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Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
Sindacato di costituzionalità in malam partem e “antinomie penali” : le
“ceneri di pirite” escluse dai “rifiuti” e l’integrazione del “parametro
interposto” per effetto delle direttive.
SERENELLA BELTRAME*
C. Cost. Sent. n. 28, 25 - 28.01.2010, Pres. F. Amirante – Rel. G.
Silvestri
Rifiuti – Inquinamento – Violazione degli artt. 51 ss. D. Lgs. n. 22/97 (ora
artt. 256 ss. D.Lgs. n. 152/2006) – Ceneri di pirite non assoggettate alla
disciplina sui rifiuti – Questione d’incostituzionalità dell’art. 183 comma 1
lett. n) quarto periodo D. Lgs. n. 152/2006 (nella versione anteriore al D. Lgs.
n. 4/2008) – Violazione degli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. – Inosservanza della
definizione europea di “rifiuto” – Incostituzionalità
L’art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, D. Lgs. n. 152/2006 nel testo
antecedente alla novella di cui all’art. 2, comma 20, D.Lgs. n. 4/2008 (il c.d.
“secondo correttivo”) è costituzionalmente illegittimo ex artt. 11 e 117 comma 1
Cost. nella parte in cui prevede: “rientrano altresì tra i sottoprodotti non
soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le
ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di
arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione
di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di
produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento
di bonifica o di ripristino ambientale”. (Nella specie, la norma impugnata è
posteriore alla commissione dei fatti oggetto del giudizio ed è stata abrogata
dall’art. 2, comma 20, D. Lgs. n. 4/2008).
1. Ceneri di pirite e questione d’incostituzionalità.
Le ceneri di pirite costituiscono il principale residuo del procedimento
industriale di fabbricazione dell’acido solforico, cioè di uno dei più
importanti prodotti intermedi dell’industria chimica di base. Il procedimento di
produzione dell’acido solforico, consistente nel cosiddetto arrostimento in
forni speciali del minerale denominato pirite, è stato utilizzato fino ai primi
anni ’70, epoca in cui alla materia prima pirite è stato sostituito lo zolfo. Le
ceneri di pirite “costituiscono un additivo fondamentale nella produzione del
cemento, nel quale sono impiegate senza attività preliminare di trasformazione”.
Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha eccepito
l’incostituzionalità della disciplina sui “sottoprodotti” di cui all’art. 183,
comma 1, lett. n), quarto periodo, D.Lgs. n. 152/2006 (nella versione
antecedente alla novella di cui all’art. 2, comma 20, D. Lgs. n. 4/2008 recante
il c.d. “secondo correttivo”1), e specificatamente “nella parte in cui prevede
che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle
disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006”,
per incompatibilità della stessa con le direttive e, quindi, con gli artt. 11 e
117 comma primo della Costituzione.
L’art. 183 comma 1, lett. n), quarto periodo, D.Lgs. n. 152/2006 recita:
“Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui
alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di
ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o
solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro,
depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non,
anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale”.
Come si legge nella sentenza, per il Giudice veneziano è “proprio la particolare
origine del residuo di produzione in esame a rendere impossibile la sottrazione
delle stesse dal novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione
di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre
rifiuto quando il produttore/detentore «si disfa» di un determinato residuo
produttivo e non lo reimpiega né lo commercializza, «stabilire che un residuo va
considerato sottoprodotto […] a prescindere dal fatto che l’impresa produttrice
se ne è già disfatta è operazione che contrasta con il diritto comunitario»”.
La medesima questione di legittimità è stata sollevata in due processi penali3 in
cui si procede per violazioni alla disciplina sulla gestione dei rifiuti, di cui
al D. Lgs. n. 22/1997, con due distinti ricorsi4 riuniti dalla Consulta con la
decisione in esame.
In estrema sintesi, il primo processo concerne un sequestro preventivo eseguito
in data 22.03.2002 di un deposito di ceneri di pirite in quantità stimata di un
milione di tonnellate ed esteso circa 80.000 metri quadri, configurante una
discarica non più attiva risalente agli anni ’70, sulla quale gli imputati
effettuavano la messa in riserva di detti rifiuti in vista del loro avvio a
recupero presso cementifici. Le fattispecie penali in contestazione riguardano
(tra l’altro) la violazione degli artt. 51, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 22/1997 (ora
art. 256, commi 1 e 5, D.Lgs. n. 152/2006) e 51 bis D. Lgs. N. 22/97 (ora art.
257 D.Lgs. n. 152/2006).
Il secondo caso riguarda un traffico illecito di rifiuti costituiti da ceneri di
pirite, di cui all’art. 53 bis D. Lgs. n. 22/97 (ora art. 260 D.Lgs. n.
152/2006).
Nelle more dei citati procedimenti, il 29 aprile 2006 è entrato in vigore il D.
Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006 (c.d. Testo unico ambientale) che all’art. 183
comma 1, lett. n), quarto periodo, ha stabilito per le ceneri di pirite la
peculiare esenzione sopra indicata.
In definitiva, da un lato le ceneri di pirite sono assoggettate alla disciplina
comunitaria sui rifiuti5 e, dall’altro, nel diritto interno sono esonerate dalle
norme di settore e non possono classificarsi nella categoria dei “sottoprodotti”
in quanto ex art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, testualmente non
soggette “alle disposizioni di cui alla parte quarta” del D.Lgs. n. 152/2006 e,
quindi, neppure alle altre prescrizione sui “sottoprodotti” della stessa lett.
n).
E’ scontato che la previsione di cui al quarto periodo dell’art. 183, comma 1,
lett. n), citato si pone in contrasto con le direttive di settore ma non può
escludersi in astratto che, a certe condizioni, le ceneri di pirite possano
classificarsi legittimamente tra i “sottoprodotti”.
A differenza di quanto ritiene la Consulta6, la menzionata questione di
legittimità non investe una norma extrapenale ma, invece, riguarda la modifica
dell’elemento oggettivo dei reati di cui agli artt. 51 e ss., D.Lgs. n. 22/1997,
costituito dalla nozione di “rifiuto” con conseguente depenalizzazione della
fattispecie integrata dalla norma impugnata. La “rilevanza” della questione
d’incostituzionalità si giustifica esclusivamente sulla base della
depenalizzazione anzidetta.
Per chiarire, se l’esenzione di cui alla lettera n) dell’art. 183, citato, non
avesse integrato depenalizzandoli in parte qua i reati di cui agli artt. 51 e
ss. D. Lgs. n. 22/97 le questioni d’incostituzionalità sollevate dal Giudice
veneto sarebbero state, all’evidenza, irrilevanti nel giudizio a quo anche ai
soli fini della motivazione (per quanto riguarda la responsabilità degli
imputati, ovviamente) e, conseguentemente, inammissibili innanzi alla Consulta.
In sede comunitaria, le questioni pregiudiziali interpretative poste dai giudici
italiani sulle disposizioni interne incompatibili con la definizione europea di
“rifiuto” strutturalmente simili a quella impugnata, non sono mai state
classificate come poste su norma extrapenale bensì come parte integrante del
precetto penale che contiene il termine “rifiuti”. Infatti, le pregiudiziali
interpretative in questione (v. tra le tante le sentenze Niselli e Tombesi) sono
state inquadrate a tutti gli effetti tra le cause penali come è agevole desumere
dai rilievi della Corte di Giustizia sulla “ricevibilità” della domanda7 e
diretti a garantire l’osservanza del favor rei affinché l’operatività delle
direttive e della stessa pronuncia non possano risolversi in danno dei
prevenuti.
L’eccezione d’incostituzionalità di cui si discute riguarda una “antinomia
penale”8 in quanto concerne una norma penale di favore impugnata solo per
inosservanza della disciplina comunitaria (e non per altri parametri di
costituzionalità). La circostanza che la decisione della Consulta possa
riverberarsi in concreto solo sulla motivazione della sentenza del giudice a quo
non sposta i termini del problema della preclusione (in quanto il settore è
riservato alla discrezionalità del Legislatore, ex art. 25 comma 2 Cost e sent.
n. 389/1989 C. Cost.) del sindacato di costituzionalità in malam partem sulle
“antinomie penali” in quanto anche ai soli fini motivazionali la posizione
dell’imputato risulta pregiudicata dalla pronuncia d’incostituzionalità come
giudizio di valore negativo sulla condotta contestata che, ovviamente, non ci
sarebbe stato in assenza di quest’ultima sentenza.
2. L’efficacia delle direttive nel diritto penale interno ai fini
dell’integrazione del “parametro interposto”.
Per quanto riguarda l’integrazione del parametro interposto per effetto delle
direttive nel settore penale, la soluzione accolta dalla sentenza in epigrafe si
discosta dall’orientamento sino ad ora seguito. Nella decisione in commento la
Corte ritiene che:
“L’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una
direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che
la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che
spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di
legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11, ed oggi anche
dell’art. 117, 1° comma Cost (ex plurimis sent. n. 170 del 1984; n. 317 del
1996, n. 284 del 2007)”. Quindi, dopo aver escluso la necessità del rinvio per
questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia stante l’evidenza
del significato delle direttive comunitarie e della giurisprudenza riferite alle
nozioni di “rifiuto” e di “sottoprodotto”, il giudice delle leggi ritiene che
“il parametro interposto, rispetto agli artt. 11 e 117, 1° comma Cost., può
considerarsi sufficientemente definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo
di costituzionalità”.
Il menzionato “parametro interposto” risulta, quindi, integrato per effetto
delle direttive sui rifiuti dovendosi escludere, in considerazione della
tipologia delle ipotesi penali contestate, l’operatività dei regolamenti
europei. Se si fosse correttamente inquadrata la questione d’incostituzionalità
come riferita a lex mitior sopravvenuta “incompatibile” (e non, invece,
infondatamente come relativa a norma extrapenale, v. § precedente) tale
impostazione si sarebbe dovuta escludere per i seguenti motivi.
Per quanto riguarda l’efficacia delle direttive nel diritto interno va ricordato
che la Corte europea ha costantemente negato la loro efficacia verticale in
senso discendente dallo Stato verso il singolo ribadendo che “un’autorità
nazionale non può far valere a carico di un privato una disposizione di una
direttiva per la quale non si è ancora proceduto alla necessaria attuazione
nell’ordinamento giuridico nazionale”9 e che,
ex art. 249 del Trattato, il
carattere vincolante di una direttiva sul quale si fonda la possibilità di farla
valere dinanzi al giudice nazionale esiste solo nei confronti di "ogni stato
membro destinatario". Ne consegue che una direttiva non può far nascere obblighi
in capo ai singoli e una sua disposizione non può essere invocata come tale
contro tali soggetti dinanzi al giudice nazionale.
Per la giurisprudenza sovranazionale, una direttiva non può avere l’effetto di
per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata
per la sua attuazione di determinare o di aggravare la responsabilità penale di
coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Tali parametri sono
espressione del principio di legalità «nullum crimen nulla poena sine lege» e va
ben sottolineato che gli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. in assenza di modifiche
dell’art. 25 Cost. non contengono previsioni dalle quali inferire opzioni
interpretative utilizzabili nella giurisprudenza penale diverse dalla predette.
Pertanto, posto che il giudice nazionale al fine di garantire l’attuazione del
diritto comunitario ha la facoltà di disapplicare “qualsiasi disposizione
nazionale con esso incompatibile” anche posteriore “senza doverne attendere la
previa rimozione in via legislativa”10 o altro procedimento costituzionale,
tuttavia, detta possibilità in carenza di regole interne in tal senso non può
sortire l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale del
soggetto incriminato in quanto detta ipotesi (come verificatosi nel caso de quo)
contrasta con il principio di legalità e la giurisprudenza comunitaria.
Detti limiti valgono anche per gli effetti che possono derivare dall’attività
ermeneutica degli organi giurisdizionali rispetto alla posizione giuridica del
reo, cioè le conseguenze derivanti dall’applicazione del principio di
interpretazione conforme.
L’integrazione del parametro interposto per effetto delle direttive nei
procedimenti penali contrasta con il principio di legalità in considerazione
dell’inefficacia di tali atti normativi nell’ordinamento penale interno degli
Stati membri in assenza di legge attuativa, come precisato dalla stessa Consulta11.
L’inadempimento dello Stato membro rispetto agli obblighi imposti dalla
direttiva comunitaria può essere fatto valere solo mediante la procedura
d’infrazione e, sotto questo profilo, il Trattato di Lisbona entrato in vigore
il 1 dicembre 2009 non ha apportato sensibili novità.
In conclusione, i principi posti dalla giurisprudenza europea e dalla stessa
Consulta sopra richiamati risultano ostativi nei procedimenti penali
all’integrazione del “parametro interposto”, ex artt. 11 e 117 Cost., per mezzo
delle direttive comunitarie (pure self executing) ed al sindacato di
costituzionalità in malam partem sulle “antinomie penali”.
In tema di efficacia delle sentenze della Corte di giustizia nell’ordinamento
interno va ricordato che “Poiché ai sensi dell'art. 164 del Trattato spetta alla
Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e
nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi
sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente
carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la
Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa
autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne
determina, in definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità
applicative. Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria
avente "effetti diretti" - vale a dire a una norma dalla quale i soggetti
operanti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre
situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio non v'è dubbio che la
precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una
sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata
efficacia delle disposizioni interpretate”12.
Ai sensi dell’art. 234 TUE solo alla Corte di Giustizia compete
l’interpretazione dei Trattati comunitari e, quindi, dei profili attinenti
l’efficacia delle direttive nell’ordinamento interno.
Nella specie, la Consulta ben poteva rivolgersi alla Corte sovranazionale per
risolvere i consistenti dubbi interpretativi che pone nel settore penale
l’integrazione del “parametro interposto” per effetto delle direttive in quanto
non appare affatto scontato che la predetta sul punto possa condividere (a
prescindere da tutti gli altri aspetti) l’opzione della sentenza in commento
stante il deficit di sovranità popolare che caratterizza anche attualmente le
istituzioni comunitarie.
* Serenella Beltrame, già magistrato di Corte d’Appello, attualmente è avvocato in Udine..
1 L’art. 2, comma 20, D.Lgs. n. 4
del 16.01.2008 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3
aprile 2006 n. 152, recante norme in materia ambientale), S.O. a G. U. n. 24 del
29.01.2008, entrato in vigore il 13.02.2008, ha modificato integralmente la
definizione di “sottoprodotto” di cui all’art. 183 comma 1, lett. n), D.Lgs. n.
152/2006.
3 In uno dei due processi, il giudice a quo ha riproposto alla Corte la stessa
questione d’incostituzionalità dopo che la prima volta gli atti erano stati
restituiti per una nuova valutazione della rilevanza dell’eccezione alla luce
dello jus superveniens (v. C. Cost. Ord. n. 83/2008).
4 V. Trib, Venezia, Sez. Distaccata di Dolo, Ord. 29.09.2008, Est. De Curtis,
G.U. 1^ s.s. n. 4 del 28.01.2009; Trib, Venezia, Sez. Distaccata di Dolo, Ord.
13.10.2008, Est. De Curtis, G.U. 1^ s.s. n. 20 del 2009.
5 V. l’ art. 2 della Direttiva 2008/98/CE del 19.11.2008, rubricato “Esclusioni
dall’ambito di applicazione” che non prevede tra i materiali esonerati dalla
regole sui “rifiuti” le “ceneri di pirite”.
6
V. il punto 7 della sentenza costituzionale n. 28/2010 reperibile nel sito
www.ambientediritto.it, settore "giurisprudenza" 2010 per
cui:
“Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui
rifiuti, nonché l’impossibilità di disapplicare la stessa da parte del giudice
rimettente e la non necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
dell’Unione europea, resta da risolvere il problema degli effetti della
declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma extrapenale, che,
sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha
escluso durante il periodo della sua vigenza, precedente all’abrogazione ad
opera d. leg. n. 4 del 2008, l’applicabilità delle sanzioni penali previste per
la gestione illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del giudizio
principale”.
7 V. CGCE sez. II, 11 novembre 2004, causa C- 457/2002, Niselli, punti 28-31
relativi alle questioni sulla “ricevibilità” della domanda e dei quesiti posti
dal giudice a quo ove si legge:
“28. La Commissione, senza mettere in discussione il rinvio alla Corte, afferma
dal canto suo nelle osservazioni scritte che il giudice nazionale – nel caso in
cui la Corte dichiarasse la non conformità rispetto alla detta direttiva
dell’art. 14 del decreto legge n. 138/02, il quale escluderebbe la
responsabilità penale dell’interessato – non potrà far riferimento alla
direttiva 75/442 per affermare o aggravare la responsabilità penale del sig.
Niselli.
29. In proposito, occorre ricordare che una direttiva non può certamente creare,
di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere
in quanto tale nei confronti dello stesso (v., in particolare, sentenza 14
settembre 2000, causa C343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I-6659, punto
20). Analogamente, una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e
indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua
attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che
agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., segnatamente, sentenze 8
ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 26
settembre 1996, causa C168/95, Arcaro, Racc. pag. I4705, punto 37).
30. Tuttavia, nella fattispecie è pacifico che, all’epoca dei fatti che hanno
dato luogo al procedimento penale a carico del sig. Niselli, tali fatti
potevano, se del caso, integrare gli estremi di infrazioni sanzionate
penalmente. Ciò considerato, non vi è motivo di esaminare le conseguenze che
potrebbero discendere dal principio della legalità delle pene per l’applicazione
della direttiva 75/442 (v., in tal senso, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite
C304/94, C330/94, C342/94 e C224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I3561, punto
43).
31. La domanda di pronuncia pregiudiziale è pertanto ricevibile”. V. CGCE Sez.
VI, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e 224/95, Tombesi ed altri, §§ 36
e ss.
8
Per ulteriori approfondimenti sulla complessa problematica ci si permette di
rinviare al nostro contributo Il sindacato di costituzionalità sulle c.d.
“antinomie penali” (le norme sanzionatorie incompatibili con il diritto
comunitario) e l’«intermittente» prassi della Corte costituzionale, nota a C.
Cost. Ordinanza n. 413/2008 pubblicata sul sito www.ambientediritto.it, ed ivi
ulteriori richiami di dottrina e giurisprudenza.
9
Cfr. CGCE, sent. n° 686 dell’8.10.1987, causa n. 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, v.
nota n. 8.
10
Cfr. CGCE, sent. 09.03.1978, Amministrazione delle Finanze c. Simmenthal S.p.a.,
causa 106/77. v. nota n. 8.
11
Per il giudice delle leggi l’unico rimedio giurisdizionale per la risoluzione
dei conflitti tra norma interna ed europea è stato quello di privare la norma
incompatibile di rilevanza per la soluzione del caso concreto mediante
applicazione nel giudizio a quo della regola comunitaria dotata di “effetto
diretto”, cioè immediatamente applicabile nel diritto interno (es. i regolamenti
comunitari) nei limiti compatibili con il rispetto del principio di legalità e
di irretroattività. Ne consegue, che tali eccezioni inerenti le fattispecie
penali vengono dichiarate “inammissibili”per difetto di rilevanza nel giudizio
di merito proprio perché si deve applicare la disposizione europea (cfr. C.
Cost. sent. 4-11 luglio 1989 n. 389, reperibile sul sito
www.cortecostituzionale.it. Quest’ultimo indirizzo è stato di recente ribadito
dalle sentenze della Consulta n. 348 (punti 3.2-3.4.) e 349 (punti 6., 6.1.1.)
del 24.10.2007, in Foro it. 2008, n. 1, c. 39, con nota di F. Ghera, Una svolta
storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio
(ma non in quelli con il diritto comunitario).
12
Cfr. C. Cost. sent. 4-11 luglio 1989 n. 389, citata e nota precedente.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 20/9/2010