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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
Il conferimento della carta da macero dalle piattaforme alle cartiere: materia prima secondaria o (ancora) rifiuto?
(Note critiche alla sentenza della Cassazione penale n.
5804/2008)
1. La vicenda esaminata.
Sulla annosa e, per alcuni versi, ancora irrisolta questione della fase
terminale delle operazioni di recupero dei rifiuti - cui si riporta la
formazione delle materie prime secondarie o materie secondarie, ex art. 181 bis
del T.U. ambientale, novellato dal d. lgs. n. 4/2008 - e sul connesso tema
dell’utilizzo di queste ultime presso altra impresa (o soggetto terzo) rispetto
al detentore/recuperato originario, è tornata, da ultimo, la Corte di
cassazione, sez. III pen., con sentenza 6 febbraio 2008, n. 5804 -
decidendo un caso in cui talune ditte, dopo aver lavorato la carta da macero,
presso le rispettive piattaforme, la fornivano ad una cartiera per il suo
utilizzo appunto come m.p.s.
Scorrendo la decisione di primo grado del Tribunale di Tivoli, del 17.1.2007
(depositata l’8.2. 2007) - contro cui era ricorso il P.M. in sede - si apprende
che, in alcune piattaforme, il c.d. “macero” veniva sottoposto ad operazione di
“cernita e adeguamento volumetrico” e quindi ceduto ad una cartiera che
“senza alcun trattamento preventivo.. la utilizzava “… allo stesso modo in cui,
al posto della carta da macero, si usa la cellulosa” (materia prima vergine).
Il Tribunale assolveva tutti gli imputati dal reato di attività di
recupero, in concorso fra loro, senza autorizzazione, sulla considerazione che
la cartiera aveva utilizzato una m.p.s. (e pertanto non era tenuta ad essere
autorizzata) e le piattaforme avevano svolto un’attività di recupero, ai sensi
dell’art. 183, del T.U. ambientale, che, a suo dire (ma erroneamente), non
sarebbe soggetta ad alcun atto assentimento.
La Suprema Corte annulla la sentenza (con rinvio alla Corte d’Appello di Roma),
osservando, con riferimento ai titolari di piattaforme, che l’attività di
recupero (di cernita ed adeguamento volumetrico) doveva essere assoggettata (nel
precedente come nell’attuale regime giuridico) ad autorizzazione o a
“comunicazione” (ex artt. 28 o 31/33 del decreto Ronchi).
2. Cernita ed adeguamento volumetrico come attività di recupero.
La decisione merita attenta considerazione con riferimento alle seguenti
affermazioni di principio che meritano di essere partitamente commentate:
A) “le operazioni poste in essere” dagli imputati titolari di
piattaforme (“cernita ed adeguamento volumetrico”) devono “essere
qualificate quale recupero e smaltimento .. e, in quanto tali,
soggette ad autorizzazione”.
Il rilievo va condiviso (in relazione alla dichiarata mancanza della
autorizzazione o “comunicazione”, nel caso giudicato), salvo a precisare
che, nella fattispecie, dette operazioni dovevano essere considerate di “recupero”,
ex lett. R3, dell’Allegato C), del decreto Ronchi e ex punti 1.1.3. e 1.2.3. del
D.M. 5.2.1998 e non di “smaltimento di rifiuti, ex lett. D13 e D14,
dell’allegato B.
Risulta, pertanto, imprecisa l’espressione usata in sentenza con la congiunzione
“e” invece che con la disgiuntiva “o”, attesa la distinta, e si
direbbe, opposta finalità delle due attività: la prima, destinata a
recuperare materia o energia dai rifiuti; la seconda, a confinare
definitivamente il rifiuto, previo trattamento funzionalizzato a tale specifico
scopo1.
B) con riferimento alle operazioni di recupero ex R3 cit., si richiama,
nella decisione, il D.M. 5.2.1998, punti 1.1.3., tanto con riferimento:
- alla lett. a), “riutilizzo diretto nella industria cartaria” quanto:
- alla lett. b), “riutilizzo in cartiere”,
con ciò ammettendosi, implicitamente, che il riutilizzo può riguardare la
carta da macero- m.p.s. anche “tal quale”, senza operazioni di
recupero (cioè m.p.s. sin dall’origine).
Prosegue la Corte, proiettandosi sulla normativa vigente, nel senso che: Il
nuovo T.U. del 2006 - “il quale ha introdotto la nozione, tra l’altro, di
materia prima secondaria -” non giustifica “conclusioni diverse” (ai fini
del regime processuale relativo alle norme sopravvenute, eventualmente più
favorevoli all’imputato, ex art. 2 c.p., e quindi applicabili in suo favore).
La sentenza conferma, altresì, l’attuale vigenza e cogenza del D.M.
5.2. 1998 (e 12 .6.2002, n. 161, per i rifiuti pericolosi), fornendo una
interpretazione sulla “cessazione delle operazioni di recupero”, ex art. 181,
comma 12 (prima versione) del tutto corretta (v. oltre).
C) Richiamando il contenuto dell’art. 183, comma primo, lett. h), sulla
nozione di recupero, la Corte rileva poi opportunamente che” le
operazioni di cernita e selezione della carta o cartone da macero”,
poste in essere dalle imprese fornitrici della cartiera, dovendo inquadrarsi in
“quelle di recupero dei rifiuti”, sono soggette ad autorizzazione o a
comunicazione (nel caso, mancanti).
3. Sulla asserita natura di rifiuto del materiale, oggetto di recupero, in
quanto “disfatto”.
L’ultimo passaggio argomentativo della Corte, per giustificare la condanna degli
imputati, fondato sul richiamo all’art. 181, comma 12 e 13, risulta per più
versi:
1) impreciso e non pertinente; oltre a contenere:
2) una affermazione di principio che non sembra conforme al sistema
vigente.
D) Questo il brano: “ Peraltro, proprio su tale ultimo punto va,
infine, osservato che la disciplina in materia di gestione dei rifiuti, ai sensi
dell’art. 181, commi 12 e 13, del D. Lgs n. 152/06 non si applica alle sostanze
utilizzabili come materia prima secondaria a condizione che “il detentore
non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene”.
“Orbene, nel caso in esame si tratta di materiali di cui, in ogni caso, il
detentore si era già disfatto, dovendo il termine essere univocamente riferito
al detentore originario della sostanza utilizzabile come materia prima
secondaria, sicché anche ai sensi delle disposizioni citate il materiale
oggetto delle descritte operazioni di recupero non si sottrae alla
applicazione della normativa in materia di rifiuti”.
Merita osservare - per l’imprecisione indicata sub 1) - che il richiamo
al comma 13 non é in alcun modo pertinente, in quanto, nella
vicenda in esame, non si consideravano delle m.p.s. fin dall’origine,
senza necessità di trattamento ma, come ricordato, sottoposte a “cernita e
selezione” (cioè a recupero).
In ordine alla interpretazione data all’ultima proposizione del comma 12,
(“a condizione che il detentore non se ne disfi o abbia deciso o abbia
l’obbligo di disfarsene”) – con riferimento al rilievo di diritto sub 2
- è piuttosto evidente la svista interpretativa in cui è incorso quel
Collegio.
Leggendo, per intero, detto comma e riconducendo la condizione finale (come
sopra trascritta) nel testo e contesto dell’intera frase, si coglie, infatti,
il diverso significato e la distinta ratio che il legislatore ha
voluto attribuire ad essa, vale a dire:
- la disciplina dei rifiuti non è più applicabile e cede il posto a quella
sul commercio dei prodotti quando terminano, perché completate, le
operazioni di recupero del rifiuto (che non ha più bisogno di ulteriori
trattamenti in quanto ha già raggiunto le caratteristiche merceologiche imposte,
in via transitoria, dal D.M. 5.2.1998, per le m.p.s.: per es. le specifiche
delle norme UNI-EN 643 per la m.p.s. - proveniente dal rifiuto/carta da
macero - destinate all’industria cartaria, ex punto 1.1.4).
A questo punto, prosegue, coerentemente, il comma 12, “i materiali
o gli oggetti ottenuti” (dal recupero) “possono essere usati in un processo
industriale” (per es. della stessa impresa che ha prodotto la materia prima
secondaria) “o commercializzati” (presso ditte terze, cioè conferiti,
venduti, ecc. per ricavarne un vantaggio economico).
In quest’ultimo caso, l’atto di commercio avrà per oggetto, un bene
descritto – dal comma 12 - “… come materia prima secondaria, combustibile
o come prodotto da collocare” (sul mercato)-, non un rifiuto!
Si pone in questo contesto logico e cronologico – come alternativa all’atto
di commercio – la ulteriore condizione negativa descritta (che “il detentore
non se ne disfi o non abbai deciso di disfarsi”).
Essa vuol significare, del tutto coerentemente con il sistema delineato e voluto
dal legislatore, che se la m.p.s. (o il combustibile o il prodotto), per i
motivi più diversi e/o contingenti (di mercato, personali, economici, ecc.),
cioè leciti ma anche illeciti, viene destinata, nel momento considerato
(“si disfa”) o in futuro (“abbia deciso di disfarsi”) allo smaltimento o
all’abbandono illegale, ex art. 1922,
la m.p.s. diventa, per volontà del detentore, un rifiuto3.
Questo, e non altro, è il contenuto proprio del comma 12 dell’art. 181,
secondo il significato fatto palese dalle parole usate dalla norma, dalla sua
ratio e dal doveroso rispetto dei principi giuridici che conformano la
normativa sulla definizione del rifiuto e del non rifiuto, sia in sede
comunitaria che in sede nazionale.
Il termine “commercializzare” - usato dal legislatore interno, ma ripreso dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia - esclude ogni possibilità
all’interprete (compreso il giudice ordinario, pur soggetto, anche se
soltanto, alla legge, ex art. 101 Costituzione) di arrivare alla
conclusione di vietare l’alienazione delle m.p.s., sostanze o prodotti
(ottenuti dal recupero) e/o di interpretare quell’atto di commercio
come una forma di “disfarsi di una sostanza od oggetto” nel significato
proprio dell’art. 183, comma 1, lett. a), destinato alla definizione dei
rifiuti.
*** Ciò perché, all’atto di cedere la sostanza a terzi (cioè di
“commercializzarla”) essa è già qualificabile giuridicamente (ma anche
merceologicamente) come merce!
In definitiva, se le Società di gestione delle piattaforme, come ritiene la S.C.
(“detentori originari”) avevano compiuto “operazioni di cernita e
selezione della carta”; e se tali operazioni “… dovevano inquadrarsi tra
quelle di recupero e soggette alla relativa disciplina” (pag. 4, primo
capoverso della sentenza), risulta totalmente fuorviante - perché
dissonante con il sistema normativo interno e comunitario – la ulteriore
deduzione tratta da quel Collegio, secondo cui “.. il materiale oggetto
delle descritte operazioni di recupero non si sottrae alla applicazione
della normativa in materia di rifiuti” in quanto nel caso in esame “…si
tratta di materiali di cui, in ogni caso, il detentore si era già disfatto
dovendo il termine essere univocamente riferito al detentore originario
della sostanza utilizzabile come materia prima secondaria”.
Come rilevato, infatti, i “detentori originari” del rifiuto-carta da macero (le
piattaforme), lo avevano preventivamente trasformato in m.p.s.,
come riconosce la S.C. e pertanto, nel momento in cui lo conferivano alla
cartiera, non se ne “disfacevano” - per la prima volta (per inviare quel
materiale allo smaltimento o al recupero, secondo la nozione tecnico-giuridica
del “disfarsi”) - ma, trattandosi di m.p.s. (come non dubita detto
giudice ), lo “commercializzavano… come materia prima secondaria o prodotto
da collocare” (sul mercato), in base a quanto detta testualmente il comma
12, dell’art. 181 esaminato.
Ove si voglia ragionare secondo la logica della sentenza, in esame, a che
gioverebbe - per le piattaforme e/o per le cartiere - essersi sobbarcati
alle operazioni di recupero? Che logica avrebbe un sistema giuridico che
sollecita e promuove il recupero e poi considera il risultato ottenuto da quelle
operazioni di trattamento recuperatorio (assai costose) ancora rifiuti?
Come far passare una interpretazione grammaticale, logica e giuridica – quale
quella proposta da detto Collegio - che attribuisce alla parola prodotto
il senso di rifiuto e all’espressione legislativa (ex art. 181, comma 12)
“commercializzare un prodotto” quella, affatto diversa, di “disfarsi
di un rifiuto?
4. La sentenza n. 5804/2008 si pone in dissonanza con il decreto correttivo
del 2008 e con la giurisprudenza precedente, interna e dell’U.E.
Il convincimento espresso in questa isolata decisione – che finirebbe, fra
l’altro, col vanificare il concetto stesso di materia prima secondaria e,
più in generale, delle attività di recupero (vista invece con assoluto
favore dal legislatore comunitario e nazionale) - si pone in contrasto tanto con
i dati normativi indicati che con noti indirizzi della giurisprudenza
(interna e comunitaria).
1) Sul chiaro tenore dell’art. 181, comma 12, si è detto sopra
(quanto alle m.p.s. o prodotti “che possono essere usati in un processo
industriale o commercializzati come materia prima secondaria …”.).
Merita invece aggiungere che anche il vigente art. 181-bis, voluto da
un legislatore più severo (quello del secondo correttivo), nel pretendere
che le m.p.s. (come le sostanze e i prodotti secondari) abbiano anche “un
effettivo valore economico di scambio sul mercato” (lett. e), ne
prevede e consente espressamente la commercializzazione (e non il
semplice uso proprio del detentore originario), da leggere, correttamente,
come il passaggio di un bene da un soggetto (originario detentore) ad un altro,
riutilizzatore (e non, come ipotizzato in sentenza, come il comportamento di un
soggetto che si disferebbe di qualcosa, rendendola per ciò solo un rifiuto).
2) La sentenza risulta, come accennato, isolata nel panorama della
giurisprudenza italiana che, anche di recente, ha avuto occasione di
delimitare l’ambito di pertinenza delle m.p.s. confermando la loro estraneità,
nel rispetto di certe condizioni, alla normativa sui rifiuti5.
3). La pronuncia, in esame, contiene un ulteriore passaggio, parimenti
non condivisibile, che si pone in contrasto anche con gli orientamenti del
giudice amministrativo. Mi riferisco al punto in cui quel Collegio sembra
riprendere una argomentazione del P.M. ricorrente, (non si capisce bene se per
farla propria successivamente) secondo il quale i rifiuti, pur dopo gli
interventi di recupero (vale a dire la cernita e la selezione), “non perdono
tale natura all’esito delle citate operazioni” in quanto “la riutilizzazione
della carta da macero come materia prima secondaria nel ciclo produttivo
presuppone inevitabilmente l’impiego di ulteriori trattamenti, oltre la mera
cernita e selezione” (v. p. 2 della sentenza).
Anche questa affermazione non risulta convincente, per almeno due ragioni:
- in primo luogo, il D.Lgs. 152/06 (già in vigore, pendente il giudizio di
cassazione), all’art. 183, comma 1, lett. h (recupero) aveva
espressamente incluso la cernita e la selezione tra i
trattamenti che un rifiuto può subire per essere recuperato come m.p.s. (ovvero
combustibile o prodotto);
- in secondo luogo perché il DM 5.2.98 (che introduce specifiche tecniche
o standard tecnici relativi alle diverse tipologie di sottoprodotti o
m.p.s. ) individua la selezione e la cernita (intesa anche come
eliminazione di impurezze e di materiali estranei e/o contaminanti),
unitamente al compattamento, come operazioni idonee al raggiungimento
di una qualità di macero che sia conforme alle norme Uni En 643
(cioè, appunto, una materia prima secondaria)6.
Come risaputo, il decreto del ’98 è recepito dalla legge primaria, tramite il
rinvio contenuto nell’art. 181-bis, comma 3.
Su questo tema merita, da ultimo, segnalare la condivisibile e argomentata
motivazione di TAR Friuli Venezia Giulia, 10 maggio 2007 n. 342, il
quale, oltre a ribadire che il concetto di “recupero” - del (vecchio) testo
dell’art. 183 - poteva ben comprendere le operazioni che utilizzano rifiuti per
generare materie prime secondarie, anche attraverso cernita e selezione,
chiarisce che “… l’obiettivo di fondo cui si ispira la disciplina in
materia di rifiuti, contenuta ora negli artt. 179 e ss. del D.Lgs. n. 152/2006,
è quello, a tutela dell’ambiente, di favorire progressivamente la riduzione
della produzione di rifiuti (art. 179), ciò che, in primo luogo, comporta la
riduzione dello smaltimento nelle discariche mediante riutilizzo, reimpiego e
riciclaggio - ovverosia recupero - e trasformazione dei rifiuti in
prodotti commerciabili quali ad es. il compost da usare in agricoltura e il
CDR per produrre energia. Oltre al miglioramento della tutela ambientale si
raggiunge così l’ulteriore obiettivo di rendere i rifiuti un bene economico,
ciò che spiega bene l’incentivo di cui all’art. 3, comma 40 della L. n. 549/95
(art. 181 D.Lgs. n. 152/2006).”
4) come già accennato, la sentenza n. 5804/08 opera una certa
confusione tra smaltimento e recupero, identificando le attività degli
imputati talvolta come recupero, talaltra come smaltimento7.
In tema, sembra utile richiamare le riflessioni critiche del TAR Friuli cit.
che, non trovando coerente ammettere che la cernita e la selezione siano,
allo stesso tempo, operazioni di smaltimento e di recupero (al di là del dato
letterale – invero dirimente – fornito dall’art. 183 cit., prima versione, che
le qualifica “di recupero”) ha osservato:
“… la distinzione tra … smaltimento e … recupero, nel caso di produzione di
compost e CDR, [ma il principio può valere anche per le m.p.s.] non può
fondarsi sull’elencazione delle «operazioni di smaltimento» di cui all’allegato
B, alla Parte IV, del D.lgs. n. 152/2006. Se è vero, infatti, che sotto la
rubrica «operazioni di smaltimento» figurano anche, in via residuale, i
trattamenti biologici e fisico-chimici non specificati altrove, occorre
anche tenere presente che, nel “Nota Bene” che precede l’elencazione delle
operazioni di smaltimento, si ha cura di precisare che l’elencazione in
questione riguarda le operazioni «come avvengono nella pratica», e non assume
quindi valenza normativa cogente, rispetto alla quale normativa, anzi, la
previsione si pone in contrasto, posto che l’obiettivo finale è quello di non
portare a smaltimento e cioè a discarica i rifiuti che possono essere trattati,
sottratti alla destinazione in discarica e destinati a utilizzazione
commerciale: il che, con riferimento al caso di specie (produzione di
compost e CDR), trova poi conferma nel successivo allegato C, il quale, sotto
la rubrica «operazioni di recupero», contiene anche la voce R3,
riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi, ivi
comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche.”
5) ma, soprattutto, l’applicazione del “canone” del disfarsi al
trasferimento del recuperatore (v. retro, par. 3) si pone in rotta di
collisione con gli indirizzi più consolidati della Corte di Giustizia
che, chiamata a decidere in ordine alla contrapposizione fra residuo produttivo
e sottoprodotto, ovvero tra rifiuto e m.p.s., ha ritenuto il
sottoprodotto e le materie prime secondarie, a certe condizioni, vera e propria
“merce” (una volta formatasi), secondo i criteri già ricordati8.
In particolare, per approfondimenti decisivi, si consideri la sentenza “pilota”
della C.G.C.E. 18 aprile 2002, causa C-9/2000 (Palin Granit Oy cit.), cit.9
e, riassuntivamente, la più recente decisione dell’1 marzo 2007, causa
C-176/05, cit. in cui la Corte di Lussemburgo – con riferimento alle
farine animali prive di sostanze a rischio - afferma che esse costituiscono
materia prima in un impianto di produzione di alimenti per animali (da
compagnia) ovvero rifiuti, a seconda della concreta volontà del
detentore (che intenda riutilizzarle o farle utilizzare tal quali
ovvero disfarsene, con operazioni di recupero o smaltimento).
Da ultimo la Corte di giustizia10,
pur censurando la formulazione dell’art. 14, della legge italiana n. 178/2002,
sulla interpretazione autentica della nozione di rifiuto (abrogata dal
successivo T.U. 2006), ha avuto modo di confermare una lunga tradizione di
espresso riconoscimento della categoria delle m.p.s. e dei sottoprodotti,
in questi termini riassuntivi:
“37)… Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in
determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che
deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione - che non è
principalmente destinato a produrlo - può costituire non tanto un residuo,
quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai
sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o
commercializzare11 –
altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da
quello che l’ha prodotto12
– a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo , a condizione che
tale riutilizzo sia certo14
, senza trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di
produzione15 o di
utilizzazione16
(v., in tal senso, sentenze Palin Granit, citata, punti 34-36; 11 settembre
2003, causa C 114/01, Avesta Polarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33-38;
Niselli, citata, punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02,
Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03,
Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61)”.
5. La Cassazione trascura i più recenti approdi della Commissione CE, in tema
di rifiuti.
Sulla complessa problematica delle m.p.s. e dei sottoprodotti – come
contrapposti alla nozione di rifiuto – allo scopo di portare chiarezza sugli
aspetti più critici della relativa disciplina17,
la Commissione U.E. il 21 febbraio 2007, ha redatto una “Comunicazione
interpretativa sui rifiuti e i sottoprodotti”18
(affatto trascurata nella decisione in esame) che merita riassumere nei seguenti
termini.
La Commissione dà atto che, per le difficoltà della contrapposizione (fra
rifiuti e m.p.s. o sottoprodotti), gli Stati membri possono essere in
disaccordo sul tema perché nella legislazione comunitaria in materia di
rifiuti non esiste una definizione giuridica di concetti quali
"sottoprodotto" o "materia prima secondaria".
Allo scopo, pertanto, di rafforzare la certezza del diritto; facilitare la
comprensione e l'applicazione della definizione di rifiuto; contribuire ad
armonizzare l'interpretazione della legislazione in materia di rifiuti
nell'Unione europea; “ fornire alle autorità competenti alcuni orientamenti
che permettano loro di stabilire, caso per caso, se determinati materiali
costituiscono rifiuti o meno”19
nonché “… informare gli operatori economici sul modo in cui tali decisioni sono
adottate”, l’Esecutivo comunitario finisce con l’adottare le sue
(autorevolissime) definizioni, anche se in termini di “comunicazione
interpretativa” e non di “interpretazione giuridica“ ufficiale20.
Ci limiteremo, in proposito, a richiamare i seguenti “convincimenti”
della “comunicazione” - definiti, più semplicemente, “linee guida” (v.
par. 2.2.1), anche se – vale sottolinearlo – radicati sulle decisioni più
innovative della C.G.C.E.:
– a) si ratifica, in modo chiaro, che dallo stesso processo produttivo si
possono ottenere “uno o più prodotti primari” e che “il sottoprodotto è
un residuo di produzione che non costituisce rifiuto”21;
– b) a fronte della genericità delle disposizioni normative, resta fondamentale,
per la definizione di rifiuto, la volontà del produttore/detentore
espressa nell’attività di “disfarsi” della sostanza: “La definizione di
rifiuto contenuta nella direttiva 2006/12/CE si riferisce all'allegato 1 della
stessa e all'elenco europeo dei rifiuti, stabilito dalla decisione 2000/532/CE22.
Pur tuttavia, essendo queste fonti indicative, la definizione si
articola fondamentalmente intorno alla nozione di "disfarsi";
– c) si prende atto e si avalla, dal noto caso del “letame spagnolo”,
la scelta della C.G.C.E. secondo cui il riutilizzo del sottoprodotto può
avvenire anche al di fuori del processo produttivo che lo ha generato e,
dunque, in un diverso processo produttivo e presso terzi: “… il letame
non è da considerasi rifiuto se utilizzato come fertilizzante nell'ambito di una
pratica legale di spargimento su terreni ben individuati indipendentemente
dal fatto che i terreni siano situati all'interno o al di fuori dell'azienda
in cui è stato prodotto l'effluente”23;
– d) si riconosce la possibilità di intervenire sul sottoprodotto, prima che sia
utilizzato, con trattamenti minimi – che formano parte integrante del
processo di produzione cui possono partecipare anche gli utilizzatori
successivi o le aziende intermediarie - purché non rientrino in una vera
e propria “operazione di recupero”
24;
- e) si forniscono specifici esempi di “non rifiuti” da considerare
materie prime con riferimento:
- alle “scorie di altoforno” (“Le scorie di altoforno possono essere
utilizzate direttamente al termine del processo di produzione, senza
doverle sottoporre ad alcuna trasformazione che sia parte integrante del
processo di produzione in corso (ad esempio, la frantumazione, per ridurle alle
dimensioni richieste). Si può quindi ritenere che la definizione di rifiuto non
si applica a questo materiale”);
- ai sottoprodotti dell’industria agroalimentare “utilizzati
massicciamente, come materie prime, per produrre mangimi direttamente dagli
agricoltori” o da terzi “ fabbricanti di alimenti composti per animali”;
- ai “sottoprodotti della combustione (“gli impianti di desolforazione di
fumi eliminano lo zolfo dai fumi generati dall'impiego di combustibili fossili
solforosi nelle centrali elettriche, per (ridurre) l'inquinamento dell'aria e
alle piogge acide. Il materiale che ne deriva, gesso da impianti di
desolforazione di fumi (FGD), trova le stesse applicazioni del gesso
naturale e in particolare viene utilizzato nella produzione di pannelli”).
Ma, ai fini della presente nota - e con specifico riferimento alle “materie
prime” costituite dalla carta da macero, date certe condizioni
(per quanto attiene al settore industriale della carta, cartoni e pasta per
carta) merita porre in evidenza il pensiero della Commissione su: “ i
trucioli, i cascami, la segatura di legno non trattato25.
Si osserva, in proposito, che tali scarti:
“… sono prodotti nelle segherie o nell'ambito di operazioni secondarie, come la
fabbricazione di mobili o pallet e il confezionamento, contemporaneamente al
prodotto principale, ovvero il legno lavorato. Questi elementi sono poi
impiegati come materie prime per la produzione di pannelli in legno, come
quelli in truciolato, o nella fabbricazione della carta. Il loro utilizzo
è certo, rientra nel processo di produzione” (nel senso allargato
di cui ai parr. 3.3.2 e 3.3.3, cioè “da parte degli utilizzatori successivi e
dalle aziende intermedie…”) e non necessita di trasformazione previa,
se non quella necessaria a ridurre tali materiali alle dimensioni richieste
per poterli integrare nel prodotto finale” (trattamenti minimali che non
costituiscono, per la stessa Commissione, “operazioni di recupero completo”: v.
retro)26.
6. Ultime riflessioni sulla (richiesta) “certezza” del riutilizzo.
Merita chiudere le presenti note accennando ad un tema decisivo rappresentato
dalla c.d. “certezza del riutilizzo”, appena accennato nella decisione in
commento.
Si intende rimarcare che l’utilizzo della m.p.s. (come del sottoprodotto) deve
essere certo e senza ulteriore trattamento. Le due condizioni
costituiscono una logica conseguenza della nozione di rifiuto. La materia
seconda se fosse (di fatto) smaltita, abbandonata o sottoposta ad un
ulteriore trattamento, dovrebbe qualificarsi rifiuto, in quanto oggetto di
un’attività di “disfarsi” (e dunque non ancora immediatamente utilizzabile per
definizione legale).
Peraltro, la “certezza del suo ulteriore utilizzo” pone anche un problema
di sicurezza circa il suo destino (di impiego come prodotto), che sta
particolarmente a cuore alle Autorità di controllo. Le quali devono verificare
che detta qualifica non venga attribuita pretestuosamente per dissimulare una
sostanza che verrà, invece, destinata, per es., allo smaltimento. La certezza
del successivo riutilizzo pone, dunque, in capo al produttore/detentore del
sottoprodotto un problema di (predisporre e) disporre di prove che
forniscano, il più agevolmente e convincentemente possibile, tale certezza,
in sede di controllo amministrativo e di polizia giudiziaria (per dimostrare la
assenza di possibili elusioni o violazioni della normativa sui rifiuti).
Questo non esclude che - dalla produzione delle m.p.s. al loro effettivo
reimpiego, solitamente presso terzi - intercorra del tempo (necessario e)
connesso alla loro movimentazione, deposito, eventuale intermediazione
commerciale, reimpiego produttivo. Ciò spiega perché, anche secondo il giudice
comunitario, tale certezza potrebbe svanire, “in linea di principio”, ove
il riutilizzo della m.p.s. si presenti futuro e/o lontano nel tempo,
richiedendo, per es., lunghi periodi di deposito (delle m.p.s.), con
rilevanti costi economici per il detentore e pericoli per l’ambiente (i tempi di
deposito saranno ovviamente fissati dall’ordinamento di ciascuno Stato interno,
secondo regole ragionevoli)27.
In definitiva, si conferma, sul punto, ancora una volta, che sarà lo
Stato membro ad indicare i mezzi di prova per dimostrare la effettiva volontà
del detentore (sul destino da assegna al residuo produttivo) e le altre
condizioni previste per la qualificazione della m.p.s. o del sottoprodotto,
nonché per “l’eventuale esclusione” dalla normativa dei rifiuti” “di determinate
categorie” di questi ultimi.28
7. Conclusioni sulla sentenza della S.C. n. 5804/2008.
Si deve, pertanto, ribadire che il convincimento espresso in questa isolata
decisione – che finirebbe, fra l’altro, col vanificare il concetto stesso di
materia prima secondaria e, più in generale, delle attività di recupero
(vista invece con assoluto favore dal legislatore comunitario e nazionale) - si
pone in contrasto tanto con i dati normativi indicati che con quelli
giurisprudenziali (interni e comunitari):
1) del chiaro tenore dell’art. 181, comma 12, si è detto sopra (quanto
alle m.p.s. o prodotti “che possono essere usati in un processo industriale o
commercializzati come materia prima secondaria …”.).
Merita invece aggiungere che anche il vigente art. 181-bis, voluto da
un legislatore più severo (quello del secondo correttivo), nel pretendere
che le m.p.s. (come le sostanze e i prodotti secondari) abbiano anche “un
effettivo valore economico di scambio sul mercato” (lett. e), ne
prevede e consente espressamente la commercializzazione (e non il
semplice uso proprio del detentore originario), da leggere, correttamente,
come il passaggio di un bene da un soggetto (originario detentore) ad un altro,
riutilizzatore (e non, come ipotizzato in sentenza, come il comportamento di un
soggetto che si disfi di qualcosa, rendendola per ciò solo un rifiuto).
2) La decisione risulta, come accennato, isolata nel panorama della
giurisprudenza italiana che, anche di recente, ha avuto occasione di
delimitare l’ambito di pertinenza delle m.p.s. confermando la loro estraneità,
nel rispetto di certe condizioni, alla normativa sui rifiuti29.
Secondo la giurisprudenza richiamata, “questa esigenza di certezza del
riutilizzo o della commercializzazione immediati del residuo viene recepita
anche dalla normativa italiana” proprio nell’art. 181 (novellato) e
costituisce l'elemento di valutazione per il giudice al fine di qualificare
correttamente un dato materiale come rifiuto ovvero come m.p.s. Per effetto di
detta ultima pronuncia, dunque, il riutilizzo o la commercializzazione del
“residuo riutilizzabile” (cioè, della m.p.s.) deve avvenire “senza previa
trasformazione” . Ciò vale, ovviamente, per il sottoprodotto o per le m.p.s.
fin dall’origine.
Per quelle, invece, che derivano da operazioni di recupero (come nel caso
della carta da macero conferita nelle piattaforme ove avviene il recupero), il
principio della assenza di trasformazione ulteriore riguarderà le cartiere
le quali utilizzeranno una m.p.s. suscettibile di impiego, senza necessità di
altri interventi di recupero (che, se necessari, finirebbero con lo svelare
l’inidoneità di questo materiale per gli usi ai quali si vuole
destinarla) che dovrebbero essere assoggettati ad autorizzazione o
comunicazione.
* STUDIO LEGALE
GIAMPIETRO - CONSULENZE AMBIENTALI
Prof. Avv. Pasquale GIAMPIETRO
già Consigliere di Cassazione con funz.dirett.super. e Componente dell’Ufficio
Studi del C.S.M.
Docente universitario Fondatore di “AMBIENTE” Ipsoa (Mi)
______________________
1 In più di un
passaggio della motivazione, la S.C. si appiattisce sulle argomentazioni della
pubblica accusa ricorrente, la quale aveva presentato, fra l’altro, i seguenti
motivi di impugnazione (riportati in sentenza) : 1) le attività di cernita ed
adeguamento dei rifiuti sono attività preliminare al recupero per cui non
trasformano il rifiuto in m.p.s. Esse sarebbero ancora attività di smaltimento;
2) la cernita e selezione dei rifiuti, pur considerati operazioni di recupero
dall’art. 183, comma 1, lett. h), non farebbero perdere al rifiuto la sua
natura, ai fini dell’applicazione dell’art. 181, comma 12, e pertanto detto
materiale sarebbe pervenuto come rifiuto alle cartiere le quali dovevano
applicare ulteriori trattamenti, oltre la mera cernita e selezione, prima di
reimpiegarlo come m.p.s.; 3) ove l’art. 183, comma 1, lett. h) fosse letto nel
senso che la cernita, selezione e compattamento dovessero ritenersi idonei a
trasformare il rifiuto in m.p.s., la norma, così intesa, risulterebbe contraria
alla direttiva comunitaria. Come risulta dal testo della pronuncia, la
Cassazione non accoglie puntualmente tali obiezioni anche se ne subisce un
qualche condizionamento. Le affermazioni sub 1) e 2) trovano una distinta
risposta, a seconda che le si consideri, in punto di fatto, ovvero in relazione
al diritto positivo vigente. Nel primo senso (in fatto), se detti trattamenti
(selezione, cernita, adeguamento volumetrico) non risultino completi e quindi
non portano il rifiuto a possedere le caratteristiche del p. 1.1.3 e 1.1.4 citt.
(caratteritische delle materie prime), tanto da obbligare la cartiera a
completarli, non v’è dubbio che la carta da macero resta un rifiuto e esce dalle
piattaforme (magazzini) come rifiuto. Se, invece, quelle operazioni vengono
compiute, secondo le prescrizioni indicate, tanto che il materiale raggiunga le
specifiche tecniche delle norme UNI EN 643, per il diritto interno italiano, la
sostanza deve essere qualificata m.p.s. in base al D.M. 5.2.1998, come
richiamato e fatto proprio dall’ 181 bis, comma 3, T.U. 152/2006.
Quanto alla osservazione sub 3) - per la quale la idoneità al recupero delle
operazioni indicate dall’art. 183, comma 1, lett. h) (selezione, cernita, ecc.),
ove ritenuta sussistente dall’interprete, porrebbero la norma in conflitto con
la direttiva comunitaria (che le considererebbe, invece, attività preliminari al
recupero e non di recupero completo) – è facile obiettare che, se anche tale
prospettazione fosse vera, non esonererebbe il giudice italiano dal dovere di
applicare la norma interna (appunto l’art. 183, comma 1, lett. h) a cui è
vincolato, non potendo dare applicazione alla direttiva (la quale non è
autoapplicativa o self executing), salvo a far valere, dinanzi alla Corte
costituzionale, la presunta illegittimità comunitaria della disposizione, previa
sospensione del giudizio (cfr., in tal senso, espressamente l’Ordinanza di Cass.
pen. 14 dicembre 2005, ric. Rubino).
2 Ovvero ad una attività di ulteriore trattamento (a fini di
recupero).
3 Il principio ha portata generalissima. A ben vedere, anche una
“materia prima vergine” si trasforma in rifiuto, per volontà del detentore che
se ne disfi, per es. smaltendola o abbandonandola (e, per ciò stesso, trapassa,
dalla disciplina dei prodotti commerciabili, al regime giuridico dei rifiuti).
4 Salvo a ritenere, come opina il Procuratore della Repubblica
di Tivoli ricorrente, che le due operazioni di selezione e compattamento non
siano idonee a trasformare la carta da macero da rifiuto in materia prima
secondaria. Sul punto, v. retro, nota 1.
5 Richiamando la normativa passata, si rilegga, in particolare,
l’art. 2, legge n. 475/1988 che ha introdotto formalmente la categoria delle
materie prime secondarie; le molte accezioni assegnate al termine (v. par. 74
delle conclusioni dell’avv. Jacobs nella causa C-129/96 Inter-Environnement
Wallonie ASBL) e le prime pronunce dalle Corte costituzionale (30 ottobre 1990,
n. 512) e della Corte di Giustizia (su tale risalente problematica, cfr. P.
Giampietro, Il rifiuto, la materia prima secondaria e la volontà del detentore
tra il D.M. 26 gennaio 1990 e la Corte di Giustizia della Comunità europea”, in
Foro italiano, IV, 1990, 502). Per la Cassazione, fra le prime decisioni
favorevoli al riconoscimento delle m.p.s. (peraltro contrastanti con altri
indirizzi più severi), v. sentenza 13 gennaio 1992, Acciarini; 3 febbraio 1992
Del Gaizo; 13 dicembre 2002, Pittini (secondo cui le m.p.s. sono comunque
escluse, ab origine, dalla disciplina dei rifiuti) ovvero le decisioni 5 luglio
1991 Jeanmonod ; 4 febbraio 1992, Puppo (esclusione delle m.p.s. solo a certe
condizioni) sino alla Sez. Un. 27 marzo 1992, Viezzoli. Per gli indirizzi più
recenti, di pieno riconoscimento delle m.p.s. (anch’essi peraltro contrastati da
alcune pronunce si segno contrario), v. sentenza 13 novembre 2002, Passerotti;
11 febbraio 2003, Traversi; 6 giugno 2003, Agogliati; 25 giugno 2003, Papa; 11
febbraio 2003, Mortellaro; 12 ottobre 2004, Falconi; 4 marzo 2005, Maretti. Si
consderino, da ultimo, alcuni incisi della motivazione di Cass. Pen., sez. III,
19 febbraio 2008 n. 7465, secondo la quale: “.. le materie prime secondarie …
diventano tali all'esito delle operazioni di recupero …” ovvero di: Cass. Pen.,
sez. III, 21 giugno 2007 n. 24471 che, richiamando la posizione della Corte di
Giustizia (cfr., tra le altre, C.G.C.E. ,11 novembre 2004, causa C-457/02,
Niselli), alla luce della quale è necessario interpretare anche il diritto
italiano, rileva che ”… un residuo di produzione costituisce, in via di
principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione o di un
obbligo di disfarsene. Ciò non esclude, però, che il residuo in questione possa
essere un sottoprodotto o una materia prima secondaria, che il detentore intende
sfruttare o commercializzare, purché "il riutilizzo di un bene, di un materiale
o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa
trasformazione ...".
6 Ove non si condividesse tale previsione, occorrerebbe
ricorrere alla Corte costituzionale per far valere la illegittimità comunitaria
della legge nazionale.
7 In cui si parla (v. p. 4) di recupero in termini di: “… le
operazioni di cernita e selezione dalla carta o cartone da macero poste in
essere dalla imprese fornitrici della cartiera dovevano inquadrarsi tra quelle
di recupero dei rifiuti…”; mentre a p. 3 ci si riferisce alle medesime attività
(di cernita e adeguamento volumetrico) qualificandole come operazioni di
smaltimento (… “sono qualificate quale smaltimento dei rifiuti le operazioni …
poste in essere dalle ditte fornitrici della cartiera” …), riportandole,
rispettivamente, ai punti D13 e D14 dell’All. B al decreto Ronchi. Le medesime
attività sono, poi, confluite nell’All. B al D.Lgs. 152/06 (mantenendo
l’indicazione D13 e D14), ma la cernita e la selezione, stante il disposto
dell’art. 183, comma 1, lett. h, erano – all’epoca dei fatti – e restano delle
operazioni di recupero. Sul punto, la sentenza conclude col ritenere che “le
operazioni poste in essere concretamente dagli imputati … risultano tuttora
soggette alla disciplina relativa allo smaltimento dei rifiuti”.
8 Quantomeno a partire dalla sentenza 18 aprile 2002, causa
C-9/2000, Palin Granit Oy cit.; ma vede, poi, a seguire l’ Ordinanza 15 gennaio
2004, causa C-235/02 (Saetti e Frediani), in materia di coke da petrolio, in cui
si esprime un principio mutuabile ai presenti fini, secondo cui “il coke da
petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di
altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed
utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della
raffineria e di altre industrie, non costituisce un rifiuto”.
9 Per la quale “... un bene, un materiale o una materia prima
possono costituire non già un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale
l’impresa non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo
comma, della direttiva 75/442, e che essa intende sfruttare o commercializzare a
condizioni per essa favorevoli”.
“Oltre al criterio legato alla natura o meno di residuo di produzione di una
sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza
operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini
di valutare se essa sia o meno un «rifiuto» ai sensi della direttiva 75/442. Se
poi, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore
consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è
alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere
considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di disfarsi, bensì un
autentico prodotto” (v. punto 37).
10 Con sentenza 18 dicembre 2007, in Causa-263/2005.
11 Donde la rilevanza della componente “soggettiva” (della
volontà del detentore) nella ricostruzione della nozione di rifiuto.
12 Da ciò si desume, chiaramente, la possibilità che la m.p.s.
sia destinata a terzi e dunque ad un processo produttivo diverso da quello di
provenienza (che l’ha generata) ed in luogo necessariamente diverso.
13 V. nota precedente.
14 L’elemento della certezza vale a dimostrare che la m.p.s.
sia indirizzata al mercato invece che restare nell’area della gestione dei
rifiuti (tramite abbandono, smaltimento o recupero). Questo spiega l’importanza
del giudizio di rilevante probabilità del riutilizzo e il criterio dell’utilità
dell’operazione per il detentore, come si evince nel seguente passo: “38
Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione
di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza
operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini
di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se,
oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il
detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale
riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più
essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un
autentico prodotto (v. sentenze citate Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto
46),
15 Per es. dell’impresa che l’ha prodotta.
16 Da parte del terzo, in un processo di produzione diverso
(sia nel senso di “realizzato altrove” che come tipologia di processo
produttivo).
17 Come quelli, per es., connessi all’art. 28 del Regolamento
n. 1013/2006 e s.m.i., sulla spedizione dei rifiuti, ove si suppone “… un
disaccordo in merito alla classificazione dei rifiuti fra autorità competenti di
spedizione e di destinazione”),
18 Di cui sono riportati, a stralcio, alcuni contenuti, a
seguire, nel testo.
19 Per es. per prevenire le situazioni di disaccordo di cui
all’art. 28, in esame.
20 Tale sottile distinzione, frutto di una doverosa cautela,
non può far velo al dato oggettivo in forza del quale detto Organismo perviene
alle rilevanti conclusioni che si indicano, più avanti, non in linea puramente
teorica, ma sulla scorta di una esegesi attenta, e largamente condivisibile,
della giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia CE…!
21 Questo il passo:” un “sottoprodotto”: ogni materiale che si
ottiene deliberatamente nell'ambito di un processo di produzione. In molti casi
è possibile individuare uno (o più) prodotti "primari", ovvero il materiale
principale prodotto; residuo di produzione: materiale che non è ottenuto
deliberatamente nell'ambito di un processo di produzione ma che può costituire
un rifiuto; sottoprodotto: un residuo di produzione che non costituisce un
rifiuto”.
22 Modificata da ultimo dalla decisione 2001/573/CE del
Consiglio (GU L 203 del 28.7.2001, pag. 18).
23 Valorizza giustamente l’importanza di questa sentenza
comunitaria V. Paone, op. cit., pag. 223 e ss.
24 Si consideri il seguente passo:” La catena del valore di un
sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter
rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato,
seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche
particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere
oggetto di controlli di qualità ecc. Alcune operazioni sono condotte nel luogo
di produzione del fabbricante, altre presso l'utilizzatore successivo, altre
ancore sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono
parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale
sia considerato un sottoprodotto”.
Fermo restando che “… se un materiale necessita di un'operazione di recupero per
poter essere riutilizzato, anche quando una tale utilizzazione è certa, esso va
considerato rifiuto fino al completamento dell'operazione (Avesta Polarit)”.
“Se il materiale, per essere ulteriormente trasformato, viene spostato dal luogo
o dallo stabilimento in cui è stato prodotto, è verosimile ritenere che le
operazioni necessarie alla sua trasformazione non facciano più parte dello
stesso processo di produzione. Pur tuttavia, in presenza di processi industriali
sempre più specializzati, questo elemento da solo non basta a costituire una
prova. Gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono
partecipare alla preparazione del materiale per il suo riutilizzo, svolgendo il
tipo di operazioni descritte” (sopra).
25 Ma, si insiste, altrettanto si potrebbe ripetere, con il
dovuto adeguamento, per il macero e il rottame ferroso.
26 Di grande interesse anche le valutazioni relative ai residui
e ai materiali difettosi espresse in questi termini: “… Di norma, i residui
provenienti da un processo di produzione principale, o i materiali che
presentano solo difetti superficiali ma la cui composizione è identica a quella
del prodotto principale, come le miscele di gomma o i composti per
vulcanizzazione, trucioli e pezzetti di sughero, scarti di plastica e altre
materie simili, possono essere considerati sottoprodotti. Affinché sia così
devono potere essere riutilizzati direttamente nel processo di produzione
principale o in altre produzioni che siano parte integrante di tale processo e
per le quali il loro utilizzo sia altrettanto certo. Si può ritenere che anche
questo tipo di materiali non rientra nella definizione di rifiuto. Laddove
questi materiali richiedano un'operazione completa di riciclaggio o di recupero,
o se contengono sostanze inquinanti che occorre eliminare prima di poterli
riutilizzare o trasformare, essi devono essere considerati rifiuti fino al
completamento dell'operazione di riciclaggio o di recupero.
27 V., infatti, la sentenza citata a nota 10, par. 39 che
osserva: “ Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che
possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore
nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva
mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è
prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui
trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in
tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto
39).
28 Sul punto, si considerino i seguenti passaggi della sentenza
cit. a nota 10:
”41 Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per
individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o
di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati
membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi
definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi
l’efficacia del diritto comunitario (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e
a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad
esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare
l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi
risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario
relative a tali rifiuti siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate
categorie dall’ambito di applicazione dei testi adottati per dare attuazione
agli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2,
n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa
C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12)”.
29 Si veda, in particolare, l’art. 2, legge n. 475/1988 che ha
introdotto formalmente la categoria delle materie prime secondarie; le molte
accezioni assegnate al termine (v. par. 74 delle conclusioni dell’avv. Jacobs
nella causa C-129/96 Inter-Environnement Wallonie ASBL) e le prime pronunce
dalle Corte costituzionale (30 ottobre 1990, n. 512) e della Corte di Giustizia
(su tale risalente problematica, cfr. P. Giampietro, Il rifiuto, la materia
prima secondaria e la volontà del detentore tra il D.M. 26 gennaio 1990 e la
Corte di Giustizia della Comunità europea”, in Foro italiano, IV, 1990, 502).
Per la Cassazione, fra le prime decisioni favorevoli al riconoscimento delle
m.p.s. (peraltro contrastanti con altri indirizzi più severi), v. sentenza 13
gennaio 1992, Acciarini; 3 febbraio 1992 Del Gaizo; 13 dicembre 2002, Pittini
(secondo cui le m.p.s. sono comunque escluse, ab origine, dalla disciplina dei
rifiuti) ovvero le decisioni 5 luglio 1991 Jeanmonod ; 4 febbraio 1992, Puppo
(esclusione delle m.p.s. solo a certe condizioni) sino alla Sez. Un. 27 marzo
1992, Viezzoli. Per gli indirizzi più recenti, di pieno riconoscimento delle
m.p.s. (anch’essi contrastati da pronunce si segno contrario), v. sentenza 13
novembre 2002, Passerotti; 11 febbraio 2003, Traversi; 6 giugno 2003, Agogliati;
25 giugno 2003, Papa; 11 febbraio 2003, Mortellaro; 12 ottobre 2004, Falconi; 4
marzo 2005, Maretti. Si vedano, da ultimo, alcuni incisi della motivazione di
Cass. Pen., sez. III, 19 febbraio 2008 n. 7465, secondo la quale: “.. le materie
prime secondarie … diventano tali all'esito delle operazioni di recupero …”
ovvero: Cass. Pen., sez. III, 21 giugno 2007 n. 24471 che, richiamando la
posizione della Corte di Giustizia (cfr., tra le altre, C.G.C.E. ,11 novembre
2004, causa C-457/02, Niselli), alla luce della quale è necessario interpretare
anche il diritto italiano, rileva che … un residuo di produzione costituisce, in
via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione o di
un obbligo di disfarsene. Ciò non esclude, però, che il residuo in questione
possa essere un sottoprodotto o una materia prima secondaria, che il detentore
intende sfruttare o commercializzare, purché "il riutilizzo di un bene, di un
materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa
trasformazione ...".
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 09/10/2008