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L’italiano medio e il clandestino: diversi solo per un “destino di nascita”, ma eguali per diritto e per coscienza … è questo il messaggio degli ermellini?

 

SELENE PASCASI



Con sentenza n. 30774 dell’anno 2006, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, si è pronunciata sulla delicata questione degli immigrati clandestini, troppo spesso itineranti sul binario di una illegalità forzata, per via di una oggettiva impossibilità di rispettare le disposizioni loro rivolte.

E’ il caso di Malina, una rumena trovata senza regolari documenti di soggiorno e accusata di mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento dal territorio italiano: reato previsto e punito dall’articolo 14 del Testo Unico di regolamentazione della materia rivolta all’immigrazione e alla condizione dello straniero.

La difesa della donna, nel corso del primo grado di giudizio, aveva fornito adeguate delucidazioni, al giudice di merito, circa il tenore di vita di Malina, motivandone e giustificandone l’illecita condotta, alla luce del comprovato stato di indigenza nel quale versava ormai da tempo.

Il Tribunale di Roma, davanti al quale risultava incardinato il processo, decideva la causa, assolvendo l’extracomunitaria con la formula “perché il fatto non sussiste”. La motivazione fornita, stava nella provata ed assoluta impossibilità della imputata, di tornare nel suo paese d’origine, risultando “sprovvista del denaro occorrente al rimpatrio, circostanza plausibile essendo emerso che alloggiava presso uno scalo ferroviario”.

Ricorreva avverso la suddetta sentenza, la Procura della Corte di Appello di Roma, deputando della decisione i magistrati di piazza Cavour e adducendo a motivazione della doglianza promossa, il fatto che “il mero disagio economico dipendente dall’ingresso nello Stato, senza disporre di mezzi e dalla mancanza di occupazione connessa alla situazione di clandestinità volontariamente posta in essere” non può considerarsi “motivo di giustificazione che deve avere le connotazioni di necessità inevitabile”.

Gli ermellini decidono di rigettare il ricorso così proposto, non solo per la rilevata difettosa comunicazione degli atti inerenti l’espulsione, non comunicati a Malina nella sua lingua, in violazione di quanto disposto dall’articolo 13 del D.Lgs. 286/98, e pertanto non ben compresi, ma anche e soprattutto per una motivazione dal sapore squisitamente dottrinale.

In effetti, la pronuncia della Suprema Corte si snoda tutta intorno alla inevitabile necessità che avrebbe impedito l’ottemperanza all’obbligo impartito, facendo riferimento, oltre che ai principi propri della scienza penale, altresì alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 5 depositata in data 13 gennaio 2004.

Si legge nella sentenza appena citata, che, seppur va detto che la ragione giustificatrice della mancata ottemperanza all’imposto allontanamento “non può essere costituita dal mero disagio economico di regola sottostante al fenomeno migratorio” essa può risultare “integrata da una condizione di assoluta impossidenza dello straniero, che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera (in particolare aerea o marittima) e di acquistare il biglietto di viaggio”.

Ebbene, dall’istruttoria di primo grado, l’oggettiva “impossidenza” al rimpatrio, aveva trovato pieno riscontro probatorio, sia alla luce delle dichiarazioni rese dalla stessa imputata, e sia, per parola degli ermellini, alla luce delle “accertate condizioni di estrema precarietà abitativa”.

E’ per dette motivazioni, che i Giudici di legittimità hanno ritenuto dover mandare assolta la clandestina Malina, prendendo così le distanze da talune posizioni “rigoriste”, che paiono auspicare il legale “risveglio” del trapassato reato di clandestinità.

Per opportuna notizia, si vuole sottolineare che l’atteggiamento assunto dalla Suprema Corte, con la pronuncia qui commentata, si ravvisa altresì in un altro caso giudiziale, sempre relativo alla problematica dell’immigrazione clandestina, e deciso a Sezioni Unite.

Il riferimento è alla sentenza stilata a chiusura del procedimento mosso a carico di tal Rackid H., marocchino espulso dal nostro paese per provvedimento del prefetto di Pesaro e Urbino, stante l’irregolarità del soggiorno.

L’extracomunitario decide di rivolgersi al tribunale per i minorenni presso la Corte d'appello di Ancona, chiedendo la sospensione del nominato ordine di allontanamento, giuste impellenti necessità familiari, che avrebbero reso necessaria la sua presenza in Italia, almeno per qualche tempo. In effetti, Rackhid, sposatosi con una connazionale avente regolare residenza italiana, è divenuto papà di una bimba, nata ad Urbino nel 2002 ed iscritta nel medesimo permesso di soggiorno della madre.

A sostegno dell’auspicata sospensione, il marocchino pone le descritte condizioni personali, con particolare riferimento all’esigenza di provvedere alla cura della figlia minore, da lui sempre seguita ed iniziata all’educazione scolastica. In effetti, sottolinea, l’espulsione dal territorio italiano avrebbe cagionato pregiudizio alla salute psico-fisica della piccola, d’improvviso privata della figura paterna.

L’istanza in questione trova accoglimento da parte dei giudici minorili, che autorizzano il soggiorno in Italia dell’uomo, almeno per un triennio, fatta salva la possibilità di altra proroga.

Avverso tale pronuncia, propone ricorso il procuratore competente, investendo della questione la Corte d'appello di Ancona, la quale, nel 2004, decidendo in maniera difforme dalle prime cure, revoca la decisione del Tribunale e ordina l’espulsione di Rackid, imputandone le motivazioni all’insussistenza di una “situazione di emergenza” tale da determinare “un pericolo attuale per il minore”.

Rileva la Corte, inoltre, che non “valeva il principio del superiore interesse del minore, poiché esso non poteva essere invocato per consentire la deroga alla disciplina dell'immigrazione, ma doveva trovare attuazione solo nel rispetto delle norme che lo regolavano, nell'ambito delle relazioni familiari”.

Il caso arriva, per presa di posizione del marocchino, di fronte alla Suprema Corte, la quale, con sentenza n. 22216/06, accoglie il ricorso presentato da Rackid, proprio in nome del preminente diritto della piccola a crescere con la figura paterna, diritto che qualifica espressamente come “interesse specifico e pressante che va tutelato, anche in deroga delle disposizioni in materia di immigrazione, ancorché per un periodo determinato”.

I Giudici aggiungono che, siccome “sia l'espulsione che il ricongiungimento familiare svolgono direttamente diritti soggettivi, il provvedimento del giudice che decide sulla deroga ai divieti che precluderebbero l'ingresso e la permanenza del familiare non può non decidere su veri e propri diritti, paralleli e concorrenti seppure non contrapposti, del minore e del familiare e non su un mero interesse del solo minore”, con ciò non negando “la decisorietà del provvedimento il quale incide sul diritto del minore ad essere assistito da un familiare nel concorso delle condizioni richieste dalla legge e, contemporaneamente, su quello del familiare a fare ingresso in Italia e a trattenervisi per prestare la dovuta assistenza”.

In sintesi, gli ermellini hanno finito per aderire alla posizione assunta dai primi giudicanti, ritenendo che “l'autorizzazione non è stata fondata sulla mera constatazione della presenza in Italia di una figlia in tenera età, bensì sull'accertamento concreto del grave pregiudizio che alla minore sarebbe derivato dalla perdita improvvisa della figura paterna per effetto della sua espulsione”.

In un clima di tensione politica e di duelli parlamentari, quale quello attuale, era prevedibile l’ondata di pareri, critiche e perplessità, conseguente alle due pronunzie finora descritte.

Si annovera, sul fronte delle opposizioni al percorso giurisprudenziale intrapreso dalla Suprema Corte, il senatore Mantovano, per il quale si assisterebbe a pronunce di Cassazione inserite in un “solco consolidato di provvedimenti giudiziari che, da quando è in vigore la Fini Bossi, provano in vario modo a disapplicarla, se non a sabotarla apertamente”.

Di pari avviso è il senatore Piravano, il quale, a protesta di quanto da lui definito “l'assurdo legislativo applicato da questi signori con l'ermellino”, continua così: “allora io dico che sono giustificati anche i reati commessi dagli italiani indigenti. Se uno ruba in un supermercato oppure ruba una bicicletta o un motorino, perché non se li può permettere, è considerato esente dal rispettare sia il codice civile o il codice penale. Questo dovrebbe valere per tutti gli esseri umani residenti sul territorio nazionale”.

Certamente, la parola clandestinità è sintomo di una situazione difficile, al limite delle forze umane e delle possibilità di un futuro certo; quando si dice immigrato, talvolta si percepisce nello sguardo dell’interlocutore un auspicio di eguaglianza, ma talaltra, purtroppo, e specie nelle realtà locali, si toccano con mano retaggi di razzismo.

In tutto ciò, non può non riconoscersi l’evidente ruolo dei media, spesso fomentatori di quella etichetta, dal sapore amaro, cucita addosso agli extracomunitari e di cui questi uomini non riusciranno a spogliarsi facilmente … e a poco varranno i gesti di umanità e gli slanci di solidarietà compiuti da clandestini dei quali non si ricorda neppure il nome, ma che la scorsa estate hanno dato prova di grande altruismo. Il riferimento è ai giovani Nasser Othman, che salva la vita a tre ragazzi e poi viene espulso perché irregolare, e alla honduregna Iris Palacios Cruz, che sacrifica la sua vita per salvare quella della bimba della quale si prendeva cura, e della quale oggi resta solo una medaglia alla memoria.

Se non si può negare l’illegalità in cui molti immigrati vivono, non si può non riflettere sul fatto che, spesso, la nostra esistenza è migliore e meno precaria della loro, ma solo per una questione di “fortuna di nascita”. I giovani immigrati, che siedono stanchi sui bordi delle strade e che lavorano incessanti senza tutela alcuna e senza garanzie, non sono né migliori, né peggiori dell’italiano medio, sono solo meno fortunati e talvolta più generosi del vicino di casa … e non può una mera irregolarità burocratica fare tabula rasa dei diritti fondamentali di ciascun individuo.

Un tal messaggio, così come lanciato dai giudici di Piazza Cavour, rincuora e incoraggia ad una riconsiderazione dell’immigrato, con mente sgombra da pregiudizi o rancori.

Avv. Selene Pascasi, esperta di diritto minorile e di famiglia, specializzata in diritto penale
 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 17/11/2006

 

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