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Il conferimento della carta da macero dalle piattaforme alle cartiere: materia prima secondaria o (ancora) rifiuto?


(Note critiche alla sentenza della Cassazione penale n. 5804/2008)
 


PASQUALE GIAMPIETRO*
 

 


1. La vicenda esaminata.

Sulla annosa e, per alcuni versi, ancora irrisolta questione della fase terminale delle operazioni di recupero dei rifiuti - cui si riporta la formazione delle materie prime secondarie o materie secondarie, ex art. 181 bis del T.U. ambientale, novellato dal d. lgs. n. 4/2008 - e sul connesso tema dell’utilizzo di queste ultime presso altra impresa (o soggetto terzo) rispetto al detentore/recuperato originario, è tornata, da ultimo, la Corte di cassazione, sez. III pen., con sentenza 6 febbraio 2008, n. 5804 - decidendo un caso in cui talune ditte, dopo aver lavorato la carta da macero, presso le rispettive piattaforme, la fornivano ad una cartiera per il suo utilizzo appunto come m.p.s.

Scorrendo la decisione di primo grado del Tribunale di Tivoli, del 17.1.2007 (depositata l’8.2. 2007) - contro cui era ricorso il P.M. in sede - si apprende che, in alcune piattaforme, il c.d. “macero” veniva sottoposto ad operazione di “cernita e adeguamento volumetrico” e quindi ceduto ad una cartiera che “senza alcun trattamento preventivo.. la utilizzava “… allo stesso modo in cui, al posto della carta da macero, si usa la cellulosa” (materia prima vergine).

Il Tribunale assolveva tutti gli imputati dal reato di attività di recupero, in concorso fra loro, senza autorizzazione, sulla considerazione che la cartiera aveva utilizzato una m.p.s. (e pertanto non era tenuta ad essere autorizzata) e le piattaforme avevano svolto un’attività di recupero, ai sensi dell’art. 183, del T.U. ambientale, che, a suo dire (ma erroneamente), non sarebbe soggetta ad alcun atto assentimento.

La Suprema Corte annulla la sentenza (con rinvio alla Corte d’Appello di Roma), osservando, con riferimento ai titolari di piattaforme, che l’attività di recupero (di cernita ed adeguamento volumetrico) doveva essere assoggettata (nel precedente come nell’attuale regime giuridico) ad autorizzazione o a “comunicazione” (ex artt. 28 o 31/33 del decreto Ronchi).


2. Cernita ed adeguamento volumetrico come attività di recupero.

La decisione merita attenta considerazione con riferimento alle seguenti affermazioni di principio che meritano di essere partitamente commentate:

A) “le operazioni poste in essere” dagli imputati titolari di piattaforme (“cernita ed adeguamento volumetrico”) devono “essere qualificate quale recupero e smaltimento .. e, in quanto tali, soggette ad autorizzazione”.

Il rilievo va condiviso (in relazione alla dichiarata mancanza della autorizzazione o “comunicazione”, nel caso giudicato), salvo a precisare che, nella fattispecie, dette operazioni dovevano essere considerate di “recupero”, ex lett. R3, dell’Allegato C), del decreto Ronchi e ex punti 1.1.3. e 1.2.3. del D.M. 5.2.1998 e non di “smaltimento di rifiuti, ex lett. D13 e D14, dell’allegato B.

Risulta, pertanto, imprecisa l’espressione usata in sentenza con la congiunzione “e” invece che con la disgiuntiva “o”, attesa la distinta, e si direbbe, opposta finalità delle due attività: la prima, destinata a recuperare materia o energia dai rifiuti; la seconda, a confinare definitivamente il rifiuto, previo trattamento funzionalizzato a tale specifico scopo1.

B) con riferimento alle operazioni di recupero ex R3 cit., si richiama, nella decisione, il D.M. 5.2.1998, punti 1.1.3., tanto con riferimento:
- alla lett. a), “riutilizzo diretto nella industria cartaria” quanto:
- alla lett. b), “riutilizzo in cartiere”,

con ciò ammettendosi, implicitamente, che il riutilizzo può riguardare la carta da macero- m.p.s. anche “tal quale”, senza operazioni di recupero (cioè m.p.s. sin dall’origine).

Prosegue la Corte, proiettandosi sulla normativa vigente, nel senso che: Il nuovo T.U. del 2006 - “il quale ha introdotto la nozione, tra l’altro, di materia prima secondaria -” non giustifica “conclusioni diverse” (ai fini del regime processuale relativo alle norme sopravvenute, eventualmente più favorevoli all’imputato, ex art. 2 c.p., e quindi applicabili in suo favore).

La sentenza conferma, altresì, l’attuale vigenza e cogenza del D.M. 5.2. 1998 (e 12 .6.2002, n. 161, per i rifiuti pericolosi), fornendo una interpretazione sulla “cessazione delle operazioni di recupero”, ex art. 181, comma 12 (prima versione) del tutto corretta (v. oltre).

C) Richiamando il contenuto dell’art. 183, comma primo, lett. h), sulla nozione di recupero, la Corte rileva poi opportunamente che” le operazioni di cernita e selezione della carta o cartone da macero”, poste in essere dalle imprese fornitrici della cartiera, dovendo inquadrarsi in “quelle di recupero dei rifiuti”, sono soggette ad autorizzazione o a comunicazione (nel caso, mancanti).


3. Sulla asserita natura di rifiuto del materiale, oggetto di recupero, in quanto “disfatto”.

L’ultimo passaggio argomentativo della Corte, per giustificare la condanna degli imputati, fondato sul richiamo all’art. 181, comma 12 e 13, risulta per più versi:
1) impreciso e non pertinente; oltre a contenere:
2) una affermazione di principio che non sembra conforme al sistema vigente.

D) Questo il brano: “ Peraltro, proprio su tale ultimo punto va, infine, osservato che la disciplina in materia di gestione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 181, commi 12 e 13, del D. Lgs n. 152/06 non si applica alle sostanze utilizzabili come materia prima secondaria a condizione che “il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene”.

“Orbene, nel caso in esame si tratta di materiali di cui, in ogni caso, il detentore si era già disfatto, dovendo il termine essere univocamente riferito al detentore originario della sostanza utilizzabile come materia prima secondaria, sicché anche ai sensi delle disposizioni citate il materiale oggetto delle descritte operazioni di recupero non si sottrae alla applicazione della normativa in materia di rifiuti”.

Merita osservare - per l’imprecisione indicata sub 1) - che il richiamo al comma 13 non é in alcun modo pertinente, in quanto, nella vicenda in esame, non si consideravano delle m.p.s. fin dall’origine, senza necessità di trattamento ma, come ricordato, sottoposte a “cernita e selezione” (cioè a recupero).

In ordine alla interpretazione data all’ultima proposizione del comma 12, (“a condizione che il detentore non se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene”) – con riferimento al rilievo di diritto sub 2 - è piuttosto evidente la svista interpretativa in cui è incorso quel Collegio.

Leggendo, per intero, detto comma e riconducendo la condizione finale (come sopra trascritta) nel testo e contesto dell’intera frase, si coglie, infatti, il diverso significato e la distinta ratio che il legislatore ha voluto attribuire ad essa, vale a dire:

- la disciplina dei rifiuti non è più applicabile e cede il posto a quella sul commercio dei prodotti quando terminano, perché completate, le operazioni di recupero del rifiuto (che non ha più bisogno di ulteriori trattamenti in quanto ha già raggiunto le caratteristiche merceologiche imposte, in via transitoria, dal D.M. 5.2.1998, per le m.p.s.: per es. le specifiche delle norme UNI-EN 643 per la m.p.s. - proveniente dal rifiuto/carta da macero - destinate all’industria cartaria, ex punto 1.1.4).

A questo punto, prosegue, coerentemente, il comma 12, “i materiali o gli oggetti ottenuti” (dal recupero) “possono essere usati in un processo industriale” (per es. della stessa impresa che ha prodotto la materia prima secondaria) “o commercializzati” (presso ditte terze, cioè conferiti, venduti, ecc. per ricavarne un vantaggio economico).

In quest’ultimo caso, l’atto di commercio avrà per oggetto, un bene descritto – dal comma 12 - “… come materia prima secondaria, combustibile o come prodotto da collocare” (sul mercato)-, non un rifiuto!

Si pone in questo contesto logico e cronologico – come alternativa all’atto di commercio – la ulteriore condizione negativa descritta (che “il detentore non se ne disfi o non abbai deciso di disfarsi”).

Essa vuol significare, del tutto coerentemente con il sistema delineato e voluto dal legislatore, che se la m.p.s. (o il combustibile o il prodotto), per i motivi più diversi e/o contingenti (di mercato, personali, economici, ecc.), cioè leciti ma anche illeciti, viene destinata, nel momento considerato (“si disfa”) o in futuro (“abbia deciso di disfarsi”) allo smaltimento o all’abbandono illegale, ex art. 1922, la m.p.s. diventa, per volontà del detentore, un rifiuto3.

Questo, e non altro, è il contenuto proprio del comma 12 dell’art. 181, secondo il significato fatto palese dalle parole usate dalla norma, dalla sua ratio e dal doveroso rispetto dei principi giuridici che conformano la normativa sulla definizione del rifiuto e del non rifiuto, sia in sede comunitaria che in sede nazionale.

Il termine “commercializzare” - usato dal legislatore interno, ma ripreso dalla giurisprudenza della Corte di giustizia - esclude ogni possibilità all’interprete (compreso il giudice ordinario, pur soggetto, anche se soltanto, alla legge, ex art. 101 Costituzione) di arrivare alla conclusione di vietare l’alienazione delle m.p.s., sostanze o prodotti (ottenuti dal recupero) e/o di interpretare quell’atto di commercio come una forma di “disfarsi di una sostanza od oggetto” nel significato proprio dell’art. 183, comma 1, lett. a), destinato alla definizione dei rifiuti.

*** Ciò perché, all’atto di cedere la sostanza a terzi (cioè di “commercializzarla”) essa è già qualificabile giuridicamente (ma anche merceologicamente) come merce!

In definitiva, se le Società di gestione delle piattaforme, come ritiene la S.C. (“detentori originari”) avevano compiuto “operazioni di cernita e selezione della carta”; e se tali operazioni “… dovevano inquadrarsi tra quelle di recupero e soggette alla relativa disciplina” (pag. 4, primo capoverso della sentenza), risulta totalmente fuorviante - perché dissonante con il sistema normativo interno e comunitario – la ulteriore deduzione tratta da quel Collegio, secondo cui “.. il materiale oggetto delle descritte operazioni di recupero non si sottrae alla applicazione della normativa in materia di rifiuti” in quanto nel caso in esame “…si tratta di materiali di cui, in ogni caso, il detentore si era già disfatto dovendo il termine essere univocamente riferito al detentore originario della sostanza utilizzabile come materia prima secondaria”.

Come rilevato, infatti, i “detentori originari” del rifiuto-carta da macero (le piattaforme), lo avevano preventivamente trasformato in m.p.s., come riconosce la S.C. e pertanto, nel momento in cui lo conferivano alla cartiera, non se ne “disfacevano” - per la prima volta (per inviare quel materiale allo smaltimento o al recupero, secondo la nozione tecnico-giuridica del “disfarsi”) - ma, trattandosi di m.p.s. (come non dubita detto giudice ), lo “commercializzavano… come materia prima secondaria o prodotto da collocare” (sul mercato), in base a quanto detta testualmente il comma 12, dell’art. 181 esaminato.

Ove si voglia ragionare secondo la logica della sentenza, in esame, a che gioverebbe - per le piattaforme e/o per le cartiere - essersi sobbarcati alle operazioni di recupero? Che logica avrebbe un sistema giuridico che sollecita e promuove il recupero e poi considera il risultato ottenuto da quelle operazioni di trattamento recuperatorio (assai costose) ancora rifiuti?

Come far passare una interpretazione grammaticale, logica e giuridica – quale quella proposta da detto Collegio - che attribuisce alla parola prodotto il senso di rifiuto e all’espressione legislativa (ex art. 181, comma 12) “commercializzare un prodotto” quella, affatto diversa, di “disfarsi di un rifiuto?

4. La sentenza n. 5804/2008 si pone in dissonanza con il decreto correttivo del 2008 e con la giurisprudenza precedente, interna e dell’U.E.

Il convincimento espresso in questa isolata decisione – che finirebbe, fra l’altro, col vanificare il concetto stesso di materia prima secondaria e, più in generale, delle attività di recupero (vista invece con assoluto favore dal legislatore comunitario e nazionale) - si pone in contrasto tanto con i dati normativi indicati che con noti indirizzi della giurisprudenza (interna e comunitaria).

1) Sul chiaro tenore dell’art. 181, comma 12, si è detto sopra (quanto alle m.p.s. o prodotti “che possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria …”.).

Merita invece aggiungere che anche il vigente art. 181-bis, voluto da un legislatore più severo (quello del secondo correttivo), nel pretendere che le m.p.s. (come le sostanze e i prodotti secondari) abbiano anche “un effettivo valore economico di scambio sul mercato” (lett. e), ne prevede e consente espressamente la commercializzazione (e non il semplice uso proprio del detentore originario), da leggere, correttamente, come il passaggio di un bene da un soggetto (originario detentore) ad un altro, riutilizzatore (e non, come ipotizzato in sentenza, come il comportamento di un soggetto che si disferebbe di qualcosa, rendendola per ciò solo un rifiuto).

2) La sentenza risulta, come accennato, isolata nel panorama della giurisprudenza italiana che, anche di recente, ha avuto occasione di delimitare l’ambito di pertinenza delle m.p.s. confermando la loro estraneità, nel rispetto di certe condizioni, alla normativa sui rifiuti5.

3). La pronuncia, in esame, contiene un ulteriore passaggio, parimenti non condivisibile, che si pone in contrasto anche con gli orientamenti del giudice amministrativo. Mi riferisco al punto in cui quel Collegio sembra riprendere una argomentazione del P.M. ricorrente, (non si capisce bene se per farla propria successivamente) secondo il quale i rifiuti, pur dopo gli interventi di recupero (vale a dire la cernita e la selezione), “non perdono tale natura all’esito delle citate operazioni” in quanto “la riutilizzazione della carta da macero come materia prima secondaria nel ciclo produttivo presuppone inevitabilmente l’impiego di ulteriori trattamenti, oltre la mera cernita e selezione” (v. p. 2 della sentenza).

Anche questa affermazione non risulta convincente, per almeno due ragioni:

- in primo luogo, il D.Lgs. 152/06 (già in vigore, pendente il giudizio di cassazione), all’art. 183, comma 1, lett. h (recupero) aveva espressamente incluso la cernita e la selezione tra i trattamenti che un rifiuto può subire per essere recuperato come m.p.s. (ovvero combustibile o prodotto);

- in secondo luogo perché il DM 5.2.98 (che introduce specifiche tecniche o standard tecnici relativi alle diverse tipologie di sottoprodotti o m.p.s. ) individua la selezione e la cernita (intesa anche come eliminazione di impurezze e di materiali estranei e/o contaminanti), unitamente al compattamento, come operazioni idonee al raggiungimento di una qualità di macero che sia conforme alle norme Uni En 643 (cioè, appunto, una materia prima secondaria)6. Come risaputo, il decreto del ’98 è recepito dalla legge primaria, tramite il rinvio contenuto nell’art. 181-bis, comma 3.

Su questo tema merita, da ultimo, segnalare la condivisibile e argomentata motivazione di TAR Friuli Venezia Giulia, 10 maggio 2007 n. 342, il quale, oltre a ribadire che il concetto di “recupero” - del (vecchio) testo dell’art. 183 - poteva ben comprendere le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, anche attraverso cernita e selezione, chiarisce che “… l’obiettivo di fondo cui si ispira la disciplina in materia di rifiuti, contenuta ora negli artt. 179 e ss. del D.Lgs. n. 152/2006, è quello, a tutela dell’ambiente, di favorire progressivamente la riduzione della produzione di rifiuti (art. 179), ciò che, in primo luogo, comporta la riduzione dello smaltimento nelle discariche mediante riutilizzo, reimpiego e riciclaggio - ovverosia recupero - e trasformazione dei rifiuti in prodotti commerciabili quali ad es. il compost da usare in agricoltura e il CDR per produrre energia. Oltre al miglioramento della tutela ambientale si raggiunge così l’ulteriore obiettivo di rendere i rifiuti un bene economico, ciò che spiega bene l’incentivo di cui all’art. 3, comma 40 della L. n. 549/95 (art. 181 D.Lgs. n. 152/2006).”

4) come già accennato, la sentenza n. 5804/08 opera una certa confusione tra smaltimento e recupero, identificando le attività degli imputati talvolta come recupero, talaltra come smaltimento7.

In tema, sembra utile richiamare le riflessioni critiche del TAR Friuli cit. che, non trovando coerente ammettere che la cernita e la selezione siano, allo stesso tempo, operazioni di smaltimento e di recupero (al di là del dato letterale – invero dirimente – fornito dall’art. 183 cit., prima versione, che le qualifica “di recupero”) ha osservato:

“… la distinzione tra … smaltimento e … recupero, nel caso di produzione di compost e CDR, [ma il principio può valere anche per le m.p.s.] non può fondarsi sull’elencazione delle «operazioni di smaltimento» di cui all’allegato B, alla Parte IV, del D.lgs. n. 152/2006. Se è vero, infatti, che sotto la rubrica «operazioni di smaltimento» figurano anche, in via residuale, i trattamenti biologici e fisico-chimici non specificati altrove, occorre anche tenere presente che, nel “Nota Bene” che precede l’elencazione delle operazioni di smaltimento, si ha cura di precisare che l’elencazione in questione riguarda le operazioni «come avvengono nella pratica», e non assume quindi valenza normativa cogente, rispetto alla quale normativa, anzi, la previsione si pone in contrasto, posto che l’obiettivo finale è quello di non portare a smaltimento e cioè a discarica i rifiuti che possono essere trattati, sottratti alla destinazione in discarica e destinati a utilizzazione commerciale: il che, con riferimento al caso di specie (produzione di compost e CDR), trova poi conferma nel successivo allegato C, il quale, sotto la rubrica «operazioni di recupero», contiene anche la voce R3, riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi, ivi comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche.”

5) ma, soprattutto, l’applicazione del “canone” del disfarsi al trasferimento del recuperatore (v. retro, par. 3) si pone in rotta di collisione con gli indirizzi più consolidati della Corte di Giustizia che, chiamata a decidere in ordine alla contrapposizione fra residuo produttivo e sottoprodotto, ovvero tra rifiuto e m.p.s., ha ritenuto il sottoprodotto e le materie prime secondarie, a certe condizioni, vera e propria “merce” (una volta formatasi), secondo i criteri già ricordati8.

In particolare, per approfondimenti decisivi, si consideri la sentenza “pilota” della C.G.C.E. 18 aprile 2002, causa C-9/2000 (Palin Granit Oy cit.), cit.9 e, riassuntivamente, la più recente decisione dell’1 marzo 2007, causa C-176/05, cit. in cui la Corte di Lussemburgo – con riferimento alle farine animali prive di sostanze a rischio - afferma che esse costituiscono materia prima in un impianto di produzione di alimenti per animali (da compagnia) ovvero rifiuti, a seconda della concreta volontà del detentore (che intenda riutilizzarle o farle utilizzare tal quali ovvero disfarsene, con operazioni di recupero o smaltimento).

Da ultimo la Corte di giustizia10, pur censurando la formulazione dell’art. 14, della legge italiana n. 178/2002, sulla interpretazione autentica della nozione di rifiuto (abrogata dal successivo T.U. 2006), ha avuto modo di confermare una lunga tradizione di espresso riconoscimento della categoria delle m.p.s. e dei sottoprodotti, in questi termini riassuntivi:
“37)… Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione - che non è principalmente destinato a produrlo - può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare11 – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto12 – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo , a condizione che tale riutilizzo sia certo14 , senza trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione15 o di utilizzazione16 (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, citata, punti 34-36; 11 settembre 2003, causa C 114/01, Avesta Polarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33-38; Niselli, citata, punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61)”.


5. La Cassazione trascura i più recenti approdi della Commissione CE, in tema di rifiuti.
Sulla complessa problematica delle m.p.s. e dei sottoprodotti – come contrapposti alla nozione di rifiuto – allo scopo di portare chiarezza sugli aspetti più critici della relativa disciplina17, la Commissione U.E. il 21 febbraio 2007, ha redatto una “Comunicazione interpretativa sui rifiuti e i sottoprodotti18 (affatto trascurata nella decisione in esame) che merita riassumere nei seguenti termini.
La Commissione dà atto che, per le difficoltà della contrapposizione (fra rifiuti e m.p.s. o sottoprodotti), gli Stati membri possono essere in disaccordo sul tema perché nella legislazione comunitaria in materia di rifiuti non esiste una definizione giuridica di concetti quali "sottoprodotto" o "materia prima secondaria".

Allo scopo, pertanto, di rafforzare la certezza del diritto; facilitare la comprensione e l'applicazione della definizione di rifiuto; contribuire ad armonizzare l'interpretazione della legislazione in materia di rifiuti nell'Unione europea; “ fornire alle autorità competenti alcuni orientamenti che permettano loro di stabilire, caso per caso, se determinati materiali costituiscono rifiuti o meno19 nonché “… informare gli operatori economici sul modo in cui tali decisioni sono adottate”, l’Esecutivo comunitario finisce con l’adottare le sue (autorevolissime) definizioni, anche se in termini di “comunicazione interpretativa” e non di “interpretazione giuridica“ ufficiale20.

Ci limiteremo, in proposito, a richiamare i seguenti “convincimenti” della “comunicazione” - definiti, più semplicemente, “linee guida” (v. par. 2.2.1), anche se – vale sottolinearlo – radicati sulle decisioni più innovative della C.G.C.E.:

– a) si ratifica, in modo chiaro, che dallo stesso processo produttivo si possono ottenere “uno o più prodotti primari” e che “il sottoprodotto è un residuo di produzione che non costituisce rifiuto”21;
– b) a fronte della genericità delle disposizioni normative, resta fondamentale, per la definizione di rifiuto, la volontà del produttore/detentore espressa nell’attività di “disfarsi” della sostanza: “La definizione di rifiuto contenuta nella direttiva 2006/12/CE si riferisce all'allegato 1 della stessa e all'elenco europeo dei rifiuti, stabilito dalla decisione 2000/532/CE22. Pur tuttavia, essendo queste fonti indicative, la definizione si articola fondamentalmente intorno alla nozione di "disfarsi";
– c) si prende atto e si avalla, dal noto caso del “letame spagnolo”, la scelta della C.G.C.E. secondo cui il riutilizzo del sottoprodotto può avvenire anche al di fuori del processo produttivo che lo ha generato e, dunque, in un diverso processo produttivo e presso terzi: “… il letame non è da considerasi rifiuto se utilizzato come fertilizzante nell'ambito di una pratica legale di spargimento su terreni ben individuati indipendentemente dal fatto che i terreni siano situati all'interno o al di fuori dell'azienda in cui è stato prodotto l'effluente”23;
– d) si riconosce la possibilità di intervenire sul sottoprodotto, prima che sia utilizzato, con trattamenti minimi – che formano parte integrante del processo di produzione cui possono partecipare anche gli utilizzatori successivi o le aziende intermediarie - purché non rientrino in una vera e propria “operazione di recupero” 24;
- e) si forniscono specifici esempi di “non rifiuti” da considerare materie prime con riferimento:
- alle “scorie di altoforno” (“Le scorie di altoforno possono essere utilizzate direttamente al termine del processo di produzione, senza doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che sia parte integrante del processo di produzione in corso (ad esempio, la frantumazione, per ridurle alle dimensioni richieste). Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non si applica a questo materiale”);
- ai sottoprodotti dell’industria agroalimentare “utilizzati massicciamente, come materie prime, per produrre mangimi direttamente dagli agricoltori” o da terzi “ fabbricanti di alimenti composti per animali”;
- ai “sottoprodotti della combustione (“gli impianti di desolforazione di fumi eliminano lo zolfo dai fumi generati dall'impiego di combustibili fossili solforosi nelle centrali elettriche, per (ridurre) l'inquinamento dell'aria e alle piogge acide. Il materiale che ne deriva, gesso da impianti di desolforazione di fumi (FGD), trova le stesse applicazioni del gesso naturale e in particolare viene utilizzato nella produzione di pannelli”).

Ma, ai fini della presente nota - e con specifico riferimento alle “materie prime” costituite dalla carta da macero, date certe condizioni (per quanto attiene al settore industriale della carta, cartoni e pasta per carta) merita porre in evidenza il pensiero della Commissione su: “ i trucioli, i cascami, la segatura di legno non trattato25.
Si osserva, in proposito, che tali scarti:
“… sono prodotti nelle segherie o nell'ambito di operazioni secondarie, come la fabbricazione di mobili o pallet e il confezionamento, contemporaneamente al prodotto principale, ovvero il legno lavorato. Questi elementi sono poi impiegati come materie prime per la produzione di pannelli in legno, come quelli in truciolato, o nella fabbricazione della carta. Il loro utilizzo è certo, rientra nel processo di produzione” (nel senso allargato di cui ai parr. 3.3.2 e 3.3.3, cioè “da parte degli utilizzatori successivi e dalle aziende intermedie…”) e non necessita di trasformazione previa, se non quella necessaria a ridurre tali materiali alle dimensioni richieste per poterli integrare nel prodotto finale” (trattamenti minimali che non costituiscono, per la stessa Commissione, “operazioni di recupero completo”: v. retro)26.


6. Ultime riflessioni sulla (richiesta) “certezza” del riutilizzo.

Merita chiudere le presenti note accennando ad un tema decisivo rappresentato dalla c.d. “certezza del riutilizzo”, appena accennato nella decisione in commento.

Si intende rimarcare che l’utilizzo della m.p.s. (come del sottoprodotto) deve essere certo e senza ulteriore trattamento. Le due condizioni costituiscono una logica conseguenza della nozione di rifiuto. La materia seconda se fosse (di fatto) smaltita, abbandonata o sottoposta ad un ulteriore trattamento, dovrebbe qualificarsi rifiuto, in quanto oggetto di un’attività di “disfarsi” (e dunque non ancora immediatamente utilizzabile per definizione legale).

Peraltro, la “certezza del suo ulteriore utilizzo” pone anche un problema di sicurezza circa il suo destino (di impiego come prodotto), che sta particolarmente a cuore alle Autorità di controllo. Le quali devono verificare che detta qualifica non venga attribuita pretestuosamente per dissimulare una sostanza che verrà, invece, destinata, per es., allo smaltimento. La certezza del successivo riutilizzo pone, dunque, in capo al produttore/detentore del sottoprodotto un problema di (predisporre e) disporre di prove che forniscano, il più agevolmente e convincentemente possibile, tale certezza, in sede di controllo amministrativo e di polizia giudiziaria (per dimostrare la assenza di possibili elusioni o violazioni della normativa sui rifiuti).

Questo non esclude che - dalla produzione delle m.p.s. al loro effettivo reimpiego, solitamente presso terzi - intercorra del tempo (necessario e) connesso alla loro movimentazione, deposito, eventuale intermediazione commerciale, reimpiego produttivo. Ciò spiega perché, anche secondo il giudice comunitario, tale certezza potrebbe svanire, “in linea di principio”, ove il riutilizzo della m.p.s. si presenti futuro e/o lontano nel tempo, richiedendo, per es., lunghi periodi di deposito (delle m.p.s.), con rilevanti costi economici per il detentore e pericoli per l’ambiente (i tempi di deposito saranno ovviamente fissati dall’ordinamento di ciascuno Stato interno, secondo regole ragionevoli)27.

In definitiva, si conferma, sul punto, ancora una volta, che sarà lo Stato membro ad indicare i mezzi di prova per dimostrare la effettiva volontà del detentore (sul destino da assegna al residuo produttivo) e le altre condizioni previste per la qualificazione della m.p.s. o del sottoprodotto, nonché per “l’eventuale esclusione” dalla normativa dei rifiuti” “di determinate categorie” di questi ultimi.28


7. Conclusioni sulla sentenza della S.C. n. 5804/2008.

Si deve, pertanto, ribadire che il convincimento espresso in questa isolata decisione – che finirebbe, fra l’altro, col vanificare il concetto stesso di materia prima secondaria e, più in generale, delle attività di recupero (vista invece con assoluto favore dal legislatore comunitario e nazionale) - si pone in contrasto tanto con i dati normativi indicati che con quelli giurisprudenziali (interni e comunitari):

1) del chiaro tenore dell’art. 181, comma 12, si è detto sopra (quanto alle m.p.s. o prodotti “che possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria …”.).

Merita invece aggiungere che anche il vigente art. 181-bis, voluto da un legislatore più severo (quello del secondo correttivo), nel pretendere che le m.p.s. (come le sostanze e i prodotti secondari) abbiano anche “un effettivo valore economico di scambio sul mercato” (lett. e), ne prevede e consente espressamente la commercializzazione (e non il semplice uso proprio del detentore originario), da leggere, correttamente, come il passaggio di un bene da un soggetto (originario detentore) ad un altro, riutilizzatore (e non, come ipotizzato in sentenza, come il comportamento di un soggetto che si disfi di qualcosa, rendendola per ciò solo un rifiuto).

2) La decisione risulta, come accennato, isolata nel panorama della giurisprudenza italiana che, anche di recente, ha avuto occasione di delimitare l’ambito di pertinenza delle m.p.s. confermando la loro estraneità, nel rispetto di certe condizioni, alla normativa sui rifiuti29.

Secondo la giurisprudenza richiamata, “questa esigenza di certezza del riutilizzo o della commercializzazione immediati del residuo viene recepita anche dalla normativa italiana” proprio nell’art. 181 (novellato) e costituisce l'elemento di valutazione per il giudice al fine di qualificare correttamente un dato materiale come rifiuto ovvero come m.p.s. Per effetto di detta ultima pronuncia, dunque, il riutilizzo o la commercializzazione del “residuo riutilizzabile” (cioè, della m.p.s.) deve avvenire “senza previa trasformazione” . Ciò vale, ovviamente, per il sottoprodotto o per le m.p.s. fin dall’origine.

Per quelle, invece, che derivano da operazioni di recupero (come nel caso della carta da macero conferita nelle piattaforme ove avviene il recupero), il principio della assenza di trasformazione ulteriore riguarderà le cartiere le quali utilizzeranno una m.p.s. suscettibile di impiego, senza necessità di altri interventi di recupero (che, se necessari, finirebbero con lo svelare l’inidoneità di questo materiale per gli usi ai quali si vuole destinarla) che dovrebbero essere assoggettati ad autorizzazione o comunicazione.
 

 

* STUDIO LEGALE GIAMPIETRO - CONSULENZE AMBIENTALI
Prof. Avv. Pasquale GIAMPIETRO
già Consigliere di Cassazione con funz.dirett.super. e Componente dell’Ufficio Studi del C.S.M.
Docente universitario Fondatore di “AMBIENTE” Ipsoa (Mi)

 

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1 In più di un passaggio della motivazione, la S.C. si appiattisce sulle argomentazioni della pubblica accusa ricorrente, la quale aveva presentato, fra l’altro, i seguenti motivi di impugnazione (riportati in sentenza) : 1) le attività di cernita ed adeguamento dei rifiuti sono attività preliminare al recupero per cui non trasformano il rifiuto in m.p.s. Esse sarebbero ancora attività di smaltimento; 2) la cernita e selezione dei rifiuti, pur considerati operazioni di recupero dall’art. 183, comma 1, lett. h), non farebbero perdere al rifiuto la sua natura, ai fini dell’applicazione dell’art. 181, comma 12, e pertanto detto materiale sarebbe pervenuto come rifiuto alle cartiere le quali dovevano applicare ulteriori trattamenti, oltre la mera cernita e selezione, prima di reimpiegarlo come m.p.s.; 3) ove l’art. 183, comma 1, lett. h) fosse letto nel senso che la cernita, selezione e compattamento dovessero ritenersi idonei a trasformare il rifiuto in m.p.s., la norma, così intesa, risulterebbe contraria alla direttiva comunitaria. Come risulta dal testo della pronuncia, la Cassazione non accoglie puntualmente tali obiezioni anche se ne subisce un qualche condizionamento. Le affermazioni sub 1) e 2) trovano una distinta risposta, a seconda che le si consideri, in punto di fatto, ovvero in relazione al diritto positivo vigente. Nel primo senso (in fatto), se detti trattamenti (selezione, cernita, adeguamento volumetrico) non risultino completi e quindi non portano il rifiuto a possedere le caratteristiche del p. 1.1.3 e 1.1.4 citt. (caratteritische delle materie prime), tanto da obbligare la cartiera a completarli, non v’è dubbio che la carta da macero resta un rifiuto e esce dalle piattaforme (magazzini) come rifiuto. Se, invece, quelle operazioni vengono compiute, secondo le prescrizioni indicate, tanto che il materiale raggiunga le specifiche tecniche delle norme UNI EN 643, per il diritto interno italiano, la sostanza deve essere qualificata m.p.s. in base al D.M. 5.2.1998, come richiamato e fatto proprio dall’ 181 bis, comma 3, T.U. 152/2006.
Quanto alla osservazione sub 3) - per la quale la idoneità al recupero delle operazioni indicate dall’art. 183, comma 1, lett. h) (selezione, cernita, ecc.), ove ritenuta sussistente dall’interprete, porrebbero la norma in conflitto con la direttiva comunitaria (che le considererebbe, invece, attività preliminari al recupero e non di recupero completo) – è facile obiettare che, se anche tale prospettazione fosse vera, non esonererebbe il giudice italiano dal dovere di applicare la norma interna (appunto l’art. 183, comma 1, lett. h) a cui è vincolato, non potendo dare applicazione alla direttiva (la quale non è autoapplicativa o self executing), salvo a far valere, dinanzi alla Corte costituzionale, la presunta illegittimità comunitaria della disposizione, previa sospensione del giudizio (cfr., in tal senso, espressamente l’Ordinanza di Cass. pen. 14 dicembre 2005, ric. Rubino).
2 Ovvero ad una attività di ulteriore trattamento (a fini di recupero).
3 Il principio ha portata generalissima. A ben vedere, anche una “materia prima vergine” si trasforma in rifiuto, per volontà del detentore che se ne disfi, per es. smaltendola o abbandonandola (e, per ciò stesso, trapassa, dalla disciplina dei prodotti commerciabili, al regime giuridico dei rifiuti).
4 Salvo a ritenere, come opina il Procuratore della Repubblica di Tivoli ricorrente, che le due operazioni di selezione e compattamento non siano idonee a trasformare la carta da macero da rifiuto in materia prima secondaria. Sul punto, v. retro, nota 1.
5 Richiamando la normativa passata, si rilegga, in particolare, l’art. 2, legge n. 475/1988 che ha introdotto formalmente la categoria delle materie prime secondarie; le molte accezioni assegnate al termine (v. par. 74 delle conclusioni dell’avv. Jacobs nella causa C-129/96 Inter-Environnement Wallonie ASBL) e le prime pronunce dalle Corte costituzionale (30 ottobre 1990, n. 512) e della Corte di Giustizia (su tale risalente problematica, cfr. P. Giampietro, Il rifiuto, la materia prima secondaria e la volontà del detentore tra il D.M. 26 gennaio 1990 e la Corte di Giustizia della Comunità europea”, in Foro italiano, IV, 1990, 502). Per la Cassazione, fra le prime decisioni favorevoli al riconoscimento delle m.p.s. (peraltro contrastanti con altri indirizzi più severi), v. sentenza 13 gennaio 1992, Acciarini; 3 febbraio 1992 Del Gaizo; 13 dicembre 2002, Pittini (secondo cui le m.p.s. sono comunque escluse, ab origine, dalla disciplina dei rifiuti) ovvero le decisioni 5 luglio 1991 Jeanmonod ; 4 febbraio 1992, Puppo (esclusione delle m.p.s. solo a certe condizioni) sino alla Sez. Un. 27 marzo 1992, Viezzoli. Per gli indirizzi più recenti, di pieno riconoscimento delle m.p.s. (anch’essi peraltro contrastati da alcune pronunce si segno contrario), v. sentenza 13 novembre 2002, Passerotti; 11 febbraio 2003, Traversi; 6 giugno 2003, Agogliati; 25 giugno 2003, Papa; 11 febbraio 2003, Mortellaro; 12 ottobre 2004, Falconi; 4 marzo 2005, Maretti. Si consderino, da ultimo, alcuni incisi della motivazione di Cass. Pen., sez. III, 19 febbraio 2008 n. 7465, secondo la quale: “.. le materie prime secondarie … diventano tali all'esito delle operazioni di recupero …” ovvero di: Cass. Pen., sez. III, 21 giugno 2007 n. 24471 che, richiamando la posizione della Corte di Giustizia (cfr., tra le altre, C.G.C.E. ,11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli), alla luce della quale è necessario interpretare anche il diritto italiano, rileva che ”… un residuo di produzione costituisce, in via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione o di un obbligo di disfarsene. Ciò non esclude, però, che il residuo in questione possa essere un sottoprodotto o una materia prima secondaria, che il detentore intende sfruttare o commercializzare, purché "il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione ...".
6 Ove non si condividesse tale previsione, occorrerebbe ricorrere alla Corte costituzionale per far valere la illegittimità comunitaria della legge nazionale.
7 In cui si parla (v. p. 4) di recupero in termini di: “… le operazioni di cernita e selezione dalla carta o cartone da macero poste in essere dalla imprese fornitrici della cartiera dovevano inquadrarsi tra quelle di recupero dei rifiuti…”; mentre a p. 3 ci si riferisce alle medesime attività (di cernita e adeguamento volumetrico) qualificandole come operazioni di smaltimento (… “sono qualificate quale smaltimento dei rifiuti le operazioni … poste in essere dalle ditte fornitrici della cartiera” …), riportandole, rispettivamente, ai punti D13 e D14 dell’All. B al decreto Ronchi. Le medesime attività sono, poi, confluite nell’All. B al D.Lgs. 152/06 (mantenendo l’indicazione D13 e D14), ma la cernita e la selezione, stante il disposto dell’art. 183, comma 1, lett. h, erano – all’epoca dei fatti – e restano delle operazioni di recupero. Sul punto, la sentenza conclude col ritenere che “le operazioni poste in essere concretamente dagli imputati … risultano tuttora soggette alla disciplina relativa allo smaltimento dei rifiuti”.
8 Quantomeno a partire dalla sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/2000, Palin Granit Oy cit.; ma vede, poi, a seguire l’ Ordinanza 15 gennaio 2004, causa C-235/02 (Saetti e Frediani), in materia di coke da petrolio, in cui si esprime un principio mutuabile ai presenti fini, secondo cui “il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce un rifiuto”.
9 Per la quale “... un bene, un materiale o una materia prima possono costituire non già un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, e che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per essa favorevoli”.
“Oltre al criterio legato alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un «rifiuto» ai sensi della direttiva 75/442. Se poi, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un autentico prodotto” (v. punto 37).
10 Con sentenza 18 dicembre 2007, in Causa-263/2005.
11 Donde la rilevanza della componente “soggettiva” (della volontà del detentore) nella ricostruzione della nozione di rifiuto.
12 Da ciò si desume, chiaramente, la possibilità che la m.p.s. sia destinata a terzi e dunque ad un processo produttivo diverso da quello di provenienza (che l’ha generata) ed in luogo necessariamente diverso.
13 V. nota precedente.
14 L’elemento della certezza vale a dimostrare che la m.p.s. sia indirizzata al mercato invece che restare nell’area della gestione dei rifiuti (tramite abbandono, smaltimento o recupero). Questo spiega l’importanza del giudizio di rilevante probabilità del riutilizzo e il criterio dell’utilità dell’operazione per il detentore, come si evince nel seguente passo: “38 Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. sentenze citate Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46),
15 Per es. dell’impresa che l’ha prodotta.
16 Da parte del terzo, in un processo di produzione diverso (sia nel senso di “realizzato altrove” che come tipologia di processo produttivo).
17 Come quelli, per es., connessi all’art. 28 del Regolamento n. 1013/2006 e s.m.i., sulla spedizione dei rifiuti, ove si suppone “… un disaccordo in merito alla classificazione dei rifiuti fra autorità competenti di spedizione e di destinazione”),
18 Di cui sono riportati, a stralcio, alcuni contenuti, a seguire, nel testo.
19 Per es. per prevenire le situazioni di disaccordo di cui all’art. 28, in esame.
20 Tale sottile distinzione, frutto di una doverosa cautela, non può far velo al dato oggettivo in forza del quale detto Organismo perviene alle rilevanti conclusioni che si indicano, più avanti, non in linea puramente teorica, ma sulla scorta di una esegesi attenta, e largamente condivisibile, della giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia CE…!
21 Questo il passo:” un “sottoprodotto”: ogni materiale che si ottiene deliberatamente nell'ambito di un processo di produzione. In molti casi è possibile individuare uno (o più) prodotti "primari", ovvero il materiale principale prodotto; residuo di produzione: materiale che non è ottenuto deliberatamente nell'ambito di un processo di produzione ma che può costituire un rifiuto; sottoprodotto: un residuo di produzione che non costituisce un rifiuto”.
22 Modificata da ultimo dalla decisione 2001/573/CE del Consiglio (GU L 203 del 28.7.2001, pag. 18).
23 Valorizza giustamente l’importanza di questa sentenza comunitaria V. Paone, op. cit., pag. 223 e ss.
24 Si consideri il seguente passo:” La catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc. Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l'utilizzatore successivo, altre ancore sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto”.
Fermo restando che “… se un materiale necessita di un'operazione di recupero per poter essere riutilizzato, anche quando una tale utilizzazione è certa, esso va considerato rifiuto fino al completamento dell'operazione (Avesta Polarit)”.
“Se il materiale, per essere ulteriormente trasformato, viene spostato dal luogo o dallo stabilimento in cui è stato prodotto, è verosimile ritenere che le operazioni necessarie alla sua trasformazione non facciano più parte dello stesso processo di produzione. Pur tuttavia, in presenza di processi industriali sempre più specializzati, questo elemento da solo non basta a costituire una prova. Gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo riutilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte” (sopra).
25 Ma, si insiste, altrettanto si potrebbe ripetere, con il dovuto adeguamento, per il macero e il rottame ferroso.
26 Di grande interesse anche le valutazioni relative ai residui e ai materiali difettosi espresse in questi termini: “… Di norma, i residui provenienti da un processo di produzione principale, o i materiali che presentano solo difetti superficiali ma la cui composizione è identica a quella del prodotto principale, come le miscele di gomma o i composti per vulcanizzazione, trucioli e pezzetti di sughero, scarti di plastica e altre materie simili, possono essere considerati sottoprodotti. Affinché sia così devono potere essere riutilizzati direttamente nel processo di produzione principale o in altre produzioni che siano parte integrante di tale processo e per le quali il loro utilizzo sia altrettanto certo. Si può ritenere che anche questo tipo di materiali non rientra nella definizione di rifiuto. Laddove questi materiali richiedano un'operazione completa di riciclaggio o di recupero, o se contengono sostanze inquinanti che occorre eliminare prima di poterli riutilizzare o trasformare, essi devono essere considerati rifiuti fino al completamento dell'operazione di riciclaggio o di recupero.
27 V., infatti, la sentenza citata a nota 10, par. 39 che osserva: “ Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39).
28 Sul punto, si considerino i seguenti passaggi della sentenza cit. a nota 10:
”41 Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative a tali rifiuti siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione dei testi adottati per dare attuazione agli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12)”.
29 Si veda, in particolare, l’art. 2, legge n. 475/1988 che ha introdotto formalmente la categoria delle materie prime secondarie; le molte accezioni assegnate al termine (v. par. 74 delle conclusioni dell’avv. Jacobs nella causa C-129/96 Inter-Environnement Wallonie ASBL) e le prime pronunce dalle Corte costituzionale (30 ottobre 1990, n. 512) e della Corte di Giustizia (su tale risalente problematica, cfr. P. Giampietro, Il rifiuto, la materia prima secondaria e la volontà del detentore tra il D.M. 26 gennaio 1990 e la Corte di Giustizia della Comunità europea”, in Foro italiano, IV, 1990, 502). Per la Cassazione, fra le prime decisioni favorevoli al riconoscimento delle m.p.s. (peraltro contrastanti con altri indirizzi più severi), v. sentenza 13 gennaio 1992, Acciarini; 3 febbraio 1992 Del Gaizo; 13 dicembre 2002, Pittini (secondo cui le m.p.s. sono comunque escluse, ab origine, dalla disciplina dei rifiuti) ovvero le decisioni 5 luglio 1991 Jeanmonod ; 4 febbraio 1992, Puppo (esclusione delle m.p.s. solo a certe condizioni) sino alla Sez. Un. 27 marzo 1992, Viezzoli. Per gli indirizzi più recenti, di pieno riconoscimento delle m.p.s. (anch’essi contrastati da pronunce si segno contrario), v. sentenza 13 novembre 2002, Passerotti; 11 febbraio 2003, Traversi; 6 giugno 2003, Agogliati; 25 giugno 2003, Papa; 11 febbraio 2003, Mortellaro; 12 ottobre 2004, Falconi; 4 marzo 2005, Maretti. Si vedano, da ultimo, alcuni incisi della motivazione di Cass. Pen., sez. III, 19 febbraio 2008 n. 7465, secondo la quale: “.. le materie prime secondarie … diventano tali all'esito delle operazioni di recupero …” ovvero: Cass. Pen., sez. III, 21 giugno 2007 n. 24471 che, richiamando la posizione della Corte di Giustizia (cfr., tra le altre, C.G.C.E. ,11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli), alla luce della quale è necessario interpretare anche il diritto italiano, rileva che … un residuo di produzione costituisce, in via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione o di un obbligo di disfarsene. Ciò non esclude, però, che il residuo in questione possa essere un sottoprodotto o una materia prima secondaria, che il detentore intende sfruttare o commercializzare, purché "il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione ...".
 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 09/10/2008

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