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Le fonti normative relative agli Organismi Geneticamente Modificati nel diritto agroalimentare nell'Unione europea ed in Italia
Rischi per la salute dell'uomo e per l'ambiente o rischi per i sistemi
economici degli Stati?
EMANUELE CORN*
SOMMARIO: 1. La difficile individuazione delle norme. 2. Le fonti
internazionali. 3. Armonizzazione e base giuridica della legislazione
comunitaria in materia di biosicurezza e commercio di OGM. – 4. Principi
generali di natura ambientale nella legislazione comunitaria in materia di
biosicurezza. – 5. I contenuti delle fonti comunitarie. – 6. La disciplina in
Italia: statale. - 7. La disciplina in Italia: regionale.
1. La difficile individuazione
delle norme.
L’impiego di tecnologie genetiche in campo agroalimentare è da diversi anni
oggetto di studio per il diritto. Nell’arco dell’ultimo trentennio istituzioni
locali, nazionali ed internazionali si sono più volte interessate della
questione provvedendo a emanare così tante norme che è legittimo parlare di
“alluvione normativa”.
V’è una convenzione internazionale: il Protocollo di Cartagena sulla
biosicurezza1; vi sono regolamenti e direttive comunitarie più volte emendate o
sostituite; v’è, sempre a livello comunitario, una pioggia di decisioni
riguardanti l’immissione3 in commercio di prodotti specifici2. Al riguardo si
contano, per esempio, ben cinque decisioni concernenti varianti genetiche del
granturco. Sono individuabili, inoltre, altri gruppi di decisioni che attuano
parti di direttive o che le integrano e un ultimo che, senza avere gli OGM come
oggetto, richiama tale materia (per esempio quello concernente il c.d. “morbo
della mucca pazza”4).
All’adozione di ogni direttiva o sua modifica in Italia fa seguito
l’approvazione di un decreto legislativo che ne permette l’attuazione; “le
uniche volte in cui il parlamento italiano si è occupato della materia è stato
per attribuire deleghe al Governo per mezzo di leggi comunitarie”5.
Gli altri atti normativi italiani sono per lo più dovuti all’azione di un unico
Ministero, quello della Salute sino al 2003 e successivamente quello
dell’Ambiente, a seguito del cambio di competenze determinato dal d.lgs.
224/2003. In ogni caso la regolamentazione del mercato degli OGM sull’intero
territorio italiano avviene attraverso atti che promanano dal governo6.
Dal 2000 ad oggi sono dodici le regioni italiane che hanno emanato leggi
dedicate in tutto o in parte a disciplinare la presenza di OGM sul proprio
territorio. Si tratta di: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna,
Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto7. Ad esse vanno aggiunte le province autonome di Trento e Bolzano8, competenti
in materia in base ai rispettivi statuti.
Presentare con ordine i contenuti della disciplina del settore non è facile.
L’opzione più ragionevole appare quella di seguire il climax dall’universale al
locale, esponendo prima le fonti internazionali e in coda quelle emanate dalle
istituzioni locali.
2. Le fonti internazionali.
I. Il quadro giuridico internazionale in materia di biodiversità e biotecnologie
è formato prevalenemente da norme di natura pattizia e da fonti riconducibili
alla categoria del diritto programmatico (c.d. soft law)9. La Comunità
internazionale da sempre ha privilegiato trattati e soft law per l’elaborazione
ed il consolidamento delle norme ambientali, considerandoli strumenti idonei a
ovviare agli inconvenienti del diritto consuetudinario10.
Riguardo alla normativa pattizia, un elemento di complicazione è determinato dal
fatto che non tutti gli strumenti applicabili al settore della biodiversità e
delle biotecnologie sono di matrice unicamente ambientale. In questo campo,
infatti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) interpreta un ruolo da
protagonista ed non è necessario dare dimostrazione di come la logica che la
governa e la finalità che essa si pone siano spesso in contrasto con le esigenze
dell’ambiente.
Ciò dà luogo al fenomeno della frammentarietà, disarticolazione e concorrenza
delle fonti convenzionali rilevanti in tema di biodiversità e biotecnologie11.
I quattro principali strumenti di soft law esistenti nel diritto internazionale
riguardante la biosicurezza sono il Progetto preliminare della FAO di codice di
condotta sulle biotecnologie, il Codice di condotta UNIDO del 1991 sul rilascio
di organismi nell’ambiente, la Agenda 21 (il programma delle Nazioni Unite per
lo sviluppo sostenibile – in partic. cap. XVI -) e le direttive tecniche UNEP
del 1995 sulla sicurezza delle biotecnologie12. Va sottolineato come varie
istituzioni comprese nel sistema ONU si siano occupate del problema. Questo
aumenta il rischio di duplicazioni e sovrapposizioni della normativa, ma denota
al contempo come la questione sia ritenuta importante. I quattro strumenti
citati hanno anticipato e favorito la conclusione di accordi internazionali in
materia, poiché hanno tracciato un quadro di concetti che hanno finito per
essere considerati come punti di riferimento o come punti di partenza per le
discussioni successive.
II. La Convenzione sulla diversità biologica13 costituisce il primo strumento
internazionale vincolante che fissa obblighi in materia di prevenzione dei
rischi associati alla diffusione di organismi geneticamente modificati.
In base all’art. 8 lett.g) della Convenzione gli Stati si impegnano, nella
misura del possibile e nel modo opportuno “establish or maintain means to
regulate, manage or control the risks associated with the use and release of
living modified organisms resulting from biotechnology which are likely to have
adverse environmental impacts that could affect the conservation and sustainable
use of biological diversity, taking also into account the risks to human health”.
L’importanza della norma risiede in particolare nel duplice obiettivo che si
pone: la salvaguardia e l’uso sostenibile della biodiversità da una parte e la
protezione della salute umana dall’altra. Questo sarà fatto proprio anche dal
Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza del 2000.
La Convenzione per la diversità biologica stabilì (art. 19 –rubricato: Handling
of Biotechnology and Distribution of its Benefits - par. 3) che i Paesi
firmatari si sarebbero dovuti accordare su un protocollo per il trasferimento e
l’uso di organismi modificati geneticamente14. I negoziati iniziarono nel 1995.
Nei cinque anni di lavoro che furono necessari, le Parti della convenzione si
unirono in grandi blocchi, portatore ognuno di un proprio interesse: il Gruppo
di Miami (Stati Uniti, Australia, Canada, Argentina, Cile, Uruguay), il c.d.
“like-minded” (in linea di massima corrispondente ai Paesi facenti parte del
G-77 più la Cina) e l’Unione Europea. I primi, essendo i maggiori produttori ed
esportatori di prodotti agricoli geneticamente modificati, si mostrarono più
attenti agli interessi commerciali e sostennero le tesi più minimaliste e
restrittive rispetto all’ambito di applicazione, alla portata degli obblighi ed
al rapporto del protocollo con il sistema WTO. I secondi promossero l’adozione
di uno strumento più attento alla tutela della biodiversità e della la sicurezza
ambientale.
L’attuale testo del Protocollo nacque dall’accordo tra gli Stati membri dell’UE,
il like-minded e il c.d. Compromise Group (formato da Giappone, Corea del Sud,
Norvegia, Svizzera, Messico, Paesi Caraibici e dell’America Centrale e
Singapore), ma non ha avuto l’approvazione dei Paesi appartenenti al Gruppo di
Miami.
Il contrasto tra Stati Uniti ed Europa verté soprattutto sul ruolo che avrebbe
dovuto rivestire il Protocollo. Gli USA sostennero l'esigenza di istituire un
Gruppo di lavoro all’interno WTO per definire i rapporti tra commercio, sviluppo
sostenibile, salute e ambiente in materia di biotecnologie. L’UE (al suo interno
soprattutto Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Svezia e Danimarca) assieme
alla maggior parte dei Paesi in via di sviluppo osteggiò la creazione di tale
organismo, ritenendo che esso avrebbe reso del tutto vano il Protocollo sulla
biosicurezza, giunto ormai alla fase conclusiva, e avrebbe finito con l’affidare
l'intera materia al controllo dell' WTO15.
Il Protocollo di Cartagena venne approvato a Montreal il 29 febbraio 2000 da
circa centotrenta Paesi tra quelli che avevano sottoscritto la Convenzione sulla
Biodiversità. Stati Uniti e Canada non vi hanno aderito. La sua entrata in
vigore risale all’11 settembre 200316.
In conformità con l’approccio precauzionale sancito dalla Dichiarazione di Rio
de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (principio n. 15), la finalità che si
propone il Protocollo di Cartagena (art. 1) è “contribuire ad assicurare un
adeguato livello di protezione nel campo del trasferimento, della manipolazione
e dell'uso sicuri degli organismi viventi modificati ottenuti con la moderna
biotecnologia che possono esercitare effetti dannosi sulla conservazione e l'uso
sostenibile della diversità biologica, tenuto conto anche dei rischi per la
salute umana, e con particolare attenzione ai movimenti transfrontalieri”.
Il Protocollo stabilisce alcune importanti regole di sicurezza, quali la
trasparenza nel commercio di OGM (art. 18 par. 2) e la possibilità da parte di
ogni Stato di rifiutare l’importazione di OGM ad opera di un altro Paese, anche
in assenza di prove scientifiche circa la dannosità dello stesso (artt. 10 par.
6 e 11 par. 8). Non opera inoltre la regola del silenzio assenso, pertanto la
mancata comunicazione da parte del Paese importatore entro il termine massimo
stabilito non comporta l’autorizzazione all’importazione.
Con le parole del Consiglio europeo, si può riassumere il contenuto del
Protocollo, affermando che esso «stabilisce un insieme di regole basate sul
principio di precauzione per il trasferimento, il trattamento e l’uso sicuro di
organismi viventi modificati […] che possono avere effetti negativi sulla
conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica, tenendo conto dei
rischi per la salute umana e prestando particolare attenzione ai movimenti
transfrontalieri».17
III. La difficile ricerca del miglior equilibrio tra controllo dei rischi e
libertà nella circolazione dei prodotti è ostacolata a livello internazionale
anche dal contrasto tra le fonti in relazione agli organismi deputati alla
soluzione delle controversie. Mentre i Paesi del Miami Group sovente non sono
parti negli accordi internazionali sulla biosicurezza, i maggiori Stati che
hanno sottoscritto p.e. il Protocollo di Cartagena sono membri del WTO. Essi
sono perciò sottoposti alle regole sul commercio internazionale dettate
dall’organizzazione nonché al sistema interno di istituzioni create per la
soluzione delle controversie18.
La domanda circa gli effetti che hanno i trattati di matrice ambientale sulle
obbligazioni scaturenti dall’adesione al sistema multilaterale del WTO non ha
finora trovato una risposta chiara. Ciò che si può affermare con certezza è che
i principi di diritto internazionale dell’ambiente e le norme dei trattati ad
esso relativi sono stati ritenuti dallo stesso WTO criteri valutativi e
interpretativi idonei per verificare la compatibilità con l’accordo GATT delle
TREMs (Trade-Related Environmental Measures: le misure che colpiscono il
commercio in funzione di tutela ambientale)19. Questo non significa che i
principi ambientali governino il commercio mondiale, anzi; semplicemente,
citando un precedente risalente ancora al 1996, il WTO si è limitato ad
affermare che il sistema del commercio internazionale non va letto in
“isolamento clinico dalle regole del diritto internazionale”20.
In materia di OGM il WTO si è pronunciato una sola volta, nel settembre del
2006, in occasione del ricorso presentato dagli Stati Unti e dal Canada che
lamentavano numerose violazioni degli accordi commerciali in relazione
all’importazione di prodotti contenenti OGM da parte della Comunità europea21. Le
aspettative circa i contenuti del pronunciamento sono rimaste frustrate in
quanto il panel chiamato a risolvere il caso si è limitato a dare risposta ai
precisi quesiti sottopostigli senza esprimere il proprio parere su questioni
obiter come: la salubrità dei prodotti GM, l’equivalenza (sotto l’aspetto
fisico-chimico e della percezione del bene da parte dei consumatori) tra
prodotti contenenti OGM e prodotti c.d. convenzionali, il diritto della Comunità
Europea di verificare previamente la sicurezza alimentare dei prodotti OGM prima
della loro immissione sul mercato e la conformità, rispetto alla normativa del
WTO, della legislazione comunitaria in materia di commercializzazione di
prodotti OGM.
3. Armonizzazione e base giuridica della legislazione comunitaria in materia di
biosicurezza e commercio di OGM.
I. L’istituzione internazionale che più di ogni altra è intervenuta per
regolamentare questa materia è la Comunità europea. Essa, specie dai primi anni
Novanta, ha legiferato in modo abbondante e minuzioso in particolare in materia
di sicurezza ambientale e sanitaria. Il quadro che si è formato nel tempo,
frutto della stratificazione di concetti e metodi, risulta rigoroso, ma allo
stesso tempo particolarmente complesso22.
L’abbondanza delle norme ha generato notevoli problemi nella fase di attuazione
dei provvedimenti pertinenti, sia nell’ordinamento comunitario sia in quelli
statali; a tali difficoltà vanno aggiunti i conflitti di competenza tra
istituzioni e Paesi membri nonché tra soggetti istituzionali interni a questi
ultimi.
Ciò è avvenuto malgrado l’attività legislativa della Comunità in materia di
biosicurezza e commercio di OGM non sia stata sviluppata attraverso l’emanazione
di provvedimenti diretti a disciplinare aspetti specifici e contingenti della
questione.
Al contrario la Comunità europea ha scelto la strada delle misure di
armonizzazione positiva, adottando provvedimenti diretti ad eliminare le
disparità esistenti tra le normative nazionali.
Tale scelta denota la sfiducia delle istituzioni comunitarie rispetto ad un
approccio esclusivamente basato sull’armonizzazione negativa. Il semplice
affidamento al principio del mutuo riconoscimento non è stato considerato
sufficiente a salvaguardare l’unicità del mercato interno23 nel settore
agroalimentare.
Gli scambi di prodotti agroalimentari transgenici sono infatti una materia
alquanto delicata, per cui la sola applicazione combinata degli artt. 28 e 29
del Trattato CE e del principio di mutuo riconoscimento non sarebbe stata in
grado, di fatto, di determinare l’illegittimità delle restrizioni ed dei divieti
posti in essere dagli Stati. Questi ultimi, infatti, per motivare i propri
interventi, avrebbero addotto la presenza di esigenze imperative, vuoi
ambientali vuoi sanitarie, oppure avrebbero sollevato l’eccezione contemplata
nell’art. 30 del Trattato, inerente la tutela della salute e della vita delle
persone e degli animali e la preservazione dei vegetali. In tal modo la
formazione di un mercato unico in questo settore sarebbe risultata gravemente
ostacolata24.
Malgrado l’attenzione riservata al tema dal legislatore comunitario, nella
prassi perdura un livello molto alto di frammentazione del mercato interno delle
biotecnologie agroalimentari, dovuto alla grande quantità di restrizioni che
comunque gli Stati membri, oppure le loro regioni, hanno unilateralmente
imposto.
II. La politica della Comunità nel settore si è sviluppata in un’ottica
prevalentemente di mercato.
I più importanti atti legislativi in materia25 sono stati emanati, non a caso, in
base all’art. 95 del Trattato e ricorrendo alla procedura di codecisione tra
Parlamento e Consiglio. Tale norma stabilisce le modalità per l’adozione delle
misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari
ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione ed il
funzionamento del mercato interno. Il ricorso ad essa è stato motivato con la
necessità di eliminare o prevenire gli ostacoli frapposti alla libera
circolazione dei prodotti biotech dalla disparità di normative statali esistenti
o emergenti.
L’utilizzo dell’art. 95 come base giuridica degli atti citati si espone a
critiche: le implicazioni associate al commercio di OGM e concernenti la
sicurezza sanitaria e ambientale non possono essere poste in secondo piano. Non
a caso trovano spazio degli obiettivi e nei contenuti dei vari atti. Tuttavia,
per esempio, l’art. 175 del Trattato CE, che attribuisce alla Comunità
competenza normativa nel settore ambientale, è stato utilizzato sinora solo in
pochissimi casi26 come base giuridica di un atto, anche se avrebbe potuto
quantomeno essere affiancato all’art. 95 nell’adozione degli altri provvedimenti
citati.
Anche in questo caso la scelta è diretta a minimizzare gli strumenti in mano
agli Stati per derogare alle misure di armonizzazione.
Per contrastare un atto fondato sull’art. 95 gli Stati possono ricorrere
unicamente al meccanismo previsto dai paragrafi da 4 a 9 dell’articolo stesso.
In base ad essi gli Stati devono chiedere alla Commissione l’autorizzazione a
mantenere o introdurre misure nazionali di deroga giustificate da esigenze di
tutela ambientale. La Commissione ha sei mesi di tempo per decidere; le misure
devono rispettare una serie di requisiti che riguardano principalmente il loro
carattere non discriminatorio e non protezionista nonché l’esistenza di prove
scientifiche.
L’art. 95 si chiude con il par. 10 in base al quale, nei casi opportuni, possono
essere inserite, nei provvedimenti di armonizzazione, clausole di salvaguardia
ad hoc – per motivi di carattere non economico p.e. ambientali – attivabili da
parte degli Stati. Anche queste deroghe sono soggette a procedura comunitaria di
controllo.
I Paesi membri, con l’intento di introdurre deroghe alla legislazione
comunitaria in materia di OGM e biosicurezza hanno fatto uso più volte sia delle
clausole di salvaguardia ad hoc sia del meccanismo di garanzia previsto
dall’art. 95 del Trattato. Invariabilmente, la procedura di controllo
centralizzata e facente capo alla Commissione si è conclusa con il rigetto delle
misure nazionali.
La prassi ha mostrato come, almeno in prima istanza, la procedura sia in grado
di privare de facto gli Stati membri di competenze sostanziali in materia di biosicurezza27.
Gli artt. 175 e 176 del Trattato, dal canto loro, non conferiscono alla
Commissione poteri di controllo analoghi a quelli previsti in base all’art. 9528.
In primo luogo29 perché le deroghe agli atti fondati sull’art. 95 sono sottoposte
ad interpretazione restrittiva, in quanto eccezioni all’esigenza fondamentale di
armonizzazione delle condizioni di funzionamento del mercato unico30. L’art. 176,
dal canto suo, sancisce una riserva di sovranità in una logica diversa rispetto
a quella dell’eccezione rispetto a una regola generale.
In secondo luogo le misure ex art. 176 non sono sottoposte a un controllo
gestito dalla Commissione come le deroghe agli atti fondati sull’art. 95 del
Trattato. Gli Stati non devono rispettare speciali vincoli procedurali. Gli
strumenti in mano alla Commissione per contrastare questi atti sono legati
all’attivazione di una procedura di infrazione, vale a dire a una scelta
discrezionale della Commissione stessa, nonché alla eventuale dichiarazione di
illegittimità da parte della Corte di Giustizia31.
In ogni caso, sostiene Pavoni, la tesi della diversità dell’art. 176 dall’art.
95 è confermata dalla “ostinazione mediante cui la Commissione ha invocato basi
giuridiche di natura commerciale quale fondamento degli atti in materia di
biosicurezza. Tale ostinazione non può che essere ricollegata alla volontà di
imbrigliare il potere degli Stati di discostarsi dagli standard stabiliti a
livello comunitario”32.
III. Anche per quanto riguarda la scelta del tipo di atto nel quale inserire le
norme relative ai vari aspetti del commercio di OGM, emerge il desiderio del
legislatore comunitario di restringere lo spazio di azione degli Stati membri33.
L’evoluzione cronologica della normativa mostra, infatti, una preferenza
nell’utilizzo dei regolamenti piuttosto che delle direttive. Solo in alcuni casi
(es. reg. n. 1829/2003, come il precedente reg. n. 258/97) la preferenza per il
regolamento è giustificato da un grado tanto elevato di comunitarizzazione della
materia tale da far venir meno l’esigenza dell’adozione da parte degli Stati di
speciali normative di dettaglio. I regolamenti, fra le altre caratteristiche,
prevalgono su eventuali disposizioni interne difformi e sono suscettibili di
essere invocati giudizialmente dai privati.
Le direttive 2001/18 sull’emissione deliberata nell’ambiente di OGM e la
direttiva 98/4434 sui brevetti biotecnologici, dal canto loro, sono esempi
lampanti dell’inaffidabilità della direttiva come strumento per la costruzione
di una politica comunitaria in materia di biotecnologie coerente e accettata dai
membri. Entrambi questi atti non sono stati trasporti dalla maggioranza dei
Paesi membri se non dopo ritardi considerevoli e dolosi.
La direttiva 2001/18 doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il
17 ottobre 2002 (art. 34). L’Italia è tra gli undici Paesi (con Austria, Belgio,
Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi)
deferiti alla Corte di Giustizia il 15 luglio 2003 per inadempimento35.
L’Italia ha adempiuto all’obbligo comunitario con l’approvazione del d. lgs. 8
luglio 2003 n. 224 intitolato: attuazione della direttiva 2001/18/CE concernente
l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati.
4. Principi generali di natura ambientale nella legislazione comunitaria in
materia di biosicurezza.
I. Mettere in luce i principi sottesi alla legislazione comunitaria della biosicurezza, una volta chiare le sue basi giuridiche, permette all’interprete
di disporre delle chiavi di lettura indispensabili per la comprensione delle
singole norme nonché di avanzare delle ipotesi circa l’evoluzione del settore.
La questione riguarda, come si è visto per le basi giuridiche, la ricerca del
corretto equilibrio tra principi di carattere commerciale e principi di matrice
ambientale.
La ratio preponderante, nella normativa comunitaria del settore, è il rispetto
delle libertà derivanti dalla esistenza di un mercato unico in Europa. Sotto
alcuni aspetti si può affermare ne costituiscono la ragion d’essere, senza la
quale nemmeno avrebbe senso l’adozione di norme comuni.
Questo malgrado le esigenze del mercato unico non hanno ostacolato
l’accoglimento di principi di carattere ambientale nel diritto della Comunità.
Non poteva essere altrimenti vista l’attuale formulazione dell’art. 6 del
Trattato, collocato tra i Principi, in base al quale: “Le esigenze connesse con
la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e
nell'attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all'articolo 3, in
particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”.
Prima dell’adozione del Trattato di Amsterdam, questa norma, anche nota come
“principio di integrazione”, era collocata nella parte III del Trattato CE (ex
art. 130 R, par. 2) all’interno del titolo dedicato alla politica ambientale. La
disposizione originaria era stata inserita dall’Atto unico del 1986; secondo
questa le esigenze ambientali dovevano costituire una mera componente delle
altre politiche della Comunità36.
Compenetrazione e contemperamento tra interessi legati all'ambiente e interessi
di natura commerciale si rinvengono, all’interno della legislazione comunitaria
in materia di OGM, nell’obiettivo politico perseguito dal reg. n. 1829/2003.
Nell’art. 1 lett. a si legge che “il seguente regolamento si propone” di
“fornire la base per garantire un elevato livello di tutela della vita e della
salute umana, della salute e del benessere degli animali, dell'ambiente e degli
interessi dei consumatori in relazione agli alimenti e mangimi geneticamente
modificati, garantendo nel contempo l'efficace funzionamento del mercato
interno”.
II. Il principio ambientale di carattere paracostituzionale, in quanto previsto
nel Trattato CE (art. 174 par. 2), che maggiormente informa la materia in esame
è quello di precauzione37.
Tuttavia è solo dal 2002 che una definizione del principio precauzionale è stata
inclusa nell’articolato di un atto comunitario. L’art. 7 del regolamento
178/200238 lo pone fra i principi generali della legislazione alimentare, fornendo
la seguente definizione: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una
valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di
effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d'incertezza sul piano
scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del
rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che
la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una
valutazione più esauriente del rischio”39. La norma è completata da un secondo
paragrafo che subordina l’adozione e il mantenimento delle misure precauzionali
ad una serie di requisiti, tra i quali la proporzionalità, la necessità, la
realizzabilità tecnica ed economica nonché l’obbligo di riesame entro un periodo
ragionevole di tempo.
La centralità del principio di precauzione all’interno della legislazione sugli
OGM dipende dalla constatazione dei limiti intrinseci di un approccio alla
biosicurezza basato esclusivamente sulla prevenzione.
Inoltre molti riferimenti all’interno di tesi normativi forniscono riscontri a
questa tesi. Per esempio nel preambolo della dir. 2001/18 (considerando n. 8) si
afferma che nella “elaborazione della presente direttiva è stato tenuto conto
del principio precauzionale e di esso va tenuto conto nell'attuazione della
stessa". Ancora: la formula "nel rispetto del principio di precauzione" precede
l'esposizione degli obiettivi perseguiti dalla stessa dir. 2001/18 e dal reg. n.
1946/2003 sull'esportazione di OGM.
Tornando all’esame dell’art. 7 del reg. 178/2002, senza entrare nei dettagli, si
propongono due osservazioni In primo luogo da essa traspare chiaramente la
preoccupazione del legislatore comunitario di definire il principio di
precauzione in senso conforme agli obblighi risultanti dagli accordi WTO40. In
secondo luogo la norma è destinata con ogni probabilità ad esercitare un impatto
profondo su ogni settore interessato dall’applicazione del principio
precauzionale, malgrado concerna in modo specifico la tutela della salute dai
rischi alimentari e non possa comunque considerarsi una sorta di interpretazione
autentica del principio in questione.
La questione relativa all'ammissibilità di azioni unilaterali degli Stati membri
fondate su una concezione più ampia del principio in parola è aperta. Il
legislatore italiano è ricorso anche alla previsione di norme penali, sia pur di
natura contravvenzionale, allora di dare attuazione alla disciplina comunitaria
nel proprio territorio.
III. La legislazione e prassi comunitaria della biosicurezza riconoscono
l’approccio precauzionale come criterio decisionale41. Tale riconoscimento va
inquadrato in un più ampio contesto giuridico volto a constatare i limiti della
scienza e conseguentemente ad affermare il principio della separazione tra
valutazione e gestione dei rischi42.
Questa separazione non significa che le decisioni assunte in materia di rischi
ambientali o sanitari possano ignorare o minimizzare i pertinenti dati
scientifici. Tra valutazione e gestione del rischio v’è una correlazione
inscindibile, almeno nella misura in cui la seconda deve considera le risultanze
e raccomandazioni emergenti dalla prima. Non si può parlare però né di
sovrapposizione Né di corrispondenza biunivoca.
La valutazione del rischio è un parametro, probabilmente il più rilevante,
all’interno del processo politico della gestione dello stesso e non può pertanto
predeterminarne da sola l'esito.
L’art. 3, n. 12 del citato reg. n. 178/2002 definisce la gestione del rischio
come il “processo, distinto dalla valutazione del rischio, consistente
nell'esaminare alternative d'intervento consultando le parti interessate,
tenendo conto della valutazione del rischio e di altri fattori pertinenti e, se
necessario, compiendo adeguate scelte di prevenzione e di controllo”43.
“Tale nozione è controversa non tanto perché legittima (implicitamente) il
ricorso alla precauzione, quanto piuttosto per il suo riferimento generico ad
"altri fattori pertinenti" quale base delle decisioni in cui si sostanzia il
processo di gestione dei rischi”44. Al riguardo, il considerando 19 del preambolo
del reg. 178/2002 afferma che, al fine di raggiungere una decisone di gestione
del rischio, “in alcuni casi […] è legittimo prendere in considerazione altri
fattori pertinenti, tra i quali aspetti di natura sociale, economica,
tradizionale, etica e ambientale nonché la realizzabilità dei controlli”
Questioni non dissimili si pongono nell’interpretazione del Protocollo di
Cartagena.
Ancora una volta si osservi come l’inserimento di un concetto di natura
eminentemente soggettiva, qual è quello di “altri fattori pertinenti”, può
prestarsi ad applicazioni marcatamente protezionistiche capaci di alimentare
tensioni e contenziosi commerciali fra la Comunità europea e gli altri membri
del WTO.
Per quanto concerne la direttiva 2001/18 sull'emissione nell'ambiente di OGM,
essa non articola in maniera altrettanto netta la distinzione fra valutazione e
gestione del rischio, malgrado essa possa ritenersi sottesa a tale disciplina45.
Rispetto alla valutazione del rischio la direttiva si propone di armonizzarne
principi e metodologia riguardo agli OGM (cfr allegato II).
5. I contenuti delle fonti comunitarie.
I. Il 23 aprile del 1990 vengono emanate due importanti direttive: la n. 21946 e
la n. 22047. La prima riguarda le attività che prevedono l’impiego confinato di
microrganismi geneticamente modificati (MOGM), la seconda (oggi abrogata)
disciplinava sia l’emissione nell’ambiente di OGM sia la commercializzazione di
prodotti contenenti o composti da OGM.
Entrambi i testi si aprivano con disposizioni che indicavano come loro finalità
il riavvicinamento delle discipline nazionali di settore in un’ottica di tutela
per la salute dell’uomo e dell’ambiente.
Negli anni successivi i singoli settori si sono progressivamente espansi,
determinando una graduale transizione verso un approccio più settoriale,
soprattutto per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti. In
particolare la disciplina nel settore farmaceutico è rinvenibile nel regolamento
2309/9348, quella degli alimenti e dei mangimi nel regolamento 1829/03 e quella
per le sementi dalle varie direttive e decisioni di settore49.
Soffermandosi sul settore alimentare, malgrado non sia più rinvenibile al suo
interno la disciplina sugli alimenti GM, va tenuto in adeguata considerazione il
reg. 258/9750, noto come “novel food”. Esso esigeva (e continua ad esigere per i
nuovi prodotti non contenenti OGM) che l’autorizzazione al commercio dei nuovi
prodotti fosse rilasciata a seguito di una valutazione che ruotava attorno al
principio di equivalenza sostanziale51.
Il regolamento “novel food” rappresentò un importante passo avanti nella tutela
del consumatore poiché stabilì l’obbligo di etichettatura sui nuovi prodotti ed
i nuovi ingredienti alimentari, sebbene anche su questo punto operasse il
principio, appena citato, di equivalenza sostanziale. Per quanto concerne
l'etichettatura (oggi disciplinata dal reg. 1830/2003), infatti, il regolamento
distingueva fra alimenti che contengono OGM e alimenti che derivano da OGM:
mentre nel primo caso l'etichetta era obbligatoria, nel secondo lo era solo se
tali alimenti erano dichiarati non equivalenti ai prodotti alimentari già
esistenti.
Un caso a parte era costituito da soia e mais GM, l’immissione sul mercato dei
quali era stata autorizzata prima che il reg. 258/97 entrasse in vigore e ai
quali non se ne applicava la disciplina. Per evitare discrepanze il Consiglio
adottatò un atto ad hoc, il reg. 1139/9852, che obbligava a dichiarare in
etichetta tutti i prodotti di soia o mais che contenevano DNA o proteine
ingegnerizzate53.
Successivamente, con il Regolamento della Commissione n.49 del gennaio 2000, che
includeva il presupposto per cui è impossibile escludere una contaminazione
accidentale degli alimenti convenzionali, si stabilì una soglia di tolleranza,
pari all'1% di contenuto involontario di OGM, al di sotto della quale non v’era
obbligo di etichettatura. Infine con il regolamento n.50, sempre della
Commissione, si disciplinarono gli additivi e gli aromi derivati da OGM. Anche
questi, qualora non fossero ritenuti equivalenti a quelli convenzionali,
dovevano riportare in etichetta “derivato da … geneticamente modificato”.
Entrambi questi regolamenti sono stati abrogati dal reg. 1829/2003, ma i
contenuti citati sono tuttora presenti nella disciplina comunitaria.
Tra tutte queste fonti solo gli aspetti ambientali erano regolamentati
all’interno di un corpus unico, essendo trattati dalla dir. 90/220. Le altre
problematiche, in particolare quella del rischio, venivano affrontate
separatamente e frammentariamente nell’ambito delle norme di settore,
limitatamente al loro campo di applicazione, a tutto discapito della coerenza e
della razionalità dell’approccio normativo.
II. Fino al 1997 il principio di riferimento del legislatore comunitario è
quello dell’equivalenza sostanziale, ma proprio il regolamento novel food, che
ne costituisce l’espressione più forte, si colloca all’inizio del crepuscolo
della fortuna di questo principio. Negli anni successivi comincia infatti a
trovare sempre maggiore riconoscimento, nella legislazione comunitaria, il
principio precauzionale. “L’inversione di rotta avviene gradualmente: sotto la
spinta dell’opinione pubblica e degli Stati membri è il Parlamento europeo ad
accogliere subito il principio di precauzione mentre la Commissione appare meno
propensa a recepirlo”54.
Proprio all’azione degli Stati si deve l’adozione, da parte della Comunità,
della moratoria de facto che fino al 2004 impedì che fosse approvata la
produzione e la commercializzazione di nuovi OGM nei quindici Paesi dell’Unione.
Nella riunione del Consiglio -nella composizione “Ambiente”- del 24 e 25 giugno
1999, cinque Paesi –Francia, Italia, Grecia, Danimarca e Lussemburgo-
dichiararono che avrebbero preso provvedimenti diretti a sospendere ogni nuova
autorizzazione di coltura e immissione sul mercato di OGM. Essi dichiararono
altresì che avrebbero proseguito nella loro azione almeno finché, da parte della
Comunità, non fosse stato adottato un quadro normativo più rigoroso e
trasparente in tema di valutazione dei rischi, etichettatura e rintracciabilità55. I cinque Paesi, ai quali si aggiunsero poi anche Austria e Belgio, sostennero
che la loro scelta era stata assunta in conformità con i principi di prevenzione
e precauzione.
III. Il più importante atto sugli OGM sinora emanato e improntato al principio
di precauzione è la dir. CE 2001/18 del 12 marzo 2001 del Parlamento europeo e
del Consiglio che abroga e sostituisce la dir. 90/220.
“Se chiaro appare il suo intento assai poco intelligibile è il suo contenuto,
ermeneuticamente custodito in una ragnatela di deroghe e norme degne di un
virtuoso analista”56. Essa stabilisce le condizioni per l’emissione deliberata di
OGM e per la loro immissione in commercio.
Mentre la direttiva 90/220 stabiliva, per l’ottenimento dell’autorizzazione
all’emissione deliberata di OGM nell’ambiente e per la commercializzazione delle
sementi e degli alimenti GM, un procedimento di tipo decentrato, il modello
adottato dagli atti successivi prevede il rispetto di un procedimento più
accentrato che assegna sempre alla Commissione la funzione autorizzatoria.
La direttiva 18/2001 disciplina una molteplicità di aspetti, quali la tutela
dalla salute umana, l’azione preventiva, il rispetto dei principi etici
riconosciuti in uno stato membro, le notifiche, i criteri e le procedure per la
valutazione e il monitoraggio sui rischi ambientali. Essa appare come un vero
tentativo di riorganizzare la materia degli OGM. “La dir. 2001/18 funge da vero
e proprio spartiacque legislativo poiché simboleggia il cambiamento
dell’impostazione comunitaria nella codificazione degli OGM”57.
Le nozioni di emissione deliberata nell’ambiente e di immissione in commercio,
benché distinte e fondate su separate previsioni normative, sono nel loro
insieme sufficientemente ampie per abbracciare ogni fase dell'utilizzo in
agricoltura di OGM, una volta superate le distinte e complesse fasi di
autorizzazione previste dalla direttiva stessa: “tali procedure comportano una
penetrante valutazione, caso per caso, degli eventuali rischi per l'ambiente e
la salute umana, connessi all'immissione in commercio, ovvero anche
all'emissione di ciascun OGM ai fini dell'uso agricolo”58.
La decisione della Commissione n. 2002/623/CE del 24 luglio 2002 (recante note
orientative ad integrazione dell'Allegato II della direttiva 2001/18/CE) ha
arricchito ulteriormente i criteri ai quali attenersi per la valutazione del
rischio ambientale, anche con particolare ed espresso riferimento alle “pratiche
agricole”.
Il quadro di tutela approntato dalla normativa comunitaria in tema di OGM a
presidio dell'ambiente e della salute si completa con i più volte citati regg.
n. 1829/2003 e n. 1830/2003. Essi introducono ulteriori regole, tra l'altro, in
tema di etichettatura e tracciabilità, tese a rendere più rigorosa
l'autorizzazione e la successiva presenza sul mercato degli OGM. Allo stesso
tempo esse sono attente a salvaguardare il principio di armonizzazione, che fa
ancora prevalere la libera circolazione delle merci, ed al quale gli Stati, in
presenza di un prodotto conforme alla normativa comunitaria, non possono
opporsi. In proposito il reg. 1829/2003, sulla base dei citati presupposti, è
chiaro nell’affermare (art. 7, comma 5) che “l'autorizzazione concessa secondo
la procedura […] è valida in tutta la Comunità”, a al contempo inserisce nel
corpo della dir. 2001/18 l'art. 26 bis, in base al quale “gli Stati membri
possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria
di OGM in altri prodotti”. Tale norma fa espresso riferimento anche alla
“coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali ed organiche”.
Il reg. 1829/2003 assegna, come detto, alla sola Commissione il compito di
concedere le autorizzazioni. Le autorità comunitarie dirigono sia la valutazione
che la gestione del rischio, operando in una logica opposta rispetto al
principio della sostanziale equivalenza che era proprio del regolamento novel
food.
IV. Su un piano connesso, ma distinto, la raccomandazione 2003/556 del 23 luglio
200359 disciplina analiticamente la coesistenza nell’ambito della produzione
agricola tra culture transgeniche, convenzionali e biologiche. Il preambolo del
testo si apre con l’affermazione del principio in base al quale “nell'Unione
europea non deve essere esclusa alcuna forma di agricoltura, convenzionale,
biologica e che si avvale di OGM”.
La raccomandazione 2003/556 circoscrive espressamente il proprio campo
applicativo ai soli “aspetti economici connessi alla commistione tra culture
transgeniche e non transgeniche” –introduzione, par. 1.2-, in relazione alle
“implicazioni” che l'impiego di OGM comporterà sulla “organizzazione della
produzione agricola” -introduzione, par. 1.1-. La Commissione, esplicitamente,
dà per assodato che “gli aspetti ambientali e sanitari sono già contemplati
dalla direttiva 2001/18/CEE” –introduzione, par. 1.2- e da essa efficacemente
risolti con l’introduzione del citato regime autorizzatorio.
La Commissione –introduzione, par. 1.5- definisce i contenuti del testo come:
“orientamenti, sotto forma di raccomandazioni non vincolanti rivolte agli Stati
membri” il campo di applicazione dei quali “si estende dalla produzione agricola
a livello dell'azienda fino al primo punto di vendita, ossia «dal seme al
silo»”.
V’è una ulteriore e importante conferma del fatto che l'impiego di OGM
autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria. Con la
decisione CE 2003/653 la Commissione europea respinse un progetto di legge del
Land dell'Austria superiore, che avrebbe vietato in modo generalizzato per 3
anni l'utilizzo di OGM sul proprio territorio, al fine di proteggere i sistemi
di produzione agricola tradizionali. “In questa decisione si è affermato che, in
presenza delle disposizioni comunitarie in materia miranti a «ravvicinare la
legislazione degli Stati membri», questi ultimi non possono impedire la
coltivazione delle sementi OGM autorizzate, ma semmai eventualmente utilizzare
la apposita «clausola di salvaguardia» di cui all'art. 23 della medesima
direttiva, peraltro sempre in riferimento all'impiego di singoli OGM”61.
Un interrogativo importante si pone in relazione al senso della raccomandazione
2003/556. Il testo offre agli Stati, senza incidere sulla validità delle
garanzie apprestate con i citati regolamenti e direttive, la possibilità di
adottare le misure opportune per limitare gli effetti economici connessi alle
potenzialità diffusive degli OGM, evitando nei limiti del possibile che essi
contaminino colture diverse. La contaminazione di colture convenzionali o
biologiche, al di là dei potenziali rischi per la salute e l’ambiente dei quali
come detto la raccomandazione non si occupa, produrrebbe il danno, questo sì
certo, da perdita di valore dei raccolti62. I prodotti convenzionali, infatti,
hanno un valore di mercato superiore. Nel caso dei prodotti biologici la
contaminazione equivarrebbe alla perdita pressoché totale del raccolto.
Ragioni giuridico formali impediscono alla citata previsione di essere
pienamente efficace. La raccomandazione della Commissione è una fonte
subordinata rispetto alle direttive e ai regolamenti sopra riferiti. Persino
potrebbe dirsi che non è una fonte in senso stretto, quanto invece un atto di
soft law: non contiene vere norme, ma orientamenti sotto forma di norme non
vincolanti. “Di certo, laddove essa fornisce utili indicazioni sul modo di
regolare la coesistenza, non può legittimare una negazione pura e semplice, da
parte di qualche Stato (o di qualche potere normativo interno agli Stati), del
principio di libera circolazione degli OGM in presenza di una disciplina
armonizzata, sicché nessuna disciplina della coesistenza può spingersi fino a
provocare, seppure non direttamente, il divieto totale di emissione
nell'ambiente o di immissione in commercio”63.
L’impostazione del diritto comunitario è altresì criticabile dal punto di vista
fattuale. Essa appare troppo rigida rispetto alla molteplicità dei territori
agricoli della comunità e delle manifestazioni dell’imprenditoria agricola. In
particolare l’ordine di grandezza medio delle imprese agricole in Europa ed in
Italia in particolare64 è molto vario e spesso tale da rendere materialmente
impossibile coltivare i fondi adeguandosi alle fasce di rispetto necessarie per
evitare la contaminazione tra colture. Il problema, d’altra parte, non è nuovo:
esso si riscontra egualmente in rapporto alla coesistenza tra l’agricoltura
biologica e quella convenzionale operata con prodotti chimici di sintesi.
In sintesi si può affermare che la legislazione comunitaria permette l’adozione
a livello nazionale di ogni misura preventiva di commistioni fra prodotti, ma
senza che tali interventi pregiudichino il principio della convivenza delle tre
filiere. Così, sebbene la coesistenza possa rivelarsi talvolta impossibile senza
una seppur minima trasmissione di materiale genetico, non è lecito vietare in
blocco la coltivazione di OGM su interi territori di Stati, Länder o regioni.
6. La disciplina in Italia: statale.
I. Gli interventi del Legislatore italiano dovrebbero riflettere i contenuti
della normativa comunitaria. La realtà fattuale si distanzia però molto dalla
teoria.
Ciò si deve solo in minima parte ai ritardi nella conversione delle fonti
comunitarie.
Così i decreti legislativi n. 91 e n. 92 del 3 marzo 199365 recepirono
rispettivamente le direttive 219/90 e 220/90. Il secondo decreto ha subito la
stessa sorte della direttiva trasposta, essendo stato abrogato dopo l’entrata in
vigore della dir. 2001/18.
Il decreto 92 del 1993 oltre a dare attuazione alla disciplina comunitaria
designava il Ministero della Salute (allora Ministero della Sanità) quale organo
istituzionale di riferimento, pur in intesa con molti altri dicasteri, in
materia di OGM. Tale Ministero era indicato come l’Autorità Nazionale preposta
al coordinamento della attività amministrative e tecnico-scientifiche e pertanto
coordinava le procedure di autorizzazione dei rilasci.
A dare attuazione alla dir 2001/18 fu il d.lgs. 8 luglio 2003 n.22466. Il decreto
stabilisce un cambio di vertice, ponendo il Ministro dell’Ambiente, coadiuvato
da una Commissione ad hoc, come autorità nazionale competente per dare
attuazione alla nuova normativa (art. 2). Il cambiamento istituzionale di fatto
rispecchia la crescente sensibilizzazione verso le problematiche ambientali
connesse all’emissione di OGM.
Nel recepire la normativa comunitaria il Legislatore italiano accolse fatalmente
la progressiva suddivisione in settori che questa operava. I decreti di
attuazione, inoltre, ebbero sempre vita breve, subendo spesso robusti interventi
modificatori, quando non venivano sostituiti in toto. Tralasciando la citazione
dei decreti collegati alla dir. 90/220 ora abrogata, per quanto riguarda i MOGM
si citano i decreti modificativi del d.lgs. 91/93, ossia il decreto del
Ministero della Sanità del 1 marzo 1995, il d.lgs. 206/2001 ed il d.m. del 25
settembre 2001. Questi ultimi attuano rispettivamente la dir. 94/51 (recante il
“primo adeguamento al progresso tecnico” della dir. 90/219), la dir. 98/81 e la
decisione 2000/608 della Commissione (sulle note orientative circa la
valutazione del rischio trattata nell’allegato III della dir 90/219).
Nel settore alimentare, il quadro normativo di riferimento è offerto dalle norme
europee prima enunciate: il c.d. “novel food” (reg. 258/97) ed i regolamenti
1829/2003 e 1830/2003. Vista la natura della fonte non vi è infatti necessità di
atti di recepimento, fatto salvo quanto attiene alla disciplina sanzionatoria.
Al riguardo è intervenuto l’ennesimo decreto legislativo, il n. 70 del 200567,
che per quanto riguarda la parte penale si rifà pressoché interamente al d.lgs.
224/200368.
II. Il settore sementiero è senza dubbio quello di maggior interesse. In questo
campo in Italia sono state emanate norme in aperto contrasto, non tanto con
tutte le norme comunitarie, quanto in particolare con le decisioni della
Commissione.
Significativa, in proposito, è l’ordinanza del 4 marzo 1997 del Ministero della
Sanità. Con essa si sospese temporaneamente, per tre mesi, l’attuazione della
decisione della Commissione del 27 gennaio 1997 concernente la coltivazione del
granturco Ciba Geigy Ltd in attesa che venisse elaborato un piano di
monitoraggio per il controllo dell’eventuale insorgenza negli insetti di
resistenza alle tossine Bt, che fungono da anticrittogamico naturale, in quanto
prodotto dalla stessa pianta GM.
La tappa successiva del confronto è la già citata moratoria de facto che tra il
1999 ed il 2004 impedì che fosse approvata la produzione e la
commercializzazione di nuovi OGM nell’Europa dei quindici. La moratoria tuttavia
non impediva l’immissione in commercio di sementi o prodotti derivati da OGM
precedentemente autorizzati.
Il confronto istituzionale divenne palese con l’adozione del c.d. decreto Amato69
che sospese a tempo indeterminato la commercializzazione e l’utilizzo di quattro
varietà di mais transgenico, l’ingresso nella comunità delle quali era già stato
permesso dalle competenti autorità francesi ed inglesi70. Base giuridica del
decreto era la clausola di salvaguardia prevista dall’art. 1271 del reg. 258/97, novel food; il provvedimento restrittivo trovava giustificazione, secondo le
autorità italiane, nell’erronea adozione da parte delle istituzioni comunitarie
di una procedura semplificata ai fini dell’immissione in commercio, vista
l’assenza materiale del presupposto della “sostanziale equivalenza” rispetto
agli omologhi esistenti, richiesto dall’art. 3, par. 4 del reg. 258/9772.
Le società produttrici del granturco transgenico in questione reagirono
presentando ricorso innanzi al T.A.R. del Lazio, al fine di ottenere
l’annullamento del provvedimento. Anche il Tribunale adito manifestò il proprio
dubbio circa la fondatezza dell’adozione della procedura semplificata, che
sembrava motivata dal solo intento di rendere più rapida e snella l’azione
dell’amministrazione.
Il T.A.R., per risolvere la controversia, sottopose alcuni quesiti pregiudiziali
all’esame della Corte europea di Giustizia73. Questa rispose74 facendo leva sulla
duplice finalità perseguita dalla normativa dalla normativa comunitaria: il
funzionamento del mercato interno da un lato e la tutela della salute pubblica
dall’altro. La Corte affermò, invero in modo piuttostoapodittico, che la
semplice presenza di residui di proteine transgeniche in nuovi prodotti
alimentari non impedisce la loro immissione in commercio mediante la procedura
semplificata se non vi sono rischi per la salute umana. Se tuttavia uno Stato,
sostiene ancora la Corte, ha motivi fondati per sospettare l'esistenza di un
simile rischio, può limitarne provvisoriamente o sospenderne la
commercializzazione e l'utilizzo sul suo territorio.
Il T.A.R.75 chiamato a dare definitiva risposta alla doglianza delle società,
diede loro ragione annullando il decreto governativo. Il Tribunale ritenne
infatti che la documentazione fornita dal Governo non dimostrasse l’esistenza di
un rischio potenzialmente pericoloso per la salute umana76.
In generale il contrasto tra Governo italiano e Commissione europea verteva
principalmente sulla mancanza di un’impostazione orientata al principio di
precauzione, sulla vetustà e l’inadeguatezza della dir. 90/220 e sulla mancanza
di una norma sull’etichettatura e la tracciabilità. Se da un lato la condotta
italiana, comune a quella degli altri Paesi promotori della moratoria de facto,
pose la Commissione in una posizione ambigua, come visto sopra (punto 5.II),
dall’altro stimolò le stesse istituzioni comunitarie a redigere un nuovo quadro
normativo tecnicamente più adeguato e socialmente più soddisfacente. La dir.
2001/18 ed i regg. 1829/2003 e 1830/2003 sembrano esserne la conferma.
Si ribadisce che la disputa è circoscritta alle decisioni della Commissione e in
particolare quelle che permettono l’immissione in commercio di singole varietà
di OGM. Gli altri organi dell’UE non sono, se non indirettamente, coinvolti
nella disputa e pertanto nulla ha impedito l’attuazione di altri atti
comunitari.
Così è stato anche per le due direttive del Consiglio concernenti la messa in
coltura e la commercializzazione dei prodotti sementieri di varietà
geneticamente modificate, vale a dire le direttive 98/95 e 98/96 CE del
Consiglio (concernenti un ambito più ampio: “la commercializzazione dei prodotti
sementieri, il catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole e
relativi controlli”) attuate attraverso il d.lgs. n. 212 del 24 aprile 2001. Il
decreto, che si apre anch’esso con un richiamo al principio precauzionale (art.
1 co. I), mira a garantire che le colture derivanti da prodotti sementieri di
varietà GM non entrino in contatto con le colture derivanti da prodotti
sementieri tradizionali e che non rechino danno all’ambiente circostante.
L’impostazione del decreto si può definire “iper-precauzionale”. Significativi
in tal senso sia le disposizioni concernenti la pubblicità sia quelle che
permettono la messa a coltura solo dietro il rispetto di una procedura
particolarmente gravosa77.
III. Esaminando più nel dettaglio i contenuti del d.lgs. 8 luglio 2003 n. 22478,
questo, recependo la dir. 2001/18/CE, pone un'analitica e complessa disciplina
di tutela allo specifico fine di “proteggere la salute umana, animale e
l'ambiente relativamente alle attività di rilascio di organismi geneticamente
modificati” (art. 1, co. I).
In particolare, l’art. 8, con specifico riguardo all'impiego di OGM in
agricoltura, impone a colui che intende effettuare l’emissione di notificare
preventivamente l’autorità nazionale competente. La notifica (art. 8, co. II,
lett. c)) dovrà contenere la “valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i
sistemi agrari e la filiera agroalimentare, in conformità alle prescrizioni
stabilite dal decreto” di cui al successivo co. VI.
“È palese – secondo la Corte Costituzionale - la strumentalità della disciplina
così approntata rispetto a finalità di tutela dell'ambiente e della salute”79. Il
decreto contiene una analitica regolazione delle procedure di autorizzazione,
controllo, vigilanza, sanzionando le violazioni anche penalmente, sia pure a
titolo di contravvenzioni. Si introduce altresì l'obbligo di risarcimento per
chi provochi, in violazione delle disposizioni del decreto stesso, danni “alle
acque, al suolo, al sottosuolo e ad altre risorse ambientali” che non siano
eliminabili “con la bonifica ed il ripristino ambientale” (cfr. artt. 34, 35 e
36).
Il 19 gennaio 2005 è stato adottato il decreto interministeriale previsto
dall'art. 8, comma VI, del d.lgs. n. 224/200380. Esso contiene previsioni
dettagliate concernenti il “rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e
la filiera agroalimentare” e l’attribuzione ad un successivo decreto
interministeriale, tuttora da emanare, del potere di definire “i protocolli
tecnici operativi per la gestione del rischio delle singole specie GM” (art. 1,
co. II).
Ancora una volta, pertanto, l’iniziativa dell’imprenditore che intende coltivare
piante OGM è frenata e costretta all’attesa della emanazione dell’ennesimo
decreto. Questo conterrà elementi che l’imprenditore dovrà inserire nella
notifica che gli permetterà di essere autorizzato all’emissione.
Nel frattempo vige l’art. 34 del d.lgs. 224/2003, in base al quale: “Chiunque
effettua un'emissione deliberata di un OGM per scopi diversi dall'immissione sul
mercato senza averne dato preventiva notifica all'autorita' nazionale competente
e' punito con l'arresto da sei mesi a tre anni o con l'ammenda sino ad euro
51.700”81. A vegliare sul recinto del campo il legislatore ha posto il diritto
penale.
Alle Regioni sono attribuite alcune funzioni nonché la maggioranza dei membri
del Comitato tecnico di coordinamento, che opera presso il Ministero delle
politiche agricole e forestali.
IV. Nel novembre 2004 viene emanato il c.d. “decreto legge sulla coesistenza”
(n. 279/04), convertito poi nella legge n. 5 del 200582. Il decreto
esplicitamente si dichiara attuativo della raccomandazione 2003/556/CE, al fine
di disciplinare il “quadro normativo minimo per la coesistenza tra le colture
transgeniche, e quelle convenzionali e biologiche” ed esclude, invece, dalla
propria area di competenza le colture per fini di ricerca e sperimentazione
autorizzate ai sensi del d.m. 19 gennaio 2005.
Le parti più ricche di contenuti della l. 5/05 sono state dichiarate
incostituzionali dalla citata sentenza Corte Cost. 116/200683.
Gli artt. 1 e 2 sono, assieme ai primi quattro commi dell’ art. 5, le uniche
disposizioni risparmiate dai giudici della Consulta. I primi due articoli si
limitano a ribadire la sussistenza del principio di coesistenza tra le colture
transgeniche e quelle convenzionali e biologiche84, che era poi articolato in
alcune regole generali dagli articoli successivi. Le norme “superstiti”
dell’art. 5 (co. I, I bis, I ter, e II) affronta il problema della
responsabilità civile per danno derivante dall’inosservanza della misure del
piano di coesistenza, sancendo il diritto al risarcimento per il danneggiato85.
L'adozione delle “misure di coesistenza” necessarie per dare ulteriore
attuazione al principio di coesistenza era affidata dall'art. 3 ad un decreto
“di natura non regolamentare” del Ministro per le politiche agricole e
forestali, “adottato d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, emanato previo
parere delle competenti Commissioni parlamentari”. A tale atto era attribuito il
compito di definire “le norme quadro per la coesistenza”, in coerenza con le
quali le Regioni avrebbero approvato, con appositi “provvedimenti”, i propri
piani di coesistenza (artt. 3 e 4). Sempre questo decreto di natura non
regolamentare avrebbe individuato “le diverse tipologie di risarcimento dei
danni” per inosservanza delle misure del piano di coesistenza e avrebbe definito
“le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di
solidarietà nazionale”, disciplinando ancora le forme di utilizzo “di specifici
strumenti assicurativi da parte dei conduttori agricoli” (art. 5, comma 1-ter).
Inoltre, con un atto analogo sarebbero state deliberate le norme sulle “modalità
di controllo” (art. 7, comma 4).
In questo contesto, il piano di coesistenza sarebbe stato adottato con
“provvedimento” di ciascuna Regione e Provincia autonoma. Esso (art. 4 co. I)
avrebbe contenuto “le regole tecniche per realizzare la coesistenza, prevedendo
strumenti che avrebbero dovuto garantire la collaborazione degli enti
territoriali locali, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza”.
In base alla norma transitoria contenuta nell’art. 8 fino all'adozione dei
singoli piani di coesistenza le colture transgeniche, ad eccezione di quelle
autorizzate per fini di ricerca e di sperimentazione non sarebbero state
“consentite”. La violazione del divieto, in base al co. II dell’art. 6 era
sanzionata con arresto in alternativa all’ammenda86.
Si ripeteva così il medesimo meccanismo previsto dal d.lgs. 224/2003: la
possibilità di coltivare piante geneticamente modificate era sottomessa al
rispetto di requisiti contenuti in atti amministrativi di futura emanazione. I
tempi certi previsti per l’emanazione di questi atti non sono rispettati e
quando (non è stato questo il caso visto l’intervento della Corte
Costituzionale) con grande ritardo vengono emanati, perché divengano operativi è
necessario attendere l’adozione di nuovi e ulteriori provvedimenti.
Chi non rispetta il divieto, nel frattempo, corre incontro a una sanzione
penale. Si osservi che il divieto “transitorio” previsto dall’art. 8 vale per
tipologie di coltivazioni già autorizzate sulla base della normativa
comunitaria. Si noti, ancora, che il decreto-legge sulla coesistenza è stato
emanato pochi giorni dopo che era stata resa nota la pronuncia del T.A.R. del
Lazio sul c.d. decreto Amato. L’adozione del decreto sulla coesistenza in realtà
l’ha di fatto impedita! Infatti, in assenza del divieto transitorio sarebbe
stato possibile seminare le quattro varietà di mais transgenico che il decreto
del 4 agosto del 2000 aveva bloccato.
Infine l'art. 7 avrebbe previsto l’istituzione di un altro organo consultivo
nazionale, il “Comitato consultivo in materia di coesistenza tra colture
transgeniche, convenzionali e biologiche”, a composizione mista e con una
presenza minoritaria di esperti designati dalla Conferenza permanente
Stato-Regioni.
V. La Corte Costiuzionale, nel marzo del 2006, ha dunque dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 3, 4, 6 co. I e 7 della l. 5 del
2005, nonché la conseguente illegittimità costituzionale degli artt. 5. co. III
e IV, 6 co. II e 8 della stessa legge87.
La Corte ha ritenuto che la coltivazione a fini produttivi riguardi “chiaramente
il «nocciolo duro della materia agricoltura, che ha a che fare con la produzione
di vegetali ed animali destinati all’alimentazione»88. Infatti […] [la l. 5/2005]
mira palesemente a disciplinare la produzione agricola in presenza anche di
colture transgeniche”. Si è determinato pertanto, sempre secondo la Corte, una
lesione della competenza regionale in materia di agricoltura, prevista dall’art.
117 co. IV Cost..
I primi due articoli della legge sono stati risparmiati dalla declaratoria di
incostituzionalità in quanto il rispetto del principio di coesistenza,
richiamato da quelle norme, secondo la Corte inerirebbe “ai principi di tutela
ambientale elaborati dalla normativa comunitaria e dalla legislazione statale”.
“[…] il legislatore statale con l’adozione del decreto-legge n. 279 del 2004 ha
esercitato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela
ambientale (art. 117, co. II, lett. s) Cost.), nonché quella concorrente in tema
di tutela della salute (art. 117, co. III Cost.)”. È apprezzabile, in proposito,
l’affermazione di Borghi: “Il risultato finale può essere condivisibile; il
ragionamento convince, ma non fino in fondo”89.
L'argomento principale dei giudici costituzionali è che gli artt. 1 e 2 del d.l.
279/04 abbiano quale fine prioritario ed espresso quello di riferirsi al
principio di coesistenza, nonché il fine implicito ulteriore di ribadire la
liceità dell'utilizzazione in agricoltura degli OGM autorizzati a livello
comunitario.
Il decreto legge sarebbe così la prosecuzione ideale del d.lgs. n. 224/03 (di
attuazione della dir. 2001/18) e del d.interm. 19 maggio 2005 (sulla valutazione
del rischio per la agrobiodiversità) e pertanto esso produrrebbe i propri
effetti “in via primaria [riguardo] alla tutela dell'ambiente, e solo in via
secondaria alla tutela della salute e della ricerca scientifica”. Si
tratterebbe, a parere della Corte, di norme di mero principio, e dunque la
relativa elaborazione non può che spettare allo Stato in via esclusiva. Se letti
in questi termini, gli artt. 1 e 2 del d.l. 279/04 si porrebbero effettivamente
anche e forse soprattutto su un piano ricognitivo, trovandosi in essi puramente
ripetuti molti dei concetti espressi dalla Commissione nella racc. n. 556/03.
Si può, questo malgrado, sostenere l’opinione per cui l'art. 2 non costituisce
affatto esercizio della potestà statale esclusiva per la tutela dell'ambiente, e
di quella concorrente per la tutela della salute. Se, come sostiene la stessa
legge 5/2005, essa si pone in relazione con la raccomandazione 556/03, gli
aspetti da quest’ultima considerati sono solo di carattere economico90.
L'ambiente è un tema che appare solo sullo sfondo e così pure la tutela della
salute.
Pare strano porre in discussione tali aspetti in quanto la legge 5/2005 si
occupa soltanto di OGM autorizzati, che ex lege e in quanto tali, si devono
presumere non pericolosi.
“L'intera norma - benché a livello di mero principio - sembra preoccupata
unicamente di ispirare una legislazione che, evitando (fin dalla semente) le
commistioni fra tipologie colturali, possa favorire la tutela delle specificità
produttive, allo scopo di non sprecare le potenzialità di mercato che - in
Europa, diversamente da quanto accade in altre parti del mondo - si ricollegano
alla separazione delle filiere”91. L'art. 2, così come le norme successive, si
mostra dunque quale norma di contenuto economico, piuttosto che rivolta alla
tutela dell’ambiente o della salute. “L'idea che poi in esse - rispecchiando
l'orientamento del d.lgs. n. 224/03 - l'ambiente prevalga addirittura sulla
salute appare fuorviante”92.
Osservato da questo punto di vista l’operato della Corte si mostra diretto ad
evitare censure fondate sull'esclusività della competenza regionale in
agricoltura, che non permetterebbe al legislatore nazionale di legiferare
nemmeno sui principi generali. Così il giudice costituzionale “ha preferito a)
ricondurre le due norme a “materie” la cui presenza appare, invece, del tutto
secondaria; e b) affermare, fra le due materie, un (in realtà inesistente) ruolo
preponderante di quella ambientale, con lo scopo - non privo di forzature - di
attrarre il senso delle disposizioni in questione prevalentemente in un ambito
di competenza esclusiva dello Stato”93.
Probabilmente sarebbe stato più corretto dichiarare la legittimità degli
articoli 1 e 2 della legge negando loro una portata creatrice di nuovo diritto e
dichiarando che essi hanno un carattere fondamentalmente ricognitivo dei vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario. Ciò sarebbe stato più che sufficiente,
senza ricorrere a diversa motivazione, per non dichiarare illegittimi i due
articoli.
C’è un motivo per cui la Corte Costituzionale preferisce questo cammino? Perché
essa decide di coniugare forzatamente il dettato degli artt. 1 e 2 ad una
materia di esclusiva competenza statale, per giustificare sul piano
costituzionale la loro emanazione da parte dello Stato? (si noti che per far ciò
i giudici accettano di assegnare alla protezione della salute un ruolo
secondario, stabilendo una gerarchia che non è propria della normativa
comunitaria sugli OGM).
Appare ragionevole sostenere che la Corte abbia scelto questo percorso
argomentativo per poter affermare che l’esercizio della competenza legislativa
statale ha determinato “l’abrogazione per incompatibilità dei divieti e delle
limitazioni in tema di coltivazione di OGM che erano contenute in alcune
legislazioni regionali”
Se si accetta questo, trova maggiormente senso l’incipit della legge 5/2005, le
parole della quale sarebbero altrimenti fuorvianti. L'art. 1 del d.l. n. 279 si
apre con l’affermazione che esso è stato emanato “in attuazione della
raccomandazione” 556/2003. Parlando di "attuazione" si induce a pensare che ci
si trovi davanti a una direttiva, o a un altro atto realmente necessitato di
ricezione nell’ordinamento italiano, cosa che non è.
Sul tappeto c’è il significato della raccomandazione n. 2003/556/CE: rammentare
agli Stati membri che, essendo il tema della coesistenza a contatto con una
serie di problemi delicati disciplinati da norme vincolanti che spesso essi
violano, se è vero che non vi sono direttive da attuare sullo specifico punto,
vi sono però direttive e regolamenti da non violare94. Proprio le esperienze
nella legislazione regionale sono in tal senso le più significative.
7. La disciplina in Italia: regionale.
I. “Non tutte le regioni trattano il “problema degli OGM” e, tra quelle che lo
trattano95, non tutte lo trattano alla stessa maniera”96. Ve ne sono alcune –
Marche e Campania -, che si limitano a vietarne la somministrazione nelle mense
pubbliche, mentre altre fanno divieto di coltivazione e di produzione di OGM su
porzioni –Abruzzo- o sulla totalità –Toscana- del proprio territorio. Altre
regioni ancora dedicano delle norme alla conservazione e alla valorizzazione dei
prodotti agroalimentari tipici favorendo le coltivazioni tradizionali a scapito
di quelle GM – Friuli Venezia Giulia -. Alcune regioni infine, come Umbria e
Basilicata hanno disciplinato in un unico testo tutti gli aspetti citati.
Le leggi regionali hanno un ruolo fondamentale per determinare la disciplina
relativa agli OGM per tre ragioni97.
In primo luogo, malgrado siano diverse sia per quanto concerne i principi
ispiratori sia per quanto riguarda il grado di estensione dell’intervento, tutte
queste leggi regionali sono accomunate dal fatto di essere state emanate
“spontaneamente”, cioè a prescindere, quando non in contrapposizione, con le
norme omologhe di derivazione internazionale, comunitaria e nazionale.
In secondo luogo esse consistono sostanzialmente in un insieme di divieti,
limitazioni e cautele di vario genere e natura. I differenti legislatori
regionali, da un estremo all’altro della penisola, sono stati idealmente
accomunati da un desiderio di resistenza e timore verso l’introduzione degli
organismi geneticamente modificati sui territori di competenza98.
Infine, le leggi regionali suscitano interesse, ancora rispetto ai divieti da
esse introdotti, in ragione delle considerazioni che ha operato la Corte
Costituzionale, ancora in riferimento alla compatibilità delle proibizioni
introdotte con la disciplina comunitaria99. Proprio la “necessità di superare con
immediatezza la situazione prodotta dalla vigenza di diverse leggi regionali che
prescrivevano, in termini più o meno rigorosi, il divieto di impiego, ovvero
l'obbligo di attenersi a particolari limitazioni di impiego, degli OGM
autorizzati dalla Comunità europea”100 sarebbe a giudizio della Corte il fattore
legittimante il ricorso alla legislazione d’urgenza da parte del legislatore
nazionale operato con l’adozione del d.l. 279/04.
Per contrastare questa azione legislativa regionale né la Commissione europea né
i soggetti privati colpiti nei loro interessi economici hanno sinora intrapreso
iniziative giudiziarie. Per quanto chiara sia stata l’affermazione della Corte
Costituzionale (supra punto 6. V) circa l’abrogazione per incompatibilità, ad
opera della l. 5/2005, delle limitazioni alla coltivazione di OGM che erano
contenute in alcune legislazioni regionali, ad oggi la questione concernente la
liceità di dette normative locali appare tutt’altro che risolta.
D’altra parte va segnalato come le restrizioni alla coltivazione e al commercio
di OGM ad opera di enti locali non siano un fenomeno solo italiano. Nel novembre
del 2003, dieci enti territoriali locali appartenenti a sette diversi Paesi
dell’Unione hanno creato una «Rete delle Regioni e delle Autorità Locali
d’Europa OGM-free» quale foro di discussione e promozione di iniziative comuni101.
II. Nel predisporre disposizioni in materia di OGM, le Regioni italiane
richiamano le finalità a cui si indirizza la loro attività normativa in materia
al fine di difendere «le risorse genetiche del proprio territorio» secondo il
principio di precauzione: questa finalità è spesso concorrente102 con quella più
ampia di tutela “della salute umana e dell'ambiente”103. Nel caso della Provincia
di Trento (art. 87), la finalità di conservazione della biodiversità del
territorio — cioè della qualità e originalità delle specie animali e vegetali
autoctone — è attuata attraverso la creazione di una banca genetica provinciale
del germoplasma, che provvede a conservare i materiali di riproduzione di specie
animali e vegetali autoctone.
Il panorama delle leggi regionali relativo ai divieti di coltura di OGM sul
territorio è assai vario: si va da quelli assoluti104, a quelli moderati da
qualche forma di eccezione105 a quelli in cui il divieto è circoscritto alle sole
aree del demanio regionale o su terreni di proprietà collettiva ricadenti sul
territorio regionale o nelle aree “protette”106. Un caso particolare è presentato
dalla disposizione (art. 3) della legge umbra che pone un divieto di
coltivazione di OGM in pieno campo su tutto il territorio regionale “anche a
fini sperimentali”, ma eccettua “le emissioni autorizzate ai sensi della
direttiva comunitaria”. In pratica questa proibizione regionale si risolve in
una ripetizione priva di contenuto normativo, in quanto le emissioni non
autorizzate dalla disciplina comunitaria sono già di per sé vietate. Ciò fa
pensare che tale divieto abbia un carattere sostanzialmente simbolico. In altri
casi ancora le normative regionali non contengono divieti di colture OGM.
La reale cogenza di questi divieti, siano essi “assoluti” o “parziali” nei fatti
è tutta da verificare visto il dettato della legge n. 5 del 2005 e vista
soprattutto la lettura della Corte Costituzionale sopra richiamata (punto 6.V)
nelle more dell'adozione di disposizioni specifiche in tema di coesistenza.
Nella non semplice lettura incrociata delle norme che oggi è imposta
all’interprete, pare che a prevalere sia ancora il “permesso vuoto di contenuti”
disegnato dal d.lgs. 224/2003. Coltivare OGM è concesso, ma solo dietro il
rispetto di requisiti contenuti in decreti che tardano ad essere emanati; fughe
in avanti non sono concesse: pena la distruzione delle coltivazioni e
l’intervento delle Procure.
Un altro aspetto comune a diverse legislazioni regionali107 è l'esclusione dalla
protezione dei marchi di qualità e dai contributi finanziari erogati dalla
Regione per quelle aziende che utilizzano OGM sia direttamente che
indirettamente, ad esempio attraverso l'uso di mangimi OGM per l'allevamento di
bestiame.
Riguardo agli aspetti legati alla immissione in commercio di prodotti OGM,
lecitamente distribuiti nell'Unione Europea, le Regioni sono intervenute in due
modi. In primo luogo hanno vietato l’utilizzo di prodotti contenenti OGM nella
ristorazione collettiva (in particolare in quella “scolastica, prescolastica,
dei luoghi di cura e degli uffici pubblici di Regione, Provincia e Comune”)108. In
secondo luogo, in modo indiretto, hanno imposto standard più rigorosi di
informazione del consumatore finale; così coloro che commercializzano prodotti
OGM debbono “confinare” fisicamente tali prodotti in espositori o scaffali “in
modo da poter essere chiaramente identificabili”, a prescindere
dall’etichettatura già necessaria secondo parametri comunitari109.
Le normative sovente si concludono con disposizioni relative alla violazione
degli obblighi contenuti. Solitamente è prevista la comminazione di sanzioni
amministrative, per lo più pecuniarie ma anche di tipo interdittivo110, alla cui
irrogazione provvedono, a seconda dei casi, diversi organi: i Comuni o i
carabinieri del Nucleo antisofisticazioni (NAS) o del Comando Carabinieri tutela
ambiente, già Nucleo operativo ecologico (NOE).
III. Le iniziative a livello locale non si sono limitate all’adozione di testi
normativi. Il Presidente della Regione Piemonte nell’estate 2003 firmò
un’ordinanza di distruzione di colture di mais contaminate da OGM non
autorizzati111.
Il provvedimento è interessante perché si pone su un piano diverso da quelli
finora esaminati e risulta perfettamente compatibile con il diritto comunitario.
Furono distrutti le piante di mais su una superficie di 381 ettari in
appezzamenti sui quali erano stati seminati lotti di sementi convenzionali112
specificatamente individuati. In essi era stata riscontrata la presenza di mais
GM113 (dallo 0,02% allo 0,11%) non iscritto né nel catalogo italiano delle varietà
di piante agricole coltivabili né in quello comunitario.
L’ordinanza era assunta sulla base di questo presupposto: “sotto il profilo
sanitario, prescindendo dagli elementi di incertezza del dibattito scientifico
[…] sulla sicurezza dell’impiego di OGM nell’alimentazione, il provvedimento di
distruzione per tutte le sementi di OGM attualmente non consentite si presenta
come l’unica misura in grado di evitare concretamente il rischio di introdurre
nel circuito alimentare umano o animale i prodotti contaminati”.
A rendere nulle le speranze di accoglimento di un ricorso contro l’ordinanza,
che pure fu presentato114, era la norma dell’ordinamento comunitario che vieta la
coltivazione di varietà agricole non registrate negli appositi cataloghi
(nazionale ed europeo).
A nulla poteva valere l’eventuale dimostrazione dell’assenza di elementi
scientifici sufficienti per l’adozione di provvedimenti di tale portata.
Potenzialmente diverso avrebbe potuto essere l’esito del ricorso se il
Presidente della Regione avesse assunto l’atto impugnato come deroga
precauzionale al regime comunitario.
La vicenda dimostra come la fitta rete di norme comunitarie che disciplinano le
autorizzazioni relative agli OGM non riesce ancora a “imbrigliare” alcune
restrizioni e sanzioni in materia adottate da istituzioni statali e intrastatali.
Va detto che il commercio del mais in questione era autorizzato ai sensi della
normativa sull’emissione nell’ambiente115, ma a impedirne la semina in Italia era
la scelta delle autorità nazionali che ne rifiutavano l’iscrizione nel registro
delle piante coltivabili. “La prima autorizzazione, ossia quella che dovrebbe
maggiormente rilevare , risulta in consistente misura inutiliter data!”116. Al
contempo le autorità italiane e regionali si dimostrano particolarmente abili
nello sfruttare gli spazi offerti. Si noti come il tasso di transgenicità
rilevato nelle sementi sarebbe rientrato nella soglia di tolleranza per la
presenza accidentale di sementi GM in quelle convenzionali che sarebbe stata
adottata di lì a pochi mesi.
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* Dottorando di
ricerca in Studi Giuridici Comparati ed Europei presso l’Università degli Studi
di Trento, corn@alpha.jus.unitn.it. Ringrazio il prof. Gabriele Fornasari ed il
dott. Umberto Izzo per aver letto il manoscritto.
_____________
1 Questo termine, in
linea generale, si riferisce agli aspetti di sicurezza legati alle applicazioni
delle biotecnologie ed al rilascio nell’ambiente di organismi transgenici
suscettibili di incidere negativamente sull’ambiente o sulla salute dell’uomo,
degli animali o delle piante. Cfr. art. 3 del Progetto preliminare di codice di
condotta sulle biotecnologie, pubblicato dalla FAO nel 1993.
2 In ordine cronologico: decisione CEE 93/572 concernente un
vaccino antirabbico per volpi; decisione CE 94/385 sui semi di tabacco maschio
sterile; decisione CE 94/505 che estende l’autorizzazione di un medicinale
antirabbico per uso intradermico (laddove l’uso intramuscolare tale medicinale
era stato autorizzato); decisione CE 96/158 concernente l’immissione sul mercato
i semi di colza ibrido tollerante erbicidi, decisione CE 96/281 relativa
all’immissione sul mercato di semi di soia Glicine max L. (anche questi
resistenti agli erbicidi); decisione CE 96/424 concernente l’immissione in
commercio di cicoria maschio sterile modificata con tolleranza parziale
all’erbicida glufosinate-ammonio; decisione CE 97/98 riguardante l’immissione in
commercio di granturco geneticamente modificato (Zea mays L.), sottoposto ad una
modificazione combinata che garantisce da un lato proprietà insetticide
(conferite dal gene Bt), dall’altro resistenza all’erbicida; decisione CE 97/392
concernente l’immissione sul mercato di colza geneticamente modificata (Brassica
napus L. oleifera Metzg. MS1, RF1); decisione CE 97/393 concernente l’immissione
sul mercato di un altro tipo di colza geneticamente modificata (Brassica napus
L. oleifera Metzg. MS1, RF2); decisione CE 97/549 relativa all’immissione in
commercio del T 102-test (granturco); seguono le quattro decisioni CE del 22
aprile 98 (CE 98/291, CE 98/292, CE 98/293 e CE 98/294), una riguardante l’
immissione in commercio della colza primaverile (Brassica napus L.ssp.
oleifera), le altre tre riguardano invece l’immissione in commercio di tre
varietà di granturco modificato Zea mays L. (linea Bt-11, T25, Mon 810)
brevettato da tre case farmaceutiche diverse per resistere ai pesticidi che
queste commercializzano; infine la decisione CE 2006/197 che autorizza
l’immissione sul mercato di alimenti contenenti, consistenti di, ovvero prodotti
a partire da granoturco geneticamente modificato della linea 1507 (DAS-Ø15Ø7-1)
in virtù del regolamento (CE) n. 1829/2003.
3 Di queste ultime due categorie di decisioni si riportano
quelle legate alla dir. CE 2001/18: decisione CE 2002/623, le tre decisioni del
Consiglio del 3 ottobre 2002 (2002/812/EC, 2002/813/EC, 2002/814/EC), decisione
CE 2003/701, decisione CE 2004/204.
4 Cfr. decisione CE 94/381 e decisione CE 94/474 (oggi
abrogate), nonché decisione CE 96/239. Si veda:
http://www.ambientediritto.it/Legislazione/OGM/ogm.htm .
5 D. DI CARLANTONIO, Le fonti normative degli OGM, in
www.ambientediritto.it/dottrina/dottrina.htm , 2003. Si tratta della l. 24
aprile 1998 n. 128 (legge comunitaria 1995-1997) e della l. 29 dicembre 2000 n.
422, legge comunitaria 2000.
6 Le uniche volte in cui compare la scritta “legge” nel titolo
di una norma italiana sul tema si tratta di leggi regionali. Fanno eccezione le
citate leggi comunitarie (c.d. La Pergola – l. 86 del 1989), la l. 22 febbraio
2006, n. 78, “Attuazione della direttiva 98/44/CE in materia di protezione
giuridica delle invenzioni biotecnologiche” (GU n. 8 del 11-1-2006) e la l. 28
gennaio 2005, n. 5 “Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le
forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica". (GU n. 22 del
28-1-2005), le quali però altro non sono che la conversione in legge di due
decreti-legge (rispettivamente d.l. 10 gennaio 2006, n. 3 e d.l. 22 novembre
2004, n. 279).
7 Leggi Regionali: dell'Abruzzo (l.r. n. 6 del 16 marzo 2001),
della Basilicata (l.r. n. 18 del 20 maggio 2002), della Campania (l.r. n. 15 del
24 novembre 2001), del Friuli-Venezia Giulia (l.r. n. 21 del 20 novembre 2000),
delle Marche (l.r. n. 5 del 4 marzo 2004), della Toscana (l.r. n. 53 del 6
aprile 2000), della Puglia (l.r. n. 26 del 4 dicembre 2003), dell'Umbria (l.r.
n. 21 del 20 agosto 2001), del Veneto (l.r. n. 6 del 1 marzo 2002), del Lazio
(l.r. n. 2 del 27 febbraio 2004 – art. 79), della Sicilia (l.r. n. 20 del 22
dicembre 2005 – art. 18) dell’Emilia-Romagna (l.r. n. 6 del 17 febbraio 2005).
8 Si tratta rispettivamente della l. prov. 28 marzo 2003 n.4
“Sostegno dell'economia agricola, disciplina dell'agricoltura biologica e della
contrassegnazione di prodotti geneticamente non modificati” e della l. prov. 22
gennaio 2001 n. 1 “Contrassegnazione di prodotti geneticamente non modificati”.
9 M. SALVADORI, Il diritto internazionale rilevante per la
disciplina degli organismi geneticamente modificati, in AA.VV. (R. FERRARA e I.M:
MARINO a cura di) ,Gli Organismi geneticamente modificati, Padova, Cedam, 2003,
41. Per una presentazione più approfondita: R. PAVONI, Biodiversità e
biotecnologie nel diritto internazionale e comunitario, Milano, Giuffrè, 2004,
10 e 239.
10 In relazione alla lentezza del procedimento di formazione di
norme generali o l’eccessiva rigidità delle medesime che ne manifesta
l’inidoneità a regolare settori in continua evoluzione, come quello ambientale:
cfr. F. FRANCIONI, Per un governo mondiale dell’ambiente: quali norme? quali
istituzioni?, in S. SCAMUZZI (a cura di), Costituzioni, razionalità, ambiente,
Torino, Bollati Boringhieri, 1994, 450; in relazione all’efficacia materiale
limitata e alla natura non self-executing di deteminate norme generali: cfr: F.
MUNARI, Tutela internazionale dell’ambiente, in S.M. CARBONE, R. LUZZATTO, A.
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Giappichelli, 2006, 445 in part. 463 e seg.
11 S. MALJEAN-DUBOIS, Biodiversité, biotechnologies,
biosécurité: le droit international désarticulé, in Journal du Droit
International, IV, 2000, 949.
12 Le organizzazioni intergovernative responsabili dei diversi
problemi riguardanti le biotecnologie sono sempre più attive e numerose. Accanto
alla FAO, le funzioni della quale sono però limitate alla consulenza e
all’assistenza vanno citate: l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico), la WHO (Organizzazione mondiale per la sanità), l’UNEP
(programma ambientale per le Nazioni Unite), l’ICGEB (Centro internazionale per
l’ingegneria genetica e la biotecnologia, l’UNIDO (Organizzazione delle Nazioni
Unite per lo sviluppo industriale), l’UIE (Ufficio internazionale delle
epizoozie ). I testi citati sono pubblicati sui siti istituzionali delle varie
organizzazioni; cfr. R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 240.
13 Altrimenti chiamata “Convenzione sulla biodiversità”; fu
approvata a Nairobi il 22 maggio del 1992 è stata ratificata fin ad oggi da 188
Paesi. La Convenzione è stata aperta alla firma dei Paesi durante il Summit
Mondiale dei Capi di Stato di Rio de Janeiro nel giugno 1992 insieme alla
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ed alla
Convenzione contro la Desertificazione, per questo denominate le tre Convenzioni
di Rio. La convenzione sulla diversità biologica entrò in vigore nel 1994. Si
veda il sito web della Convenzione: www.biodiv.org .
14 “The Parties shall consider the need for and modalities of a
protocol setting out appropriate procedures, including, in particular, advance
informed agreement, in the field of the safe transfer, handling and use of any
living modified organism resulting from biotechnology that may have adverse
effect on the conservation and sustainable use of biological diversity”
15 Per un resoconto dettagliato dei negoziati: C. BAIL, R.
FALKNER, H. MARQUARD, The Cartagena protocol on biosafety : reconciling trade in
biotechnology with environment and development?, London, Royal institute of
international affairs - Earthscan, 2002. Più sinteticamente: S. MALJEAN-DUBOIS,
op. cit., supra nt. 11, 978. Il profilo più interessante del negoziato è
costituito dalla posizione dei Paesi in via di sviluppo raccolti nel like-minded
group. Questi promossero l’adozione di uno strumento severo dal punto di vista
della tutela della biodiversità e teso a comprendere ogni categoria di prodotto
transgenico, assumendo una posizione differente da quella tradizionalmente
tenuta in occasione di negoziati ambientali multilateriali. Ciò è determinato,
almeno parzialmente, dalla presenza, in relazione alle biotecnologie, di un gap
tecnologico, finanziario ed istituzionale a svantaggio dei Paesi del like-minded
group e dal conseguente timore di questi di subire passivamente le possibili
conseguenze ambientali negative senza avere alcun beneficio in termini di
sviluppo. Significativo al riguardo è l’art. 22 par. 1 del Protocollo: “Ai fini
della effettiva attuazione del presente protocollo le parti contraenti cooperano
allo sviluppo e/o al rafforzamento, nella misura in cui ciò è necessario per la
biosicurezza, delle risorse umane e delle capacità istituzionali in materia di
biosicurezza, comprese le biotecnologie, nei Paesi in via di sviluppo, in
particolare di quelli meno sviluppati e dei piccoli Stati insulari e delle parti
contraenti ad economia in transizione, […]”. A beneficiare di un obbligo così
formulato, sulla base del principio delle responsabilità comuni ma differenziate
nel perseguimento dello sviluppo sostenibile, sono i Paesi in via di sviluppo,
mentre i Paesi industrializzati sono coloro che si assumono l’impegno. “Soltanto
allorché i Paesi in via di sviluppo avranno colmato il suddetto gap tecnologico
diverrà possibile apprezzare la volontà degli stessi di tradurre la strategia
seguita durante i negoziati del Protocollo di Cartagena in legislazioni sulla
produzione e l’esportazione di OGM improntate a rigore e cautela. La divisione
dei Paesi latinoamericani, sancita dall’adesione di Argentina, Cile e Uruguay al
gruppo di Miami, non lascia presagire nulla di promettente al riguardo” R.
PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 246.
16 Anche la Comunità Europea è parte del Protocollo di
Cartagena assieme a tutti i suoi Stati membri. Per le questione connesse alla
partecipazione congiunta di Stati membri e Comunità si veda: R. PAVONI, op.
cit., supra nt. 9, 471-484. Nella Comunità è stata data attuazione al Protocollo
con il regolamento n. 1946/2003 del 15 luglio 2003 “sui movimenti
transfrontalieri degli organismi geneticamente modificati”, in GUCE 5 novembre
2003 L 287.
17 Decisione del Consiglio 2002/628/EC del 25 giugno 2002,
relativa alla conclusione, a nome della Comunità europea, del Protocollo di
Cartagena, 5°considerando
18 F. MUNARI, Risoluzione pacifica e prevenzione delle
controversie nternazionali, in S.M. CARBONE, R. LUZZATTO, A. SANTA MARIA (a cura
di), Istituzioni di diritto internazionale, III ed., Torino, Giappichelli, 2006,
270.
19 Il riferimento è alle conclusioni del Dispute Settlement
Body nel caso “Gamberetti I”: «[…] vorremmo sottolineare quello che non abbiamo
deciso in questo appello. Non abbiamo deciso che la protezione e la
conservazione dell’ambiente non ha significato per i membri del WTO. Chiaramente
lo ha. Non abbiamo deciso che le nazioni sovrane membri del WTO non possono
adottare misure efficaci per proteggere le specie in pericolo […]. Chiaramente
esse possono e dovrebbero farlo. E non abbiamo deciso che gli Stati non
dovrebbero agire, in sede bilaterale, plurilaterale o multilaterale, in seno al
WTO o ad altri fori internazionali per proteggere le specie in pericolo e in
generale l’ambiente. Chiaramente. Essi dovrebbero farlo e lo fanno» United
States — Import Prohibition of Certain Shrimp and Shrimp Products - WTO case Nos.
58 (and 61). Ruling adopted on 6 November 1998 - www.wto.org/english/tratop_e/envir_e/edis08_e.htm
20 United States — Standards for Reformulated and Conventional
Gasoline - WTO case Nos 2 and 4. Ruling adopted 20 May 1996 -
www.wto.org/english/tratop_e/envir_e/edis07_e.htm .
21 European Communities — Measures Affecting the Approval and
Marketing of Biotech Products - WTO dispute DS291, DS 292, DS293 panel report
circulated 29 September 2006 - http://www.wto.org/english/tratop_e/dispu_e/cases_e/ds291_e.htm
. La violazione lamentata è la c.d. moratoria de facto sulla quale si tornerà
infra punto 5 II., in particolare alla nota 55. L. MARINI, OGM, precauzione e
coesistenza: verso un approccio (bio)politicamente corretto?, in Riv. giur.
Ambiente, I, 2007, 7
22 A. ODDENINO, La disciplina degli organismi geneticamente
modificati. Il quadro di diritto comunitario, in AA.VV. (R. FERRARA e I.M:
MARINO a cura di) ,Gli Organismi geneticamente modificati, Padova, Cedam, 2003,
81.
23 Si tratta del noto principio in base al quale agli Stati
membri è proibito negare l’accesso nel proprio mercato ai beni fabbricati e
commercializzati in altri Paesi membri in conformità con le normative ivi
previste, salvo sussista un’esigenza imperativa di adottare una misura
restrittiva quale può essere la protezione dell’ambiente [cfr. la sentenza 20
febbraio 1979, C-120/78, Rewe Zentral AG / Bundesmonopolverwaltung für
Branntwein (c.d. Cassis de Dijon), in Raccolta, 1979, 649. e la successiva
giurisprudenza sul tema; si veda G. TESAURO, Diritto Comunitario, IV ed.,
Padova, Cedam, 2005, 382-383. Tale principio altro non è che il corollario del
principio della libera circolazione delle merci, come espresso dagli artt. 28 e
29 del Trattato concernenti il divieto di restrizioni quantitative a
importazioni ed esportazioni, nonché delle misure di effetto equivalente. Si
veda altresì: S. VENTURA, Principi di diritto dell’alimentazione, Milano, Franco
Angeli, 2001, in particolare cap. 4, 5 e 6.
24 Tra le due ipotesi vi è una differenza pratica: le c.d.
misure distintamente applicabili a prodotti nazionali ed importati (ossia
discriminatorie de iure), come per esempio una normativa che richieda
un'autorizzazione per l'immissione in commercio di OGM soltanto se questi
provengano da altri Paesi, possono essere giustificate unicamente ai sensi
dell'art. 30. “D'altro canto, quantunque il ricorso alla nozione di esigenze
imperative come alle eccezioni dell'art. 30 sia limitato in particolare dal
requisito della proporzionalità, ciò non avrebbe certamente scongiurato
l'adozione di misure unilaterali di biosicurezza, né avrebbe garantito pronunce
di illegittimità da parte della Corte di giustizia.” R. PAVONI, op. cit., supra
nt. 9, 381.
Al contrario, la tecnica dell'armonizzazione pare più efficace. Infatti, quando
sono adottati provvedimenti di armonizzazione in un dato settore incidente sul
funzionamento del mercato unico, i Paesi membri perdono la facoltà di invocare
le eccezioni risultanti dall'art. 30 o la nozione di esigenze imperative. Ciò si
desume da giurisprudenza uniforme e costante che opera una sorta di presunzione
in base alla quale idonee misure di tutela ad es. ambientale siano già contenute
nel provvedimento di armonizzazione adottato dal legislatore comunitario. Cfr.
sentenze 5 aprile 1979, causa C-148/78, Ratti, in Raccolta., 1979, 1629 ss.,
punto 36, e 23 maggio 1996, causa C-5/94, HedeyLomas, in Raccolta, 1996, I-2553
ss., punto 18.
25 Principalmente A) la direttiva 2001/18 del 12 marzo 2001
“sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati”,
in GUCE 17 aprile 2001 L 106 (nonché l’antecedente direttiva 90/220 vertente
sulla stessa materia ed abrogata dalla dir. 2001/18, in GUCE 8 maggio 1990 L
117); B) il regolamento n. 1829/2003 del 22 settembre 2003 “relativo agli
alimenti e ai mangimi geneticamente modificati” (che peraltro si fonda su una
triplice base giuridica, ossia, oltre all'art. 95, gli artt. 37 e 152, par. 4,
lett. b), in GUCE 18 ottobre 2003 L 268 (nonché l’antecedente regolamento n.
258/97 del 27 gennaio 1997 “sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti
alimentari”, in GUCE 14 febbraio 1997 L 43, le cui disposizioni in materia di
OGM sono state abrogate dal reg. 1829/2003); C) il regolamento n. 1830/2003 del
22 settembre 2003 “concernente la tracciabilità e l'etichettatura di organismi
geneticamente modificati e la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da
organismi geneticamente modificati”, in GUCE 18 ottobre 2003 L 268.
26 Regolamento n. 1946/2003 del 15 luglio 2003 “sui movimenti
transfrontalieri degli organismi geneticamente modificati”, cit.; Direttiva
2004/35 del 21 aprile 2004 “sulla responsabilità ambientale in materia di
prevenzione e e riparazione del danno ambientale”, in GUCE 30 aprile 2004 L 143;
Direttiva 90/219 relativa all'impiego confinato di microrganismi geneticamente
modificati, in GUCE 8 maggio 1990 L 117.
27 In tali casi residua comunque la garanzia ex art. 230 del
Trattato, con la possibilità di ricorrere al controllo giurisdizionale della
Corte di Giustizia. La prassi di tale tribunale tuttavia si è mostrato
generalmente “piuttosto deferente verso le valutazioni scientifiche e di fatto
poste a base di decisioni delle istituzioni politiche” R. PAVONI, op. cit.,
supra nt. 9, 383.
28 Gradoni sostiene invece la tesi per cui, sotto il profilo
dei poteri di deroga dei Paesi membri, gli atti adottati in base all’art. 95 e
all’art. 175 sarebbero sostanzialmente identici, in quanto le misure nazionali
devono pur sempre rispettare i principi del mercato unico – L. GRADONI, La nuova
direttiva comunitaria sugli organismi geneticamente modificati, in Dir. Com.
Scambi Internaz., IV, 2001, 759-762, anche in Riv. dir. agrario, 2001, p. I, 453
e ss.
29 Concordano con entrambe le ragioni addotte: R. PAVONI, op.
cit., supra nt. 9, 384 e H. SOMSEN, Discretion in European Community
Environmental Law: An Analisis of EJC Case Law, in Common Market Law Rev., 2003,
1415.
30 In senso conforme l’avvocato generale Saggio nelle
conclusioni nella causa C-319/97, Kortas, in Raccolta., 1999, I-3143, in partic.
punto 26.
31 384 in fondo e inizio 385 con note
32 R. PAVONI, op. cit., supra nt. 14, 385.
33 Per un ulteriore e interessante punto di vista sui metodi
legislativi utilizzati per legiferare nel settore delle sostanze e dei prodotti
alimentari: S. VENTURA, op. cit., supra nt. 14, 75.
34 La direttiva 98/44 (GUCE L 213 del 30.07.1998) doveva essere
recepita negli ordinamenti nazionali entro il 30 luglio 2000, esattamente due
anni dopo dalla sua entrata in vigore. Il termine è stato rispettato solo da una
minoranza di Stati membri. Ben otto, il 10 luglio 2003, sono stati deferiti alla
Corte di Giustizia per inadempimento: tra essi, oltre a Svezia ed Austria, vi
sono tutti e sei gli Stati fondatori della Comunità.
La Corte di giustizia delle Comunità europee, con la sentenza del 16 giugno 2005
(causa C-456/03) ha accertato la mancata attuazione di determinate disposizioni
della direttiva nell’ordinamento nazionale italiano - in particolare gli
articoli 3, paragrafo 1, 5, paragrafo 2, 6, paragrafo 2, e da 8 a 12 della
direttiva - condannando l’Italia per inadempimento. L’Italia ha ricevuto, il 19
dicembre 2005, una ulteriore lettera di messa in mora, da parte della
Commissione europea, per inottemperanza alla citata sentenza della Corte di
giustizia (cfr. art. 228 par. 2 del Trattato) con richiesta di chiarimenti da
produrre entro il termine di sessanta giorni. Per evitare una seconda pronuncia
della Corte di giustizia, che avrebbe facilmente comportato la condanna al
versamento di una penalità e di una somma forfettaria di notevole entità, è
stato emanato il decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 3, Attuazione della direttiva
98/44/CE in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, (GU
n. 8 del 11-1-2006), convertito con modifiche con la l. 22 febbraio 2006, n. 78.
35 I procedimenti aperti sono le cause C-413/03 e da C-416/03 a
C-424/03. Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia e Paesi Bassi
sono stati condannati per inadempimento in date comprese tra il 15 luglio 2004
(Francia e Germania) ed il 27 gennaio 2005 (Grecia).
36 Nel frattempo l’attenzione per le problematiche ambientali è
radicalmente mutata; lo stesso art. 2 del Trattato CE esplicita come uno
sviluppo sostenibile delle attività economiche e la protezione e il
miglioramento dell’ambiente siano tra gli obiettivi che la Comunità deve
promuovere.
37 Art. 174 par. 2, I parte: “La politica della Comunità in
materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della
diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata
sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della
correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché sul principio «chi inquina paga»”. Negli ultimi anni gli studi dedicati
al principio di precauzione sono aumentati con progressione geometrica. In
questa sede non sarebbe né utile né possibile offrire anche solo una minima
bibliografia. Per un suo inquadramento generale rinviamo al primo capitolo
(dedicato in particolare alle radici filosofiche) di U. IZZO, La precauzione
nella responsabilità civile, Padova, Cedam, 2004 (sul sito
www.ambientediritto.it è disponibile l’introduzione al volume intitolata: Per
una semantica della precauzione).
38 Regolamento n. 178/2002 del 28 gennaio 2002 “che stabilisce
i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce
l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della
sicurezza alimentare”, in GUCE 1 febbraio 2002 L 31.
39 La norma è completata dal par. 2: “Le misure adottate sulla
base del paragrafo 1 sono proporzionate e prevedono le sole restrizioni al
commercio che siano necessarie per raggiungere il livello elevato di tutela
della salute perseguito nella Comunità, tenendo conto della realizzabilità
tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti. Tali misure sono
riesaminate entro un periodo di tempo ragionevole a seconda della natura del
rischio per la vita o per la salute individuato e del tipo di informazioni
scientifiche necessarie per risolvere la situazione di incertezza scientifica e
per realizzare una valutazione del rischio più esauriente”.
40 In particolare agli obblighi discendenti dall'Accordo SPS
(Accordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie). “In effetti,
detta disposizione è visibilmente modellata sull'art. 5, parr. 6 e 7 di
quest'ultimo accordo (basti pensare al necessario carattere provvisorio delle
misure e all'obbligo di riesame entro un periodo di tempo ragionevole)” R.
PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 389.
41 Ampiamente sul punto R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 407
(per quanto concerne la legislazione) e 421 (per quanto concerne la
giurisprudenza).
42 E. SESSA, Profili evolutivi del principio di precauzione
alla luce della prassi giudiziaria della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, in Riv. giur. Ambiente, III-IV, 2005, 635. Di particolare interesse
(assieme ad altre che si citeranno infra): Sentenza 21 marzo 2000, causa C-6/99,
Association Greenpeace France e altri / Ministère de l’Agriculture et de la
Pêche e altri, in Raccolta., 2000, p. I-1651 ss. – anche in Riv. dir. agrario,
2000, p. II, 118 con note di L. COSTATO, OGM ora tocca alla Corte, in Riv. dir.
agrario, 2000, p. II, 124 e F. BRUNO, Principio di precauzione e organismi
geneticamente modificati, in Riv. dir. agrario, 2000, p. II, 223; Sentenza 11
settembre 2002, causa T-13/99, Pfizer Animal Health, in Raccolta, 2002, p.
II-3305 ss. Si veda altresì: J.M. BAÑO LEÓN, El principio de precaución en el
derecho público, in AA.VV. (J. BOIX REIG e A. BERNARDI codir.), Responsabilidad
penal por defectos en productos destinados a los consumidores, Madrid, Iustel,
2005, 35.
43 Al precedente n. 11 la valutazione del rischio è definita
come: “processo su base scientifica costituito da quattro fasi: individuazione
del pericolo, caratterizzazione del pericolo, valutazione dell'esposizione al
pericolo e caratterizzazione del rischio”. Un chiarimento ulteriore dei
contenuti della valutazione e della gestione del rischio si trova, all’interno
dell’art. 6 dello stesso regolamento. Nel par. 3 di detto articolo si menziona
espressamente il principio di precauzione quale fondamento delle decisioni di
gestione del rischio. Pare opportuno precisare come, nel sistema del reg.
178/2002, il principio base della legislazione alimentare sia costituito dal più
ampio principio di analisi del rischio (artt. 3, n. 10 e 6 par. 1) formato da
tre componenti interconnesse: la valutazione del rischio, la gestione del
rischio e la comunicazione del rischio (art. 3, n. 13). All’interno del presente
studio si ritiene di potersi esimere da un esame approfondito di quest’ultima
componente, che si risolve essenzialmente nell’informazione dei cittadini sui
rischi alimentari e ambientali.
44 R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 391.
45 La lettura di alcune disposizioni lascia intendere che vi
sia una sorta di automatismo fra conclusioni della valutazione e conseguenti
misure di gestione del rischio. .Cfr. Allegato II punto A:[la valutazione del
rischio] “deve essere effettuata al fine di determinare se è necessario
procedere ad una gestione del rischio e, in caso affermativo, reperire i metodi
più appropriati da impiegare” (analogamente: il punto C.2.5). Allegato II punto
B, ultimo trattino: “se diventano disponibili nuove informazioni sull'OGM e sui
suoi effetti [...], può essere necessario riconsiderare la valutazione del
rischio ambientale al fine di [...] determinare se è necessario modificare di
conseguenza la gestione del rischio”.
46 Direttiva CEE 90/219 del Consiglio del 23 aprile 1990
“sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati” in GUCE 8
maggio 1990 L 117; il testo originale è stato più volte modificato, si vedano:
dir. 94/51 CE della Commissione del 7 novembre 1994 recante “adeguamento al
progresso tecnico della direttiva del Consiglio 90/219/CEE sull'impiego
confinato di microrganismi geneticamente modificati” in GUCE 18 novembre 1994 L
297; dir. 98/81 CE del Consiglio del 26 ottobre 1998, in GUCE 5 dicembre 1998 L
330 -che apporta le modifiche più rilevanti-; decisione 2000/608 CE del 27
settembre 2000 della Commissione -sulle note orientative per la valutazione del
rischio di cui all’allegato III della dir 90/219-; decisione 2001/204 CE dell’8
marzo 2001 del Consiglio -che integra la dir 90/219 relativamente ai criteri per
stabilire la sicurezza per la salute umana e per l’ambiente di alcuni tipi di
MOGM-.
47 Direttiva CEE 90/220 del Consiglio del 23 aprile 1990
“sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati”,
in GUCE 8 maggio 1990 L 117. Prima della abrogazione ad opera della citata dir.
2001/18 si registrarono due interventi di modifica per introdurre adeguamenti al
progresso tecnico: dir. CE 94/15 e dir. CE 97/35.
48 Regolamento CEE n. 2309/93 del 22 luglio 1993 “che
stabilisce le procedure comunitarie per l'autorizzazione e la vigilanza dei
medicinali per uso umano e veterinario e che istituisce un'Agenzia europea per
la valutazione dei medicinali”, in GUCE 24 agosto 1993 L 214.
49 La direttiva di riferimento è la 98/95 CE del Consiglio del
14 dicembre 1998, in GUCE 1 febbraio 1999 L 25; essa si occupa del
consolidamento del mercato interno, delle varietà GM e delle risorse genetiche
delle piante. Questa direttiva ne modifica sette precedenti (dir. 66/400 CEE,
dir. 66/401CEE, dir. 66/402 CEE, dir. 66/403 CEE, dir. 60/208 CEE, dir. 70/457
CEE e dir. 70/458 CEE) riguardanti la commercializzazione delle sementi di
barbabietole, di piante foraggiere, di cereali, dei tuberi-seme di patate, di
piante oleaginose e da fibra, delle sementi di ortaggi. Per quanto concerne le
decisioni si veda supra nt. 2.
50 Regolamento CE n. 258/97 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 27 gennaio 1997 “sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti
alimentari” in GUCE 14 febbraio 1997 L 43 noto come “regolamento novel food”; la
disciplina sugli alimenti contenenti OGM si rinviene ora nel reg. 1829/2003; L.
COSTATO, Organismi geneticamente modificati e novel foods, in Riv. dir. agrario,
1997, p. I, 137. Nel settore si vedano anche la raccomandazione 97/618 CE della
Commissione concernente gli aspetti scientifici delle informazioni che le
domande di autorizzazione devono contenere
51 Reg. 258/97, considerando II: “[…] nel caso di nuovi
prodotti o nuovi ingredienti alimentari sostanzialmente equivalenti a prodotti o
ingredienti esistenti è opportuno prevedere una procedura semplificata”; il che
si traduce nella parte normativa del testo in una immissione in commercio senza
autorizzazione. Sul principio di equivalenza sostanziale si vedano: E. SIRSI, Il
D.P.C.M. di sospensione dei mais transgenici del 4 agosto 2000 (Note
sull’applicazione della normativa comunitaria sui «novel foods», in Riv. Dir.
Agrario, 2000, p. II, 333; A. GERMANÒ, Sulla coesistenza tra coltivazioni
transgeniche e coltivazioni convenzionali: profili giuridici, in Riv. dir.
agrario, 2005, p.I, 393 (in particolare l’ampia nt. 58 e bibliografia ivi
citata).
52 Il reg. 1139/98 abroga espressamente il reg. CE 1813/97
della Commissione concernente l’obbligo di etichettatura di alcuni prodotti
alimentari derivati da OGM. Successivamente il reg. 1139/98 è stato modificato
dal reg. 49/2000 a sua volta abrogato dal regolamento 1829/2003.
53 Anche in questo caso il regolamento, all’art.3 c.2,
stabilisce che «per i prodotti alimentari in oggetto, nei quali non risultano
essere presenti proteine o DNA derivanti da modificazioni genetiche non valgono
tali requisiti speciali supplementari di etichettatura». Come accennato nel
paragrafo i due principi negli oli di mais GM e di soia GM non vi è traccia
della manipolazione, quindi sono sottratti all’obbligo di etichettatura.
54 D. DI CARLANTONIO, op. cit., supra nt. 5, 3. Significativa
al riguardo la risoluzione del Parlamento europeo 519 del 8 aprile 1997 relativa
a un tipo di mais GM autorizzato dalla Commissione. Al punto 7 il Parlamento
“deplora in particolare che la Commissione non abbia tenuto adeguatamente conto
del principio precauzionale per quanto riguarda la salute dei consumatori, la
tutela dell’ambiente e le preoccupazioni dei produttori […]”. Significativo, per
altri aspetti, anche il considerando B, nel quale si afferma che dai verbali
della discussioni della Commissione si evincerebbe: “[…] la prova allarmante del
fatto che le pressioni economiche e commerciali hanno prevalso sulle
considerazioni di salute pubblica e protezione dell’ambiente”.
55 La dichiarazione è contenuta in allegato al comunicato
stampa della sessione 2194 del Consiglio “Ambiente” – doc. 9406/99. Per un
analisi puntuale della cronaca di quelle giornate, si vedano i quotidiani Le
Monde del 24 giugno 1999, pp. 1-3 e 17 nonché La Repubblica del 26 giugno 1999,
pp. 14-15. Tale dichiarazione fu ribadita il 9 dicembre 1999 in occasione
dell’adozione della posizione comune del Consiglio sulla allora nuova direttiva
sull’emissione deliberata degli OGM nell’ambiente, che sarebbe poi divenuta la
dir. 2001/18. Non fu adottato alcun atto ufficiale che proclamasse la moratoria
a livello comunitario, non costituendo i citati Paesi maggioranza qualificata ai
sensi del Trattato CE: a ciò si deve la denominazione di “moratoria de facto”.
Se da una parte, in base al voto ponderato vigente fino al 2004, i voti espressi
dai 7 Paesi non costituivano maggioranza qualificata, formavano al contempo una
minoranza di blocco in grado di frenare l’adozione di atti normativi. Va
considerato però come, per l’adozione di un’autorizzazione sugli OGM, il blocco
delle decisioni del Consiglio non determinasse l’impossibilità materiale della
Commissione di proseguire la procedura e concluderla. Ecco dunque che la
responsabilità del blocco non può essere fatta ricadere unicamente sugli Stati,
ma si colloca anche in capo alla Commissione.
56 D. DI CARLANTONIO, op. cit., supra nt. 5, 3.
57 D. DI CARLANTONIO, op. cit., supra nt. 5, 3. Per un’analisi
della procedura autorizzatoria, si veda: O. PORCHIA, La coamministrazione
nell’ordinamento comunitario: il caso degli OGM, in AA.VV. (R. FERRARA e I.M:
MARINO a cura di) ,Gli Organismi geneticamente modificati, Padova, Cedam, 2003,
219.
58 Sono le parole della Corte Costituzionale, Sent., 8 marzo
2006 – 17 marzo 2006, n. 116/2006, in Giurisprudenza Costituzionale, 2006, 1099,
Considerato in diritto 4.1. La sentenza, che verteva sulla costituzionalità
della legge che dava attuazione al principio di coesistenza tra colture
convenzionali, biologiche e transgeniche, offre una riassuntiva ma interessante
presentazione, nell’ottica dell’autorevole collegio, della legislazione
comunitaria, nazionale e regionale di settore –punto 4 del considerato in
diritto. Interessante nota a sentenza: P. BORGHI, Colture geneticamente
modificate, ordinamenti e competenze: problemi di coesistenza. Considerazioni a
partire da Corte cost. n. 116/2006, in Le Regioni, 2006, 961. Cfr. anche: Sent.
Corte Cost., 4 aprile 2005 – 12 aprile 2005, n. 150/2005., in Giurisprudenza
Costituzionale, 2005, 1226.
59 Raccomandazione della Commissione 2003/556/CE del 23 luglio
2003, recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori
pratiche per garantire la coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali e
biologiche, in GUCE 29 luglio 2003 L 189. Cfr: A. GERMANÒ, op. cit., supra nt.
51, 371.
60 Decisione della Commissione europea 2003/653/CE del 2
settembre 2003, relativa alle disposizioni nazionali sul divieto di impiego di
organismi geneticamente modificati nell'Austria superiore, notificate dalla
Repubblica d'Austria a norma dell'art. 95, par. 5, del Trattato CE, in GUCE 16
settembre 2003 L 230.
61 Si tratta ancora della lettura offerta dalla citata Sent.
Corte Cost. 116/2006, supra nt. 58. Significativa l’affermazione di P. BORGHI,
op. cit., supra nt. 58, XX è in rilegatura: “Ben poco spazio di manovra resta
per gli Stati membri, che possono opporsi alla circolazione di qualsiasi
organismo non autorizzato secondo la direttiva, e ai quali - specularmente, come
d'ordinario avviene nelle materie oggetto di disciplina armonizzata - è vietato
impedire o anche soltanto limitare la immissione in commercio o l'emissione
nell'ambiente di un OGM, se non nei casi previsti dalla cosiddetta «clausola di
salvaguardia» (art. 23 della direttiva)”.
La decisione della Commissione europea è stata impugnata dinnanzi agli organi
giurisdizionali comunitari. La pronuncia della Corte di Giustizia, dopo che il
primo grado confermò l’operato della Commissione, è atteso per l’estate 2007. Le
conclusioni per le cause riunite C-439/05 P, C-454/05 P Land Oberösterreich /
Commissione sono state presentate il 15 maggio del 2007 (quelle dell’avvocato
generale Sharpston sono consultabili alla pagina http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:62005C0439
:IT:HTML . Questi gli estremi della sentenza di primo grado: Tribunale di primo
grado delle Comunità europee (IV Sez.) 5 ottobre 2005, cause riunite T-366/03,
Land Oberösterreich/Commissione, e T-235/04, Austria/Commissione,
62 A. GERMANÒ, op. cit., supra nt. 51, 399.
63 P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX. L’Autore prosegue
affermando: “[…] d'altra parte, se l'art. 26 bis, par. 1, della direttiva
2001/18 consente agli Stati di adottare tutte le misure per evitare commistioni
fra prodotti, e se il par. 2 lascia intendere che fra queste misure vi possono
essere anche norme sulla coesistenza, il concetto stesso di "coesistenza"
esclude che l'uno o l'altro dei "coesistenti" venga meno (si dovrebbe, sennò,
parlare di prevalenza, ma non vi è traccia nell'ordinamento comunitario di norme
che consentano di sacrificare le colture GM per ragioni puramente economiche)”.
64 La dimensione media dei fondi delle imprese agricole in
Toscana è di sei ettari, in Lombardia è di dodici ettari, nella provincia di
Trento è di tre ettari. Al punto 1.4, primo paragrafo, della raccomandazione si
legge: “l’agricoltura europea è caratterizzata da una grande variabilità di
dimensioni delle aziende agricole e delle superfici coltivate, tra i sistemi di
produzione, i tipi di rotazione colturale e i modelli colturali per non parlare
delle diversissime condizioni naturali”.
65 D. lgs. 3 marzo 1993, n. 91 Attuazione della Direttiva
90/219/CEE concernente l’impiego confinato di microrganismi geneticamente
modificati (GU n. 78 del 3-4-1993 Suppl. Ordinario 34); D. lgs. 3 marzo 1993, n.
92 Attuazione della Direttiva 90/220/CEE concernente l'emissione deliberata
nell'ambiente di organismi geneticamente modificati (GU n. 78 del 3-4-1993
Suppl. Ordinario 34).
66 D. lgs. 8 luglio 2003, n. 224 Attuazione della direttiva
2001/18/CE concernente l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi
geneticamente modificati. (GU n. 194 del 22-8-2003- Suppl. Ordinario n. 138).
67 D. lgs. 21 marzo 2005, n. 70 Disposizioni sanzionatorie per
le violazioni dei regolamenti (CE) numeri 1829/2003 e 1830/2003, relativi agli
alimenti ed ai mangimi geneticamente modificati (GU n. 98 del 29-4-2003).
68 Vi sono inoltre determinazioni ulteriori proprie del nostro
ordinamento. Il settore più più importante è quello degli alimenti per lattanti
e bambini: mentre il DPR n.128 del 1999 impone in modo categoricoe che detti
alimenti non debbano contenere prodotti geneticamente modificati (art.3 c.2), il
d.m. 371/2001 del Ministero della Sanità da un lato ribadisce che “è escluso, in
ogni caso, l’uso di materiale derivato da organismi geneticamente modificati” ma
dall’altro aggiunge “salvi la tolleranza prevista dal reg. 49/2000 CE” (vale a
dire l’1% di residui accidentali) (art.4 c.1 del d.m. 500/94 così modificato
dall’art.1 co.I lett. b) del d.m.371/2001). Si veda: R. PAVONI, op. cit., supra
nt. 9, 449.
69 Decreto della Presidenza del Consiglio 4 agosto 2000,
Sospensione cautelativa della commercializzazione e dell'utilizzazione di taluni
prodotti transgenici sul territorio nazionale, a norma dell'art. 12 del
regolamento (CE) n. 258/97 (GU n. 184 del 8-8-2000). E. SIRSI, op. cit., supra
nt. 51, 323.
70 La sala stampa della Corte europea di Giustizia
(comunicato67/03 http://curia.europa.eu/it/actu/communiques/cp03/aff/cp0367it.htm
), che in seguito fu chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento
italiano, ha riassunto gli antecedenti con queste parole: “Il regolamento
comunitario sui nuovi prodotti alimentari prevede che gli alimenti prodotti a
partire da organismi geneticamente modificati, ma che non ne contengono più,
possono essere immessi in commercio nella Comunità mediante una procedura detta
"semplificata", per la quale è necessaria solamente una notifica alla
Commissione, qualora essi siano sostanzialmente equivalenti agli alimenti
tradizionali paragonabili: la prova può essere fornita da un organismo nazionale
di valutazione dei generi alimentari. La Monsanto Europe S.A. e altre imprese
attive nel settore della biotecnologia agroalimentare avevano ottenuto in
Francia e nel Regno Unito l'autorizzazione all'immissione in commercio di taluni
chicchi di granoturco geneticamente modificato (Bt 11 e MON 810). Il granturco
geneticamente modificato presenta una resistenza a determinati insetti ed
erbicidi. Nel 1997 e nel 1998 la Monsanto e a. hanno notificato alla
Commissione, nell'ambito della "procedura semplificata", la loro intenzione di
commercializzare prodotti provenienti da granturco geneticamente modificato,
quale la farina. L'autorità britannica competente in materia di valutazione
degli alimenti aveva in precedenza attestato che tali alimenti equivalevano,
nella sostanza, ad alimenti tradizionali. La Commissione ha trasmesso le
notifiche agli Stati membri. Nel 2000, un istituto scientifico italiano ha
rilevato, nella farina di cui trattasi, la presenza di residui di proteine
transgeniche (prodotte dal gene inserito) che, secondo tale istituto, non
presentavano tuttavia alcun rischio per la salute umana. La Repubblica italiana
considerando in particolare taluni pareri diversi di organi scientifici italiani
ha avuto dubbi in ordine all'innocuità di tali prodotti. Essa ha quindi
stabilito (con decreto 4/8/2000) una sospensione preventiva della
commercializzazione e dell'utilizzo di prodotti provenienti da tali linee di
granturco”.
71 Art. 12, par. 1 reg. 258/97: “Qualora a seguito di nuove
informazioni o di una nuova valutazione di informazioni già esistenti, uno Stato
membro abbia motivi fondati per ritenere che l'utilizzazione di un prodotto o
ingrediente alimentare conforme al presente regolamento presenti rischi per la
salute umana o per l'ambiente, tale Stato membro può limitare temporaneamente o
sospendere la commercializzazione e l'utilizzazione sul proprio territorio del
prodotto o ingrediente alimentare in questione”.
72 In merito alle analisi delle autorità italiane che
motivarono l’azione del Governo - D. DI CARLANTONIO, op. cit., supra nt. 5, nota
40 -: “Successive analisi effettuate dall’Istituto superiore della sanità sulle
quattro varietà di mais transgenico autorizzate ne attestarono la sostanziale
equivalenza solamente sotto il profilo nutrizionale ma non da un punto di vista
della composizione del prodotto (permanenza di proteine ingegnerizzate, cioè
derivanti dalle modificazioni genetiche, compresi tra 0,04 e 30 parti per
milione). […] L’istituto superiore della sanità reputò inoltre ancora «più
lesivo del principio di precauzione … la carenza di notizie derivanti dalla
precedente fase di accertamento istruttorio di detto rilascio ambientale ai fini
dell'autorizzazione semplificata»”.
73 Cfr. ordinanza T.A.R. Lazio, n. 3769 del 18 aprile – 3
maggio 2001.
74 Sent. 9 settembre 2003, causa C-236/01, Monsanto Agricoltura
Italia spa / Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Racc., 2003, I-326;
pubblicata anche in Riv. dir. agrario, 2003, p. II, 375 con nota di F. ROSSI DAL
POZZO, Il caso Monsanto ed il diritto in capo agli stati membri di impedire
l’immissione in commercio di nuovi prodotti alimentari, in Riv. dir. agrario,
2003, p. II, 399. Ampiamente anche: L. MARINI, Il principio di precauzione nel
diritto internazionale e comunitario, disciplina del commercio di OGM e profili
di sicurezza alimentare, Padova, Cedam, 2004, 225 e 255 e R. PAVONI, op. cit.,
supra nt. 9, 435.
75 Sent. TAR. Lazio 14477/04, 27 ottobre – 29 novembre 2004
(www.giustizia-amministrativa.it).
76 La sentenza della Corte europea poneva in capo al giudice
nazionale la decisione su questo punto (cfr. punto 84 delle motivazioni).
77 Per quanto riguarda le prime si veda l’art. 5. Per la messa
a coltura la procedura prevede l’ottenimento di un provvedimento autorizzativo
del Ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con il Ministro
dell’ambiente ed il Ministro della sanità, emanato previo parere di una
Commissione ad hoc. L’elenco dei requisiti, che la varietà di semi GM deve
rispettare per poter essere iscritta nel registro nazionale, è tale da far
pensare a un atteggiamento ostruzionista da parte del legislatore. L’art. 7 co.
I del decreto dispone che: “Una varietà geneticamente modificata […] può essere
iscritta nel registro nazionale solo se sono state adottate tutte le misure
appropriate atte ad evitare effetti nocivi sulla salute umana e sull'ambiente,
previste dal medesimo decreto legislativo, nonché dal principio di precauzione,
dalla Convenzione sulla diversità biologica e dal protocollo sulla biosicurezza
di Cartagena”. Il legislatore italiano, di solito poco incline a dare immediata
esecuzione agli impegni assunti a livello internazionale, questa volta si è
mosso in anticipo: quando il decreto fu emanato il protocollo di Cartagena era
stato soltanto firmato dall’Italia, ma non ancora ratificato.
78 Per un’analisi puntuale del decreto: S. CATELLANI, OGM: la
normativa del settore alimentare, Parma, Monte Università Parma, 2005, 113. Si
veda anche: F.R. FRAGALE, Organismi Geneticamente Modificati, tutela della
salute umana e dell’ambiente: Analisi della normativa comunitaria e nazionale
dalle origini alla coesistenza dei sistemi agricoli, Napoli, Sistemi editoriali,
2005, 43.
79 Sent. Corte Cost. 116/2006, supra nt. 51, Considerato in
diritto 4.2.
80 Intitolato: “Prescrizioni per la valutazione del rischio per
l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare relativamente
alle attività di rilascio deliberato nell'ambiente di OGM per qualsiasi fine
diverso dall'immissione sul mercato” (GU n. 72 del 29-3-2005). Il decreto
interministeriale doveva essere emanato entro 60 giorni dall’entrata in vigore
del d.lgs. 224/2003.
81 S. CATELLANI, op. cit., supra nt. 78, 186. F.R. FRAGALE, op.
cit., supra nt. 78, 48.
82 Decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 Disposizioni urgenti
per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica,
convenzionale e biologica, (GU n. 280 del 29-11-2004), successivamente
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5 (GU n. 22 del
28-1-2005).
83 Sent. Corte Cost. 116/2006, supra nt. 58. Commentano la
sentenza (oltre a P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58): R. MANFRELLOTTI, Il
riparto di competenze regolative nell’art. 117 della Costituzione: il caso delle
biotecnologie, in Giurisprudenza Costituzionale, 2006, 1119; M. MOTRONI, La
disciplina degli OGM a metà tra «tutela dell’ambiente» e «agricoltura», ovvero
della problematica «coesistenza» di competenze legislative statali e regionali,
in Riv. dir. Agrario, III, 2006, 202.
84 Secondo Borghi “nessuna norma può o deve riaffermare tale
"liceità", dal momento che ogni prodotto legalmente immesso sul mercato deve
ritenersi lecito senza che occorra ribadire alcunché circa il suo utilizzo”; P.
BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XXX;
85 Ampiamente sul punto: A. GERMANÒ, op. cit., supra nt. 51,
406 e ss. La norma è rimasta in vigore ma il suo significato risulta svuotato
dal fatto che la norma concernente le procedure di adozione dei piani di
coesistenza è fra quelle dichiarate costituzionalmente illegittime. Prima della
Sent. 116/2006 non era stato adottato alcun piano di coesistenza. In assenza,
dunque, di una disciplina specifica, nel caso di contaminazione di un campo
convenzionale o biologico, dovuta alla presenza di un campo (illegale) seminato
con OGM, pare plausibile la soluzione proposta da Germanò (e dagli Autori da lui
citati), vale a dire l’applicazione della disciplina delle immissioni ex art.
844 c.c..
86 Art. 6, l. 28 gennaio 2005, n. 5: “Sanzioni. I. Fatte salve
le disposizioni previste negli articoli 35, comma 10, e 36 del decreto
legislativo 8 luglio 2003, n. 224, chiunque non rispetti le misure previste dai
provvedimenti di cui all'articolo 4, comma 1, e' punito con la sanzione
amministrativa pecuniaria da euro 2.500 a euro 25.000. II. Chiunque non rispetti
le disposizioni di cui all'articolo 8, e' punito con l'arresto da uno a due anni
o con l'ammenda da euro 5.000 a euro 50.000”. Il II comma è stato aggiunto in
sede di conversione in legge del decreto.
87 Gli stralci citati di seguito sono estratti dal “considerato
in diritto”, punti 6 e 7. Diffusamente sulle motivazioni dei giudici
costituzionali: R. MANFRELLOTTI, op. cit., supra nt. 83; M. MOTRONI, op. cit.,
supra nt. 83.
88 Qui la Corte cita un suo precedente: Sent. Corte Cost. n.
12/2004 IL VOLUME DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE è A RILEGARE.
89 P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX.
90 Si veda supra, punto 5. IV.
91 P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX.
92 Ancora: P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX. , Ciò resta
vero sia che si assuma come prospettiva quella dell’ordinamento italiano -nel
d.lgs. n. 224 i due valori risultano parificati senza gerarchie-, sia che si
assuma il punto di vista del diritto comunitario -l’ordinamento della Comunità
è, nel suo complesso, più attento agli utilizzi alimentari degli OGM e alla
tutela della salute piuttosto che delle problematiche legate alla tutela
dell’ambientale-.
93 P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX.
94 P. BORGHI, op. cit., supra nt. 58, XX. L’Autore suggerisce,
e argomenta in modo interessante, un diverso percorso argomentativo che i
giudici della Consulta avrebbero potuto far propri7o nell’intento di frenare la
tendenza dei legislatori regionali ad interpretare il concetto di coesistenza in
modo così ampio da arrivare a negarlo: secondo Borghi più che l'ambiente o la
tutela della salute si sarebbe dovuto prestare attenzione al rispetto della
armonizzazione comunitaria in rapporto a quanto è affermato (e a quanto è
taciuto) dall’art. 16 della l. 11/2005 (la legge che abroga e sostituisce la l.
86 del 1989 c.d. La Pergola).
95 Per i necessari riferimenti normativi si veda supra, nt. 7.
96 D. DI CARLANTONIO, op. cit., supra nt. 5, 5.
97 Sul tema: A. SPINA, La regolamentazione degli OGM nelle
leggi regionali, in Riv. giur. Ambiente, III-IV, 2006, 564.
98 R. MONTANARO, I procedimenti e le competenze interne, in
AA.VV. (R. FERRARA e I.M: MARINO a cura di) ,Gli Organismi geneticamente
modificati, Padova, Cedam, 2003, 276.
99 I.M. MARINO, Prime considerazioni sulla disciplina interna
in materia di OGM e MOGM, in AA.VV. (R. FERRARA e I.M: MARINO a cura di) ,Gli
Organismi geneticamente modificati, Padova, Cedam, 2003, 251.
100 Ancora una volta si tratta della Sent. 116/2006:
Considerato in diritto, punto 5.
101 Il gruppo raccoglie oggi più di venti enti territorili tra
cui: Toscana, Marche, Schleswig-Holstein, Galles, Salisburghese, Austria
Superiore. Cfr. R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 455 e L. MARINI, op. cit.,
supra nt. 21, 4.
102 Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Umbria, Lazio.
103 Toscana, Campania, Veneto e Friuli-Venezia Giulia fanno
riferimento diretto solo a quest’ultimo.
104 l.r.. Toscana art. 2: “[…] La Regione Toscana vieta la
coltivazione e la produzione di specie che contengono la presenza di organismi
geneticamente modificati (O.G.M.)” e l.r. Marche art. 2: “1. Al fine di tutelare
i prodotti agricoli e zootecnici, in particolare quelli di qualità
regolamentata, non è consentita la produzione e la coltivazione di specie che
contengono OGM sull'intero territorio della Regione”
105 L'eccezione al divieto di coltura di OGM in caso di
attività di ricerca è consentito da l.r. Basilicata art. 4: “Salva la
sperimentazione autorizzata dal Min. della Salute ai sensi del decido
legislativo 12 aprile 2001, n. 206 [...] è comunque vietata la coltivazione in
pieno campo e su tutto il territorio regionale di piante geneticamente
modificate”; così anche ex art. 79 co. III della citata l.r. Lazio.
106 l.r. Abruzzo art. 3; l.r. Basilicata art. 2; l.r. Puglia
art. 2 (contenente a sua volta un’eccezione “per i terreni in uso a enti e
organismi pubblici di ricerca scientifica”).
107 l.r.. Abruzzo art. 3; l.r. Basilicata art. 5; l.r. Marche
art. 3; L.R. Puglia art. 3; l.r. Lazio art. 79 co. 4; l.r. Umbria art. 4;
nell'esperienza di Friuli-Venezia Giulia e della Provincia Trento vi è
l'istituzione del contrassegno “non geneticamente modificati” attribuibile ai
prodotti regionali non contenenti OGM.
108 l.r. Abruzzo art. 4; l.r. Basilicata art. 6; l.r. Campania
art. 3; l.r. Marche art. 7; l.r. Puglia art. 4; l.r. Toscana art. 4; l.r.
Sicilia art. 18; l.r. Veneto art. 3; l.r. Umbria art. 8.
109 l.r. Abruzzo art. 5, co. II; l.r. Basilicata art. 7, co.
II; l.r. Marche art. 4; l.r. Puglia art. 5, co.III; l.r. Umbria art. 5, co. II.
110 Nel caso dei gestori di attività commerciali che non
rispettino l'obbligo di segregazione dei prodotti OGM commercializzati è anche
prevista la sanzione interdittiva della chiusura dell'attività commerciale per
un massimo di quindici giorni. Si veda art. 15, co. III, l.r. Umbria.
111 Ordinanza n. 63, 11 luglio 2003, in Boll. uff. Regione
Piemonte, n. 28 (suppl. ord.), del 10 luglio 2003.
112 Marini segnala come in taluni casi si sia trattato di
sementi contaminate e fraudolentemente commercializzate come «esenti da OGM»; L.
MARINI, op. cit., supra nt. 21, 3. Lo stesso Autore offre i seguenti riferimenti
ai quotidiani dell’estate 2003: I trattori distruggono il mais transgenico, in
Corriere della Sera del 13 luglio 2003, p.3 e Accordo sui semi OGM vietati, in
Corriere della Sera del 19 agosto 2003 p. 16.
113 Si trattava di una delle varietà di mais i derivati del
quale erano stati banditi dal d.p.c.m. del 4 agosto 2000 e impugnato davanti al
T.A.R. dalla Monsanto. Secondo Pavoni “l’ordinanza piemontese può anche essere
vista quale misura volta ad evitare che il divieto istituito da tale decreto
venga aggirato: infatti, qualora si ammettesse la coltivazione di mais GM
accanto a mais convenzionale, diverrebbe poi impossibile distinguere i derivati
proibiti da quelli ammessi” R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 456.
114 I ricorsi furono due: uno proposto dall’impresa
responsabile della commercializzazione delle sementi ed uno proposto da alcuni
degli agricoltori interessati. Le istanze cautelari di sospensione
dell’ordinanza furono rigettate: decreti del Presidente del TAR Piemonte 16
luglio 2003, Pioneer Hi Bred / Regione Piemonte ed altri (n. 819), Beltramino ed
altri / Regione Piemonte ed altri (n. 820); www.giustizia-amministrativa.it (nel
preambolo dell’ordinanza si legge: “il rischio di contaminazione ambientale e
delle colture circostanti ad opera del polline rilasciato dalle colture OGM [..]
richiede un intervento il più possibile rapido e tempestivo a fronte
dell’attuale avanzato stadio di maturazione del vegetale”). I due ricorsi sono
stati ritirati prima della discussione di merito.
115 Decisione della Commissione 98/294 del 22 aprile 1998, in
GUCE 5 maggio 1998 L 131.
116 R. PAVONI, op. cit., supra nt. 9, 456.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 21/07/2007