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I nuovi criteri di individuazione del "sottoprodotto" secondo il Giudice comunitario


PASQUALE GIAMPIETRO


 


 1. Gli ultimi indirizzi della CGCE. Le più recenti pronunce della Corte di giustizia sul tema critico della contrapposizione fra residuo produttivo1 e residuo connotato dalle caratteristiche del “sottoprodotto”, ritenuto vera e propria “merce”2 , hanno fornito importanti conferme ed esplicitazioni - su alcuni tratti non marginali di questa problematica distinzione – su cui conviene ancora riflettere.

In particolare, per un approccio interpretativo di rilevante apertura verso il mercato del sottoprodotto, si segnalano tre importanti e recentissimi “arresti” del Giudice comunitario3 nei quali, affrontando tematiche economico-commerciali di notevole spessore4, si è avuto il merito di ridiscutere, in una visione prospettica di sintesi, gli esisti finali di un laborioso, e spesso poco coerente, indirizzo giurisprudenziale, superando una visione strettamente giuridico-formale del problema, sovente ispirata da molte “riserve” verso il mercato del riutilizzo “tal quale” dei residui produttivi peraltro, più volte, giustificate da gravi episodi di irregolare gestione.

La esplicita conferma dei punti-cardine su cui è stata costruita, nell’ultimo decennio, la nozione di “rifiuto” (e, specularmente, quella di “sottoprodotto”) non ha, infatti, impedito alla Corte di riscrivere, su basi più realistiche, e “sostenibili” per il mercato, quello che può ormai definirsi lo statuto dei criteri fattuali e logico-giuridici su cui viene superata quella difficoltosa antitesi (rifiuto/sottoprodotto). Cercando soprattutto di emendare, per alcuni tratti essenziali (v. oltre), le soluzioni precedentemente suggerite e, comunque, fornendo ai giudici nazionali – cui viene rimesso l’accertamento, caso per caso, della ricorrenza o meno della nozione di rifiuto5– un decisivo strumento per assolvere, in modo certo e, se possibile, unitario, il loro compito di interpeti della normativa nazionale in doverosa conformità a quella comunitaria.

In tali più recenti interventi, dunque, la Corte conferma, innanzi tutto, una sua affermazione di principio, da cui prende le mosse, secondo cui la nozione di rifiuto deriva da quella di “disfarsi”, di cui all’art. 1, lett. a) della direttiva 75/442 cit.6, espressivo della volontà del produttore/detentore di destinare la sostanza o l’oggetto ad operazioni di recupero o di smaltimento.

Né ignora che, in un eccesso dialettico, essa aveva finito, successivamente, con il dubitare e, meglio si direbbe, “minare” la sicura attendibilità del suo stesso criterio, allorché veniva specificato, in seconda battuta:

a) che “l’esecuzione di un’operazione menzionata negli allegati IIA e IIB della direttiva (di smaltimento o recupero) cit. non permette, di per sé, di qualificare una sostanza o un oggetto come rifiuto”7, ben potendo anche una materia prima essere sottoposta ad operazioni qualificabili come trattamento o recupero8; e, sotto altro profilo, essendo astrattamente ipotizzabile che il detentore della materia prima (ottenuta dal recupero) decida, per es., di smaltirla anziché utilizzarla9;
b) che, “.. inversamente, la nozione di rifiuto non esclude le sostanze ed oggetti suscettibili di riutilizzo economico, con un valore commerciale” e che siano “… raccolti a titolo di riciclo, recupero, riutilizzo”10.

Ma, prendendo atto, in buona sostanza, di aver rinunciato a fornire sicuri parametri sostanziali di individuazione di tale nozione - a nostro avviso per un eccesso di problematizzazione della questione definitoria, non sempre necessaria (e quasi mai utile agli operatori…) - la Corte aggiunge, nel corso dell’ultimo biennio, nuovi indizi o indicazioni “…che possono permettere di individuare la volontà del detentore11 ovvero di distinguere direttamente, con riferimento ad una data sostanza, il rifiuto dal sottoprodotto12.

2. Aggiornamento dei parametri di individuazione. In un contesto giurisprudenziale, di lungo periodo, le tre pronunce richiamate13, hanno, più propriamente, arricchito e chiarito alcuni dei criteri sostanziali in base quali definire il residuo produttivo come “sottoprodotto”, introducendo, per alcuni di essi, alcuni aggiustamenti14:
 

1) va, in linea di principio, individuata la volontà del detentore al fine di accertare la sua intenzione (o meno) di “disfarsi” della sostanza o dell’oggetto, in assenza di criteri normativi (non rintracciabili nelle direttive15); con il corollario - che se ne trae, sul piano fattuale - secondo cui sarà da considerare “disfatto” quel residuo produttivo o di consumo che viene prodotto solo in via accessoria e di cui l’impresa cerca di limitare la quantità. Ne deriva, altresì, che: “.. è rifiuto ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso delle lavorazioni del materiale…”16;


2) una sostanza derivante “.. da un processo di fabbricazione o di estrazione - che non è principalmente destinato a produrlo - può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi”, ai sensi dell’art. 1, lett. a), comma 1, .. ma che essa intende sfruttare o commercializzare (criterio soggettivo prevalente) a condizioni più favorevoli, in un processo successivo,17 senza trasformazioni preliminari”18;


3) le circostanze che “.. i materiali hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione..” e che pertanto non vi sia una “mera possibilità di riutilizzazione della sostanza ma.. una alta probabilità nel farlo…, conseguendone il detentore un vantaggio economico…”, sono considerati indizi oggettivi per arrivare alla individuazione della volontà del produttore (di non disfarsi del residuo produttivo)19;


4) il residuo di produzione, pur non configurandosi come il prodotto principale, ricercato dall’esercente come scopo della sua produzione, deve considerarsi “sottoprodotto” (e non rifiuto) ove sia stato volontariamente realizzato nell’impianto e dunque sia “.. il risultato di una scelta tecnica”20, anche se non è “.. lo scopo primario della produzione” né “il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente”21;


5) il residuo produttivo va definito sottoprodotto anche quando “… è il risultato automatico di una tecnica che genera in parallelo altre sostanze ..“ il cui ottenimento costituisce l’obiettivo dell’impresa, nel caso in cui sia certo l’utilizzo di tale residuo ed esso sia stato voluto in quanto tale (e non in quanto residuo non ricercato per se stesso)22;


6) il fatto che il sottoprodotto venga utilizzato con sistemi che “…corrispondono a modalità correnti di recupero”23 non comporta la sua definizione di residuo/rifiuto, le volte in cui lo scopo dell’impianto24 è precisamente quello di produrre, da un’unica materia prima (per es. il petrolio grezzo), tipologie distinte di prodotti ovviamente diversamente pregiati (e quindi con un mercato differenziato e differenti prezzi) ma tutti voluti dall’imprenditore che ha scelto quei determinati processi produttivi. Con l’ulteriore aggiunta - fornita dalla stessa Corte - secondo cui, in questo caso, il trattamento del sottoprodotto non ne impone logicamente la definizione di rifiuto perché anche una materia prima può essere sottoposta a interventi che rientrano nelle previsioni delle “operazioni di recupero”25;


7) il sottoprodotto rimane tale anche se il suo utilizzo ne comporta la scomparsa in quanto questo indizio (che indurrebbe a pensare alla presenza di un rifiuto)26, oltre a non essere decisivo, può superarsi dimostrando che il sottoprodotto sia impiegato come materia prima per fabbricare altri prodotti27;


8) la circostanza che un sottoprodotto debba essere impiegato in particolari condizioni di precauzione per l’ambiente e la salute (indizio dell’eventuale presenza di un rifiuto28) non lo “trasforma” automaticamente in rifiuto poiché dette precauzioni valgono anche per le materie prime o le merci pericolose e, pertanto, non mutano la natura del sottoprodotto che già risponda ai requisiti suoi propri (quelli appunto che si stanno elencando)29;


9) il fatto che il detentore consideri per errore, in alcune occasioni o documenti, una data sostanza come rifiuto non è “sufficiente” a trasformare il sottoprodotto in rifiuto ove, con riferimento al suo concreto comportamento, esso lo riutilizzi “tal quale”, soddisfacendo tutte le condizioni sopra indicate, senza “disfarsene” ovvero senza essere obbligato a farlo da “un provvedimento legale” dell’Autorità30;


10) il sottoprodotto non si trasforma in rifiuto se viene conferito “tal quale” dal suo produttore a ditte terze, per soddisfare i bisogni di quest’ultime, senza trasformazioni preliminari31. In termini definitori, tale decisiva apertura giurisprudenziale comporta, come è stato evidenziato, la rimozione di un grave limite32 alla definizione di “sottoprodotto” costituito dall’imporre un utilizzo diretto del residuo produttivo (o di consumo) “nel corso del processo di produzione” da cui proveniva e, conseguentemente, solo all’interno dell’impresa d’origine33.


3. Conclusioni – Considerate in chiave prospettica, le più recenti decisioni appena rassegnate possono essere lette, in definitiva, come un momento progressivo (anche se non conclusivo) di una lenta e laboriosa evoluzione della giurisprudenza comunitaria sulla nozione di rifiuto, in cui si riscontrano delle decisive novità – rispetto alle scelte del passato – soprattutto nel senso di una maggiore valorizzazione della volontà del produttore nell’imprimere ad una sostanza – che residua da un processo produttivo – la sorte del sottoprodotto34 anziché quella del rifiuto.

Nel nuovo corso, segnato dalle sue ultime decisioni, la Corte di giustizia conferisce, infatti, alla “volontà” del produttore/detentore la idoneità a qualificare “sottoprodotto” anche “i residui accessori” (non principalmente voluti) nonché “altre sostanze” riconducibili a “tecnologie complesse” che generano, in automatico, più prodotti (anche secondari) – i quali vengono comunque considerati, al presente, dei “sottoprodotti”, a condizione che siano frutto di una scelta tecnologica voluta dall’impresa e siano effettivamente riutilizzati.

In tale approccio interpretativo la volontà dell’imprenditore va ricostruita sul piano oggettivo (in relazione alle tecnologie di processo prescelte) e soggettivo, nel rispetto dell’elemento intenzionale, anche quando essa risulti viziata da errore di fatto o di diritto (che deve cedere di fronte al reale comportamento tenuto dal detentore da cui desumere la sua intenzione effettiva rispetto a quella erroneamente dichiarata).

Il concetto allargato di “sottoprodotto” è ritenuto compatibile, secondo la stessa Corte, con operazioni elencate nelle “attività di recupero” (quali, per es., la combustione) che ne comportano la scomparsa al momento del riutilizzo, e anche in presenza della necessità di particolari condizioni di precauzione per l’ambiente e la salute in fase di effettivo reimpiego.

Da ultimo, ma non per importanza, le tre sentenze sopra illustrate35 chiariscono, in modo stringato, ma univoco, che “…non occorre limitare l’utilizzazione (dei sottoprodotti) nello stesso stabilimento .. che li ha prodotti”, rimuovendo in tal modo, a chiare lettere, un ulteriore ostacolo alla configurazione giuridica del “sottoprodotto”, del tutto dissonante con uno dei principi fondativi dell’Unione Europea (quale quello della circolazione delle sostanze definibili come “merci”).

Su quest’ultimo punto non si possono ormai nutrire dubbi o incertezze ove si prenda atto del chiaro tenore dell’ultimo - e comune - messaggio, inviato dal giudice dell’U.E.: “…. Infatti, come la Corte ha già giudicato, una sostanza può non essere considerata un rifiuto, ai sensi della direttiva 75/442, se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta”.

In definitiva, anche se “ la direttiva 75/442 non propone alcun criterio per individuare la volontà del detentore di <<disfarsi>> di una sostanza o di un determinato oggetto”36, la Corte ha finito per enucleare, nell’ultimo quinquennio, un complesso, sempre più articolato e puntuale, di criteri sostanziali di identificazione di tale volontà (che si estrinseca nell’attività di “disfarsi”) i quali sono diretti ad agevolare – oltre che ad utilmente restringere – l’ambito di competenza (e di “discrezionalità”) interpretativa del giudice nazionale. Tale risultato non può che trovarci consenzienti ove si rifletta alla fragilità di un sistema sopranazionale in cui l’esegesi e l’applicazione concreta delle norme comuni (come quelle poste dalle direttive sulla gestione dei rifiuti dell’U.E.) vengono di fatto rimesse, in prima battuta e in forma diffusa, all’autorità amministrativa e agli organi di giurisdizione interna, secondo regole poste da ordinamenti diversi… di 25 Stati membri.

L’unificazione delle prassi del mercato unico europeo non può che scaturire, in via indiretta, anche dalla convergenza delle giurisdizioni interne le quali trovano, infatti, il loro primo e comune limite e vincolo37 nella giurisprudenza comunitaria. La univocità e coerenza di quest’ultima consentirà di raggiungere - si spera in tempi ragionevoli - una situazione di maggiore “certezza interpretativa” che costituisce “un bene” (non solo giuridico) irrinunciabile cui hanno diritto di aspirare (e di vedersi assicurato) i singoli operatori economici, il mercato nella sua totalità e le pubbliche amministrazioni38.

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1 Da qualificare, in linea di massima, rifiuto, secondo la direttiva 75/442 CEE, come modificata dalla direttiva 91/156, in quanto destinato ad una attività di recupero o di smaltimento. Tali attività, come è noto, costituiscono il contenuto tipico della nozione di “disfarsi” da cui “dipende la nozione di rifiuto e il suo ambito di applicazione”: così punti 46 e 47 della sentenza della Corte di Giustizia 15 giugno 2000, cause riunite c-418/97 e C-419/97 Arco Chemie, in Racc. pag. I - 44757. Detta pronuncia conferma quanto già evidenziato, con nettezza, dalla precedente sentenza della stessa Corte, 18 dicembre 1997, Causa 129/96, Inter-Environnement Wallonie, punto 26, in Racc., pag. I – 7411.
2 Almeno a partire dalla decisione della Corte di Giustizia del 18 aprile 2002, causa – 9/2000, Palin Granit Oy, in Racc. pag. I -3533 che, con riferimento a detto particolare residuo aggiunge: “… del quale l’impresa non ha intenzione di <<disfarsi>>, ai sensi dell’art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva … ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari”: v. punto 34 della motivazione.
3 Ci riferiamo all’Ordinanza 15 gennaio 2004, causa C – 235/2002, Saetti e Frediani, in Racc. pag. I 1005, in materia di riutilizzo del coke da raffinazione di petrolio: v. punti 47, 87 e 88 e alle due successive sentenze dell’8 settembre 2005, causa C- 416/2002 e C- 12/2003, commentate dallo stesso Autore in Ambiente&Sicurezza….. Il testo integrale delle ultime due sentenze è reperibile all’indirizzo http//:www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com.
4 Relative al riutilizzo, tal quale, di residui derivante dalla raffinazione del petrolio, dei liquami reimpiegati come fertilizzanti in attività agricola, di residui da attività estrattiva e di fabbricazione.
5 Nell’esercizio di una funzione che ha sortito, sinora, esiti spesso difformi e dunque aleatori, anche a causa della problematicità dei criteri da applicare.
6 V. nota 1.
7 Espressione tratta da punto 27 della sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit Oy cit., ma già presente nella sentenza 15 giugno 2000, Arco, punto 49.
8 V. punto 50 della sentenza Arco cit., con riferimento alla riferibilità delle operazioni R9 (combustione) dell’allegato IIB a materie prime come la nafta, gas o cherosene.
9 V. punto 94 della sentenza Arco, cit., ove si immagina, peraltro in modo del tutto teorico, che, ottenuta una materia prima dal recupero, ex allegato II B, l’imprenditore se ne disfi, smaltendola (e, in tal modo, trasformandola in rifiuto!).
10 Si vedano le sentenze 28 marzo 1990, in cause riunite C-206//88 e C- 207/88, Vessoso e Zanetti in Racc. pag. I – 1461; e, successivamente, 25 giungo 1997, Tombesi e altri, punto 52.
11 Sulla decisività dell’elemento soggettivo della nozione di rifiuto, ricercata nella “volontà del detentore”, si consideri il punto 25 della sentenza Palin Granit OY, cit.: ” … Tuttavia la Corte, più volte interrogata sulla qualificazione di rifiuto… ha fornito alcune indicazioni che possono permettere di individuare la volontà del detentore..”.
12 In altre parole, l’Organo comunitario ha indicato degli indizi o “prove logiche” rappresentate da alcune circostanze certe dalle quali tanto la P.A. che il giudice, in caso di contenzioso, potranno dedurre logicamente, attraverso massime di esperienza e a conclusione del loro accertamento, la presenza o meno del rifiuto. Sull’accertamento giurisdizionale della ricorrenza o meno del rifiuto (rimessa ai giudici nazionali di 25 Stati membri…, con soluzioni finali molto variegate, quando non del tutto contrastanti), si veda esplicitamente il punto 70 della sentenza Arco, cit., che introduce un principio [secondo cui “spetta al giudice nazionale applicare le norme in materia del proprio ordinamento giuridico relative alla prova dell’esistenza di un rifiuto”] da cui possono scaturire conseguenze negative, di natura teorica e pratica. Detta definizione, infatti, ove non sia conosciuta dall’operatore, in via preventiva e in modo chiaro, genera paralizzanti incertezze nella prassi quotidiana e rischi di responsabilità, anche penale. Quando poi viene acquisita, in un momento successivo, assai spesso dopo defatiganti procedure amministrative o giudiziarie, essa risulta tardiva rispetto alle regole eventualmente violate e, comunque, ai ritmi del mercato.
13  V., retro, nota 3.
14 L’elenco che segue tiene conto, in una successione non solo cronologica ma logica, dei criteri elaborati dalla precedente ed attuale giurisprudenza della CGCE riportata in nota. Le formulazioni del testo sono riprese direttamente dalle motivazioni di dette pronunce.
15 Affermazione del punto 25 della sentenza Granit Pali Oy, cit.
16 Detti criteri oggettivi vengono enucleati già nei punti 83 e 87 della sentenza Arco, cit. e ripresi da punto 32 della sentenza Palin Granit Oy cit. . Essi rientrano tra quelli che hanno subito una incisiva rilettura, cedendo al parametro soggettivo: v. oltre, p. 2 e 4).
17 Questa formulazione di portata generale, nel correggere e superare il precedente criterio, ha rappresentato la più rilevante “apertura” della sentenza Palin Granit Oy cit., (punti 34/35), a fronte della anteriore giurisprudenza, e ci sembra orientata (sempre) nel segno della valorizzazione della volontà del detentore.
18 Da intendere, secondo l’insegnamento dello stesso Giudice dell’U.E., come quelle (“operazioni di recupero completo”) che fanno acquistare alla sostanza (rifiuto) “.. le stesse proprietà e caratteristiche di una materia prima” (v. punto 94 della sentenza Arco (proprietà e caratteristiche che, prima della “trasformazione preliminare”, il rifiuto non aveva ovviamente). Nello stesso senso, v. l’art. 183, comma 1, lett. n) del nuovo Testo Unico in materia ambientale, in corso di approvazione, che definisce i “sottoprodotti” come quei “prodotti che, pur non costituendo l’oggetto della attività principale .. sono impiegati direttamente dall’impresa .. senza necessità di operare trasformazioni preliminari …. che facciano perdere al sottoprodotto la sua identità.. ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le qualità che esso già possiede…”.
19 “In una ipotesi del genere”, prosegue la Corte (Palin cit, p. 37), deve escludersi tale volontà di disfarsi perché ”… la sostanza non può essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi bensì un autentico prodotto … “ e, “.. in quanto tale, soggetto alla normativa applicabile ai prodotti” (punto 35).
20  Trattasi di un nuovo parametro di qualificazione, introdotto dall’ordinanza 15 gennaio 2004, Saetti e Frediani cit. (punto 45), che viene riferito ad un residuo di distillazione (il coke) il quale, pur non costituendo lo scopo principale della raffinazione (destinata a produrre “principalmente” oli minerali con determinate caratteristiche), non può considerarsi accessorio o accidentale (secondo i criteri indicati, nel testo, sub 1), in quanto voluto e pertanto “… risultato di una scelta tecnica in quanto il coke non sarebbe necessariamente prodotto nelle operazioni di raffinazione”.
21 Secondo gli “indizi” tradizionali posti soprattutto dalle sentenza Arco e richiamati da Palin Granit Oy (v. punto 32) citt.
22 Anche il criterio “dell’obiettivo voluto” – come i cinque che seguono - risultano sostanzialmente inediti, oltre che di rilevante portata, soprattutto in alcuni settori produttivi (si pensi all’industria chimica) in cui, contestualmente al prodotto “principalmente voluto” dall’impresa, si ottengono “automaticamente” dei residui che possono essere riutilizzati direttamente - o commercializzati presso terzi - come sottoprodotti. Da un punto di vista soggettivo, lascia intendere esplicitamente la Corte, essendo nota all’imprenditore la tecnologia (prescelta ed acquistata) - che genera contestualmente più prodotti (principali e accessori) - è corretto sostenere, come si argomenta in sentenza cit., che, nel momento in cui quest’ultimo ha acquistato gli impianti, egli ha consapevolmente voluto quel determinato “obiettivo” di produzione, comprensivo anche dei prodotti accessori. Questi ultimi, dunque, lungi dall’essere considerarti “accidentali” o “accessori” sono stati previsti e voluti (come, per es., il coke) “dalla direzione aziendale” (che avrebbe potuto scegliere tecnologie diverse con diversi residui). Essi, pertanto, vanno qualificati “sottoprodotti” ove effettivamente riutilizzati tal quali (v. punti 45 e 46 dell’ordinanza Saetti-Frediani cit.).

23 Come la combustione, secondo quanto previsto dall’Allegato II B della direttiva 91/156, R 9, che detta: “ Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre energia”.

24 Così, nel caso deciso dall’ordinanza Saetti-Frediani cit.: ”.. una raffineria che produce diversi tipi di combustibili a partire dal petrolio grezzo” (v. punto 46)

25 In tal senso, v. punto 50, della sentenza Arco, secondo cui alcune descrizioni di operazioni di recupero “…sono invece formulate in termini più astratti, potendo quindi essere applicate a materie prime che non sono rifiuti. Pertanto la categoria R9 dell’allegato II B, dal Titolo “Utilizzazione principale come combustibile o altro messo per produrre energia” può essere applicata alla nafta, al gas o al cherosene” (cioè a materie prime combustibili).

26 V. sentenza Arco, punto 69.

27 Per es. il coke da petrolio per realizzare prodotti a base di carbone e grafite (così ordinanza Saetti-Frediani, punto 46).

28 Secondo un parametro tradizionale già indicato dalla sentenza Arco, cit. a punti 72 e 86.

29 V. punto 46 dell’ordinanza Saetti-Frediani cit.

30 Trattasi di criterio di individuazione del tutto nuovo che può essere accolto con favore in quanto dà prevalenza alla condotta effettiva del detentore del “sottoprodotto” rispetto alla sua erronea opinione (che, fra l’altro, potrebbe considerarsi, in qualche occasione, giustificata dalla… stessa normativa vigente, oltre che dalla complessità e dalle oscillazioni della giurisprudenza, non solo comunitaria) circa la natura del residuo che sia comunque utilizzato tal quale senza trasformazioni preliminari (v. punto 46 dell’ordinanza Saetti-Frediani).

31 In base al più recente criterio di qualificazione introdotto esplicitamente dalle due sentenze dell’8 settembre 2005, cit. (v. punto 90 di quella pronunciata in Causa C 416/02 e punto 61 della sentenza in Causa C- 121/03) che rafforzano definitivamente lo stesso principio già prospettato all’ordinanza Saetti e Freudiani, a punto 47.

32 Ripreso, per es. dalla sentenza Palin Granit Oy cit., a punto 36, ma già chiaramente affermato dalla decisione Arco cit., nei punti 37/38.

33 V. retro, nota 11.

34 A fronte di un indirizzo contrario che mirava ad accreditare una ricostruzione “oggettiva”, piuttosto che “soggettiva”, di rifiuto, secondo un improbabile quanto indefinibile criterio connesso al valore merceologico o commerciale della sostanza in sé - e dunque a prescindere dalla volontà del detentore - ricercata nella sua permanente idoneità ad essere riutilizzata nel ciclo originario di provenienza, sul presupposto (aprioristico ed irragionevole, oggi caduto) della sua non conferibilità a terzi, per soddisfare i bisogni di questi ultimi (ovviamente in distinto processo produttivo).

35 V. nota 3.

36 V. la sentenza Palin Granit cit. punto 25.
37 Nel senso dell’obbligo di conformazione del giudice nazionale alla norma comunitaria come interpretata dalla Corte di Giustizia.
38 Prima ancora di ogni intervento definitorio ed applicativo, in sede processuale, dinanzi al proprio giudice interno, con esiti multipli e spesso imprevedibili.
 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 2/1/2006

 

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