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Sindacato di costituzionalità in malam partem e “antinomie penali” : le “ceneri di pirite” escluse dai “rifiuti” e l’integrazione del “parametro interposto” per effetto delle direttive.
 

SERENELLA BELTRAME*
 


C. Cost. Sent. n. 28, 25 - 28.01.2010, Pres. F. Amirante – Rel. G. Silvestri

Rifiuti – Inquinamento – Violazione degli artt. 51 ss. D. Lgs. n. 22/97 (ora artt. 256 ss. D.Lgs. n. 152/2006) – Ceneri di pirite non assoggettate alla disciplina sui rifiuti – Questione d’incostituzionalità dell’art. 183 comma 1 lett. n) quarto periodo D. Lgs. n. 152/2006 (nella versione anteriore al D. Lgs. n. 4/2008) – Violazione degli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. – Inosservanza della definizione europea di “rifiuto” – Incostituzionalità

L’art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, D. Lgs. n. 152/2006 nel testo antecedente alla novella di cui all’art. 2, comma 20, D.Lgs. n. 4/2008 (il c.d. “secondo correttivo”) è costituzionalmente illegittimo ex artt. 11 e 117 comma 1 Cost. nella parte in cui prevede: “rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale”. (Nella specie, la norma impugnata è posteriore alla commissione dei fatti oggetto del giudizio ed è stata abrogata dall’art. 2, comma 20, D. Lgs. n. 4/2008).


1. Ceneri di pirite e questione d’incostituzionalità.

Le ceneri di pirite costituiscono il principale residuo del procedimento industriale di fabbricazione dell’acido solforico, cioè di uno dei più importanti prodotti intermedi dell’industria chimica di base. Il procedimento di produzione dell’acido solforico, consistente nel cosiddetto arrostimento in forni speciali del minerale denominato pirite, è stato utilizzato fino ai primi anni ’70, epoca in cui alla materia prima pirite è stato sostituito lo zolfo. Le ceneri di pirite “costituiscono un additivo fondamentale nella produzione del cemento, nel quale sono impiegate senza attività preliminare di trasformazione”.
Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha eccepito l’incostituzionalità della disciplina sui “sottoprodotti” di cui all’art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, D.Lgs. n. 152/2006 (nella versione antecedente alla novella di cui all’art. 2, comma 20, D. Lgs. n. 4/2008 recante il c.d. “secondo correttivo”1), e specificatamente “nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006”, per incompatibilità della stessa con le direttive e, quindi, con gli artt. 11 e 117 comma primo della Costituzione.
L’art. 183 comma 1, lett. n), quarto periodo, D.Lgs. n. 152/2006 recita:
“Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale”.
Come si legge nella sentenza, per il Giudice veneziano è “proprio la particolare origine del residuo di produzione in esame a rendere impossibile la sottrazione delle stesse dal novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre rifiuto quando il produttore/detentore «si disfa» di un determinato residuo produttivo e non lo reimpiega né lo commercializza, «stabilire che un residuo va considerato sottoprodotto […] a prescindere dal fatto che l’impresa produttrice se ne è già disfatta è operazione che contrasta con il diritto comunitario»”.
La medesima questione di legittimità è stata sollevata in due processi penali3 in cui si procede per violazioni alla disciplina sulla gestione dei rifiuti, di cui al D. Lgs. n. 22/1997, con due distinti ricorsi4 riuniti dalla Consulta con la decisione in esame.
In estrema sintesi, il primo processo concerne un sequestro preventivo eseguito in data 22.03.2002 di un deposito di ceneri di pirite in quantità stimata di un milione di tonnellate ed esteso circa 80.000 metri quadri, configurante una discarica non più attiva risalente agli anni ’70, sulla quale gli imputati effettuavano la messa in riserva di detti rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso cementifici. Le fattispecie penali in contestazione riguardano (tra l’altro) la violazione degli artt. 51, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 22/1997 (ora art. 256, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 152/2006) e 51 bis D. Lgs. N. 22/97 (ora art. 257 D.Lgs. n. 152/2006).
Il secondo caso riguarda un traffico illecito di rifiuti costituiti da ceneri di pirite, di cui all’art. 53 bis D. Lgs. n. 22/97 (ora art. 260 D.Lgs. n. 152/2006).
Nelle more dei citati procedimenti, il 29 aprile 2006 è entrato in vigore il D. Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006 (c.d. Testo unico ambientale) che all’art. 183 comma 1, lett. n), quarto periodo, ha stabilito per le ceneri di pirite la peculiare esenzione sopra indicata.
In definitiva, da un lato le ceneri di pirite sono assoggettate alla disciplina comunitaria sui rifiuti5 e, dall’altro, nel diritto interno sono esonerate dalle norme di settore e non possono classificarsi nella categoria dei “sottoprodotti” in quanto ex art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, testualmente non soggette “alle disposizioni di cui alla parte quarta” del D.Lgs. n. 152/2006 e, quindi, neppure alle altre prescrizione sui “sottoprodotti” della stessa lett. n).
E’ scontato che la previsione di cui al quarto periodo dell’art. 183, comma 1, lett. n), citato si pone in contrasto con le direttive di settore ma non può escludersi in astratto che, a certe condizioni, le ceneri di pirite possano classificarsi legittimamente tra i “sottoprodotti”.
A differenza di quanto ritiene la Consulta6, la menzionata questione di legittimità non investe una norma extrapenale ma, invece, riguarda la modifica dell’elemento oggettivo dei reati di cui agli artt. 51 e ss., D.Lgs. n. 22/1997, costituito dalla nozione di “rifiuto” con conseguente depenalizzazione della fattispecie integrata dalla norma impugnata. La “rilevanza” della questione d’incostituzionalità si giustifica esclusivamente sulla base della depenalizzazione anzidetta.
Per chiarire, se l’esenzione di cui alla lettera n) dell’art. 183, citato, non avesse integrato depenalizzandoli in parte qua i reati di cui agli artt. 51 e ss. D. Lgs. n. 22/97 le questioni d’incostituzionalità sollevate dal Giudice veneto sarebbero state, all’evidenza, irrilevanti nel giudizio a quo anche ai soli fini della motivazione (per quanto riguarda la responsabilità degli imputati, ovviamente) e, conseguentemente, inammissibili innanzi alla Consulta.
In sede comunitaria, le questioni pregiudiziali interpretative poste dai giudici italiani sulle disposizioni interne incompatibili con la definizione europea di “rifiuto” strutturalmente simili a quella impugnata, non sono mai state classificate come poste su norma extrapenale bensì come parte integrante del precetto penale che contiene il termine “rifiuti”. Infatti, le pregiudiziali interpretative in questione (v. tra le tante le sentenze Niselli e Tombesi) sono state inquadrate a tutti gli effetti tra le cause penali come è agevole desumere dai rilievi della Corte di Giustizia sulla “ricevibilità” della domanda7 e diretti a garantire l’osservanza del favor rei affinché l’operatività delle direttive e della stessa pronuncia non possano risolversi in danno dei prevenuti.
L’eccezione d’incostituzionalità di cui si discute riguarda una “antinomia penale”8 in quanto concerne una norma penale di favore impugnata solo per inosservanza della disciplina comunitaria (e non per altri parametri di costituzionalità). La circostanza che la decisione della Consulta possa riverberarsi in concreto solo sulla motivazione della sentenza del giudice a quo non sposta i termini del problema della preclusione (in quanto il settore è riservato alla discrezionalità del Legislatore, ex art. 25 comma 2 Cost e sent. n. 389/1989 C. Cost.) del sindacato di costituzionalità in malam partem sulle “antinomie penali” in quanto anche ai soli fini motivazionali la posizione dell’imputato risulta pregiudicata dalla pronuncia d’incostituzionalità come giudizio di valore negativo sulla condotta contestata che, ovviamente, non ci sarebbe stato in assenza di quest’ultima sentenza.

2. L’efficacia delle direttive nel diritto penale interno ai fini dell’integrazione del “parametro interposto”.

Per quanto riguarda l’integrazione del parametro interposto per effetto delle direttive nel settore penale, la soluzione accolta dalla sentenza in epigrafe si discosta dall’orientamento sino ad ora seguito. Nella decisione in commento la Corte ritiene che:
“L’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11, ed oggi anche dell’art. 117, 1° comma Cost (ex plurimis sent. n. 170 del 1984; n. 317 del 1996, n. 284 del 2007)”. Quindi, dopo aver escluso la necessità del rinvio per questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia stante l’evidenza del significato delle direttive comunitarie e della giurisprudenza riferite alle nozioni di “rifiuto” e di “sottoprodotto”, il giudice delle leggi ritiene che “il parametro interposto, rispetto agli artt. 11 e 117, 1° comma Cost., può considerarsi sufficientemente definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo di costituzionalità”.
Il menzionato “parametro interposto” risulta, quindi, integrato per effetto delle direttive sui rifiuti dovendosi escludere, in considerazione della tipologia delle ipotesi penali contestate, l’operatività dei regolamenti europei. Se si fosse correttamente inquadrata la questione d’incostituzionalità come riferita a lex mitior sopravvenuta “incompatibile” (e non, invece, infondatamente come relativa a norma extrapenale, v. § precedente) tale impostazione si sarebbe dovuta escludere per i seguenti motivi.
Per quanto riguarda l’efficacia delle direttive nel diritto interno va ricordato che la Corte europea ha costantemente negato la loro efficacia verticale in senso discendente dallo Stato verso il singolo ribadendo che “un’autorità nazionale non può far valere a carico di un privato una disposizione di una direttiva per la quale non si è ancora proceduto alla necessaria attuazione nell’ordinamento giuridico nazionale9 e che, ex art. 249 del Trattato, il carattere vincolante di una direttiva sul quale si fonda la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale esiste solo nei confronti di "ogni stato membro destinatario". Ne consegue che una direttiva non può far nascere obblighi in capo ai singoli e una sua disposizione non può essere invocata come tale contro tali soggetti dinanzi al giudice nazionale.
Per la giurisprudenza sovranazionale, una direttiva non può avere l’effetto di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Tali parametri sono espressione del principio di legalità «nullum crimen nulla poena sine lege» e va ben sottolineato che gli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. in assenza di modifiche dell’art. 25 Cost. non contengono previsioni dalle quali inferire opzioni interpretative utilizzabili nella giurisprudenza penale diverse dalla predette.
Pertanto, posto che il giudice nazionale al fine di garantire l’attuazione del diritto comunitario ha la facoltà di disapplicare “qualsiasi disposizione nazionale con esso incompatibile” anche posteriore “senza doverne attendere la previa rimozione in via legislativa”10 o altro procedimento costituzionale, tuttavia, detta possibilità in carenza di regole interne in tal senso non può sortire l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale del soggetto incriminato in quanto detta ipotesi (come verificatosi nel caso de quo) contrasta con il principio di legalità e la giurisprudenza comunitaria.
Detti limiti valgono anche per gli effetti che possono derivare dall’attività ermeneutica degli organi giurisdizionali rispetto alla posizione giuridica del reo, cioè le conseguenze derivanti dall’applicazione del principio di interpretazione conforme.
L’integrazione del parametro interposto per effetto delle direttive nei procedimenti penali contrasta con il principio di legalità in considerazione dell’inefficacia di tali atti normativi nell’ordinamento penale interno degli Stati membri in assenza di legge attuativa, come precisato dalla stessa Consulta11.
L’inadempimento dello Stato membro rispetto agli obblighi imposti dalla direttiva comunitaria può essere fatto valere solo mediante la procedura d’infrazione e, sotto questo profilo, il Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1 dicembre 2009 non ha apportato sensibili novità.
In conclusione, i principi posti dalla giurisprudenza europea e dalla stessa Consulta sopra richiamati risultano ostativi nei procedimenti penali all’integrazione del “parametro interposto”, ex artt. 11 e 117 Cost., per mezzo delle direttive comunitarie (pure self executing) ed al sindacato di costituzionalità in malam partem sulle “antinomie penali”.
In tema di efficacia delle sentenze della Corte di giustizia nell’ordinamento interno va ricordato che “Poiché ai sensi dell'art. 164 del Trattato spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente "effetti diretti" - vale a dire a una norma dalla quale i soggetti operanti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate”12.
Ai sensi dell’art. 234 TUE solo alla Corte di Giustizia compete l’interpretazione dei Trattati comunitari e, quindi, dei profili attinenti l’efficacia delle direttive nell’ordinamento interno.
Nella specie, la Consulta ben poteva rivolgersi alla Corte sovranazionale per risolvere i consistenti dubbi interpretativi che pone nel settore penale l’integrazione del “parametro interposto” per effetto delle direttive in quanto non appare affatto scontato che la predetta sul punto possa condividere (a prescindere da tutti gli altri aspetti) l’opzione della sentenza in commento stante il deficit di sovranità popolare che caratterizza anche attualmente le istituzioni comunitarie.
 

 


 

* Serenella Beltrame, già magistrato di Corte d’Appello, attualmente è avvocato in Udine..

 

1 L’art. 2, comma 20, D.Lgs. n. 4 del 16.01.2008 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, recante norme in materia ambientale), S.O. a G. U. n. 24 del 29.01.2008, entrato in vigore il 13.02.2008, ha modificato integralmente la definizione di “sottoprodotto” di cui all’art. 183 comma 1, lett. n), D.Lgs. n. 152/2006.
3 In uno dei due processi, il giudice a quo ha riproposto alla Corte la stessa questione d’incostituzionalità dopo che la prima volta gli atti erano stati restituiti per una nuova valutazione della rilevanza dell’eccezione alla luce dello jus superveniens (v. C. Cost. Ord. n. 83/2008).
4 V. Trib, Venezia, Sez. Distaccata di Dolo, Ord. 29.09.2008, Est. De Curtis, G.U. 1^ s.s. n. 4 del 28.01.2009; Trib, Venezia, Sez. Distaccata di Dolo, Ord. 13.10.2008, Est. De Curtis, G.U. 1^ s.s. n. 20 del 2009.
5 V. l’ art. 2 della Direttiva 2008/98/CE del 19.11.2008, rubricato “Esclusioni dall’ambito di applicazione” che non prevede tra i materiali esonerati dalla regole sui “rifiuti” le “ceneri di pirite”.
6 V. il punto 7 della sentenza costituzionale n. 28/2010 reperibile nel sito www.ambientediritto.it, settore "giurisprudenza" 2010  per cui:
“Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui rifiuti, nonché l’impossibilità di disapplicare la stessa da parte del giudice rimettente e la non necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, resta da risolvere il problema degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma extrapenale, che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso durante il periodo della sua vigenza, precedente all’abrogazione ad opera d. leg. n. 4 del 2008, l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del giudizio principale”.
7 V. CGCE sez. II, 11 novembre 2004, causa C- 457/2002, Niselli, punti 28-31 relativi alle questioni sulla “ricevibilità” della domanda e dei quesiti posti dal giudice a quo ove si legge:
“28. La Commissione, senza mettere in discussione il rinvio alla Corte, afferma dal canto suo nelle osservazioni scritte che il giudice nazionale – nel caso in cui la Corte dichiarasse la non conformità rispetto alla detta direttiva dell’art. 14 del decreto legge n. 138/02, il quale escluderebbe la responsabilità penale dell’interessato – non potrà far riferimento alla direttiva 75/442 per affermare o aggravare la responsabilità penale del sig. Niselli.
29. In proposito, occorre ricordare che una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso (v., in particolare, sentenza 14 settembre 2000, causa C­343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I-6659, punto 20). Analogamente, una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., segnatamente, sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 26 settembre 1996, causa C­168/95, Arcaro, Racc. pag. I­4705, punto 37).
30. Tuttavia, nella fattispecie è pacifico che, all’epoca dei fatti che hanno dato luogo al procedimento penale a carico del sig. Niselli, tali fatti potevano, se del caso, integrare gli estremi di infrazioni sanzionate penalmente. Ciò considerato, non vi è motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio della legalità delle pene per l’applicazione della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C­304/94, C­330/94, C­342/94 e C­224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I­3561, punto 43).
31. La domanda di pronuncia pregiudiziale è pertanto ricevibile”. V. CGCE Sez. VI, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e 224/95, Tombesi ed altri, §§ 36 e ss.
8 Per ulteriori approfondimenti sulla complessa problematica ci si permette di rinviare al nostro contributo Il sindacato di costituzionalità sulle c.d. “antinomie penali” (le norme sanzionatorie incompatibili con il diritto comunitario) e l’«intermittente» prassi della Corte costituzionale, nota a C. Cost. Ordinanza n. 413/2008 pubblicata sul sito www.ambientediritto.it, ed ivi ulteriori richiami di dottrina e giurisprudenza.
9 Cfr. CGCE, sent. n° 686 dell’8.10.1987, causa n. 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, v. nota n. 8.
10 Cfr. CGCE, sent. 09.03.1978, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal S.p.a., causa 106/77. v. nota n. 8.
11 Per il giudice delle leggi l’unico rimedio giurisdizionale per la risoluzione dei conflitti tra norma interna ed europea è stato quello di privare la norma incompatibile di rilevanza per la soluzione del caso concreto mediante applicazione nel giudizio a quo della regola comunitaria dotata di “effetto diretto”, cioè immediatamente applicabile nel diritto interno (es. i regolamenti comunitari) nei limiti compatibili con il rispetto del principio di legalità e di irretroattività. Ne consegue, che tali eccezioni inerenti le fattispecie penali vengono dichiarate “inammissibili”per difetto di rilevanza nel giudizio di merito proprio perché si deve applicare la disposizione europea (cfr. C. Cost. sent. 4-11 luglio 1989 n. 389, reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it. Quest’ultimo indirizzo è stato di recente ribadito dalle sentenze della Consulta n. 348 (punti 3.2-3.4.) e 349 (punti 6., 6.1.1.) del 24.10.2007, in Foro it. 2008, n. 1, c. 39, con nota di F. Ghera, Una svolta storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in quelli con il diritto comunitario).
12 Cfr. C. Cost. sent. 4-11 luglio 1989 n. 389, citata e nota precedente.
 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 20/9/2010

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