AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Copyright © AmbienteDiritto.it
Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
Profili in tema di inquadramento previdenziale delle aziende
ANTONINO SGROI
****
In via generale e con riguardo alla individuazione dei criteri individuativi
dell’attività industriale, commerciale e agricola, la Suprema Corte ha ritenuto
che:
- in tema di previdenza dei dirigenti di azienda, la nozione di azienda
industriale, ai cui dirigenti si riferisce la speciale disciplina posta con la
legge n. 967 del 1953 va ricavata dall’art. 2195 cod. civ. (come precisato dalla
successiva legge n. 44 del 1973) e quindi per tale deve intendersi quell’azienda
che esercita un’attività diretta alla produzione di beni e servizi; mentre
l’azienda commerciale è quella che esercita l’attività intermediaria nella
circolazione dei beni; ove, poi, l’attività dell’imprenditore abbia carattere
promiscuo, occorre tener conto in relazione alle finalità economiche perseguite
dall’impresa, dell’attività primaria, rispetto alla quale le altre risultino
secondarie, ponendosi in rapporto di mera complementarietà, a meno che
l’imprenditore non eserciti una pluralità di attività con organizzazioni
autonome e distinte tra loro non reciprocamente condizionate e riconducibili ad
aziende separate, per ognuna delle quali varrà la corrispondente qualificazione
di azienda industriale o commerciale (Cass. 30.10.1992, n. 11801);
- la nozione di azienda agraria è ricavabile dall’art. 2135 c. c. e dalle
disposizioni di cui agli artt. 206 e 207 del d..P.R. n. 1124 del 1965, e si
concreta in una struttura rigorosamente finalizzata all’esercizio di attività
dirette alla coltivazione del terreno, all’allevamento del bestiame o alla
silvicoltura, nonché alle attività connesse che devono però rientrare
nell’esercizio normale dell’agricoltura (Cass. 16.12.1995, n. 12872).
****
Delineati sommariamente gli orientamenti del Supremo Collegio nei succitati
temi, nel prosieguo dell’esposizione si verificheranno le modalità utilizzate
dalla giurisprudenza per procedere alla classificazione, ai nostri fini, di
attività connotate da altri requisiti, alternativamente di tipo soggettivo od
oggettivo.
Si ricordi innanzitutto che, in generale, nella nostra materia, ai fini della
qualificazione dell’attività dell’azienda l’oggetto dell’impresa deve essere
valutato unitariamente sulla base della natura dell’attività prevalente, con
individuazione dell’attività primaria, né ha alcuna rilevanza la classificazione
delle attività economiche predisposta dall’istituto centrale di statistica,
classificazione richiamata invece per l’individuazione ad altri fini della
natura delle imprese.
Nell’ipotesi poi che tale valutazione unitaria non sia possibile poiché
l’impresa esercita molteplici attività, occorre preliminarmente accertare se
queste attività siano connotate dal carattere dell’autonomia, che ricorre
allorquando ciascuna attività è riconducibile ad aziende separate, in quanto
preordinata alla produzione di beni destinati direttamente a terzi e strutturata
in modo da garantirne l’economicità, cioè almeno il pareggio tra costi e ricavi,
occorrendo in questo caso procedere alla loro distinta valutazione e
qualificazione.
Una delle prime questioni affrontate dalla giurisprudenza attiene alla
individuazione delle attività connesse e delle attività ausiliarie; espressioni
queste entrambe rinvenibili nel codice, rispettivamente la prima allorquando si
definisce l’imprenditore agricolo, la seconda allorquando il legislatore
individua le categorie di imprenditori soggetti a registrazione.
1.1.A Attività promiscue.
La Suprema Corte, con giurisprudenza costante, ritiene che in tema di
classificazione – a fini previdenziali – di imprese esercenti attività
promiscue, il criterio della prevalenza trova applicazione subordinatamente alla
esclusione del criterio concorrente – e, in ipotesi confliggente –
dell’autonomia di ciascuna attività.
Preliminare, a tal fine, risulta la verifica circa l’autonomia di ciascuna delle
attività esercitate.
E, in tale prospettiva, non rilevano elementi (quali la diversità del personale
addetto e dei locali impiegati per ciascuna attività), che – lungi dal
dimostrare l’autonomia delle attività medesime – concorrono alla loro
diversificazione e, quindi, alla stessa configurabilità – per così dire –
dell’esercizio di attività promiscua.
Invero connotati essenziali dell’autonomia, in ipotesi di attività promiscue
esercitate dallo stesso imprenditore, sono le finalità economiche perseguite e
le funzioni esercitate, reciprocamente autonome, nonché la capacità di
collocarsi autonomamente sul mercato di ciascuna delle attività medesime.
La configurabilità del connotato dell’autonomia (ovverosia diretta collocazione
sul mercato) postula che ciascuna delle attività promiscue realizzi – oltre che
la produzione di beni e/o di servizi, in ipotesi a favore di altre delle
attività medesime – anche una produzione direttamente destinata a terzi, che
risulti in grado di raggiungere un fatturato sufficiente per l’esercizio
economico della stessa attività.
In altri termini, l’autonomia è da escludere – in ciascuna delle attività
promiscue, esercitata dallo stesso imprenditore – non solo nell’ipotesi in cui
si limiti a produrre beni e/o servizi soltanto a favore di altra delle medesime
attività – ma anche nella ipotesi in cui, dalla concorrente produzione di beni
e/o servizi per il mercato, non ricavi introiti remunerativi (come, ad esempio,
nel caso di eccedenza dei costi rispetto ai ricavi).
1.1.B Attività ausiliarie.
Secondo la Cassazione, in tema di inquadramento delle imprese a fini
previdenziali le attività ausiliarie di quelle industriali, di cui all’art.
2195, primo comma, n. 5, cod. civ. sono quelle prive di intrinseca autonomia
funzionale e che hanno come scopo tipico l’obiettiva agevolazione di altre
attività. Ne consegue che l’impresa ausiliaria, a differenza di quella
produttrice di servizi – la cui attività, di carattere autonomo, ha per oggetto
un prodotto destinato ad essere utilizzato dalla generalità delle imprese – se
da un lato deve avere una propria struttura organizzativa ed operativa ben
distinta da quella delle imprese ausiliare, dall’altro deve svolgere un funzione
accessoria, complementare e strumentale rispetto all’attività tipica di altre
imprese, talché, ove venisse separata, non avrebbe alcuna possibilità di utile
applicazione.
L’attività ausiliaria è strumentale rispetto a quella svolta da altra o da altre
imprese ossia tale che, se venisse meno l’impresa ausiliata, essa rimarrebbe
inutile.
1.1.C Gruppo di imprese.
L’ultimo dei più rilevanti problemi affrontati antecedentemente alla disciplina
del 1989 e la validità della cui soluzione permane attiene all’irrilevanza ai
fini classificatori del gruppo di imprese.
Infatti si è ritenuto che, in presenza di una società facente parte di un gruppo
di imprese, per l’identificazione della natura dell’attività svolta si deve fare
esclusivo riferimento alla singola impresa, considerata come soggetto autonomo
di imputazione di rapporti giuridici, senza che assuma al riguardo alcun rilievo
la circostanza di un suo inserimento nell’ambito di un gruppo societario, atteso
che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un
medesimo gruppo non importa il sorgere di un autonomo soggetto di diritto o di
un centro di imputazione di rapporti diverso dalle società collegate, le quali
conservano la loro rispettiva autonomia e personalità giuridica.
Né, si aggiunga, tale principio è, allo stato attuale della legislazione,
superabile dalla speciale disciplina giuridica dei gruppi societari in tema di
agevolazioni finanziarie in caso di riconversione industriale, di
amministrazione straordinaria e di editoria, atteso che si tratta di normative
che valgono limitatamente al campo di applicazione per il quale sono previste.
1.2 Le regole a regime della classificazione dei datori di lavoro.
Prima di verificare come la giurisprudenza ha ricostruito il nuovo tessuto
normativo nel tema qui investigato.
Una prima volta, limitatamente alle variazioni di classificazione e
all’individuazione dell’ambito di efficacia temporale, è intervenuto con
l’ottavo comma dell’art. 3 della legge 8.8.1995, n. 335.
Una seconda volta, con riguardo al potere sulla materia riconosciuto al
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è intervenuto con il comma 30°
dell’art. 1 della legge 23.8.2004, n. 243.
In forza della prima delle disposizioni menzionate i provvedimenti di variazione
della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali adottati
d’ufficio dall’Inps, comportanti il trasferimento nel settore economico
corrispondente alla effettiva attività svolta, producono i loro effetti dal
periodo di paga in corso alla data di notifica del succitato provvedimento.
Tale regola generale non trova applicazione allorquando l’inquadramento iniziale
sia stato causato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
Se la variazione di inquadramento è richiesta dall’azienda e accettata dall’Inps,
gli effetti della medesima decorrono dal periodo di paga in corso alla data
della richiesta medesima.
Il legislatore riconosce che tali disposizioni producano i loro effetti anche
nei confronti dei rapporti per i quali, alla data di entrata in vigore della
legge, pendano controversie non definite con sentenza passata in giudicato.
Infine, l’ultimo periodo del comma disciplina le ipotesi di variazione di
inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale e riguardanti
intere categorie di datori di lavoro, in tal caso le stesse producono effetti
dalla data fissata dall’Inps, ferma restando l’intangibilità del principio di
irretroattività.
Con la seconda delle citate disposizioni il legislatore ha assegnato al
Ministero il compito di dettare una disciplina in tema di inquadramento delle
aziende.
Il Ministero, al fine di modulare i termini di scadenza della comunicazione di
inizio e cessazione di attività degli adempimenti contributivi posti a carico
delle aziende e dei lavoratori autonomi e parasubordinati, e di favorire la
tempestività della trasmissione dei dati e l’aggiornamento delle posizioni
individuali dei lavoratori, fornirà, nel termine di sei mesi dall’entrata in
vigore della medesima legge (inutile dire che, a quel che consta, il termine è
ampiamente decorso), le direttive in merito all’individuazione del settore
economico di appartenenza delle aziende e dei lavoratori autonomi e
parasubordinati, sulla base dei criteri previsti dall’articolo 49.
****
Si rammenti ancora che le disposizioni contenute nell’art. 49 in commento sono
utilizzate dal legislatore previdenziale per far nascere obblighi di iscrizione
alle gestioni dei lavoratori autonomi in capo a quei soggetti che svolgano una
di quelle attività elencate nella citata norma, esemplificativo di tale modello
è il comma 202 dell’art. 1 della legge n. 662 del 23.12.1996.
Tale disposizione estende, a decorrere dall’1.1.1997, l’ambito di efficacia
soggettiva della gestione degli esercenti attività commerciali a tutti quei
soggetti che esercitino in qualità di lavoratori autonomi le attività
classificate come terziario dalla lett. d), del primo comma, dell’art. 49,
ovverosia: attività commerciali, ivi comprese quelle turistiche; di produzione,
intermediazione e prestazione dei servizi anche finanziari; attività
professionali e artistiche; nonché le relative attività ausiliarie.
Il legislatore sottrae all’ambito di applicazione della suddetta norma quei
soggetti che esercitano le citate attività quali professionisti e artisti.
****
La prima delle novità legislative introdotte con l’art. in commento la si
rinviene già nella rubrica del medesimo, laddove nell’individuare i destinatari
della classificazione ai fini previdenziali e assistenziali usa l’espressione
“datori di lavoro”.
Tale sintagma indica, fra l’altro, anche i soggetti non imprenditori che, pur
svolgendo un’attività con carattere continuativo, non traggano da essa i
necessari mezzi economici, ma si avvalgano in modo sistematico di contributi
pubblici o privati o di beni produttivi di reddito messi a sua disposizione e
utilizzino lavoratori subordinati.
Tale novum legislativo comporta pertanto l’estensione della
classificazione in questione non solo agli imprenditori di cui all’art. 2082
cod. civ. ma, altresì, a soggetti non imprenditori, purché costoro esercitino
uno delle attività elencate nei commi 1 e 2 dell’art. 49 l. cit.
Conclusivamente può affermarsi che la classificazione operata dall’Inps riguardi
indifferentemente imprenditori e non, purché si sia davanti allo svolgimento
delle attività previamente individuate dal legislatore.
L’efficacia della classificazione in questione a tutti i datori di lavoro, siano
o non siano imprenditori, si lega con il riconoscimento dell’efficacia
universale assegnata al provvedimento di classificazione emanato dall’Inps,
infatti il legislatore, esplicitamente, afferma che la classificazione disposta
da questo ente previdenziale “ha effetto a tutti i fini previdenziali ed
assistenziali”.
Tale chiara espressione lascia inferire che il provvedimento di classificazione
dell’Inps riverberà la sua efficacia nei confronti di tutti gli enti
previdenziali.
Detto questo si devono ancora individuare quali siano le categorie di enti
previdenziali che non possono sottrarsi all’effetto di cui fa menzione l’art.
49.
Si può ritenere che il provvedimento di classificazione estenda la sua efficacia
a tutti gli enti previdenziali pubblici, si potrebbe però predicare l’efficacia
di tale classificazione anche nei confronti di quegli enti previdenziali privati
a iscrizione obbligatoria.
Si ricordi infatti che altre forme di previdenza obbligatorie sono gestite dai
cc.dd. enti previdenziali privatizzati o nati tali in forza del decreto
legislativo del 10.2.1996, n. 103; nonostante tale trasformazione, l’iscrizione
e la conseguente contribuzione rimangono obbligatorie.
Quest’ultima prospettata soluzione, di efficacia universale della
classificazione operata dall’Inps ai fini previdenziali e assistenziali, pare
conforme a un sistema teso all’armonizzazione delle tutele dei lavoratori e la
prima delle armonizzazioni passa proprio attraverso l’individuazione univoca e
generale dell’attività svolta, individuazione dalla quale scaturisce il
contratto collettivo nazionale di lavoro sul quale calcolare la retribuzione
minima imponibile ai fini previdenziali.
****
Individuato l’ambito di efficacia della disposizione con riguardo ai datori di
lavoro e agli enti previdenziali, si può ora passare alla disamina degli approdi
giurisprudenziali sul nostro tema, punto di partenza obbligato è rappresentato
dalla più volte citata sentenza a sezioni unite della Cassazione del 18 maggio
1994, n. 4837.
La Suprema Corte, nel porre a confronto la disciplina dettata dagli artt. 33 e
34 del testo unico sugli assegni familiari e quella contenuta nell’art. 49 della
legge n. 88 del 1989, così delinea le innovazioni apportate da quest’ultima
disposizione:
a) ripartizione dei datori di lavoro (non necessariamente imprese o <<aziende>>)
in settori non sempre coincidenti con le <<categorie>> previste, ai fini
dell’applicazione delle tabelle per gli assegni familiari dal t. u. del 1955;
b) istituzione del settore <<terziario>> che, insieme agli esercenti attività
commerciale, professionale o artistica, comprende i datori di lavoro che
svolgono attività <<di produzione, intermediazione e prestazione dei servizi
anche finanziari>>: attività – queste ultime – che per consolidato orientamento
della giurisprudenza, erano generalmente considerate di natura industriale sotto
la previdente normativa, in base alla definizione dettata dall’art. 2195, n. 1
cod. civ.;
c) istituzione del settore <<attività varie>> e l’attribuzione all’Inps della
competenza – prima spettante al ministro del lavoro ex art. 34 testo unico sugli
assegni familiari – ad inquadrare in esso i datori di lavoro che svolgono
attività non rientranti in alcuno dei settori elencati nel 1° comma;
d) attribuzione al ministro del lavoro del potere di aggregare con proprio
decreto ad uno dei predetti settori <<i datori di lavoro che svolgono attività
plurime rientranti in settori diversi>>, al cui inquadramento, in passato,
provvedeva l’Inps.
Sempre la Corte ritiene che i provvedimenti di classificazione adottati dall’Inps
hanno <<efficacia generale>>, non limitata alle gestioni assicurative di
competenza dell’Inps, ma estesa a quelle amministrate da altri enti, quali l’Ipdai
e l’Inail.
****
Ulteriore questione ormai risolta atteneva alla verifica della differenza o meno
fra inquadramento con la nuova e la precedente disciplina.
La giurisprudenza ha costantemente ritenuto che mentre la classificazione delle
imprese operata dalla precedente disciplina era meramente ricognitiva,
trattandosi di materia regolata da disposizioni di legge di carattere
imperativo, con la conseguenza che lo stesso poteva essere sempre corretto, con
effetto retroattivo; di converso la classificazione operata secondo la nuova
disciplina ha natura costitutiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha
l’onere di impugnare il provvedimento dell’Inps dinanzi al giudice ordinario o
amministrativo, a seconda che l’inquadramento sia atto vincolato o
discrezionale, come nell’ipotesi di provvedimento ministeriale di aggregazione
di cui al terzo comma dell’art. cit..
****
Proprio con riguardo all’individuazione del giudice competente a conoscere del
provvedimento di inquadramento è opportuno rammentare, sin da ora, che è
soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa da
un’associazione sindacale di parte imprenditoriale, al fine di ottenere
l’accertamento del diritto delle imprese ad essa aderenti di essere inquadrate,
agli effetti previdenziali, in categorie diverse da quella individuata dall’Inps,
trattandosi di situazioni disciplinate direttamente dalla legge, rispetto alle
quali l’atto di inquadramento dell’ente previdenziale ha valore meramente
ricognitivo di qualità normativamente predeterminate, anche quando assuma la
forma di una circolare vincolante per gli organi destinatari.
Viceversa ove si tratti non già di classificazione disposta dall’istituto sulla
base delle categorie prestabilite direttamente dalla legge ed in relazione ad
imprese esercenti un’unica attività, ma dell’inquadramento di imprese esercenti
attività plurime, rientranti in settori economici diversi, il potere di
aggregazione all’una o all’altra categoria, costituendo espressione di
discrezionalità amministrativa spettante al ministro del lavoro, esclude la
presenza di diritti soggettivi delle dette imprese cui competono, invece, in
materia soltanto interessi legittimi tutelabili davanti al giudice
amministrativo.
****
La nuova disciplina in tema di classificazione ha, da un verso, quale ambito
soggettivo di efficacia, tutti i datori di lavoro, e da altro verso, quale
ambito oggettivo, si estende a tutti i fini previdenziali ed assistenziali.
I criteri discretivi sono elencati nel primo comma e individuano cinque
categorie, precisamente:
a) il settore industria che, al suo interno comprende, fra l’altro, le attività
manifatturiere, cioè di trasformazione del prodotto, estrattive, impiantistiche,
le attività dello spettacolo e le relative attività ausiliarie di ciascuna delle
attività annoverate fra quelle industriali;
b) il settore artigianato, individuabile secondo i criteri dettati dagli artt. 3
e 4 della legge n. 443 del 1985;
c) il settore agricoltura, anch’esso al pari del precedente, settore,
individuato con il rinvio ad altri testi legislativi e cioè l’art. 2135 cod.
civ., che individua e disciplina la figura dell’imprenditore agricolo, e l’art.
1 della legge n. 778 del 20.11.1986;
d) il settore terziario, come detto, di nuova istituzione, ove si annoverano,
fra l’altro, le attività turistiche, i servizi finanziari, le attività
professionali e artistiche, nonché le relative ausiliarie di tutte le attività
comprese nel citato settore;
e) il settore del credito, dell’assicurazione e dei tributi.
A tale elenco di attività individuate ed elencate, si deve ritenere
tassativamente, il legislatore contrappone una norma di chiusura, a carattere
residuale, con la quale si crea un settore chiamato <<attività varie>>, settore
all’interno del quale si comprendono i datori di lavoro che svolgono attività
non rientranti nell’elenco del primo comma.
Infine l’ultimo periodo del terzo comma riconosce al Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, ora delle politiche sociali, il potere di stabilire, con
decreto, a quali settori si debbano aggregare, sempre ai nostri fini, i datori
di lavoro che svolgono attività plurime rientranti in settori diversi.
Si rilevi che tale disposizione, nel suo testo, riconosce tale potere
limitatamente alla classificazione dei datori nella categoria attività varie,
tuttavia condivisibile è l’affermazione compiuta dalla giurisprudenza di
legittimità secondo la quale, nonostante il tenore testuale della norma,
l’ambito applicativo della stessa afferisce sia al primo, sia al secondo comma
dell’art. 49.
1.2.C La variazione di classificazione.
L’ultimo dei profili attiene all’ambito di applicazione della disciplina in tema
di variazioni di inquadramento introdotta con il detto ottavo comma, dell’art. 3
della legge n. 335 del 1995.
La disposizione legislativa disciplina, sia nella disposizione di tipo generale,
sia nella disposizione di tipo particolare, le ipotesi di mutamento della
classificazione verificatesi nel corso dello svolgimento dell’attività da parte
del datore di lavoro, ben potendo accadere che:
- l’iniziale classificazione sia non conforme all’attività concretamente svolta;
- la classificazione iniziale corretta nel momento in cui è stata effettuata,
non è più corretta successivamente a seguito di un mutamento di attività da
parte del datore di lavoro;
- il mutamento di classificazione richiesto dal datore di lavoro non si radichi
sull’attività concretamente svolta;
- il mutamento di classificazione richiesto e ottenuto dal lavoratore o
effettuato d’ufficio dall’Inps, corretto nel momento in cui è stato effettuato,
diviene, con il trascorrere del tempo, non corretto, perché il datore di lavoro
ha, nel frattempo, ancora una volta, cambiato l’attività concretamente svolta.
****
Un esame più specifico, sempre nei limiti dell’odierna trattazione, si deve
compiere della disposizione contenuta nell’ultima parte del primo periodo del
primo comma.
Disposizione secondo la quale l’efficacia della variazione di inquadramento non
decorre, come normalmente, dalla data di notifica del provvedimento di
variazione, bensì risale al momento in cui vi è stata la reale modifica
dell’attività svolta da parte del datore di lavoro.
La disposizione parla di modifica di inquadramento iniziale determinata da
inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
Due sembrano le questioni che, in via di prima approssimazione, debbano
risolversi, ovverosia:
- se tale regola si debba limitare all’inquadramento iniziale, cioè al primo
inquadramento del datore di lavoro allorché richiede di essere iscritto all’Inps;
- in che cosa si devono concretizzare le inesatte dichiarazioni.
Ancora con riguardo alla prima questione, non pare che si possa affermare la
limitazione alle sole ipotesi di modifica dell’inquadramento iniziale, ben
potendosi immaginare che la stessa fattispecie sorga anche in ipotesi di
modifica dell’inquadramento iniziale su domanda del datore di lavoro.
Se si dovesse predicare la soluzione opposta ne discenderebbe l’impossibilità da
parte dell’ente previdenziale di modificare ex tunc quegli inquadramenti,
successivi a quello iniziale, effettuati su domanda del datore di lavoro e sulla
scorta dei dati forniti dal medesimo e che, solo successivamente, si sono
dimostrati erronei.
A ciò si aggiunga la conseguenza, di non poco conto, che così facendo si
premierebbero quei datori di lavoro infedeli, a fronte di quei datori di lavoro
che correttamente adempiono i propri doveri informativi nei confronti dell’ente
previdenziale, al fine di consentire a quest’ultimo di esercitare i compiti
assegnatigli in punto classificazione dei datori di lavoro.
Con riguardo al secondo dei profili problematici si deve ritenere che il
legislatore, con l’espressione “inesatte dichiarazioni del datore di lavoro”
abbia voluto indicare qualsivoglia comportamento del datore di lavoro, sia
commissivo (affermare qualcosa che non è vero), sia omissivo (omettere di dire
qualcosa che è reale), che sia rilevante ai fini dell’inquadramento
dell’attività concretamente svolta.
Se invece, come fatto dalla Suprema Corte, con la decisione dell’1.3.2006, la n.
4521, si limita tale espressione ai soli comportamenti commissivi si arriverebbe
ad invitare i datori di lavoro ad omettere qualsivoglia dichiarazione in attesa
di una verifica da parte dell’ente previdenziale, ponendo pertanto in una
situazione deleteria solo i datori di lavoro onesti.
****
Con riguardo al tema qui investigato, la Cassazione, con la sentenza resa a
sezioni unite del 12.8.2005, la n. 16875, ha ritenuto che detta disposizione, al
primo e secondo periodo, nella parte in cui prevede che i provvedimenti di
variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali,
adottati dall’Inps d’ufficio (o su richiesta dell’azienda) producono effetti dal
periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione
(ovvero dal periodo di paga in corso alla data della richiesta aziendale), ha
valenza generale ed è, quindi, applicabile ad ogni ipotesi di rettifica di
precedenti inquadramenti operata dall’ente previdenziale dopo la data di entrata
in vigore della predetta legge – o anche prima, nel caso in cui la modifica,
così come attuata, formi oggetto di controversia in corso a quella stessa data –
indipendentemente dai parametri adottati, si tratti cioè dei nuovi criteri di
inquadramento introdotti dai primi due commi dell’art. 49 l. n. 88 del 1989,
ovvero di quelli applicabili secondo la normativa vigente.
Il giudice della legittimità, così facendo, aderisce ad un indirizzo minoritario
della stessa Corte, rappresentato dalla sentenza del 3.12.2003, la n. 18500,
aggiungendo di suo una serie di considerazioni riguardanti la ratio della
disposizione di cui si discute.
Costui ritiene che l’ottavo comma costituisca un primo tentativo di rendere
costituzionale il trattamento di imprese di identica natura e attività ma
disomogenee nella classificazione (effettuata ai sensi dell’art. 2195 cod. civ.
e del d.P.R. n. 797 del 1955 per le imprese oggetto della disciplina ultrattiva
e con i criteri indicati dall’art. 49 della legge n. 88 del 1989 per le imprese
costituite a partire dalla data di entrata in vigore di tale legge),
equiparandole nell’applicazione di una disciplina speciale che soddisfa
l’esigenza – comune ai <<vecchi>> come ai <<nuovi>> inquadramenti – di limitare
le conseguenze negative, per i datori di lavoro coinvolti, delle variazioni
delle pregresse qualificazioni e di rafforzarne le garanzie, stabilendo
specifici termini di decorrenza degli effetti di tali variazioni e limitandone
la possibilità di retrodatazione al solo caso in cui siano stati gli stessi
datori di lavoro ad aver determinato, con le errate informazioni,
l’inquadramento in atto.
Lo stesso Collegio, sotto altro profilo, rileva come non possa negarsi che la
disposizione di cui si predica l’applicazione al caso di specie è intervenuta in
piena fase transitoria, allorquando senz’altro di gran lunga prevalenti erano le
modifiche dei <<vecchi>> inquadramenti rispetto alle variazioni di quelli
adottati ancora soltanto (stante la prorogata validità di quelli preesistenti)
per le imprese costituite nella vigenza della legge n. 88 del 1989; per cui è
impensabile ritenere che la norma non abbia inteso accomunare anche tali
inquadramenti nell’applicazione della previsione della irretroattività delle
variazioni disposte ai sensi del primo e del secondo periodo, consolidando ex
lege gli effetti delle pregresse classificazioni con riferimento a tutte le
situazioni suscettibili di formare oggetto di rettifica da parte dell’Inps.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 30/05/2006