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Impianti Fotovoltaici in Puglia. Gli effetti della sentenza della Corte costituzionale 31 marzo 2010 n. 119.

 

VINCENZO ACQUAFREDDA*
 

 



Con la sentenza in commento la Corte costituzionale, nel giudizio promosso dallo Stato avverso gli artt. 1, 2 commi 1 e 2, 3, 4, 7 comma 1 della legge della Regione Puglia 21 ottobre 2008, n. 31, recante “norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale”, ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 2 e 3 della citata legge.

In particolare l’art. 2, che vietava la realizzazione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica in numerose aree della Regione- tra le quali le zone agricole considerate di particolare pregio, i siti della Rete Natura 2000, le aree protette regionali e nazionali nonché le zone umide tutelate a livello internazionale- si pone, a parere della Consulta, in contrasto con l’art. 12, comma 10, del d.lgs. 387 del 2003 (Attuazione della direttiva 2001/77CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità) che autorizza le Regioni a procedere all’indicazione di aree e siti non idonei all’installazione di detti impianti, sulla base di linee guida approvate nella Conferenza Unificata prevista all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. L’emanazione delle linee guida nazionali per il corretto insediamento degli impianti nel paesaggio, che la Consulta sollecita, è, infatti, espressione della competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale (art. 117, comma 2, lettera s) ) e, pertanto, l’assenza di dette linee guida non consentirebbe alle Regioni di provvedere autonomamente alla individuazione dei criteri per il corretto insediamento degli impianti per la produzione di energia da fonti alternative.

La Consulta ritiene che, così argomentando, non si trascuri “ la rilevanza che, in relazione a fonti non rinnovabili, riveste la tutela dell’ambiente e del paesaggio” ma che si dia rilievo imperante al “profilo afferente alla gestione delle fonti energetiche in vista di un efficiente approvvigionamento presso i diversi ambiti territoriali”. La dichiarazione di incostituzionalità ha investito i commi 1 e 2, art. 2 della Legge regionale 31/2008 nonché il comma 3, che contenendo deroghe al divieto di installazione di impianti nelle zone di cui al comma 1, sarebbe rimasto privo di oggetto.

L’art. 3 della legge regionale pugliese estendeva, invece, l’applicabilità della disciplina della D.I.A., in alternativa all’Autorizzazione unica, anche ad impianti di potenza elettrica nominale superiore ai massimi di potenza previsti dalla tabella A del d.lgs. 387 del 2003 e fino ad 1 MW.
Come ben noto, la previsione di cui agli artt. 22 e 23 del D.P.R. 380/2001, relativa alla Denuncia di inizio attività, individua una procedura autorizzativa semplificata che consente di iniziare un’attività presentando allo sportello unico detta denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, almeno 30 giorni prima dell’inizio dei lavori. Entro 30 giorni l’ufficio tecnico ha potere di richiedere integrazioni o di inibire l’inizio dei lavori per mancanza di documentazione o difformità rispetto alle norme o agli strumenti urbanistici. In caso di mancato diniego o di mancata richiesta di informazioni, il silenzio della pubblica Amministrazione sarà considerato quale assenso all’inizio dell’attività.

Secondo la Consulta la norma regionale si pone in contrasto con l’art. 12, comma 5, del d.lgs. 387/2003, nel quale si prescrive che solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata, è possibile prevedere maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali è possibile procedere tramite D.I.A..
A fronte di tale antinomia, l’art. 3 della legge regionale pugliese, si pone in contrasto (indirettamente, secondo il meccanismo delle c.d. “norme interposte”) anche con l’art. 117 Cost., in particolar modo con il terzo comma: nel quinto comma dell’art. 12 del d.lgs.387/2003, infatti, sarebbe riconoscibile l’esercizio della legislazione di principio dello Stato nelle materie di legislazione concorrente, per esigenze di uniformità, anche con riguardo “alla valutazione del’entità della trasformazione che l’installazione dell’impianto determina, ai fini dell’eventuale adozione di procedure semplificate”.

Prima di valutare i riflessi della dichiarazione di incostituzionalità soprattutto con riguardo all’art. 3, commi 1 e 2, della legge regionale, appare comunque necessaria una breve analisi delle motivazioni della decisione in commento.
La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 2 della legge regionale pugliese si fonda sul contrasto con il comma 2, lettera s) dell’art. 117 Cost., che assegna allo Stato la competenza esclusiva in materia ambientale.
È ben noto che la materia “ambiente” è inscindibilmente connessa con altre materie la cui competenza può essere oggetto di legislazione concorrente - ed è proprio il caso della produzione, del trasporto e della distribuzione nazionale dell’ energia - o di competenza esclusiva regionale – quali il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali; e che, sullo stesso bene “ambiente”, si radicano competenze esclusive dello Stato, per quanto concerne la sua tutela, e delle Regioni, per quanto concerne la sua fruizione.
Ebbene, per la tutela dell’ambiente, spetta allo Stato l’individuazione dei livelli di tutela, cui le Regioni devono attenersi nell’ambito delle proprie competenze. Tali standard possono essere letti come “vincoli in negativo”, ovvero limiti che non è possibile travalicare in nessun caso (nemmeno quando si voglia garantire una tutela maggiore del bene ambiente) ma anche - e torna forse utile sul punto il richiamo di quella corrente giurisprudenziale formatasi in seno alla Corte costituzionale - come “vincoli in positivo” ovvero soglie di tutela del ben ambiente al di sotto delle quali le Regioni non possono spingersi o, in altre parole, standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni nell’esercizio delle proprie prerogative e competenze.

Ma se questi livelli- elevati o meno- fossero invece superati, in tutela, dalla normativa regionale? Fino a che punto deve operare l’impossibilità di una “deroga”?
È chiaro che non pare possibile per le Regioni che legiferino in attuazione della prerogative costituzionalmente concessegli su materie trasversali a quella ambientale, derogare alle disposizioni statali attraverso le quali si stabiliscono standard di tutela del bene ambiente, diminuendo le soglie di tutela o non prevedendone. Ragionando in questo senso non dovrebbe rappresentare una deroga, invece, una normativa che individui standard di tutela addirittura più elevati, nel rispetto di altre esigenze costituzionalmente garantite. Ed è quanto affermato nella sent. n. 61 del 2009: “le Regioni nell’esercizio delle loro competenze, debbono rispettare la normativa statale di tutela dell’ambiente, ma possono stabilire, per il raggiungimento dei fini propri delle loro competenze [..] livelli di tutela più elevati”. “Con ciò certamente incidendo sul bene materiale ambiente, ma al fine non di tutelare l’ambiente, già salvaguardato dalla disciplina statale, bensì di disciplinare gli oggetti delle loro competenze”.

E, forse, contrariamente a quanto affermato, la Consulta, dichiarando incostituzionale l’art. 2 della legge regionale pugliese, ha trascurato proprio “la rilevanza che, in relazione agli impianti che utilizzano fonti rinnovabili, riveste la tutela dell’ambiente e del paesaggio” per affermare il potere esclusivo dello Stato di fissare standard uniformi di tutela di detto bene sul territorio nazionale.

Con particolare riferimento all’art. 3, commi 1 e 2, la cui ratio non poteva che essere quella di promuovere gli investimenti nel settore attraverso la razionalizzazione e semplificazione delle procedure, “nel rispetto” - ed aggiungerei, nella valorizzazione - “delle esigenze di tutela ambientale sottese al quadro normativo di riferimento”, la Consulta ha ravvisato un contrasto con l’art. 12, comma 5, del d.lgs. 387/2003, nel quale si prevede che “con decreto del Ministero dello Sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza Unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono essere individuate maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali si procede con la medesima disciplina della denuncia di inizio attività”. E qui vi è da sottolineare che la norma non prescrive che “solo” con l’anzidetta procedura possano essere individuate le maggiori soglie di capacità di generazione - contrariamente a quanto affermato dalla Consulta, che riprende le considerazioni della difesa erariale – ben potendosi, forse, ritenere che il decreto ministeriale costituisca “un mero strumento che nulla aggiungerebbe al principio ispiratore della legge nazionale che ben potrebbe essere osservato anche con altri strumenti, particolarmente ove sia in gioco un interesse peculiare della Regione”.

Passando alle conseguenze sul piano pratico della pronuncia, come noto, le sentenze di incostituzionalità hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e l'efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione (che però, all’art. 136, prescrive la semplice inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali) salvo il limite delle situazioni giuridiche "consolidate". La dichiarazione di illegittimità costituzionale comporta, secondo la giurisprudenza, la caducazione dei soli effetti non definitivi e, “nei rapporti ancora in corso di svolgimento, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza, restando quindi fermi gli effetti anteriori che, pur essendo riconducibili allo stesso rapporto non ancora esaurito, abbiano definitivamente conseguito, in tutto o in parte, la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti” (Cass. civ., Sez. III, 11.04.1975 n. 1384). Ai fini che qui interessano è necessario, poi, riportare l’orientamento formatosi nella giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento di titoli edilizi precisando che, ogniqualvolta la posizione del destinatario del titolo si sia consolidata, suscitando un affidamento sulla legittimità dello stesso, l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione è subordinato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento, diverso dal ripristino della legalità violata e comunque prevalente sull’interesse del privato alla conservazione del titolo. Quando, invece, non si sia ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del titolo abilitativo, la giurisprudenza non ritiene necessaria una penetrante motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento né alcuna comparazione fra l’ interesse pubblico e quello privato sacrificato (ex plurimis, T.A.R. Napoli, Sez. II, 15 giugno 2006 / 11 luglio 2006 n. 7391).

Anche nell’ottica di tutelare il legittimo affidamento ingeneratosi in capo agli operatori che hanno presentato DIA in virtù di disposizioni di legge poi dichiarate incostituzionali, sono state presentate alcune proposte normative.
In particolare si tratta dei seguenti emendamenti, presentati in relazione al disegno di legge A.C. 3350, “Conversione in legge del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, recante disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l'altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori”.
Il primo emendamento, il n. 5.15, recita testualmente:

“La realizzazione di impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile che sia stata avviata in forza di una dichiarazione di inizio attività già presentata alla data di entrata in vigore della presente disposizione, secondo quanto previsto per gli specifici impianti dall'articolo 2, comma 159, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, non oggetto di contestazioni, prescrizioni o impugnazioni in sede giudiziaria alla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 2010, depositata il 26 marzo 2010, per impianti con soglia di potenza superiore a quella prevista come ammissibile alla realizzazione in forza di dichiarazione di inizio attività, può essere proseguita, ultimata e messa in esercizio a condizione che il dichiarante presenti alla Regione o alla Provincia competente, se delegata, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attestante la richiesta a tutti gli enti che, altrimenti, sarebbero stati interessati ad esprimere un parere o ad emettere un provvedimento abilitativo, comunque denominato, ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, consegnando copia conforme di tali richieste, per quel che concerne la realizzazione dell'impianto di produzione entro il sedime dell'area interessata dall'impianto stesso. Il dichiarante si obbliga ad adempiere alle prescrizioni e condizioni che saranno stabilite dagli enti interessati o a ripristinare lo stato dei luoghi in caso di parere negativo da parte delle amministrazioni di cui all'articolo 17, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241. Le Regioni operano la verifica della correttezza della dichiarazione e dell'idoneità della documentazione presentata entro trenta giorni dal ricevimento della medesima”.

Il secondo emendamento, il n. 5.301, recita testualmente:
1. Per le procedure di dichiarazione di inizio attività (DIA) avviate, in forza di disposizioni regionali dichiarate incostituzionali, per la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica con capacità di generazione non superiore ad 1 MW alimentati dalle fonti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, i relativi effetti sono fatti salvi a condizione che, alla data del 31 marzo 2010, ricorra una delle seguenti condizioni:
a) gli impianti siano entrati in esercizio;
b) il soggetto interessato abbia concretamente avviato la realizzazione dell’impianto mediante l’accettazione del preventivo di allacciamento alla rete elettrica formulato dal gestore competente e la stipulazione di contratti per l’acquisizione di tutte le componenti dell’impianto, ovvero, in luogo della stipulazione di detti contratti, la stipulazione di contratti di finanziamento dell’iniziativa.
2. La Regione o la Provincia competente, se delegata, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, verifica l’effettiva sussistenza delle condizioni di cui al comma precedente, dandone omunicazione al soggetto interessato e al Gestore Servizi Energetici (GSE)”.



Non resta, dunque, che aspettare l’approvazione di una norma statale che faccia salvi gli effetti di procedure di DIA regolarmente avviate da operatori che hanno fatto incolpevolmente affidamento sulla presenza di una chiara disposizione di legge abilitante, sperando che il risultato della pronuncia della Corte costituzionale non paralizzi nel territorio lo sviluppo di un settore la cui crescita è indispensabile per favorire proprio quelle inderogabili esigenze di tutela del bene ambiente. Al fine di evitare che ciò si verifichi, sarebbe anche auspicabile, nelle more della soluzione a livello di legislativo statale, un intervento della stessa Regione Puglia, che anche con un atto meramente interpretativo rassicuri sul fatto che i rapporti giuridici sorti sulla base delle procedure avviate ed ormai consolidatisi non possono essere comunque travolti dalla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 119/2010.

( riproduzione riservata )


 


* Studio Legale Trevisan & Cuonzo Avvocati
 


1 Più precisamente, il deposito preliminare è incluso nelle operazioni di smaltimento dei rifiuti, e - come tale - è soggetto ad autorizzazione o a comunicazione in procedura semplificata; mentre il deposito temporaneo esula dalle operazioni di smaltimento e in genere da tutta l’attività di gestione dei rifiuti, costituendo una operazione preliminare o preparatoria alla gestione, e - come tale - è libero, anche se è pur sempre soggetto al rispetto dei principi di precauzione e di azione preventiva che le direttive comunitarie impongono agli stati nazionali in forza dell’art. 130 R (ora art. 174) del Trattato CE (v. Corte di Giustizia Europea, Quarta Sezione, del 5 ottobre 1999, Lirussi e Bizzaro, cause riunite C-l75/98 e 177/98). L’ art. 208, comma 17, D.Lgs. 152/2006 assoggetta anche il deposito temporaneo al divieto di miscelazione e all’obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico.

 

 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 19/05/2010

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