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IL MOBBING CONIUGALE

 

ALESSANDRO DE VINCO

 

 

 

Poter dare una definizione precisa e puntuale del fenomeno “mobbing coniugale” è un’operazione ardua e potenzialmente farraginosa vista la mancanza di un interessamento e/o un consolidato orientamento sia giurisprudenziale che dottrinario, ma utile risulta, per ben identificare il fenomeno, porre pochi cenni sull’evoluzione del termine “mobbing”, soprattutto nell’ambito del diritto del lavoro.

 

Anche per l’origine del termine sussiste incertezza atteso che vi è chi attribuisce la derivazione dalla locuzione latina “mobile vulgus” che significa letteralmente “movimento della gentaglia” e chi propende per l’attribuzione dal verbo inglese mob: attaccare, aggredire in massa; esso fu coniato per la prima volta, alla fine degli anni settanta, dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere il comportamento di alcuni volatili che assalivano un proprio simile in modo tale da allontanarlo e, quindi isolarlo, dal branco.

 

Preso in prestito dal mondo animale, nel 1984, Leymann e Gustavsson presentarono in un libro la descrizione delle ripercussioni di chi patisce nel proprio ambiente di lavoro un comportamento sfavorevole e prolungato da parte di colleghi o superiori; nella loro opera i due autori forniscono, per la prima volta, una definizione del mobbing come strategia di persecuzione psicologica attuata in un ambiente di lavoro per costringere la vittima in una posizione di debolezza e, nei casi più gravi, per costringerla alle dimissioni. Notevoli possono essere in concreto le modalità di attuazione mobbing sui luoghi di lavoro, tanto che individuare dei comportamenti “tipo” è pressoché inattuabile, potendosi solo porre pochi esempi di coercizione psicologica e fisica che possono aiutare a ben comprendere e quindi ad individuare il fenomeno in esame.

 

Il mobbing può essere “verticale” se posto in essere da i superiori gerarchici, posto in essere, quasi esclusivamente, per ottenere le dimissioni del dipendente sgradevole, eludendo così la disciplina garantista del diritto del lavoro evitando fastidiose e dispendiose dispute giudiziarie, esempi comuni potrebbero essere: sottrarre lavoro gratificante per affidarlo ai colleghi; oppure attraverso la dequalifcazione delle mansioni stesse che vengono ridotte a compiti banali quali fare caffè o fotocopie o comunque a compiti molto operativi e con scarsa autonomia decisionale. Altra pratica diffusa è quella dei rimproveri e/o richiami, espressi in privato ed in pubblico, per errori normalmente trascurabili. Ancora la pratica si manifesta nel fornire volontariamente attrezzature di lavoro di scarsa qualità, computer e stampanti che si guastano, arredi scomodi, ambienti male illuminati. Il mobbing, inoltre può essere anche “orizzontale”, ovverosia posto in essere dai propri colleghi e si individua soprattutto in atti di sabotaggio o di scarsa collaborazione del lavoro del mobbizzato in modo tale da far intervenire le azioni disciplinari che talvolta possono addirittura comportare il licenziamento del malcapitato.

 

Nell’ambito del diritto di famiglia il fenomeno mobbing assume caratteri maggiormente complessi e disordinati per la mancanza assoluta di uno studio proficuo e descrittivo del fenomeno, aggravato dalla scarsa praticabilità nell’ambito giudiziario quale causa di separazione dei coniugi. Il mobbing familiare o coniugale è sempre esistito, palesandosi con comportamenti e molestie psico-fisiche, inflitte dai suoi stessi familiari, che portano la vittima a smarrire gradatamente l'autostima deputati solo per sminuire l'altro e distruggerne, così, la sua personalità un maltrattamento, quindi, vissuto nel privato delle mura domestiche e per questo difficile da vedere e da dimostrare. I maltrattamenti si manifestano con cadenza quotidiana, sistematica, duratura e naturalmente gratuitamente. Riguardano maggiormente il ruolo che l'altro ha nella famiglia, il suo aspetto fisico, l'intelligenza e la scarsa potenzialità reddituale. La vittima subisce un vero e proprio “lavaggio del cervello” finendosi per vedersi come il persecutore (mobber) la dipinge, deformandone la propria personalità e comportando un malessere fisico e psicologico talvolta grave. Nella maggior parte dei casi il mobbing è un metodo subdolo ed astutamente messo in pratica per indurre nella vittima a deprimersi facendole credere di essere una completa nullità o per cercare di farla allontanare dalla casa familiare. Tali “attentati psicologici”, non agiscono mai sul piano fisico come una violenza, una spinta, ma giorno dopo giorno, creano un clima fortemente refrattario attuando un processo di distruzione psicologica; il mobbing coniugale si manifesta generalmente nelle famiglie meno abbienti, a basso reddito e di medio-bassa cultura, dove la denuncia dei maltrattamenti è poco praticata per un intrinseco senso di vergogna e di paura.

 

Nella maggior parte delle volte il “mobbing coniugale” si manifesta con le seguenti manifestazioni, che hanno solo carattere descrittivo e che non possono, in alcun modo, essere considerate come esaustive del fenomeno:


• Apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici e conoscenti.
• Palesi e teatrali atteggiamenti di disistima.
• Provocazioni continue e sistematiche.
• Tentativi di sminuire il ruolo in famiglia.
• Coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari.
• Sottrazione di beni comuni.
• Mancato supporto alla vittima nel rapporto con gli altri familiari.

Si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”, consentendone così l’asilo nel diritto di famiglia, da una sentenza della Corte di Appello di Torino che ritenendolo, in motivazione, causa giustificante della addebitabilità ha individuato determinati comportamenti lesivi della dignità del coniuge e quindi in contrasto con i doveri che derivano dal matrimonio. Nella sentenza si può infatti leggere: i “comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; si legge ancora nella sentenza che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing - con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali condotte sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”. (Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000).

 Sentenza quest’ultima fondamentale nella disciplina del mobbing familiare perchè per la prima volta, nella giurisprudenza italiana, il fenomeno mobbing viene sdoganato dalla disciplina del diritto del lavoro per essere utilizzato nel delicatissimo ambito familiare quale elemento di addebitabilità della separazione.

 

Come è noto, la pronuncia di addebitabilità della separazione può essere richiesta solo quando il comportamento di uno dei coniugi contrasta vistosamente con i doveri nascenti dal matrimonio, principalmente gli artt. 143 e 145 c.c. ( alcuni esempi: la mancanza di attività sessuale; l'offendere il decoro e l'onore del coniuge; il divieto di intrattenere rapporti extra familiari; la gelosia morbosa; l'ostacolare ogni attività di carattere religioso, culturale, politica, assistenziale ed altre ancora; il far mancare al coniuge più debole quanto necessario per il sostentamento o per una vita dignitosa), ma la Corte Suprema di Cassazione ha più volte precisato che “…ai fini dell'addebitabilità della separazione il giudice di merito deve accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell'intollerabilità dell'ulteriore convivenza, o se piuttosto la violazione dei doveri che l'art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa”.

 

Il mobbing coniugale non può solo essere considerato quale “semplice” motivo di addebbitabilità della separazione, atteso che le conseguenze dell’addebito comporta (che si sostanziano nella perdita del diritto al mantenimento e dei diritti successori, nonché l’obbligo del pagamento delle spese processuali), ma visto la notevole carica lesiva delle aggressioni del mobber (dalla perdita della stima personale a quella genitoriale e professionale, dall’aggressione morale in ambito familiare a quella in ambito sociale), non può non aprire l’orizzonte all’ingresso, nel nostro ordinamento, della responsabilità civile anche nei rapporti coniugali e, di conseguenza, della risarcibilità dei danni ex art. 2043 cc, subiti dalla vittima del mobbing familiare.

 

Tale ultima norma, infatti, esprimendo il principio del risarcimento del danno da fatto illecito non pone alcuna forma di limitazione.

 

L’illeicità della condotta idonea per il risarcimento del danno ex art. 2043 cc. è estranea dai parametri dei doveri coniugali predisposti dagli artt. 143 e 145 del codice civile, ma si basa su comportamenti che ledono, “ingiustamente”, la personalità, la stima e le aspettative dell’altro coniuge e, quindi, riassumendo nei comportamenti costituenti il “mobbing coniugale”.

 

Pertanto, attesa la mancanza di una corrente giurisprudenziale significativa sulla tematica del mobbing conigale non si sia ancora sviluppata, appare utile soffermarci su due sentenze della magistratura di merito che si interessano del risarcimento del danno nei rapporti coniugali, ci si riferisce principalmente sia alla sentenza del Tribunale di Milano del 10/02/1999 che alla sentenza del Tribunale di Firenze del 13/06/2000.

 

Nella prima pronuncia, il tribunale milanese, nel corso del giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, si trova investito dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per la carenza di rapporti sessuali tra i coniugi a causa della impotenza del marito sin dai primi anni del matrimonio, che aveva procurato una danno biologico ed alla vita di relazione, della moglie, per mancata maternità. Il Tribunale ambrosiano, però, respinge senza indugio tale domanda con la giustificazione della presenza di una consapevolezza in capo alla moglie sin dall’inizio del matrimonio di questa patologia di cui il marito è affetto e, conseguentemente, il mantenimento del consortium familiare per anni si è tradotto in una libera scelta della moglie stessa. Ma l’aspetto interessante della pronuncia del Tribunale di Milano risulta essere, soprattutto, l’apertura dello stesso al riconoscimento della responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali, anche se nel caso di specie, per la pregressa posizione di conoscenza e quindi di accettazione della malattia aveva escluso categoricamente l’elemento fondante della responsabilità, ovverosia la ingiustizia del danno. Egli sostiene, anzitutto, la piena compatibilità della regola generale di cui all’art.2043 c.c. con quelle contenute nel diritto di famiglia e secondariamente fa leva sulla natura giuridica e non soltanto morale dei doveri nascenti dal matrimonio, giungendo ad affermare che essi rappresentano una vera e propria posizione giuridica di diritto soggettivo del coniuge ed in quanto tale meritevole di protezione. Il Tribunale di Firenze, invece, sempre nell’ambito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, basata su ragioni di abbandono materiale e spirituale determinate da malattia psichica della moglie accoglie la domanda di risarcimento del danno, basando la propria decisione su argomentazioni che, mirabilmente, rappresentano la chiave di lettura per consentire l’ingresso della tutela risarcitoria nella delicatissima disciplina del diritto di famiglia. Infatti secondo i giudici fiorentini nel rapporto di coniugio i diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla salute, all’immagine, alla personalità, all’onore ecc., restano sempre e comunque sacri ed intangibili, ed ogni aggressione merita la risposta punitiva da parte dell’ordinamento anche e soprattutto con il risarcimento del danno patito dal soggetto “aggredito”. Discorso diverso se ’illecito rientra nella fattispecie di reato di cui all’art.570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) o art.572 c.p. (delitto di maltrattamento in famiglia). In tali casi, la risposta sanzionatoria all’illecito penale è fornita anche attraverso un nuovo strumento coniato dal legislatore con la L.04/04/2001 n.154 di tutela contro i soprusi nell’ambito della famiglia.



Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 31/03/2007

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