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Atti sessuali con
minore consenziente, il fatto è meno grave? (art. 609-quater c.p.)
SELENE PASCASI
Ciò vuol dire, che, ai fini di una corretta applicazione della diminuente di cui
all’art. 609-quater c.p., comma 3, andrà valutata, oltre alla condotta materiale
integrante il fatto-reato, altresì ogni singola specificità della stessa. In
termini pratici, occorre ricostruire la concreta portata criminale della
fattispecie denunziata, per poi desumerne la minore o maggiore gravità.
Ebbene, per comprendere la reale portata della pronunzia emessa dalla Suprema
Corte, è necessario il previo esame del dato legislativo, tramite l’esplicazione
delle norme di riferimento al caso di specie: l’articolo 609-bis (“violenza
sessuale”), l’articolo 609-quater (“atti sessuali con minorenne”) e l’articolo
609-quater, comma 3, che prevede una diminuzione della pena fino a due terzi,
ove il Giudice ravvisi una minore gravità del fatto.
Un distinguo è d’obbligo, e concerne l’elemento differenziante la condotta
prevista e punita dall’articolo 609-bis, da quella di cui al successivo quater.
La fattispecie delittuosa denominata “violenza sessuale” (art. 609-bis c.p.),
trova ragion di pena nel mancato consenso da parte della vittima, agli atti
sessuali compiuti o subiti. Di contro, nel reato di “atti sessuali con
minorenne” (art. 609-quater c.p.), seppur intervenuto il consenso del minore
alle attività sessuali, trattasi di manifestazione di volontà non validamente
prestata, giusta l’immaturità del soggetto. Per tale ragione, il legislatore ha
voluto estendere la pena prevista per la “violenza sessuale”, alla diversa
condotta di “atti sessuali con minorenne”, se questi non abbia raggiunto, al
momento del fatto, i limiti di età fissati nello stesso articolo 609-quater c.p..
Circa il “tetto” delineato dalla norma anzidetta, si fa riferimento, come regola
generale, al mancato compimento di anni quattordici, soglia che si eleva fino ai
sedici, in costanza di una particolare e subdola condotta, insita nella
condizione soggettiva del reo, che risulti essere “l’ascendente, il genitore
anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di
educazione, di istruzione o di custodia, il minore è affidato, o che abbia, con
quest’ultimo, una relazione di convivenza”. La ratio è palese: l’autore del
reato, in tali circostanze, è solito avvalersi dello stato di “soggezione” del
minore, per ottenerne favori sessuali.
Infine, il terzo comma della previsione di cui al 609-quater dispone che “nei
casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi”.
L’esame della normativa citata, consente di far luce sul corretto alveo di
appartenenza della fattispecie concreta: atto sessuale compiuto a danno di
minore consenziente, di età compresa tra quattordici e sedici anni. La condotta
incriminata, dunque, stando alla volontà legislativa, assume rilievo criminale
per l’essersi verificata in costanza della particolare condizione di soggezione
intercorrente tra l’autore del reato e la vittima, figlia della convivente. In
effetti, in mancanza di un tale rapporto di “familiarità” e convivenza tra
agente e minore, la condotta di Marco T. non avrebbe integrato alcun reato,
stante la previsione di cui all’art. 609-quater n. 2, che subordina la valenza
penale della condotta al sussistere di elencati elementi.
Se questi sono i fatti, allora la Corte di Cassazione, con la sua pronuncia, non
ha voluto né travisare le circostanze, né negare la riprovevolezza del fatto,
tenendo in debito conto la circostanza per cui l’imputato si è certamente
avvalso, per ottenere favori sessuali, dello stato di soggezione e del contesto
di convivenza con la vittima. Ma, si vuole qui rilevare, trattasi di condotta
già prevista e punita, in tutta la sua totalità, dall’articolo 609-quater, comma
1, lett. 2.; in effetti, nei fatti di causa, non risulta essersi verificato un
quid pluris rispetto al reato in atti, giusta la condotta dell’imputato, che ne
esaurisce l’oggettività e ne giustifica la pena comminata.
Sotto il diverso profilo dell’applicabilità o meno dell’attenuante di cui al
terzo comma della norma in questione, preme chiarire come la Corte di
Cassazione, Giudice di sola legittimità, non può e non ha né concesso, né negato
la diminuente richiesta. Gli ermellini, lungi dal voler sottovalutare il
fatto-reato, hanno rilevato la contraddittorietà della motivazione di diniego
dell’attenuante in parola, così come stesa dai Giudici di appello; per detta
ragione, hanno disposto il rinvio della decisione alla giustizia di secondo
grado, affinché questa decida se concedere o negare nuovamente la riduzione di
pena, questa volta con nuova e più congrua motivazione.
A stretto rigor normativo, la Suprema Corte, non ha ritenuto più o meno grave il
reato commesso da Marco T., in ragione della maggiore o minore esperienza
sessuale della vittima: il delitto è già perfetto, ed assume egual valenza, a
prescindere dalle abitudini sessuali della minore. Lo conferma costante
giurisprudenza, nel cui pensiero la “maturità” sessuale della vittima non può
influire sulla materialità del fatto reato, che resta identica in nome del bene
tutelato: l’immaturità delle scelte effettuate dal minore di anni quattordici e
l’influenzabilità dell’infrasedicenne.
Sulla stessa direzione, interviene di recente il legislatore, il quale, con
legge n. 38 del 6 febbraio 2006, di modifica dell’articolo 609-quater, così
dispone: “Al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 609-bis, l’ascendente, o
il tutore che, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti
sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la
reclusione da tre a sei anni”.
Ferma, allora, la ratio della legge, e fermo il giudizio di riprovevolezza del
fatto de qua, così come espresso a chiare lettere dai Supremi Giudici, la
discussa sentenza ha solo inteso sottolineare la contraddittorietà della
motivazione espressa dalla Corte d’Appello di Cagliari, circa la nominata
“innaturalità del rapporto”. In sintesi, agli ermellini è parso poco chiaro
l’iter mentale sotteso alla censurata motivazione, e ciò, in primis, laddove si
indicava come “innaturale” una modalità tale di atto sessuale, scelta dalla
vittima, previa valutazione dei rischi connessi, e ancora, laddove si discuteva
del grave pregiudizio al corretto sviluppo sessuale della minore, in realtà già
“maturo”, secondo le risultanze di causa.
E’ unicamente per l’esplicate ragioni, che la Corte di Cassazione, cui è
attribuito il potere di sindacare l’utilizzo discrezionale dei parametri di cui
all’articolo 133 c.p., sotto il solo profilo della contraddittorietà della
motivazione, questo fa e rinvia, per detto incombente, alla magistratura di
appello.
In attesa di un nuovo esito della vicenda, una riflessione è d’obbligo.
Un fatto gravissimo, come quello di una violenza su minore, non potrà mai
ritenersi meno “grave” in ragione della perduta illibatezza della vittima,
piuttosto che in ragione delle esperienze sessuali della stessa, finendo, così,
per vanificare le modifiche legislative del 1996, di abrogazione dell’arcaica
previsione per cui non integrava violenza sessuale, l’atto perpetrato nei
confronti di un minore già “moralmente corrotto”.
Se ciò è vero, e se ogni considerazione emotiva della vicenda non può essere
trascurata, d’altro canto, rammarica la ricostruzione del pensiero della Suprema
Corte, così come risultante dai media e da cronache giornalistiche di settore,
basata più su una volontà di clamore, che sul reale dettato della pronunzia, la
quale, si ricorda, non ha né negato la riprovevolezza del fatto, né optato per
una benevola concessione delle attenuanti richieste, ma ha solo fatto uso dei
poteri concessigli dalla normativa di riferimento.
Avv. Selene Pascasi
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 24/07/2006