato, nel caso in cui si verta in materia di obbligazioni negative; nel settore dell’intermediazione mobiliare, evidentemente, non opera tale deroga.


Si consideri, ancora, la violazione pre-trade di un obbligo informativo, allorché tale operazione non costituisca attuazione di un contratto-programma di invedtimenti stipulato a monte. Si tratta di un caso di scuola di responsabilità precontrattuale, che viene assimilata dalla giurisprudenza maggioritaria, anche ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, alla responsabilità aquiliana: se non esistesse il sesto comma dell’art. 23 del TUF, pertanto, spetterebbe al risparmiatore, in tal caso, provare la mancata conformazione dell’intermediario ai doveri di diligenza, con evidente disparità di trattamento rispetto all’ipotesi in cui la medesima operazione si delinei quale attuazione di un contratto-programma, configurandosi in tale ultimo caso la fattispecie della responsabilità contrattuale in relazione agli obblighi del master agreement. Ebbene, la spettanza in capo all’intermediario del carico probatorio circa la propria diligenza nella fase propedeutica sia alla stipula di un contratto siglato nell’ambito di un assetto negoziale già predefinito da un negozio-quadro di negoziazione, sia alla conclusione di un accordo autonomo relativo a servizi d’investimento, di certo non può essere esclusa da un’interpretazione formalistica e strumentale dell’espressione “svolgimento dei servizi d’investimento”, presente nella disposizione oggetto di esame.


Si consideri, infine, il caso dell’asserita, mancata consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari: in tal caso, l’applicabilità della regola generale non verrà scalfita dal principio di matrice giurisprudenziale della vicinanza o riferibilità della prova.

 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 23/1/2006

 

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