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I pacs e la Costituzione: conflitto o convivenza di valori?

 

SELENE PASCASI




Le disquisizioni nate attorno alla presunta questione di incostituzionalità di una probabile e futura regolamentazione dei patti civili di solidarietà, stanno infiammando gli animi di politici e religiosi italiani, tutti intenti a discutere sulla necessità o meno di fornire tutela giuridica alle unioni di fatto; senza contare, che nel nostro paese si sta delineando una situazione storico - politica più sensibile alle problematiche sociali, tanto da sostenere la creazione di un Ministero per la Famiglia.

Una considerazione di più ampio respiro, vede l’Italia aprirsi, con intento adeguatore, al panorama europeo, al quale auspica di allinearsi, al pari degli altri Stati comunitari.

Seppur estranea a questo contesto, la trattazione della normativa di disciplina dei pacs, già affrontata in precedenti interventi, preme accennare, seppur brevemente, ad una questione di estrema importanza.

Il riferimento è all’assoluta mancanza, nel nostro paese, di legislazione in tema di unioni civili non coniugate, siano esse eterosessuali o omosessuali. Il vuoto normativo non è di poco rilievo, soprattutto alla luce degli intenti europei, di vedute ampie e pluraliste.

Basti ricordare la Costituzione europea, approvata, tra gli altri, anche dal nostro parlamento, della quale è principio cardine, il divieto assoluto di ogni forma di discriminazione, specie sessuale. Non solo, nella stessa direzione si è mosso il Parlamento comunitario, che, con risoluzione del 1994 e con relazione del 2000, ha invitato gli Stati membri ad adottare una normativa di riconoscimento delle unioni di fatto, anche omosessualmente formate. Da ultimo, il cd. “rapporto Sylla” del 3 settembre 2003, che auspica la legittimazione, all’interno delle singole nazioni, degli istituti di coniugio o di adozione, anche se richiesti da nuclei familiari non tradizionali, con riferimento alle realtà lesbo o gay.

Seppure gli imput lanciati dallo spirito europeistico appaiono forti e chiari, ad oggi non vige ancora alcuna normativa, in Italia, in materia di convivenze “atipiche”. La questione diviene più preoccupante, ove si rivolga l’attenzione a quanto previsto dalla Direttiva comunitaria n. 38 del 2004, che sancisce il principio della libera circolazione, in ambito europeo, delle persone e dei loro familiari, laddove, per “familiare”, si intende non solo il coniuge e la prole, ma altresì il partner che abbia registrato la propria unione. Si comprende allora, la difficoltà italiana di gestire fattispecie di tal genere, in mancanza di adeguata normativa.

Traendo le somme, la lacuna legislativa italiana non può e non deve essere sottovalutata, specie in una società come quella attuale, dove l’esercito delle unioni di fatto aumenta di giorno in giorno e dove l’assoluta mancanza di tutela verso tali coppie, non è certo indice di pluralismo.

Invero, qualche timido tentativo di rimediare al vuoto normativo, può individuarsi, in primis, col ricorso ad una sorta di autoregolamentazione del rapporto; in secondo luogo, con l’intervento di giurisprudenza suppletiva e, infine, con l’ausilio della legislazione europea.

Circa il primo rilevo, pur apprezzando il tentativo di alcune coppie di colmare le lacune legislative sottoscrivendo convenzioni atte a regolare singoli aspetti della loro convivenza, il buon intento trova diversi limiti, primo fra tutti, in materia di lasciti ereditari, laddove la disposizione di cui all’art. 458 del codice civile fa divieto, pena la nullità, di stipulare patti successori.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, dal canto suo, ha tentato vari approcci: talora riconducendo la fattispecie alla categoria delle obbligazioni naturali, talaltra intervenendo su singoli aspetti, come nel caso della decisione n. 2988/94, con cui si riconosce al convivente, in caso di uccisione del partner, la pretesa al risarcimento del danno morale e patrimoniale, nei confronti del terzo che ne abbia cagionato la morte.

Interessante è la tesi di chi afferma la possibilità di contrarre, anche in Italia, il patto civile di solidarietà, sulla base del sostegno offerto dalla Convenzione di Roma del 1980, stilata in tema di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Ivi si legge, all’articolo terzo, che “Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti” … a patto che la scelta risulti univoca e che la legge straniera indicata non contrasti con le cd. norme imperative. Se ne deduce, allora, che, ove non pregiudizievole ad alcuna norma imperativa, ben potrebbe stipularsi nel nostro paese un pacs per regolamentare la convivenza more uxorio; si tratterebbe solo di optare, come la Convenzione consente, per la legge francese quale criterio legislativo alla luce del quale normare la singola unione. Purtroppo, un rilievo negativo balza agli occhi: pur volendo aderire a tale visione, certo è che, un tale accordo non potrebbe produrre effetti al di fuori del nucleo contraente, giusta la carenza, in Italia, di strutture organizzative che registrino il patto, rendendolo opponibile a terzi.

Dal quadro normativo descritto, si delinea con chiarezza la necessità, da parte del legislatore italiano, di dare una risposta concreta a quelle coppie di fatto, stimate in circa un milione e duecentomila, che vedono ogni giorno negarsi diritti e aspettative di non poco conto. Non può lasciare indifferenti, il fatto che perfino conviventi di lunga data, anche ventennali, vedono negarsi il diritto di visita o di assistenza al partner gravemente malato o degente. O ancora, l’impossibilità per il singolo convivente di testare in favore del compagno, senza andare incontro alle gravose misure fiscali previste in materia di successione a terzi estranei.

Ebbene, proprio per risolvere tali questioni, sono stati presentati nella scorsa legislatura e in quella appena iniziata, disegni di legge volti all’introduzione dell’istituto dei patti civili di solidarietà, intesi come forma di regolamentazione delle unioni non coniugali, estensibile altresì alle coppie omosessuali. Si è inteso, in tal modo, da una parte dotare di un’ulteriore chance le convivenze eterosessuali, non più ristrette tra il formalismo del coniugio e la carenza assoluta di tutela della mera unione, ma altresì fornire di prima tutela le coppie gay.

Per via del carattere innovatore dei progetti de qua, si sono intavolate ardite discussioni che, dal piano prettamente tecnico - giuridico, hanno finito per toccare temi di grande spessore, attinenti all’etica anziché alle considerazioni di diritto, alle quali, per evidenti ragioni, resterà circoscritta la presente disamina.

Punto focale dell’odierna discussione: la questione di presunta incostituzionalità della figura del pacs, inteso come riconoscimento legislativo delle unioni di fatto, etero o omosessuali.

Il dato normativo da cui partire, ai fini di una più chiara ricostruzione della vicenda esaminata, è l’articolo 29 del testo costituzionale, nel quale si legge che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" e identificata con la formazione sociale denominata “famiglia legittima”.

Detta famiglia legittima è, secondo la vigente normativa italiana, l’unico modello di unione formalmente riconosciuto dal legislatore e, pertanto, solo nucleo meritevole di tutela normativa; di contro, la famiglia di fatto, basata sulla mera affectio, resta ancora allo stadio di società naturale, priva di qualsivoglia garanzia giuridica.

Le critiche di incostituzionalità di cui si discorre, trovano spunto e ragione, per taluni, proprio in base al dettato di cui all’art. 29 della Costituzione, laddove il testo fa riferimento alla “società naturale fondata sul matrimonio".

Un rilevo appare doveroso: se dalla lettera della norma descritta, non si evince alcun riconoscimento di legami diversi da quelli coniugali, d’altro canto, neppure vi si ravvisa la negazione di altre tipologie di convivenza, le quali, perciò, non risultano né vietate, né autorizzate. A sostegno di tale interpretazione del testo costituzionale, si adducono due considerazioni: la prima, vertente sulla semantica della norma, e la seconda, desunta dal raccordo dell’art. 29 con altre norme della stessa Costituzione.

Sotto il primo profilo, si sottolinea che, in realtà, l’articolo 29, non solo non esclude espressamente il rilievo delle formazioni sociali non coniugali, ma neppure fa riferimento alla differenza di sesso quale elemento caratterizzante il matrimonio, posto a base della famiglia legittima. In altre parole, l’unico dato certo sul quale risulta formata la norma de qua, è il termine “naturale”, al quale si è dato, solo in seguito, il significato di “legame matrimoniale tra persone di sesso diverso”.

In realtà, come sostenuto perfino da autorevoli costituzionalisti, tra cui il Galgano, appare più corretto riferire l’aggettivo “naturale” all’insieme delle regole disciplinanti la società, in relazione allo specifico contesto di volta in volta ravvisato. In effetti, se in un periodo non troppo lontano, appariva inconcepibile la dissoluzione del matrimonio o lo “sdoganamento” dei diritti di moglie dalla sottomissione alla potestà maritale, con le Riforme degli anni settanta, tali visioni della famiglia sono state sostituite da principi più egualitari e più civili.

E’ per tali ragioni, che non può darsi al termine “naturale” altro significato, se non quello che per primi i Costituenti vollero attribuirgli: la famiglia, nella ratio della Costituzione, è di certo una società naturale, ma nel senso di formazione preesistente allo Stato e originaria rispetto a qualsivoglia normazione. Se ne deduce, come sostenuto altresì dal compianto Moro, che il riconoscimento effettuato dall’art. 29 della Costituzione, non era riferito ai diritti naturali della famiglia, bensì alla famiglia naturale, non già creata, ma solo normata dal legislatore.

Ebbene, se si riconosce la preesistenza della famiglia ai poteri legislativi, allora tutte le norme poste a garanzia del nucleo familiare, vengono in un secondo momento e intervengono non a legittimare un istituto, ma solo a regolamentarlo; ne consegue che, la normazione della formazione coniugale, seppur essenziale, non può e non deve tradursi in una negazione delle unioni non formalizzate dal matrimonio.

Sotto il secondo aspetto, occorre raccordare la disposizione di cui all’art. 29 con altre norme costituzionali, anch’esse necessarie al fine di meglio qualificare e delineare la fattispecie trattata; in effetti, è proprio nelle disposizioni relative alle formazioni sociali, di cui agli articoli 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, che si cerca di trovare sostegno normativo per offrire tutela alle unioni “non coniugali”, inserendole nell’alveo dei nuclei sociali alternativi.

Nel senso della compatibilità tra una normativa di disciplina dei pacs e l’intento del costituente, si muove l’articolo 3 della Carta, nel quale si distinguono due “sotto – principi” al principio cardine dell’uguaglianza, sanciti rispettivamente dal primo e dal secondo comma, l’uno di natura formale, l’altro sostanziale.

Nel primo comma si legge che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; nel secondo, invece, si avverte l’esigenza di un intervento concreto della Repubblica, cui si assegna il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In sostanza, se la norma descritta impone eguale trattamento per eguali situazioni, essa invocherebbe una necessaria parificazione normativa tra la famiglia legittima e le altre forme di unione, la cui inottemperanza andrebbe a configurare un’esplicita violazione dei principio cardine di eguaglianza.

Passando ad altra disposizione, l’articolo 2 del testo costituzionale dispone che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …”.

Trattasi di una norma atta a costituire un valido alveo di appartenenza per le unioni di fatto, agilmente collocabili tra le “formazioni sociali” appena citate. A sostegno, la genericità della dicitura “diritti inviolabili dell’uomo”, atta ad rendere il volere dei costituenti, facilmente adattabile alle mutazioni sociali e sempre aderente al singolo momento storico.

Di certo, la società attuale appare profondamente mutata rispetto a quella meno recente e si assiste ad un graduale affermarsi del pluralismo, in nome di una maggiore apertura verso le realtà quotidiane apparentemente “diverse”, ma comunque meritevoli di tutela giuridica. Non si può non considerare che il fenomeno delle unioni di fatto, siano esse etero o omosessuali, è in crescita esponenziale.

Se ciò è vero, allora risulta inconcepibile un sistema legislativo che non preveda alcuna estensione dei diritti civili alle formazioni familiari “atipiche” rispetto a quelle consacrate dal coniugio. La situazione diviene ancora più incomprensibile laddove si pensi all’atteggiamento della Corte Costituzionale, che da tempo lancia segnali in tal senso, oltre che alla normativa comunitaria.

Dalla disamina effettuata, di natura prettamente giuridica, deriva una lettura “elastica” della Carta Costituzionale, certamente più aderente non solo alle esigenze dell’odierna società, ma anche, al pensiero, che qui piace ricordare, di Hannah Arendt, la quale sul finire degli anni cinquanta, sostenne, anche se per altra questione, relativa ai matrimoni interrazziali, che “il diritto di sposare chi vogliamo è un diritto umano elementare, accanto al quale tutti gli altri diritti sono di rango inferiore”.


 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 04/06/2006

 

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