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Apparato rimediale e ripartizione dell’onere della prova nell’intermediazione finanziaria secondo il più recente diritto giurisprudenziale.
FILIPPO DURANTE
1. Le conseguenze giuridiche dell’inadempimento.
Dopo un decennale ed assordante silenzio in materia, rotto esclusivamente da
qualche sporadico assolo, la giurisprudenza di merito negli ultimi mesi ha
registrato copiosi interventi in materia di servizi d’investimento: l’inversione
di tendenza - ascrivibile anche ad una maturata consapevolezza, diffusasi tra
soggetti del mercato, avvocati e giudici, della complessità della disciplina
settoriale – va addebitata soprattutto alla recente emersione di molteplici
scandali finanziari e alla maggiore speditezza del rito societario introdotto
con il D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, così come successivamente novellato.
Dall’analisi degli ultimi arresti giurisprudenziali, caratterizzati da uno
straripante ricorso agli obiter dicta, sono emersi, tuttavia,
orientamenti reciprocamente conflittuali con riferimento al dirimente tema
dell’apparato rimediale che consegue alla violazione degli obblighi di condotta
pendenti in capo agli intermediari.
Un primo orientamento individua il discrimen tra nullità e risoluzione
per inadempimento del contratto nella qualificazione, rispettivamente, come
genetici ovvero come funzionali dei vizi riscontrati (Tr. Taranto, n. 2273 del
27 ottobre 2004; Tr. Ferrara, 27 febbraio 2005, n. 217; Tr. Genova, 15 marzo
2005). A seguire tale impostazione, determinano la nullità relativa del
contratto - anche virtuale, per violazione di norme imperative – tutti gli
inadempimenti che abbiano inciso sulla conclusione del contratto, quand’anche
tale conseguenza giuridica non sia specificamente prestabilita dal legislatore,
ancorché siano stati violati obblighi non specifici e finanche allorché
risultino violate esclusivamente disposizioni regolamentari della Consob,
imponendo queste ultime dei comportamenti immediatamente ed obbligatoriamente
esigibili (Tr. Ferrara, 27 febbraio 2005, n. 217). La suddetta soluzione
interpretativa muove dall’assunto secondo cui, anche in virtù dell’art. 47 della
Cost. e dell’art. 5 del D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (di seguito TUF), tutte le
regole, di fonte primaria e secondaria, introdotte nel nostro ordinamento a
presidio del risparmio, debbano essere qualificate come di ordine pubblico: a
suffragio della tesi, talune corti di merito hanno valorizzato le disposizioni
del TUF che prescrivono sanzioni amministrative pecuniarie in caso di condotte
patologiche poste in essere dall’intermediario (Tr. Taranto, n. 2273 del 27
ottobre 2004; n. 217; Tr. Genova, 15 marzo 2005).
Ciò nonostante, gli inadempimenti che costituiscono vizi funzionali del rapporto
già in essere, secondo la giurisprudenza de quo, dovrebbero determinare
esclusivamente il risarcimento dei danni ovvero, se ne sussistono i presupposti,
anche la risoluzione del contratto, cui conseguono altresì gli obblighi
restitutori in capo alle parti: a tal riguardo, forzatamente, sono stati
qualificati come successivi alla stipula del negozio tutti gli inadempimenti
all’obbligo di comportarsi in maniera diligente, ed a sostegno di tale posizione
è stato addotto il disposto del sesto comma dell’art. 23 del TUF, che, sia pure
in materia di onere della prova, sembrerebbe individuare quale rimedio alle
condotte poste in essere in dispregio del dovere di diligenza il risarcimento
del danno, e non la nullità (Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004).
L’individuazione del momento d’insorgenza del vizio quale elemento
discriminatorio tra la nullità e la risoluzione, in vero, non può prescindere
dalla qualificazione delle operazioni relative successive al contratto-programma
quali momenti esecutivi dello stesso. Infatti, è insegnamento consolidato quello
secondo cui l’eventuale contratto-programma, generalmente quello di conto
corrente, deposito titoli e prestazione di servizi finanziari, è la fonte del
rapporto negoziale (Tr. Palermo, 17 gennaio 2005; Tr. Roma, 25 maggio 2005; Tr.
Bari, 26 maggio 2005/20 giugno 2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005; Tr. Roma, n.
17539 del 29 luglio 2005), mentre i successivi negozi d’investimento si
presentano quali operazioni meramente esecutive dello stesso; non è escluso,
tuttavia, che anche un contratto di negoziazione involgente un semplice ordine
possa risultare autonomamente costitutivo di un rapporto negoziale, se a monte
non sia stato concluso un master agreement.
Ebbene, combinando le due teorie, in caso di condotte antecedenti alla
conclusione del negozio, risulta accertabile, su istanza di parte, la nullità
del negozio di investimento stipulato indipendentemente dalla formalizzazione di
un precedente accordo-quadro, e viceversa dovrebbe essere considerato risolubile
un analogo contratto, in caso di identiche condotte, se a monte vi sia un
master-agremment. In tal caso, dovrebbe essere considerato risolto,
tuttavia, esclusivamente il singolo contratto esecutivo (Tr. Bari, 26 maggio/20
gugno 2005), a meno che la gravità dell’inadempimento non sia tale da travolgere
l’intero blocco di rapporti che trovano la propria fonte nel contratto-base.
Altra giurisprudenza – è, questo, il secondo orientamento - ritiene suscettibile
di declaratoria di nullità solo il contratto viziato da condotte contrarie alle
regole del TUF, sebbene tali disposizioni siano generiche, non sanzionino
espressamente gli inadempimenti con l’invalidità ed afferiscano a prestazioni da
porre in essere successivamente alla stipula del negozio. Viceversa, le
violazioni delle disposizioni regolamentari della Consob – cui pure viene
riconosciuta valenza normativa e capacità di incidere sull’efficacia dei
rapporti interprivati – troverebbero quale rimedio esclusivamente il
risarcimento del danno subito dall’investitore.
Non ha trovato accoglimento nelle corti, invece, la teoria, pur prospettata da
una dottrina minoritaria, secondo cui le regole fissate dall’Autorità
indipendente avrebbero efficacia esclusivamente verticale e pubblicistica,
relativa alle sanzioni pecuniarie amministrative irrogabili dalla Consob ai
soggetti abilitati, e non anche efficacia orizzontale: secondo taluni autori,
gli enunciati de quibus potrebbero assumere esclusivamente una funzione
deontologica nei rapporti interprivati, ma non potrebbero essere dal giudice
individuati come generanti norme imperative né come parametro (non solo per
emettere pronunce dichiarative o costitutive dell’invalidità o della risoluzione
di un contratto, ma anche) per condannare l’intermediario a risarcire il
pregiudizio patrimoniale patito dal cliente. In particolare, le predette regole
dovrebbero considerarsi vincolanti per gli intermediari onde non incorrere nelle
sanzioni amministrative e nei poteri interdettivi ad esse direttamente
collegati, ma non anche idonee ad avere efficacia diretta sulla relazione
intermediario-investitiore e sulla legittimità dei relativi atti negoziali, in
assenza di una disposizione di fonte primaria che, come invece accade per l’art.
117, ottavo comma del TUB (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), individui
espressamente nella violazione delle regole contenutistiche rinviate un fatto
punito con conseguenze privatistiche (P. LAZZARA, La potestà regolamentare
della Commissione Nazionale per le società e la borsa in materia
d’intermediazione finanziaria, in Riv. Amm. e delle Acque Pubbl., 1995, p.
720).
Giunge a conclusioni diametralmente opposte il terzo orientamento, che ha
trovato taluni riscontri giurisprudenziali, secondo cui – atteso che tutte le
norme in tema di intermediazione mobiliare, anche quelle attuative e
regolamentari, avrebbero carattere di ordine pubblico economico – sarebbero
sanzionabili con la nullità del contratto solo i comportamenti resi in dispregio
di norme specifiche (ineriscano o meno alla stipula del negozio), mentre
determinerebbero esclusivamente obblighi risarcitori i contegni contrari al
generico obbligo di diligenza e di prudenza (Tr. Monza, 16 dicembre 2004; Tr.
Parma, 14 marzo 2005; Tr. Parma, 16 giugno 2005). Tale summa divisio,
apparentemente fondata su un criterio ragionevole, è stata tuttavia oggetto di
aspre critiche: in sostanza, si è detto, l’orientamento de quo conduce al
paradosso di considerare nulli i contratti viziati da violazioni di norme di
fonte secondaria, generalmente caratterizzate da un contenuto più
circostanziato, e di irrogare una sanzione meno invasiva nel caso di
comportamenti antinomici rispetto agli obblighi imposti dal TUF. A tali
obiezioni, parte della giurisprudenza ha replicato individuando un unico
corpus nel complesso normativo risultante dal combinato disposto delle
disposizioni del TUF e della Consob: sanzionare con la nullità solo la
violazione di regole specifiche, pertanto, significherebbe irrogare la “pena”
più grave esclusivamente nei casi in cui il contenuto degli obblighi del TUF sia
implementato ed arricchito dalle specificazioni di dettaglio delle norme
regolamentari (Tr. Parma, 16 giugno 2005). In tale ottica, è stato sostenuto che
il Regolamento Consob 1 luglio 1998 n. 11522 (di seguito Regolamento
Intermediari), in virtù della delega sussistente all’art. 6 del TUF, contiene
disposizioni immediatamente precettive e di natura imperativa, espressione di
una potestà ontologicamente normativa, come tali evidentemente vincolanti nei
rapporti esterni ed appartenenti a pieno titolo all’ordinamento giuridico
generale, a meno che non si tratti di regole sostanzialmente indipendenti (Tr.
Firenze, 30 maggio 2004).
Un’ulteriore giurisprudenza, anche diffusa, configura il quarto orientamento e
giunge a conclusioni discutibili, quali la sussistenza di un generalizzato
rimedio della nullità in tutti i casi di violazione delle regole di condotta.
Sarebbero ex se nulli – qualora l’investitore agisca in tal senso – tutti i
contratti in qualsiasi modo caratterizzati da un comportamento antitetico
rispetto alle regole poste in materia di intermediazione mobiliare (Tr. Palermo,
17 gennaio), quand’anche si tratti di norme di fonte secondaria (Tr. Firenze, 18
febbraio 2005), dal contenuto generico o anche indeterminato (Tr. Brindisi, 21
febbraio 2005; Tr. Mantova, 30 aprile 2005), che non stabiliscano tassativamente
tale forma d’invalidità quale rimedio (Tr. Venezia, 27 ottobre 2004) e che
abbiano ad oggetto attività successive alla stipula del relativo contratto.
Portando alle estreme conseguenze il ragionamento de quo, una corte di
merito – addivenendo, probabilmente, ad un risultato eccessivamente vessatorio
per le ragioni dell’intermediario – ha addirittura negato che dalla nullità del
contratto di negoziazione discenda l’obbligo in capo all’investitore di
restituire i prodotti finanziari acquistati, nel caso in cui la difesa della
banca non abbia formulato tale richiesta nelle proprie conclusioni (Tr. Mantova,
18 marzo 2004).
Inoltre, una corte di merito, facendo applicazione dell’art. 1352 c.c., ha
qualificato come nullo un ordine impartito oralmente nell’ambito di un contratto
di gestione dei portafogli individuali, sebbene la L. 1/1991 non prevedesse tale
specifica sanzione, nel caso in cui il contratto-quadro imponeva la forma
scritta, benché non espressamente ad substantiam actus (Tr. Bari, 26
maggio/20 giugno 2005). La stessa pronuncia, più in generale, pur riconoscendo
al contratto di mandato natura archetipica rispetto ai negozi relativi ai
servizi d’investimento, ha escluso che possa farsi applicazione della regola di
cui all’art. 1711 c.c.: l’atto dell’intermediario eccedente rispetto ai poteri
contrattualmente fissati comporta, a seconda delle teorie, la nullità del
contratto, la risoluzione dello stesso ovvero il risarcimento dei danni, ma non
certo – in caso di mancata ratifica del risparmiatore – il consolidamento degli
effetti contrattuali in capo alla banca e l’inopponibilità degli stessi al
risparmiatore. Di contro, una diversa giurisprudenza, attribuendo alla
disciplina generale della rappresentanza una funzione integrativa rispetto alle
lacune della normativa di settore, ha considerato la mancata contestazione degli
estratti del conto corrente e l’incasso delle cedole come ipotesi di ratifica
dell’operato del falsus procurator ex art. 1399 c.c..
Leitmotiv dei precedenti orientamenti, pertanto, è la configurazione
della nullità quale rimedio utilizzabile anche al ricorrere di fattispecie per
le quali tale sanzione non è tassativamente prevista: sebbene l’art. 23 comma 3
del TUF stabilisca che esclusivamente l’invalidità prevista dai precedenti due
commi della medesima disposizione possa essere fatta valere dal solo cliente,
tuttavia, le pronunce esaminate hanno escluso che in materia di servizi
d’investimento l’accertamento della nullità del contratto possa mai essere
richiesto dall’intermediario o rilevato d’ufficio, nonostante sussista nel
nostro ordinamento un “numerus clausus” di ipotesi di nullità relativa.
In questa congerie di posizioni giurisprudenziali, la quinta tesi, condivisibile
e riccamente argomentata, quantunque ancora minoritaria, è quella sinora
consolidatasi nei tribunali di Roma e Milano. La corte capitolina e quella
milanese sostengono, infatti, che possono determinare la nullità del contratto
solo i comportamenti tassativamente sanzionati in tal senso dalla legge: la
mancata stipula di un contratto-quadro, ovvero di un contratto autonomo relativo
allo svolgimento di servizi d’investimento, in forma scritta, ovvero nell’altra
forma prescritta ai sensi dell’art. 23 comma 1 del TUF; la pattuizione di rinvio
agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente o di ogni
altro onere a suo carico, in violazione dell’art. 23 comma 2 del TUF.
In tutti gli altri casi, il comportamento negligente dell’intermediario trova
esclusivamente un rimedio risarcitorio ovvero, se l’inadempimento ha
un’oggettiva attitudine a compromettere l’equilibrio negoziale o l’integrità del
mercato, è suscettibile di determinare la risoluzione del contratto, con effetti
restitutori (Tr. Roma, 8 ottobre 2004, n. 29207; Tr. Roma, 11 marzo 2005; Tr.
Roma, 25 maggio 2005; Tr. Milano, 15 giugno 2005; Tr. Milano, sent. n.
7555/2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005; Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539).
Propendono per la fondatezza di tale tesi i principi di tassatività, legalità e
certezza del diritto, ma anche l’impossibilità di qualificare le regole relative
all’intermediazione mobiliare come di ordine pubblico, non essendo sufficiente,
a tal fine, invocare la norma costituzionale che tutela il risparmio (Tr.
Milano, 25 luglio 2005).
Non è possibile, secondo tale orientamento, sanzionare con la nullità virtuale i
comportamenti contrari alle altre disposizioni di fonte primaria e secondaria,
anche perché trattasi di norme poste a tutela non di interessi pubblici, ma
individuali o al massimo generali: in tale ultimo caso, si tratterebbe di norme
prescrittive ed impositive, collocate a presidio di un interesse pubblico di
carattere settoriale, e non al vertice gerarchico dell’ordinamento, così come
accade per le norme tributarie, di cui è pacifica la natura non imperativa (Tr.
Roma, 29 luglio 2005, n. 17539). Il principio secondo cui tali norme non
sarebbero presidiate dalla nullità virtuale, è stato ancora scritto, non si
porrebbe in contrasto con la pronuncia della Cassazione, sez. I, del 07.03.2001
n. 3272, che invece ha comminato tale sanzione: in tal caso, infatti, si verteva
in un’ipotesi assolutamente peculiare, l’abusivo esercizio dell’attività di
intermediazione, di difformità tra la fattispecie concreta e lo schema normativo
(Tr. Roma, 25 maggio 2005; Tr. Milano, 25 luglio 2005).
Ancora, non è possibile desumere l’asserita natura imperativa delle norme dalla
qualificazione, da parte del TUF, degli obblighi ivi contenuti in termini di
illecito amministrativo: anzi, il fatto che il TUF stabilisca specificamente uno
spettro di conseguenze eterogenee per le diverse fattispecie – nullità dei
contratti, sanzioni amministrative pecuniarie, provvedimenti sostitutivi,
interdettivi o ingiuntivi – costituisce un motivo ulteriore per escludere un
generalizzato utilizzo della sanzione dell’invalidità nei rapporti civilistici,
atteso che se il legislatore avesse voluto introdurre tale conseguenza giuridica
l’avrebbe individuata espressamente (Tr. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539).
L’argomentazione è ancor più degna di nota, se solo si rileva che – a differenza
dei casi tipizzati di cui ai primi due commi dell’art. 23 – l’asserita nullità
derivante dalla violazione delle altre regole di condotta imposte
all’intermediario si presenterebbe quale assoluta e rilevabile d’ufficio, anche
a svantaggio del cliente (Tr. Roma, 25 maggio 2005).
Infine, sono stati valorizzati l’argomento letterario desumibile, un po’
forzatamente, dal sesto comma dell’art. 23 del TUF – che, sebbene in materia di
onere della prova, sembra correlare alla violazione dell’obbligo di diligenza
solo il risarcimento del danno -, nonché l’esplicita esclusione del rimedio
della nullità nell’ipotesi, talvolta davvero perniciosa, di stipula di un
contratto in conflitto d’interesse.
Di contro, resta ancora inesplorato dalle corti di merito il tema degli effetti
derivativi della declaratoria di nullità che colpisca il contratto-programma
rispetto alle sorti degli accordi che ne costituiscano attuazione (A. Abbate,
Primi orientamenti della giurisprudenza sul “caso Cirio”, in Mondo
Bancario, maggio-giugno 2005, p. 33).
La giurisprudenza, tuttavia, si è espressa copiosamente, dividendosi quantomeno
in due filoni, con riguardo ai presupposti necessari per l’emissione di una
sentenza costitutiva di annullamento, per vizi della volontà del risparmiatore,
del contratto riguardante servizi d’investimento. Si prescinde, in tale sede,
dalle ipotesi patologiche del dolo e della violenza morale, non presentatesi
diffusamente all’esame delle corti e, in ogni caso, condizionate principalmente
dalla necessità di un’esatta ricostruzione degli accadimenti fattuali.
Ebbene, un orientamento maggiormente permissivo individua un errore essenziale “sull’oggetto
del contratto”, ovvero “sull’identità dell’oggetto della prestazione”,
o ancora “sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune
apprezzamento…deve ritenersi determinante del consenso”, ai sensi dell’art.
1429 c.c., nella inveritiera o distorta rappresentazione del rapporto tra
rischio e rendimento dell’operazione finanziaria eseguita (Tr. Parma, 16 giugno
2005). Tale errore è, inoltre, considerato “riconoscibile” ai sensi
dell’art. 1431 c.c. allorché, “in relazione…alla qualità dei contraenti, una
persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”: orbene, i doveri
professionali ed il maggior grado di diligenza richiesto all’intermediario
rendono al risparmiatore meno gravoso, ma pur sempre ponderoso, l’assolvimento
dell’onere della prova circa la possibilità per il soggetto abilitato, in chiave
prognostica, di conoscere i differenti presupposti di fatto che avrebbero
successivamente inciso sul rendimento dell’investimento. Sennonché, una
giurisprudenza è giunta, mediante un itinerario logico-giuridico farraginoso, a
conclusioni davvero abnormi, allorché ha sgravato l’investitore del suddetto
onere della prova proprio nelle fattispecie in cui è pacifica l’incolpevole
ignoranza circa l’effettiva configurazione della realtà da parte
dell’intermediario, per tabulas impossibilitato ad essere originariamente
edotto, ad esempio, di una situazione patrimoniale e finanziaria della società
emittente abilmente mascherata. Ed infatti, una corte di merito, utilizzando un
orientamento espresso dal giudice di nomofilachia in un contesto in vero
dissimile, ha ritenuto di non individuare la riconoscibilità quale condicio
sine qua non dell’annullamento del contratto per errore, allorché la falsa
rappresentazione della realtà sia bilaterale e, pertanto, involga sia
l’investitore e sia l’intermediario (Tr. Parma, 16 giugno 2005): la suddetta
opzione ermeneutica, risulta, tuttavia, eccessivamente pregiudizievole per il
soggetto abilitato, che, a prescindere dalla diligenza prestata, si vede esposto
all’annullamento di operazioni finanziarie fondate esclusivamente su un errore
essenziale, nonostante non fosse oggettivamente nelle condizioni di conoscere la
reale consistenza dei fatti.
Un orientamento maggiormente prudente, ferma la necessaria “riconoscibilità”
dell’errore, non considera essenziale la falsa rappresentazione che ricade
unicamente su circostanze secondarie, le quali si riverberino sulla valutazione
di convenienza dell’affare e, pertanto, sul rapporto tra rischio e rendimento:
risulta, invece, essenziale – a parte l’ipotesi di scuola di un’operazione di
borsa effettuata sul presupposto della sua non aleatorietà, che probabilmente
recherebbe conseguenze diverse dal semplice annullamento dell’operazione –
esclusivamente l’errore che ricada sulla particolare tipologia di servizio
d’investimento effettuata, ovvero sulla conformazione o sulle caratteristiche
individuanti dello strumento finanziario oggetto dell’operazione (Tr. Roma, 25
maggio 2005).
A tal fine, un’apprezzata giurisprudenza di merito, restringendo sensibilmente
l’ambito di applicazione dell’annullabilità, ha escluso che possa mai
considerarsi qualità contraddistintiva dello strumento finanziario qualsivoglia
elemento che si rifletta sulla rischiosità dell’investimento, costituendo tale
connotazione, quantunque con gradazioni diverse, un fattore che innerva la
stessa funzione economico-sociale dei contratti d’investimento (Tr. Roma, 29
luglio 2005, n. 17539).
Sembra condivisibile, ma meritevole di ulteriore approfondimento con riguardo
alle peculiari caratteristiche dei mercati finanziari, infine, l’assunto secondo
cui configurerebbe convalida tacita del contratto annullabile, ai sensi
dell’art. 1444 secondo comma c.c., la successiva alienazione, da parte del
risparmiatore, dei prodotti finanziari originariamente acquisiti mediante un
contratto stipulato sulla base di vizi della volontà: la fuoriuscita dei citati
prodotti dal proprio portafoglio, ottenuta avverso un corrispettivo,
denoterebbe, infatti, la volontà di consolidare gli effetti del negozio
annullabile e precluderebbe o renderebbe maggiormente gravoso l’assolvimento
dell’eventuale obbligo restitutorio (Tr. Bologna, n. 1842 del 31.05.2005).
Analogamente, è stata considerata come convalida tacita l’apprensione, per un
determinato periodo di tempo, delle cedole relative agli interessi corrisposti
dall’emittente (Tr. Roma, 25 maggio 2005).
2. L’onere della prova.
Il sesto comma dell’art. 23 del TUF stabilisce, in tema di ripartizione
dell’onus probandi, che “nei giudizi di risarcimento dei danni
cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli
accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la
specifica diligenza richiesta”.
Trattasi, in vero, di disposizione ermetica, che desta perplessità finanche
circa il proprio ambito di applicazione: ciò nonostante, la cennata regola ha
contribuito notevolmente all’elezione degli intermediari, e non già degli
emittenti, come controparti processuali predilette dai risparmiatori traditi.
Costituisce jus receptum, tuttavia, il principio secondo cui la citata
regola probatoria non assume rilievo nell’ambito dei giudizi accertativi ovvero
costitutivi dell’invalidità dei contratti e di quelli relativi alla risoluzione
degli accordi: la specificazione “nei giudizi di risarcimento dei danni”,
infatti, offre un argomento letterale granitico a supporto di tale orientamento.
Ne consegue che nelle controversie afferenti all’annullabilità dei negozi
giuridici, spetterà all’investitore il carico probatorio relativo ai “fatti
su cui l'eccezione si fonda”, secondo la regola generale di cui all’art.
2697 c.c.: ad esempio, nel caso in cui il risparmiatore lamenti il dolo
dell’intermediario, dovrà provare sia gli artifizi o i raggiri asseritamene
perpetrati dal soggetto abilitato, sia la falsa rappresentazione della realtà
che ne è conseguita, sia il relativo nesso eziologico (Tr. Palermo, 17 gennaio
2005; Tr. Genova, 15 marzo 2005): pertanto, non sarà sufficiente a tal fine la
produzione, da parte del cliente, della prova circa la mera convocazione da
parte della Banca nei locali dell’agenzia finalizzata alla proposta di talune
operazioni (Tr. Mantova, 18 marzo 2004).
Analogamente, nei giudizi volti ad accertare la nullità dei contratti
d’investimento, il risparmiatore non potrà beneficiare di alcun alleggerimento
probatorio, dovendo anzi fornire la prova della violazione da parte
dell’intermediario di specifiche norme imperative ovvero della sussunzione della
fattispecie concreta nell’ambito delle altre ipotesi di nullità previste
dall’ordinamento.
Se il suddetto orientamento appare, in astratto, predominante, non mancano
pronunce che forniscono alla suddetta regola, in concreto, un’applicazione
paternalistica nei confronti del risparmiatore: ad esempio, è stata avanzata
l’ipotesi secondo cui, in un giudizio volto ad accertare la nullità di un
contratto per violazione dell’art. 28 comma 2 del Regolamento Intermediari,
disposizione inerente agli obblighi informativi, pur non potendo venire in
rilievo la ripartizione del carico probatorio introdotta dall’art. 23 comma 6,
spetterebbe all’intermediario l’onere di provare che le notizie fornite in sede
di stipulazione del negozio fossero “necessarie” e sufficienti a
consentire all’investitore di compiere scelte consapevoli (Tr. Roma, n. 17539
del 29 luglio 2005).
Un’altra giurisprudenza, invece, desume dal tenore letterale del sesto comma
dell’art. 23 comma 6 non solo il principio secondo cui la suddivisione del
carico probatorio ivi previsto non opera nei giudizi volti ad accertare o
costituire l’invalidità del negozio, ma anche un argomento a favore della tesi
per cui la violazione delle regole di “duty diligence” potrebbe
comportare solo il risarcimento dei danni cagionati al cliente, e giammai la
nullità, l’annullamento o la risoluzione del contratto (Tr. Milano, 25 luglio
2005; in un certo senso, Tr. Taranto, n. 2273 del 27 ottobre 2004): la norma in
materia di ripartizione degli oneri probatori, pertanto, sarebbe prevista solo
con riferimento alle domande risarcitorie per la semplice ragione che solo tali
giudizi sarebbero ammissibili, o destinati ad una delibazione di accoglimento,
in caso di violazione delle regole di condotta da parte degli intermediari.
Il consolidamento dell’aggravio probatorio addossato sull’intermediario
nell’ambito dei servizi d’investimento, inoltre, vale esclusivamente con
riguardo al profilo della diligenza prestata: ferme le regole in materia di
simulazione, pertanto, spetterà all’investitore eventualmente provare che, sotto
le mentite spoglie di un contratto di negoziazione, in ipotesi si celi
un’offerta del prodotto rivolta ad un numero indeterminato di potenziali
controparti contrattuali, e dunque una sollecitazione all’investimento (Tr.
Trani, 7 giugno 2005).
Salvo quanto si accennerà circa la natura asseritamene derogatoria e speciale
della regola presente al sesto comma dell’art. 23 del TUF rispetto ai principi
generali, ci si è, inoltre, interrogati circa la sfera dei soggetti processuali
che risultano incisi dalla stessa: appare assolutamente condivisibile la non
assoggettabilità a tale norma della Consob, nei giudizi in cui la Commissione è
convenuta per asserite responsabilità per omessa vigilanza (Tr. Roma, n. 17539
del 29 luglio 2005), mentre solleva perplessità il richiamo della citata
disposizione ai soli “soggetti abilitati”. Sono tali, ai sensi dell’art.
1 comma 1 lett. r del TUF, infatti, esclusivamente “le imprese di
investimento, le Sgr, le società di gestione armonizzate, le Sicav nonché gli
intermediari finanziari iscritto nell’elenco previsto dall’art. 107 del T.U.
bancario e le banche autorizzate all’esercizio dei servizi d’investimento”,
di guisa che, nei giudizi relativi alle offerte fuori sede, il maggiore carico
probatorio (ovvero addirittura l’inversione del relativo onere) sarebbe imposto
solo all’intermediario, e non anche al promotore finanziario, che agisce con
vincolo di monomandato e sia anch’esso convenuto, benché sia stabilita ex
art. 31 comma 3 del TUF una particolare responsabilità oggettiva e solidale
dell’intermediario per i danni arrecati da quest’ultimo.
Sempre un orientamento giurisprudenziale fondato su una sofisticata - e forse
eccessivamente formale - ermeneusi del tenore letterale del sesto comma
dell’art. 23 del TUF, ha desunto dalla presenza del termine “cliente” e
dall’espressione “nello svolgimento dei servizi d’investimento” il
principio secondo cui la regola ivi contenuta varrebbe solo con riferimento alla
responsabilità contrattuale, e non anche a quella extracontrattuale derivante da
rapporti negoziali (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).
La questione è tutt’altro che di lana caprina, atteso che, in vero, nel caso di
responsabilità aquilana il disposto del TUF determinerebbe una vera e propria
inversione dell’onere della prova, attesa la sussistenza nel diritto comune
della regola generale, secondo cui è il danneggiato a dover provare la
violazione del principio del neminem laedere.
Nel caso di responsabilità contrattuale, di contro, già il regime ordinario
impone al debitore di dover provare l’adempimento delle proprie obbligazioni e
la diligenza prestata nell’esecuzione del negozio, di talché, in presenza di un
danno subito dalla controparte, si presume la colpa dell’obbligato: soprattutto
in dottrina, ci si è chiesti, pertanto, quale possa essere il reale contenuto
innovativo del principio stabilito dall’art. 23 comma 6 del TUF.
Non è mancata, in tal senso, una giurisprudenza che ha considerevolmente
ridimensionato la portata dell’art. 23 comma 6 del TUF, avanzando l’ipotesi che
la disposizione ivi contenuta, ad onta della solennità della formula, assuma un
valore meramente simbolico, assolutamente “ridondante” e, anzi,
pleonastico e specularmene reiterativo della presunzione legale juris tantum
di cui all’art. 1218 c.c. (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).
Altri orientamenti, tuttavia, hanno attribuito una portata parzialmente
derogatoria alla norma in questione, ovvero hanno individuato anche in chiave
storica la ratio di un enunciato che, in vero, sembra esclusivamente
ripropositvo di una regola generale.
In particolare, si è sostenuto che, in materia di servizi d’investimento, la
correttezza approntata dall’intermediario nell’esecuzione dei propri compiti non
andrebbe letta in chiave meramente formale, dovendo improntarsi, viceversa, il
comportamento dei soggetti abilitati a canoni di onestà, professionalità e
scrupolosità che trascendano l’osservanza procedurale delle regole testuali per
innervare la sostanza dei rapporti: la disposizione in esame, pertanto,
costituirebbe il precipitato del peculiare atteggiarsi degli obblighi di lealtà
e buona fede nell’ambito dell’intermediazione mobiliare e, pertanto, si
presenterebbe (se non come necessaria, almeno come) opportuna per attribuire,
anche con riguardo al rispetto sostanziale del complesso di norme di settore, la
spettanza dell’onus probandi in capo al contraente generalmente più forte
(Tr. Firenze, 18 febbraio 2005).
Per esulare dalle teorizzazioni astratte, il comma oggetto di commento è stato
interpretato come un grimaldello utilizzato dal legislatore per imporre
all’intermediario un carico probatorio afferente anche al quid pluris di
correttezza, rigore e serietà che gli compete, rispetto allo standard
previsto dagli artt. 1175 e 1776 primo comma c.c.: la banca o la Sim, pertanto,
dovranno provare, in relazione alla fattispecie concreta controversa, anche il
peculiare grado di diligenza confacente alla “natura dell’attività”
professionale esercitata, ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 c.c., nonché
la corrispondenza concreta del proprio comportamento a tale parametro.
Condivisibile è la raffinata teoria che individua nella scrupolosità del
legislatore la volontà di disciplinare diversamente la prova liberatoria nel
caso di mancato o tardivo adempimento del soggetto abilitato: non sarebbe
pertanto, sufficiente provare la dipendenza del non puntuale assolvimento degli
obblighi negoziali dall’“impossibilità della prestazione derivante da causa a
lui non imputabile”. Meglio ancora, si è affermato che l’impossibilità della
prestazione non imputabile all’obbligato assumerebbe, nell’ambito dei servizi
d’investimento, natura esimente non mediante il riferimento al generico
parametro dell’impegno esigibile in concreto, bensì con specifico rimando alla
puntuale conformità dell’attività svolta alle tipiche e peculiari norme del TUF
e del Regolamento Intermediari (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).
Purtuttavia, la stessa giurisprudenza ammette che il reiterato utilizzo, da
parte del legislatore del TUF, di clausole elastiche, come tali suscettibili di
assumere contenuti differenti a seconda delle diverse fattispecie e
dell’evoluzione dei tempi, rende spesso impossibile determinare in chiave
prognostica la portata delle regole di condotta imposte agli intermediari, di
talché al massimo l’art. 23 comma 6 potrebbe rendere maggiormente ponderosa la
prova liberatoria, senza tuttavia alcuna enfatizzazione delle norme tipiche del
comparto.
Ancora, un altro orientamento ha tratto, dalla specialità dell’ordinamento di
settore, l’autonomia della regola de quo rispetto alla complessiva
disciplina civilistica della responsabilità contrattuale. Nello specifico, si è
sostenuta l’inderogabilità della norma del TUF, in virtù della quale non
potrebbe operare l’attenuazione della responsabilità, e del connesso carico
probatorio, neanche qualora, ai sensi dell’art. 2236 c.c., si potessero
considerare le prestazioni finanziarie come implicanti “soluzioni di problemi
tecnici di speciale difficoltà” e, forzatamente, si potesse assimilare
l’intermediario al prestatore d’opera.
All’assunto, che non si condivide, secondo cui l’art. 23 comma 6 del TUF
opererebbe in deroga al secondo comma dell’art. 1224 c.c., di modo tale che
all’intermediario spetterebbe provare non solo la propria diligenza, ma altresì
l’assenza del maggior danno asserito di cui si lamenta l’investitore, si
affianca l’orientamento, maggiormente dotato di pregio giuridico, in base al
quale, in deroga all’art. 1229 c.c., nella prestazione dei servizi
d’investimento non sarebbe ammissibile un patto che escluda o limiti
preventivamente la responsabilità dell’intermediario per colpa lieve.
Nello sforzo, talvolta incauto, di colorare l’enunciato in questione di
significati ulteriori rispetto a quelli che emergono dalla disciplina generale
della responsabilità contrattuale, inoltre, sono state desunte dal testo del
medesimo particolari evidenze in materia di prevedibilità del danno, in parziale
distonia con l’art. 1225 c.c.: se è l’intermediario a dover provare la propria
diligenza, si è sostenuto, allora risulta risarcibile anche un danno ulteriore
rispetto al pregiudizio che avrebbe potuto essere pronosticato ex ante,
non solo allorché il vulnus aggiuntivo sia dipeso dal dolo
dell’operatore, ma in tutti i casi in cui questi non si sia puntualmente
conformato ai rigorosi standard prescritti. La risultanza ermeneutica,
pur originale e dotata di particolare dignità, appare censurabile allorché
ricava da una disposizione in tema di onere della prova una regola di diritto
sostanziale afferente ad un profilo, i danni ulteriori, per nulla lambito
dall’enunciato normativo: in ogni caso, il precetto desunto andrebbe
contestualizzato in un settore caratterizzato dall’ontologica sussistenza
dell’alea negoziale, profilo rispetto al quale il tema della prevedibilità dei
pregiudizi non può certo ritenersi indifferente.
E’ stato, altresì, sostenuto, che la sussistenza della regola speciale di cui
all’art. 23 comma 6 escluderebbe, nell’ambito dei servizi d’investimento,
l’applicazione dell’art. 1227 c.c., di talché il concorso colposo
dell’investitore nell’emersione del danno non darebbe luogo a diminuzione del
risarcimento del danno: l’interpretazione appare forzata e, in vero,
strumentale. Maggiormente degno di nota è, invece, l’orientamento in base al
quale, ricorrendo l’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1227 c.c., dovrà
essere l’intermediario-debitore, e non l’investitore-creditore, a provare
l’entità dei danni che quest’ultimo avrebbe potuto evitare utilizzando
l’ordinaria diligenza (Tr. Roma, n. 17539 del 29 luglio 2005).
La giurisprudenza, inoltre, appare contrastante sul vero pomo della discordia,
vale a dire la spettanza dell’onere della prova in materia di nesso di
causalità, intercorrente tra l’inadempimento-violazione degli obblighi di
condotta del soggetto abilitato ed il danno patrimoniale subito dal cliente. In
vero, una teoria, maggioritaria solo in dottrina, individua nella differente
imputabilità del carico probatorio il terreno discretivo tra la regola generale
di cui all’art. 1218 c.c., secondo cui è il creditore danneggiato a dover
dimostrare l’esistenza di una derivazione eziologica tra inadempimento e
pregiudizio, e quella derogatoria di cui all’art. 23 comma 6 del TUF, che
opererebbe un’inversione dell’onere, addossando sull’intermediario il compito di
provare l’assenza del nesso di causalità (Tr. Roma, 8 ottobre 2004, n. 29207).
Più condivisibile, invece, appare l’orientamento predominante in giurisprudenza,
secondo cui la disposizione della cd. Legge Draghi afferisce alla prova della
diligenza, e non del nesso di causalità (Tr. Bari, 3 maggio 2001): sarà,
pertanto, il risparmiatore – anche mediante il ricorso a regole presuntive – a
dover dimostrare (non solo) che, se l’intermediario avesse ottemperato
scrupolosamente alle regole di condotta, il cliente si sarebbe orientato
diversamente nell’individuazione dell’operazione da eseguire (Tr. Roma, n. 17539
del 29 luglio 2005), ma anche che il pregiudizio patrimoniale subito è
conseguenza diretta ed immediata della negligenza del soggetto abilitato e non,
invece, delle normali fluttuazioni del mercato o di altre variabili esogene (Tr.
Milano, 25 luglio 2005).
Nessun dubbio sorge, invece, circa la riconducibilità al risparmiatore
dell’onere di allegare i fatti costitutivi della domanda e, pertanto, di provare
sia l’an e sia il quantum dell’asserita vulnerazione economica.
Una giurisprudenza, invece, non esclude che l’enunciato di cui al sesto comma
dell’art. 23 del TUF – sostanzialmente ripropositivo dell’art. 13 comma 10 della
L. 1/1991 e dell’art. 18 comma 5 del D.Lgs. 415/1996 -, all’epoca della sua
entrata in vigore, si connotasse di un contenuto normativo ulteriore. Infatti,
in quel contesto storico costituiva jus receptum il principio secondo cui
la presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c non opererebbe in caso di
inesatto adempimento ovvero di violazione di un obbligo accessorio, come quello
d’informazione, incombendo in tal caso sul deducente l’onere della prova della
negligenza dell’obbligato (ex multis, C.C., sez. I, 15 ottobre 1999, n.
11629; Tr. Roma, 15 febbraio 2000): risultava evidente, al cospetto del citato
orientamento, allora pietrificato, la portata derogatoria della regola che,
viceversa, in materia di servizi d’investimento, estende la presunzione di colpa
anche nel caso di exceptio non rite adimpleti contractus ed elegge, a tal
fine, anche gli obblighi generalmente considerati accessori al ruolo di doveri
fondamentali. Tale connotazione derogatoria, tuttavia, è sfumata allorché è
intervenuto il revirement giurisprudenziale delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (C.C., ss.uu., 30 ottobre 2001, n. 13533), successivamente
contraddetto solo da sporadiche pronunce di giudici di merito (Corte d’Appello
Bari, 30 giugno 2004; Tr. Monza, 1 marzo 2004), in virtù del quale “anche nel
caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo
inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione
dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come
quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di
diligenza), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare
l’avvenuto, esatto adempimento” (conformemente, C.C., sez. III, 28 maggio
2004, n. 10297; C.C., sez. lav., 9 febbraio 2004, n. 2387).
Sennonché, l’affannoso tentativo di attribuire al disposto in esame un senso
normativo maggiormente favorevole al risparmiatore, per non considerare la
regola ivi prevista come inutiliter data, ancora oggi non fa i conti con
la sua immanente natura eccezionale rispetto alla disciplina di diritto civile.
Ed infatti, se è innegabile che nella responsabilità contrattuale spetta
generalmente all’obbligato provare la non imputabilità al suo operato
dell’inadempimento, è altrettanto vero che una giurisprudenza ha teorizzato il
principio speciale secondo cui “nelle obbligazioni di mezzo, ai sensi degli
artt. 1176 e 1218 c.c., quando la prestazione del debitore non è mancata, grava
sul creditore l’onere di allegare e provare…la condotta colposa del debitore per
violazione dell’obbligo di diligenza” (C.C., sez. lav., 4 dicembre 1990, n.
11652). In particolare, “nelle obbligazioni di mezzi, l’aleatorietà del
risultato fa sì che spetti all’attore la prova della mancanza di diligenza
nell’esecuzione della prestazione” (M. Salvatore, Servizi d’investimento
e responsabilità civile, Milano, 2004, p. 389). Alla luce di tale principio,
l’art. 23 comma 6 – al di là dei suoi significati ulteriori – avrebbe il merito
di ripristinare la regola civilistica generale di cui all’art. 1218 c.c. anche
per quelle particolari obbligazioni di mezzo derivanti dalla prestazione dei
servizi d’investimento.
Finanche qualora il citato orientamento dovesse mutare, soprattutto alla luce
dell’esponenziale assottigliamento delle labili differenze intercorrenti tra
obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzo, residuano, tuttavia, profili
con riferimento ai quali innegabilmente l’art. 23 comma 6 del TUF assume a tutt’oggi
caratteri di originalità.
Si consideri, per esempio, il divieto di compiere operazioni non adeguate di cui
all’art. 29 comma 1 Regolamento Intermediari. Ebbene, la giurisprudenza,
relativamente alla responsabilità contrattuale, è granitica nell’affermare che
spetta sempre al creditore la prova dell’inadempimento e della negligenza
dell’obbligato, nel caso in cui si verta in materia di obbligazioni negative;
nel settore dell’intermediazione mobiliare, evidentemente, non opera tale
deroga.
Si consideri, ancora, la violazione pre-trade di un obbligo informativo,
allorché tale operazione non costituisca attuazione di un contratto-programma di
invedtimenti stipulato a monte. Si tratta di un caso di scuola di responsabilità
precontrattuale, che viene assimilata dalla giurisprudenza maggioritaria, anche
ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, alla responsabilità aquiliana:
se non esistesse il sesto comma dell’art. 23 del TUF, pertanto, spetterebbe al
risparmiatore, in tal caso, provare la mancata conformazione dell’intermediario
ai doveri di diligenza, con evidente disparità di trattamento rispetto
all’ipotesi in cui la medesima operazione si delinei quale attuazione di un
contratto-programma, configurandosi in tale ultimo caso la fattispecie della
responsabilità contrattuale in relazione agli obblighi del master agreement.
Ebbene, la spettanza in capo all’intermediario del carico probatorio circa la
propria diligenza nella fase propedeutica sia alla stipula di un contratto
siglato nell’ambito di un assetto negoziale già predefinito da un negozio-quadro
di negoziazione, sia alla conclusione di un accordo autonomo relativo a servizi
d’investimento, di certo non può essere esclusa da un’interpretazione
formalistica e strumentale dell’espressione “svolgimento dei servizi
d’investimento”, presente nella disposizione oggetto di esame.
Si consideri, infine, il caso dell’asserita, mancata consegna del documento sui
rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari: in tal caso,
l’applicabilità della regola generale non verrà scalfita dal principio di
matrice giurisprudenziale della vicinanza o riferibilità della prova.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 23/1/2006