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Il sindacato di costituzionalità sulle c.d. “antinomie penali” (le norme sanzionatorie incompatibili con il diritto comunitario) e l’«intermittente» prassi della Corte costituzionale.
Corte costituzionale
- Ord. n. 413, 03.12.2008, Dep. 24.12.2008, Est. G. Tesauro.
I.Rifiuti – Inquinamento – Trasporto a titolo professionale di rifiuti propri
non pericolosi – Obbligo di iscrizione all’Albo Gestori – Art. 30 comma 4 D. Lgs.
n. 22/97, modif. dall’art. 1 comma 19 L. n. 426/1998 che non prevede tale
obbligo – Contravvenzione di cui all’art. 51 comma 1 D.Lgs. n. 22/97 (art. 256
comma 1 T.U. ambientale) - Questione d’incostituzionalità - Violazione degli
artt. 11 e 117 Cost. - Inosservanza della direttiva comunitaria che stabilisce
l’obbligo di iscrizione – Condanna dell’Italia a seguito di procedura
d’infrazione - Manifesta inammissibilità
E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 30, comma 4, del d.lgs. n. 22/97, come modificato dall'art. 1, comma
19, della legge 9 dicembre 1998, n. 426 (Nuovi interventi in campo ambientale),
che esonera dall’obbligo di iscrizione all’Albo gestori i trasporti in conto
proprio di rifiuti non pericolosi, sollevata dalla Corte di Cassazione per
violazione dell’art. 12 della direttiva sui rifiuti 91/156/CEE sulla base di
quanto statuito da una condanna della Corte di Giustizia a seguito di procedura
d’infrazione. (Senza affrontare la tematica sull’«ammissibilità» del quesito sul
contrasto tra disciplina interna e comunitaria, nella motivazione la Consulta
ritiene che l’intervento richiesto ecceda la propria competenza in quanto
tendente ad ottenere una pronuncia in malam partem che consenta di
ripristinare, rispetto alle condotte poste in essere nella vigenza della
denunciata norma, il regime penale previsto dal testo originario del combinato
disposto degli artt. 30, comma 4, e 51, comma 1, del d. lgs. n. 22 del 1997).
II. Corte costituzionale – Questioni d’incostituzionalità in materia penale -
Accesso al sindacato di legittimità – Limiti – Norme penali di favore - Nozione
Le norme penali di favore sono le norme che stabiliscono per determinati
soggetti o ipotesi un trattamento penalistico più favorevole di quello che
risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni. La nozione di norma
penale di favore costituisce la risultante di un giudizio di relazione fra due o
più norme compresenti nell'ordinamento in un dato momento. La detta
qualificazione va esclusa quando la norma sottoposta a scrutinio sia messa a
raffronto con una norma anteriore, dalla prima sostituita con conseguente
contrazione dell'area di rilevanza penale; in tal caso, infatti, la richiesta di
sindacato mira, non già a far riespandere la portata di una norma
contemporaneamente vigente nell'ordinamento, quanto piuttosto ad ottenere la
reintroduzione di una norma incriminatrice abrogata, in contrasto con il
principio per cui l'individuazione delle condotte ai fini della repressione
penale è espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore, fermo
ovviamente il rispetto del principio di irretroattività (v. sentenze n. 324 del
2008, n. 394 del 2006, n. 330 del 1996; ordinanza n. 175 del 2001).
***
1.Introduzione. 2. Il sindacato di costituzionalità sulle c.d. “antinomie penali” (le norme sanzionatorie incompatibili con il diritto europeo) e l’intervento in malam partem sulle “norme penali di favore”: cenni. 3.L’ordinanza n. 413 del 2008 e l’omessa valutazione dell’«ammissibilità» al sindacato di costituzionalità dell’«antinomia penale». 4. I contraddittori parametri di selezione delle “antinomie penali” e l’ordinanza n. 165 del 2004.
1. Introduzione.
Con l’ordinanza in epigrafe1 il giudice delle leggi interviene per la seconda
volta sulla medesima questione d’incostituzionalità dell’art. 30, comma 4, D.Lgs. n. 22/1997, come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre
1998, n. 426 (Nuovi interventi in campo ambientale), sollevata sempre dalla
Sezione terza della Cassazione in riferimento agli art. 11 e 117, primo comma,
Cost. per violazione del diritto comunitario e, segnatamente, per contrasto con
l’art. 12 della direttiva sui rifiuti 91/156/CEE2.
Nello specifico, la questione riguarda l’incostituzionalità dell'art. 30, comma
4, D. Lgs. n. 22/97, così come modificato dalla L. n. 426/19983 “nella parte in
cui esclude che gli imprenditori che svolgono attività di raccolta e trasporto
di rifiuti non pericolosi da essi stessi prodotti siano tenuti ad iscriversi
all'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti,
previsto dal medesimo art. 30”4, in contrasto con l’art. 12 della direttiva sui
rifiuti 91/156/CEE che, invece, prevede detto adempimento.
L’inottemperanza a tale obbligo è penalmente tutelata, ex art. 51, comma 1,
D.Lgs. n. 22/97.
Il reato contestato nel giudizio a quo è, infatti, la contravvenzione di cui
all’art. 51, comma 1, D. Lgs. n. 22/975 (ora previsto dall’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/20066) commessa il 24.05.2005, e la condotta riguarda il trasporto
da parte di soggetto non abilitato di rifiuti speciali provenienti dalla propria
attività di demolizione edilizia.
L’autocarro utilizzato per il trasporto è stato sequestrato e l’ordinanza del
Tribunale del riesame di conferma di quella del GIP, ex art. 321 c.p.p., è stata
impugnata per varie ragioni innanzi alla Cassazione e quest’ultima ha sollevato
incidente di costituzionalità.
All’esito di una procedura d’infrazione nei confronti del nostro Stato in sede
europea tale disciplina interna è stata censurata per violazione degli obblighi
comunitari in quanto "la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza
del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 30, comma 4, (...) come modificato dalla
L. 9 dicembre 1998, n. 426, art. 1, comma 19, (...) di esercitare la raccolta e
il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e
regolare senza obbligo di essere iscritte all'Albo nazionale delle imprese
esercenti servizi di smaltimento rifiuti (...) è venuta meno agli obblighi ad
essa incombenti ai sensi dell'art. 12 della direttiva del Consiglio 15.7.1975,
75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio
18.3.1991, 91/156/CEE”7.
L’art. 12 della direttiva 91/156/CEE stabilisce che:
«Gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di
rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al ricupero
di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari), devono essere
iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad
autorizzazione».
In sostanza, la citata direttiva nell’interpretazione accolta dal giudice
europeo stabilisce l’obbligo di iscrizione “presso le competenti autorità”
indistintamente sia per i trasporti di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi
sia per i trasporti di residui in conto proprio (ovvero degli scarti prodotti
dalla stessa azienda che effettua il trasporto).
La tematica in discussione è quella relativa ai rapporti tra diritto comunitario
e diritto interno nel settore penale notoriamente priva di una normativa ad hoc.
Nello specifico, la Cassazione richiede al giudice delle leggi un intervento
demolitorio della disposizione interna (cioè dell'art. 1, comma 19, della legge
09.12.1998, n. 426, che modifica l’art. 30, comma 4, D.Lgs. n. 22/97)
esclusivamente alla stregua del parametro costituito dalla norma comunitaria,
alla quale il nostro Stato si deve adeguare in virtù degli obblighi derivanti
dall’appartenenza alla Comunità europea, ex artt. 11 e 117 Cost. (ed a maggior
ragione, logicamente, almeno “in teoria”, dopo essere stato condannato – pure al
pagamento delle spese processuali – per inosservanza della citata disciplina
europea all’esito di una procedura d’infrazione).
Quando è stata investita per la prima volta8 di questa stessa “eccezione” la
Consulta ha ritenuto di dover restituire gli atti al giudice a quo per una nuova
valutazione della questione alla luce dello ius superveniens, in seguito
all’entrata in vigore del Codice dell’ambiente (D.Lgs. n. 152/2006).
Nel citato provvedimento la Corte evidenziava che successivamente all’ordinanza
di rimessione è intervenuto il nuovo T.U. ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) che
per effetto del “comma 8 dell'art. 2129 obbliga all'iscrizione all'Albo – con il
presidio della sanzione penale comminata dall'art. 256, comma 1 (che sostituisce
l'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997) – anche le imprese che esercitano
la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come «attività
ordinaria e regolare» e le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi
in quantità non eccedenti i limiti già previsti, ai fini dell'esonero
dall'iscrizione, dall'art. 30, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997 (trenta
chilogrammi o trenta litri al giorno): sia pur prefigurando, per dette imprese,
un regime sensibilmente agevolato (esse non sono infatti tenute alla prestazione
delle garanzie finanziarie normalmente imposte dal comma 7, dell'art. 212 del
d.lgs. n. 152 del 2006 e la loro l'iscrizione all'Albo ha luogo in base a
semplice richiesta scritta, senza che la stessa sia soggetta a valutazione
relativa alla capacità finanziaria e all'idoneità tecnica del richiedente e
senza che occorra la nomina di un responsabile tecnico)”.
L’ordinanza concludeva che a prescindere «da ogni rilievo circa l'effettiva
possibilità di qualificare la disposizione censurata come «norma penale di
favore», a fronte di quanto chiarito da questa Corte con sentenza n. 394 del
200610 (successiva all'ordinanza di rimessione); ed a prescindere, altresì, dalle
ulteriori modifiche sopravvenute, inerenti al quadro normativo comunitario di
riferimento (abrogazione della direttiva 75/442/CEE ad opera della nuova
direttiva in materia di rifiuti 2006/12/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 5 aprile 2006), non foriere, in parte qua, di innovazioni
sostanziali, gli atti vanno restituiti alla Corte rimettente, ai fini di una
nuova valutazione circa la rilevanza della questione sollevata alla luce dello ius superveniens».
La Corte dunque, invita espressamente il giudice a quo a riconsiderare la
rilevanza della questione alla luce delle modifiche normative intervenute ed a
valutare “l’effettiva possibilità di qualificare la disposizione censurata come
«norma penale di favore»” sulla base della più recente pronuncia n. 394 del 200611
senza, però, premurarsi di approfondire la fondamentale circostanza che la
questione riguarda in primis una “antinomia penale” che preclude in radice
l’analisi nel merito dell’eccezione, nei termini di seguito precisati.
2. Il sindacato di costituzionalità sulle c.d. “antinomie penali” (le norme
sanzionatorie incompatibili con il diritto europeo) e l’intervento in malam
partem sulle “norme penali di favore”: cenni.
Nell’ambito della tematica generale sui criteri di ammissione al giudizio di
legittimità delle norme penali di favore (cioè delle disposizioni che
introducono una disciplina più favorevole al reo da quella che risulterebbe
dall’applicazione di norme generali o comuni) va tenuto ben separato il settore
relativo alla selezione delle eccezioni costituite dalle “antinomie penali”
(cioè dalle disposizioni penali ritenute incompatibili con le norme comunitarie)
che proprio per l’indirizzo del giudice delle leggi sui rapporti tra diritto
comunitario e interno nella materia penale segue traiettorie ermeneutiche
completamente diverse dai primi.
E’ di agevole comprensione l’enorme peso specifico della problematica de qua sul
piano degli equilibri tra i diversi poteri dello Stato ove si consideri che, in
considerazione della significativa estensione del diritto comunitario alle più
varie materie, un’eventuale ampliamente del sindacato di costituzionalità alle
menzionate “antinomie penali” aumenterebbe notevolmente il ruolo e la preminenza
della Corte costituzionale soprattutto rispetto all’apparato legislativo (in
quanto la prima, ovviamente, conseguirebbe in tal modo un sensibile incremento
del potere di eliminare disposizioni penali dall’ordinamento) .
Nel caso dell’ordinanza in epigrafe, la questione riguarda proprio una
“antinomia penale” in quanto l’impugnazione concerne il contrasto di una «norma
penale di favore» con il parametro costituito esclusivamente dal diritto
comunitario, ex artt. 11 e 117 Cost., per inosservanza dell’art. 12 della
direttiva sui rifiuti 91/156/CEE così come interpretato dalla Corte europea.
Va sottolineato che sinora le eccezioni relative alle “antinomie penali” non
sono mai state ammesse al sindacato di legittimità a differenza delle questioni
d’incostituzionalità afferenti le «norme penali di favore» prospettate per
inosservanza di altri parametri costituzionali, e tale radicale ed ineludibile
preclusione deriva direttamente dalla disciplina sui rapporti tra diritto
interno e comunitario.
Per il giudice delle leggi l’unico rimedio giurisdizionale per la risoluzione
dei conflitti tra norma interna ed europea è stato quello di privare la norma
incompatibile di rilevanza per la soluzione del caso concreto mediante
applicazione nel giudizio a quo della regola comunitaria dotata di “effetto
diretto”12, cioè immediatamente applicabile nel diritto interno (es. i
regolamenti comunitari) nei limiti compatibili con il rispetto del principio di
legalità e di irretroattività. Ne consegue, che tali eccezioni inerenti le
fattispecie penali vengono dichiarate “inammissibili”per difetto di rilevanza
nel giudizio di merito proprio perché si deve applicare la disposizione europea.
Infatti, nella giurisprudenza costituzionale13 il problema dell’eliminazione delle
“antinomie” è stato sinora risolto in estrema sintesi in due modi:
a) il primo è quello di privare la norma incompatibile di rilevanza per la
soluzione del caso concreto mediante applicazione della regola europea dotata di
effetto diretto e, in questo caso, la regola nazionale continua a permanere
nell’ordinamento;
b) il secondo, è quello connesso all’esercizio della funzione legislativa
mediante la soppressione della regola interna incompatibile con quella europea14 e
questa ipotesi riguarda pure il conflitto delle norme nazionali con quelle
comunitarie che risultano prive di effetto “diretto”, come nel caso di specie.
In linea meramente teorica, tale indirizzo non esclude l’astratta possibilità di
sindacare l’incostituzionalità delle c.d. norme penali di favore “incompatibili”
ma questa linea interpretativa sinora non ha mai sortito positive applicazioni.
Per l’impostazione indicata dalla Consulta, la soppressione delle “antinomie” a
mezzo il sindacato costituzionale per varie ragioni (connesse alla considerevole
entità delle disposizioni “incompatibili” ma pure per altri motivi) pare non
coerente con la funzionalità complessiva del sistema e, di conseguenza, le
questioni d’incostituzionalità prospettate solo in riferimento alla violazione
delle regole comunitarie, ex artt. 11 e 117 Cost. (come nel caso de quo), non
sembrano destinate a divenire oggetto dello scrutinio in nessun caso e,
comunque, sinora tale risultato non è mai stato realizzato nel caso di ricorsi
promossi “in via incidentale”15.
In sintesi, secondo il giudice delle leggi la soppressione di eventuali
disposizioni interne “incompatibili” (con quelle europee, ovviamente) può
avvenire solo per effetto dell’intervento del Legislatore.
A rigore, dunque, ed in considerazione di detta disciplina deve ritenersi che
nel caso di eccezioni d’incostituzionalità sulle “antinomie penali” la Consulta
in osservanza a tale dictum deve dichiararne l’inammissibilità.
Per chiarire, in dette ipotesi preliminare a qualunque altra è la valutazione
sull’«ammissibilità» della questione e solo nel caso in cui l’opzione
interpretativa sui rapporti tra diritto comunitario e interno sopra indicata (v.
C. Cost. sent. n. 389/1989 cit.) venga espressamente disattesa consentendo, di
conseguenza, l’accesso al sindacato di costituzionalità alle “antinomie penali”
(ovvero vengano dichiarate “ammissibili”) l’ulteriore attività processuale può
avere un senso in quanto, in caso contrario, la stessa rappresenta solo un
inutile protrarsi della pendenza del procedimento (ben suscettibile di prestare
il fianco a giustificati sospetti di disparità di trattamento nella gestione
delle cause) destinato inevitabilmente a concludersi con l’ “inammissibilità”
della questione.
Ne consegue che o lo «sbarramento» dell’«inammissibilità» dell’eccezione
relativa all’«antinomia penale» viene superato discostandosi dalla menzionata
giurisprudenza sulla selezione dei criteri delle disposizioni interne
confliggenti con quelle europee sindacabili dalla Consulta oppure, in caso
contrario, qualora non venga espressamente disattesa detta linea interpretativa
s’impone l’immeditata declaratoria d’inammissibilità di dette eccezioni.
In ordine a tali conclusioni e sempre riguardo alle “antinomie penali” la
tematica dell’osservanza dei criteri di selezione delle “norme penali di favore”
e del principio di legalità dei reati e delle pene16 secondo un ordine logico può
venire in rilievo solo in un secondo momento, cioè nel caso in cui la Consulta
cambi l’indirizzo anzi menzionato in tema di rapporti tra ordinamento interno e
comunitario e la questione, sotto questo specifico profilo, venga ritenuta
«ammissibile».
In questa sede, per dipanare ogni incongruenza scaturente dalla carenza di norme
ad hoc regolanti la relazione tra il diritto interno e quello sovranazionale, si
vuole evidenziare che la preclusione del sindacato di costituzionalità derivante
dall’orientamento espresso in tema dalla Consulta è ancora più netta e radicale
di quella conseguente ai limiti imposti dall’osservanza dei criteri di selezione
delle “norme penali di favore” e del menzionato principio di legalità e, proprio
per questo, la Consulta ben poteva dichiarare l’inammissibilità della questione
de qua già la prima volta in cui è stata investita del quesito (v. C. Cost. ord.
n. 126 del 07.03-19.04.2007, cit.).
La soluzione adottata di restituire, invece, gli atti al giudice a quo ha
determinato l’inutile prolungarsi di un procedimento che, per tale motivo, era
destinato sicuramente e comunque a concludersi con la declaratoria di
inammissibilità dell’eccezione e senza alcuna risposta alla sollevata (e
documentata) eccezione di illegittimità “comunitaria” (come di fatto è avvenuto
… anche se per effetto di altre valutazioni).
3.L’ordinanza n. 413 del 2008 e l’omessa valutazione dell’«ammissibilità» al
sindacato di costituzionalità dell’«antinomia penale».
Nella motivazione dell’ordinanza in commento, la Corte riprende la nozione di
“norma penale di favore” elaborata con la sentenza n. 394 del 200617 per cui la
norma penale di favore si identifica con:
- la disposizione che sottrae una certa classe di soggetti o di condotte
all’ambito di applicazione della disciplina generale (o comune), più rigorosa,
che comprende l’area penale riservata alla prima e che non viene abrogata. Tale
nozione rappresenta il risultato di un giudizio di relazione fra due o più norme
compresenti nell'ordinamento in un dato momento (tra le quali può intercorrere
un rapporto di specialità), escludendo che detta relazione possa esser fatta
discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una anteriore .
18
I criteri desumibili da questa definizione attinenti l’individuazione delle
questioni “ammissibili” allo scrutinio in malam partem presentano apprezzabili
margini di discrezionalità in quanto risultano idonei ad individuare
disposizioni penali sia di identica sia di eterogenea natura e, per tale
ragione, sono suscettibili di compromettere l’osservanza del principio di
riserva di legge penale, ex art. 25 comma 2 Cost.
Riguardo ai criteri di selezione delle norme penali di favore nella citata
decisione (v. punto 6.1. della sentenza n. 394/2006) il giudice delle leggi
precisa che rimangono escluse dal concetto di norme penali di favore «le
previsioni normative che “delimitano” l'area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato» che «si
traducono in dati normativi espressivi di «una valutazione legislativa in
termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare
una precisa scelta politico-criminale».
Costituiscono, invece, “norme penali di favore” le ipotesi che «“sottraggono”
una certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di applicazione di altra
norma, maggiormente comprensiva» «ove l'anzidetta sottrazione si risolva nella
configurazione di un trattamento privilegiato».
Più nel dettaglio, la sentenza n. 394/2006 dopo aver enunciato che le regole che
«“delimitano” l'area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla
definizione della fattispecie di reato» non sono identificabili come norme
penali di favore afferma che le stesse «si traducono in dati normativi
espressivi di «una valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero
di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta
politico-criminale»: scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre - «senza
esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall'art. 25,
secondo comma, Cost. al legislatore» – «una diversa strategia di
criminalizzazione volta ad ampliare», tramite ablazione degli elementi stessi,
«l'area di operatività della sanzione» (sentenza n. 161 del 200419)».
Da tali indicazioni emerge che la norma penale di favore viene identificata come
la regola che sottrae “una certa classe di soggetti o di condotte”
all’operatività della disciplina generale più ampia che non viene abrogata e
configura per tali categorie un trattamento privilegiato; questa nozione «è la
risultante di un giudizio di relazione fra due o più norme compresenti
nell'ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione
possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una norma
anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di
rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti,
la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la
portata di una norma tuttora presente nell'ordinamento, quanto piuttosto a
ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non
più attuali: operazione, questa, senz'altro preclusa alla Corte, in quanto
chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte (sentenze n.
330 del 1996 e n. 108 del 1981; ordinanza n. 175 del 2001)».
Appare priva di rigore logico e, quindi, insussistente la distinzione più sopra
indicata (che si richiama in questo senso alla sentenza n. 161/2004) tra: a) le
regole che «delimitano l’area di intervento di una norma incriminatrice,
concorrendo alla definizione della fattispecie di reato» che «si traducono in
dati normativi espressivi di «una valutazione legislativa in termini di
“meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa
scelta politico-criminale», e b) le norme che sottraggono «una
certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di applicazione di altra
norma, maggiormente comprensiva» in quanto entrambi i concetti sono astrattamente idonei ad
individuare indifferentemente la stessa “porzione” di fattispecie penale.
In assenza di altri elementi tipizzanti, ciascuno dei citati concetti risulta
funzionale all’identificazione dei medesimi fatti ed idoneo allo stesso modo a
contrarre l’ambito di rilievo penale e, sotto questo aspetto, pare indifferente
che la riduzione della fattispecie riguardi il profilo soggettivo od oggettivo
della condotta o altri elementi afferenti la non meglio identificata “area di
operatività della sanzione”.
Nella parte motiva dell’ordinanza in epigrafe la Corte non utilizza dette
categorie per l’analisi del caso considerato ma giunge alla declaratoria di
inammissibilità limitandosi a rilevare che:
«la nozione di norma penale di favore costituisce la risultante di un giudizio
di relazione fra due o più norme compresenti nell'ordinamento in un dato momento
(sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006);
che, dunque, la detta qualificazione va esclusa quando, come nella specie, la
norma sottoposta a scrutinio sia messa a raffronto con una norma anteriore,
dalla prima sostituita con conseguente contrazione dell'area di rilevanza
penale; in tal caso, infatti, la richiesta di sindacato mira, non già a far
riespandere la portata di una norma contemporaneamente vigente nell'ordinamento,
quanto piuttosto ad ottenere la reintroduzione di una norma incriminatrice
abrogata, in contrasto con il principio, più volte ribadito da questa Corte,
secondo cui l'individuazione delle condotte ai fini della repressione penale è
espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore (sentenze n.
324 del 2008, n. 394 del 2006, n. 330 del 1996; ordinanza n. 175 del 2001),
fermo ovviamente il rispetto del principio di irretroattività già sopra
richiamato;».
In definitiva, nel caso di specie l'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre
1998, n. 426 (Nuovi interventi in campo ambientale) viene posto a raffronto con
la norma anteriore di cui all’art. 30, comma 4, D.Lgs. n. 22/1997 di cui riduce
l’area di rilievo penale (in quanto elimina l’obbligo di iscrizione per il
trasporto di rifiuti non pericolosi in conto proprio), e tale circostanza
esclude che possa configurarsi in ordine al fatto il concetto di “compresenza”
di entrambe le disposizioni nell’ordinamento posto come requisito di ammissione
allo scrutinio di legittimità dalla sentenza n. 394/2006.
Per quanto riguarda la delicata e complessa problematica relativa alla
“sindacabilità” delle norme penali di favore costituite dalle “antinomie penali”
nel caso de quo la Consulta ritiene di non prendere in esame il tema affermando
che “che le conclusioni raggiunte esonerano dall'approfondire l'ulteriore
profilo concernente l'ammissibilità della questione di legittimità
costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della
Costituzione, per il contrasto della norma nazionale con le disposizioni di una
direttiva, quando la Corte di giustizia, all'esito di procedura d'infrazione
contro la Repubblica italiana, precisamente di quella norma abbia dichiarato
l'incompatibilità comunitaria”.
Per incidens, come già detto le conclusioni alla quali si perviene con
l’ordinanza n. 413 del 2008 si potevano agevolmente raggiungere pure in
occasione della prima pronuncia della Consulta sul quesito relativo all’art. 30,
comma 4, D.Lgs. n. 22/1997, modificato dall’art. 1, comma 19, della legge n.
426/1998 (v. Ord. n. 126/2007) e, comunque, in entrambi i casi va sottolineata
la sostanziale improduttività dell’attività giurisdizionale posta in essere
sotto tutti i profili e che non ha comportato ad alcun chiarimento o soluzione
al quesito di “incompatibilità” comunitaria nonostante la sentenza di condanna
del nostro Stato a seguito di procedura di infrazione.
4. I contraddittori parametri di selezione delle “antinomie penali” e
l’ordinanza n. 165 del 2004.
L’ambiguità delle soluzioni escogitate dalla Consulta in relazione ai quesiti
afferenti le “antinomie penali” appare ancora più stridente ove si ponga mente
alla circostanza che in un caso analogo a quello in esame inerente una
“antinomia penale”, il giudice delle leggi ha optato per il rinvio delle cause a
nuovo ruolo senza pronunciarsi in alcun modo preliminarmente sull’ammissibilità
della questione pur avendo in tal senso tutti gli elementi a disposizione.
Il procedimento citato riguarda l’ordinanza n. 165/200420 ed è stato promosso con
tre provvedimenti, di analogo tenore, dal Giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale di Palermo21 che ha sollevato “in riferimento agli artt. 10, 11 e 117
della Costituzione e in relazione alla direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice
civile, nella parte in cui non prevedono un «adeguato mezzo processuale» atto a
consentire la definizione del processo penale entro i termini di prescrizione
dei reati previsti dalle stesse norme; … il quesito di costituzionalità si
incentra, in specie, sull'asserito contrasto delle norme impugnate con l'art. 6
della citata direttiva (la prima direttiva sul diritto societario 68/151/CEE n.d.r.), che impone agli Stati membri di prevedere «adeguate sanzioni» per i
casi di «mancata pubblicità del bilancio e del conto dei profitti e perdite,
come prescritto dall'art. 2, paragrafo 1, lettera f)» della direttiva medesima”22.
In tale caso, la soluzione che ragionevolmente si poteva adottare era di due
tipi: o disporre l’“ammissione” al giudizio della Consulta di detti quesiti
innovando l’orientamento costituzionale sopra indicato sui rapporti tra
ordinamento europeo e interno e, quindi, decidere il merito delle questioni,
oppure la declaratoria di “inammissibilità” delle eccezioni.
Invece, il giudice delle leggi opta di rinviare “le cause a nuovo ruolo” in
quanto ritiene “meritevole di accoglimento” «la richiesta di rinvio formulata
dall'Avvocatura generale dello Stato, in vista della decisione della Corte di
giustizia delle Comunità europee nelle cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02»
stante la sostanziale coincidenza «fra il quesito di costituzionalità, attinente
all'asserito contrasto delle norme impugnate con il diritto comunitario, e
quello che costituisce oggetto delle predette cause».
E’ vero che “l'Avvocatura generale dello Stato ha dedotto che nel corso del 2002
il Tribunale di Milano (con due distinte ordinanze) e la Corte di appello di
Lecce hanno posto alla Corte di giustizia delle comunità europee, ai sensi
dell'art. 234 del Trattato CE, quesiti analoghi a quello formulato dal giudice
rimettente, tendenti a conoscere se le sanzioni stabilite dagli artt. 2621 e
2622 cod. civ. possano ritenersi «adeguate» in rapporto alle previsioni della
direttiva 68/151/CEE (e a quelle «parallele» delle direttive 78/660/CEE e
83/349/CEE, rispettivamente sui conti annuali e consolidati); che la difesa
erariale ha conseguentemente segnalato – stante l'assoluta coincidenza di
oggetto fra giudizio di costituzionalità e giudizio comunitario, e pur a fronte
della «ben nota ... indipendenza e ... separatezza» dei due giudizi –
l'opportunità «di dare la precedenza temporale alla Corte comunitaria»,
formulando quindi, nel corso dell'udienza pubblica, richiesta di rinvio, a tal
fine, della decisione sui giudizi incidentali di legittimità costituzionale”.
Ma è altrettanto vero che tale richiesta di “rinvio”, congiuntamente alla citata
“segnalazione”, non sposta in alcun modo i termini della problematica relativa
alla necessità della preliminare valutazione circa l’“ammissibilità” al
sindacato della Corte delle elaborate questioni del G.u.p. di Palermo relative
ai novellati artt. 2621 e 2622 c.c. sia in riferimento alla giurisprudenza che
osta all’eliminazione delle “antinomie” a mezzo il sindacato della Consulta
sopra indicata, sia in relazione ai principi di legalità e di riserva di legge
in materia penale, ex art. 25 comma 2 Cost..
Soprattutto, non va sottaciuto ma anzi ben sottolineato che l’opzione del
“rinvio a nuovo ruolo” viene attivata rispetto a cause (cioè quelle citate
dall’Avvocato dello Stato) per le quali non è dato sapere neppure se i quesiti
oggetto delle pregiudiziali interpretative proposte, ex art. 234 Trattato CE,
rispettino i prescritti parametri di “ricevibilità” ai fini del giudizio della
Corte di Giustizia e, in particolare, se i quesiti siano compatibili con il
principio del favor rei.
La decisione del “rinvio” delle cause “a nuovo ruolo” implicitamente parrebbe
dare per scontata la valutazione positiva circa l’“ammissibilità” delle
questioni sollevate dai G.u.p. di Palermo in quanto, in caso contrario, ovvero
nell’ipotesi di ritenuta “inammissibilità” delle stesse non avrebbe avuto senso
disporre detto “rinvio” proprio perché la valutazione in esame è preliminare
rispetto ad ogni altra. Di fatto, la Consulta all’esito della decisione della
Corte europea elude la tematica restituendo gli atti ai giudici a quibus per la
valutazione della rilevanza della questione alla luce dello ius superveniens23.
Le menzionate osservazioni prescindono dal merito dell’eccepita illegittimità
dei commi 3 e 4, dell’art. 2621 c.c. che non interessa affrontare in questa sede
ma ciò che emerge da detta ordinanza e che preme sottolineare è proprio
l’ambiguità derivante dalla seguente circostanza ovvero, da un lato, la netta
preclusione del sindacato costituzionale sulle “antinomie penali” sancito dalla
giurisprudenza e, dall’altro lato, la concomitante presenza di procedimenti
relativi ad eccezioni concernenti dette “antinomie” presso il giudice delle
leggi e, in particolare, la loro “oscillante” gestione riflettentesi, altresì,
negativamente (per l’ incertezza alla quale intuitivamente dà origine) nei
rapporti con gli altri soggetti istituzionali.
In definitiva, il menzionato rinvio “a nuovo ruolo” pare suscettibile di violare
il principio di riserva di legge in materia penale24 in quanto, in carenza di
motivazione che giustifichi un mutamento di giurisprudenza, contrasta con
l’indirizzo della stessa Consulta che esclude dal sindacato di costituzionalità
tali eccezioni a garanzia dell’alveo di discrezionalità riservato al Legislatore
nazionale, ex art. 25 comma 2 Cost., in attesa di un’indicazione ermeneutica non
meglio precisata ritenuta di competenza della Corte di Giustizia. Tale opzione è
contraddittoria rispetto a quanto statuito con la coeva sentenza di
“inammissibilità” n. 161/200425 sull’analoga questione del Tribunale di Milano,
seconda sezione penale, che pure si riferiva alla violazione dell’art. 117 Cost.
per inosservanza del principio di adeguatezza delle sanzioni, e che è stata
disattesa senza prendere in esame in alcun modo eventuali “rinvii”.
A causa del notevole peso specifico implicante l’eventuale mutamento
dell’indirizzo della Consulta sui rapporti tra diritto comunitario ed interno e
sulla risoluzione delle “antinomie”, l’accertata carenza di motivazione fa sì
che detto “rinvio a nuovo ruolo” rappresenti una deviazione eclatante quanto
arbitraria dai precedenti in materia, ben suscettibile di velenosi ma non
infondati sospetti di disparità di trattamento.
Con questo non si intende insinuare che tale risultato sia stato delibato e
preventivamente “messo in conto” dai giudici della Consulta ma, di certo, la
descritta carenza di criteri logico-formali a supporto dell’ordinanza n.
165/2004 depone sfavorevolmente circa l’osservanza dei parametri di trasparenza
che dovrebbe contraddistinguere indistintamente tutto l’operato della Consulta
e, a maggior ragione, per ovvi quanto intuibili motivi i procedimenti penali nei
confronti di persone ai vertici delle cariche dello Stato (rispetto ai quali è
stato “disposto” il rinvio pur essendo estranei ai ricorsi dei G.u.p. di
Palermo).
1 L’ordinanza n. 413 del 3-24
dicembre 2008 è stata estratta dal sito www.cortecostituzionale.it .
2 V. Cass. Sez. 3, Ord. 21.09.2007, Ud. 21.06.2007, Est. L. Marini, Imp.
Italiano, reperibile sul sito www.ambientediritto.it. La questione di
costituzionalità precedente e relativa alla stessa questione è stata sollevata
da Cass. sez. 3, ord. 24.03.2006, C.C. 24.11.2005, Est. P. Onorato, Imp.
Italiano, in CED Rv. 233667.
3 V. Cass. sez. 3 pen., Ord. 21.09.2007, Ud. 21.06.2007, Est. L. Marini, Imp.
Italiano, citata.
4 L’art. 30 D. Lgs. n. 22/97, così come modificato dalla L. n. 426/1998,
prevede:
“1. L'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei rifiuti
istituito ai sensi dell'articolo 10 del decreto-legge 31 agosto 1987, n. 361,
convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1987, n. 441, assume la
denominazione di Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei
rifiuti, di seguito denominato Albo, ed è articolato in un Comitato nazionale,
con sede presso il ministero dell'ambiente, ed in Sezioni regionali, istituite
presso le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura dei
capoluoghi di Regione. I componenti del Comitato nazionale e delle Sezioni
regionali durano in carica cinque anni.
2. Il Comitato nazionale dell'Albo ha potere deliberante ed è composto da 15
membri esperti nella materia nominati con decreto del Ministro dell'ambiente, di
concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, e
designati rispettivamente:
a) due dal Ministro dell'ambiente, di cui uno con funzioni di Presidente;
b) uno dal Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, con
funzioni di vice-Presidente;
c) uno dal Ministro della sanità;
d) uno dal Ministro dei trasporti e della navigazione;
e) tre dalle Regioni;
f) uno dall'Unione italiana delle Camere di commercio;
g) sei dalle categorie economiche, di cui due delle categorie degli
autotrasportatori.
3. Le Sezioni regionali dell'Albo sono istituite con decreto del Ministro
dell'ambiente da emanarsi entro centoventi giorni dalla data di entrata in
vigore del presente decreto e sono composte:
a) dal Presidente della Camera di commercio o da un membro del Consiglio
camerale all'uopo designato, con funzioni di Presidente;
b) da un funzionario o dirigente esperto in rappresentanza della Giunta
regionale con funzioni di vice-Presidente;
c) da un funzionario o dirigente esperto in rappresentanza delle Province
designato dall'Unione Regionale delle Province;
d) da un esperto designato dal Ministro dell'ambiente.
4. Le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non
pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti
pericolosi, esclusi i trasporti di rifiuti pericolosi che non eccedano la
quantità di trenta chilogrammi al giorno o di trenta litri al giorno effettuati
dal produttore degli stessi rifiuti, nonché le imprese che intendono effettuare
attività di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di
commercio ed intermediazione dei rifiuti, di gestione di impianti di smaltimento
e di recupero di titolarità di terzi, e di gestione di impianti mobili di
smaltimento e di recupero di rifiuti, devono essere iscritte all'Albo.
L'iscrizione deve essere rinnovata ogni cinque anni e sostituisce
l'autorizzazione all'esercizio delle attività di raccolta, di trasporto, di
commercio e di intermediazione dei rifiuti; per le altre attività l'iscrizione
abilita alla gestione degli impianti il cui esercizio sia stato autorizzato ai
sensi del presente decreto. (5. omissis)”.
5 L’art. 51 D. Lgs. n. 22/97, rubricato “Attività di gestione di rifiuti non
autorizzata” al comma 1, prevede:
“Chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento,
commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 27, 28, 29, 30,
31, 32 e 33 è punito:
a) con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da lire cinque
milioni a lire cinquanta milioni se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da lire
cinque milioni a lire cinquanta milioni se si tratta di rifiuti pericolosi”.
6 L’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 prevede:
“1. Chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208,
209, 210, 211, 212,214, 215 e 21 è punito:
a) con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con l'ammenda da
duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi;
b) con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da
duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”.
7 Cfr. CGCE Sezione 3, 09.06.2005, Commissione c. Repubblica italiana, procedura
d’infrazione ex art. 226 (già 169) Trattato CE. Nello specifico, la Corte ha
dichiarato:
“1) La Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell’art. 30,
comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, che ha trasposto le
direttive 91/156/CEE, relativa ai rifiuti, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti
pericolosi, e 94/62/CE, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, come
modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998, n. 426:
– di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi
come attività ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all’Albo
nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti, e
– di trasportare i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano i 30
chilogrammi e i 30 litri al giorno, senza obbligo di essere iscritte al medesimo
Albo, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 12 della
direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come
modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE.
2) La Repubblica italiana è condannata alle spese”.
8 V. C. Cost. Ord. n. 126 del 07.03-19.04.2007.
9 L’art. 212, comma 8, D. Lgs. n. 152/2006, prevede:
«8. Le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non
pericolosi come attività ordinaria e regolare nonché le imprese che trasportano
i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano trenta chilogrammi al
giorno o trenta litri al giorno non sono sottoposte alla prestazione delle
garanzie finanziarie di cui al comma 7 e sono iscritte all'Albo nazionale
gestori ambientali a seguito di semplice richiesta scritta alla sezione
dell'Albo regionale territorialmente competente senza che la richiesta stessa
sia soggetta a valutazione relativa alla capacità finanziaria e alla idoneità
tecnica e senza che vi sia l'obbligo di nomina del responsabile tecnico. Tali
imprese sono tenute alla corresponsione di un diritto annuale di iscrizione pari
a 50 euro rideterminabile ai sensi dell'articolo 21 del decreto del Ministro
dell'ambiente 28 aprile 1998, n. 406».
10 Cfr. C. Cost. sent. 8-23.11.2006 n. 394, con nota in tema di M. Gambardella,
Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità
delle norme penali di favore, in Cass. pen. 2007, n. 2, p. 449-467, 143.2.
11 Per una disamina del tema relativo alla classificazione delle “norme penali
di favore” ci si permette di rinviare al nostro volume “Falso” in bilancio e
definizione di “rifiuto”: l’«insolubile» conflitto tra norma interna e
comunitaria”, ed. Leonardo, 2008. Capitolo 1, e, in particolare, il § X, p. 72
ss.
12 Quest’ultimo indirizzo è stato di recente ribadito dalle sentenze della
Consulta n. 348 (punti 3.2-3.4.) e 349 (punti 6., 6.1.1.) del 24.10.2007, in
Foro it. 2008, n. 1, c. 39, con nota di F. Ghera, Una svolta storica nei
rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in
quelli con il diritto comunitario).
13 L’orientamento in esame risale alla sentenza costituzionale 4-11 luglio 1989
n. 389, reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it. Nel caso di specie, alle
norme di cui agli artt. 52 e 59 del Trattato della Comunità europea è stata
riconosciuta diretta efficacia (v. in tal senso, Corte di giustizia CEE, sent.
21 giugno 1974, in causa 2/74; sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86) e,
pertanto, da esse derivano attualmente diritti, come la libertà di stabilimento
e quella di prestazione dei servizi, che sono immediatamente tutelabili in
giudizio da parte dei cittadini degli Stati membri.
Nella motivazione della sentenza viene posto in evidenza l’assetto della
relazione tra il diritto interno e quello sovranazionale ed i meccanismi che
presiedono la risoluzione delle “antinomie” in questi termini:
«Come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 170 del 1984 e in altre
successive, il riconoscimento dell'ordinamento comunitario e di quello nazionale
come ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti,
porta a considerare l'immissione diretta nell'ordinamento interno delle norme
comunitarie immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento
della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata, la cui
giustificazione costituzionale va imputata all'art. 11 della Costituzione e al
conseguente particolare valore giuridico attribuito al Trattato istitutivo delle
Comunità europee e agli atti a questo equiparati. Ciò significa che, mentre gli
atti idonei a porre quelle norme conservano il trattamento giuridico o il regime
ad essi assicurato dall'ordinamento comunitario - nel senso che sono
assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione, di
abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di quell'ordinamento -,
al contrario le norme da essi prodotte operano direttamente nell'ordinamento
interno come norme investite di "forza o valore di legge", vale a dire come
norme che, nei limiti delle competenze e nell'ambito degli scopi propri degli
organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario.
Da ciò deriva, come ha precisato la già ricordata sentenza n. 170 del
1984, che, nel campo riservato alla loro competenza, le norme comunitarie
direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme nazionali, anche se di
rango legislativo, senza tuttavia produrre, nel caso che queste ultime siano
incompatibili con esse, effetti estintivi. Più precisamente, l'eventuale
conflitto fra il diritto comunitario direttamente applicabile e quello interno,
proprio perché suppone un contrasto di quest'ultimo con una norma prodotta da
una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico e abilitata a produrre
diritto nell'ordinamento nazionale entro un proprio distinto ambito di
competenza, non dà luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di
caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile,
ma produce un effetto di disapplicazione di quest'ultima, seppure nei limiti di
tempo e nell'ambito materiale entro cui le competenze comunitarie sono
legittimate a svolgersi”(il corsivo è n.d.r.).
Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento al caso di specie,
che tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle
leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) - tanto se dotati di poteri
di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi
di tali poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a
disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite dagli artt.
52 e 59 del Trattato CEE nell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia
europea. Ciò significa, in pratica, che quei soggetti devono riconoscere come
diritto legittimo e vincolante la norma comunitaria che, nell'accesso alla
proprietà o alla locazione dell'abitazione e al relativo credito, impone la
parità di trattamento tra i lavoratori autonomi cittadini di altri Stati membri
e quelli nazionali, mentre sono tenuti a disapplicare le norme di legge, statali
o regionali, che riservano quei diritti e quei vantaggi ai soli cittadini
italiani.
Tuttavia, poiché la disapplicazione è un modo di risoluzione delle antinomie
normative che, oltre a presupporre la contemporanea vigenza delle norme
reciprocamente contrastanti, non produce alcun effetto sull'esistenza delle
stesse e, pertanto, non può esser causa di qualsivoglia forma di estinzione o di
modificazione delle disposizioni che ne siano oggetto, resta ferma l'esigenza
che gli Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del
proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o
disarmonie con le prevalenti norme comunitarie. E se, sul piano dell'ordinamento
nazionale, tale esigenza si collega al principio della certezza del diritto, sul
piano comunitario, invece, rappresenta una garanzia così essenziale al principio
della prevalenza del proprio diritto su quelli nazionali da costituire l'oggetto
di un preciso obbligo per gli Stati membri (v., in tal senso, Corte di giustizia
delle Comunità europee: sent. 25 ottobre 1979, in causa 159/78; sent. 15 ottobre
1986, in causa 168/85; sent. 2 marzo 1988, in causa 104/86) ».
14 Le eccezioni a tale indirizzo che, però, non ricorrono nella specie
riguardano:
a) il conflitto tra la norma interna attuativa di quella sovranazionale con i
principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e con i diritti
inalienabili della persona umana;
b) il caso di norme interne che si assumano dirette ad impedire o pregiudicare
la perdurante osservanza del Trattato o il nucleo essenziale dei suoi principi.
In tali ipotesi la Corte si è riservata il diritto di pronunciarsi nel merito
delle questioni.
15 Cfr. G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2003, p. 191-194. L’Autore
evidenzia che “La Corte costituzionale ha inoltre precisato che, diversamente
dall’ipotesi di giudizio incidentale, nel giudizio di costituzionalità in via
principale il conflitto tra norme interne e norme comunitarie può e deve essere
risolto dalla stessa Corte con la dichiarazione di incostituzionalità. In tale
ipotesi, in particolare, la non applicazione può essere una soluzione inadeguata
rispetto al valore costituzionale della certezza normativa e all’obbligo di
corretto adempimento sancito dall’art. 10 del Trattato. Vero è che nel giudizio
principale di costituzionalità la Corte è giudice della controversia, nel senso
che la definisce, con al conseguenza che, come il giudice ordinario o
amministrativo, è tenuta a non applicare la norma configgente con il diritto
comunitario e dunque, per quanto di ragione, a dichiararla incostituzionale per
garantire la certezza del diritto”.
16 E’ noto che in forza del principio di legalità, di cui all’art. 25, secondo
comma, Cost., alla Consulta è precluso con la dichiarazione di
incostituzionalità estendere la portata incriminatrice di una norma penale
sostanziale in quanto “solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della
Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le
condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità
e quantità delle relative pene edittali, secondo il principio nullum crimen,
nulla poena sine lege, cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in
materia penale, sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali, sia
il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici; e che, al di
fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge,
riprende vigore il generale divieto di incriminazione, cfr. C.Cost. ord. 21 -28
giugno 2006, n. 251; nello stesso senso v. C. Cost. sent. n. 437/1998 e sent. n.
487/1989 per cui “Rimettendo al legislatore – e segnatamente al
«soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell'intera collettività
nazionale (sentenza n. 487 del 1989) – la riserva sulla scelta dei fatti da
sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, detto principio impedisce
alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle
esistenti a casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva
o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (e così, ad esempio, sulla
disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi: ex
plurimis, ordinanze n. 317 del 2000 e n. 337 del 1999)”.
17 Cfr. C. Cost. sent. 8-23 novembre 2006, n. 394, che:
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 100, terzo comma, del
d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti
norme per l'elezione della Camera dei deputati), come sostituito dall'art. 1,
comma 1, lettera a), della legge 2 marzo 2004, n. 61 (Norme in materia di reati
elettorali);
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 90, terzo comma, del d.P.R.
16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la
elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), come sostituito dall'art.
1, comma 2, lettera a), numero 1), della citata legge n. 61 del 2004;
3) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 90 del citato d.P.R. n. 570 del 1960 e dell'art. 1,
comma 2, lettera a), numero 1), secondo capoverso, della medesima legge n. 61
del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione
Detta pronuncia sottopone a scrutinio le disposizioni di seguito indicate:
1) L’art. 100, commi secondo e terzo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361
(Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della
Camera dei deputati), come modificato dall'art. 1, comma 1, della legge n. 61
del 2 marzo 2004, (Norme in materia di reati elettorali, in G.U. n. 59
dell’11.03.2004) che prevede:
-«Chiunque forma falsamente, in tutto o in parte, le schede o altri atti dal
presente testo unico destinati alle operazioni elettorali o altera uno di tali
atti veri, o sostituisce, sopprime o distrugge in tutto o in parte uno degli
atti medesimi è punito con la reclusione da uno a sei anni. È punito con la
stessa pena chiunque fa scientemente uso degli atti falsificati, alterati o
sostituiti, anche se non ha concorso alla consumazione del fatto. Se il fatto è
commesso da chi appartiene all'ufficio elettorale, la pena è della reclusione da
due a otto anni e della multa da 1.000 euro a 2.000 euro.
Chiunque commette uno dei reati previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del
Libro secondo del codice penale aventi ad oggetto l'autenticazione delle
sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati ovvero forma falsamente, in
tutto o in parte, liste di elettori o di candidati, è punito con la pena
dell'ammenda da 500 euro a 2.000 euro».
2) L'art. 90, commi secondo e terzo, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo
unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle
Amministrazioni comunali), come modificato dall'art. 1, comma 2, lettera a),
numero 1), della legge n. 61 del 2 marzo 2004, (Norme in materia di reati
elettorali, in G.U. n. 59 dell’11.03.2004) che stabilisce:
- «Chiunque forma falsamente, in tutto o in parte, le schede o altri atti dal
presente testo unico destinati alle operazioni elettorali o altera uno di tali
atti veri, o sostituisce, sopprime o distrugge in tutto o in parte uno degli
atti medesimi è punito con la reclusione da uno a sei anni. È punito con la
stessa pena chiunque fa scientemente uso degli atti falsificati, alterati o
sostituiti, anche se non ha concorso alla consumazione del fatto. Se il fatto è
commesso da chi appartiene all'ufficio elettorale, la pena è della reclusione da
due a otto anni e della multa da 1.000 euro a 2.000 euro.
Chiunque commette uno dei reati previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del
Libro secondo del codice penale aventi ad oggetto l'autenticazione delle
sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati ovvero forma falsamente, in
tutto o in parte, liste di elettori o di candidati, è punito con la pena
dell'ammenda da 500 euro a 2.000 euro».
18 Questa definizione si rifà alle categorie di cui alla sentenza n. 161/2004 e,
successivamente, vengono riprese dalla sentenza n. 324 del 2008.
19 Cfr. C. Cost. sent. 26 maggio – 1° giugno 2004, n. 161, in Dir. pen. e proc.
2004, n. 12, p. 1504, con nota di F. GIUNTA, La Corte costituzionale respinge le
questioni di illegittimità del “falso in bilancio”; in Cass. pen., 2004, p.
3938, 1385, con nota di L. GIZZI, Brevi osservazioni in tema di bene giuridico e
soglie di non punibilità nei reati di false comunicazioni sociali.
20 Cfr. C. Cost. Ord. 26 maggio - 1 giugno, 2004, n. 165 reperita dal sito
www.cortecostituzionale.it.
21 Cfr. Ord. 20.11.2002 n. 232 del GUP di Palermo, nel procedimento penale a
carico di B. ed altri, in G.U. 1^ Serie Spec. n. 18 del 07.05.2003; Ord.
21.01.2003 n. 162 del GUP di Palermo, nel procedimento penale a carico di V. ed
altri, in G.U. 1^ Serie Spec. n. 14 del 09.04.2003; Ord. 06.03.2003 n. 335 del
GUP di Palermo, nel procedimento penale a carico di G. ed altri, in G.U. 1^
Serie Spec. n. 24 del 18.05.2003. Le ordinanze sono state estratte dal sito
www.unife.it.
22 Le ordinanze dei giudici a quibus sono motivate nel dettaglio e per quanto
riguarda il contrasto con il diritto comunitario delle regole impugnate e dopo
un escursus aggiornato degli indirizzi in tema viene precisato:
“Il caso in esame non richiede alla Corte un intervento in contrasto con l’art.
25, né un aggravamento della pena o comunque della posizione sostanziale
dell’imputato, ma chiede di intervenire sulla peculiare situazione di una norma
interna dello Stato in contrasto con quella sovranazionale nella misura in cui
la norma interna non consente l’effettività della sanzione. Rimanendo la
quantificazione di quest’ultima indubbiamente tra le facoltà del legislatore,
nella entità che egli intende codificare; da irrogarsi, però, con un processo
che non debba necessariamente – per i brevi termini di prescrizione e la
complessità degli accertamenti da effettuare – arenarsi inevitabilmente tra la
fase delle indagini preliminari e quella, al più, del giudizio di primo grado,
con consequenziale indefettibile declaratoria di estinzione del reato per
sopravvenuta prescrizione del reato.
In relazione a ciò è necessario, ancora, richiamare quanto più in generale
affermato dalla Corte di giustizia in una causa pendente tra la commissione
della comunità europee e la Repubblica Ellenica, nella sentenza del 21 settembre
1989, C68/88. Nella stessa è dato leggere che: «in ogni caso la sanzione alle
violazioni del diritto comunitario devono avere carattere di effettività,
proporzionalità e capacità dissuasiva.
Ciò posto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 19 aprile 1985,
ha affermato che: «… anche le statuizioni della Corte di giustizia sono a pieno
titolo diritto comunitario, al pari delle disposizioni contenute nei trattati e
negli atti di diritto derivato».
Ciò basta per ritenere, allora, che i principi in tema di effettività,
proporzionalità e capacità dissuasiva della pena, enucleati dalla Corte di
giustizia sono vincolanti per gli Stati membri al pari del diritto comunitario,
e da essi il legislatore, in forza dell’art. 117 Cost. non può discostarsi.
In questi termini la Corte – a parere di questo giudice - in applicazione dei
principi posti dagli artt. 10, 11 e 3 della Costituzione, nonché dalla direttiva
n. 68/151 – può sindacare nel merito la questione decidendo l’eventuale
incostituzionalità delle due disposizioni di legge nella parte in cui,
attraverso i brevi termini di prescrizione previsti dalla disposizione generale
di cui all’art. 157 c.p. non si rende attuabile la direttiva CEE che impone
comunque l’adeguatezza della sanzione nel caso del reato di false comunicazioni
sociali; ergo, e prima ancora nella parte in cui non consente l’effettività del
processo.
Si ritiene, conseguentemente, rilevante la questione di costituzionalità
sollevata dal pubblico ministero e, quanto all’art. 117 Cost. sollevata
d’ufficio da questo giudice”. Cfr. Ord. 20.11.2002 n. 232 del GUP di Palermo,
nel procedimento penale a carico di B. ed altri, in G.U. 1^ Serie Spec. n. 18
del 07.05.2003. Va evidenziato che considerazioni dello stesso tenore per quanto
riguarda la violazione del diritto sovranazionale da parte delle disposizioni
impugnate sono contenute pure nelle altre due ordinanze di rimessione del G.u.p.
di Palermo (v. Ord. n. 162/2003 e Ord. n. 335/2003 citate nella nota
precedente).
23 Cfr. C. Cost. Ord. 20-24.02.2006, n. 70. Con detta ordinanza
la Consulta dopo la decisione della Corte europea di inammissibilità dei quesiti
interpretativi inerenti le cause per le quali era stato disposto il rinvio a
nuovo ruolo (cfr.
CGCE, Grande Sez. 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02,
Berlusconi e altri) e l’intervento della L. 28 dicembre 2005, n. 262, recante
“Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati
finanziari” che ha significativamente modificato le previsioni sanzionatorie di
cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. ha optato per la restituzione degli atti ai
G.u.p. di Palermo per valutare se le questioni di legittimità costituzionale
sollevate “restino o meno rilevanti alla luce dello ius superveniens”, senza
compiere alcuna valutazione in merito all’opportunità di delibare o meno i
profili di “ammissibilità” delle questioni di costituzionalità prospettate o ad
altre possibili scelte. Nella motivazione si evidenzia che “il nuovo testo degli
artt. 2621 e 2622 cod. civ., quale risultante a seguito della citata legge –
oltre ad includere fra i soggetti attivi del reato anche i «dirigenti preposti
alla redazione dei documenti contabili societari» (nuova figura soggettiva
introdotta dall'art. 14, comma 1, lettera n, della stessa legge n. 262 del 2005)
– prevede, infatti, rispetto al testo immediatamente precedente, oggetto
dell'impugnativa, una pena più elevata nel massimo per la fattispecie
contravvenzionale di cui all'art. 2621 cod. civ. (arresto fino a due anni); una
pena specifica e più severa (reclusione da due a sei anni) per i fatti
delittuosi commessi nell'ambito di società quotate che abbiano cagionato «un
grave nocumento ai risparmiatori» (art. 2622, quarto e quinto comma, cod. civ.);
nonché l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, unitamente a
misure di tipo interdittivo, nei confronti degli amministratori e degli altri
soggetti qualificati autori di falsità non punibili come reato, perché non
produttive di una alterazione «sensibile» della rappresentazione della
situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al
quale essa appartiene, ovvero perché rimaste comunque al di sotto delle «soglie»
di rilevanza penale del fatto a carattere percentuale (artt. 2621, ultimo comma,
e 2622, ultimo comma, cod. civ.)”.
24 Cfr. C. Cost. ord. 21-28 giugno 2006, n. 251, citata alla nota 16.
25 Cfr. C. Cost. sent. 26 maggio – 1° giugno 2004, n. 161, in Dir. pen. e proc.
2004, n. 12, p. 1504, cit..
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 27/04/2009