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Ratio legis: la dottrina del diritto tra filosofia ed etica.

 

ALESSANDRO M. BASSO*
 

 


Sin da tempi lontani, considerato che il diritto vanta radici assai remote, il dibattito sulla validità del diritto positivo si è incentrato sulla questione della naturalità o meno del diritto.
Conteso tra razionalità ed idealismo, ed in particolare sull’interrogativo se la Natura sia Ragione e la Ragione sia Natura ovvero sull’esistenza dell’ “uomo interiore” e dell’ “uomo esteriore”, l’annoso dibattito ha condotto alla formulazione di tesi opposte secondo cui, per un verso, la natura comprenda il diritto (Aristotele, U. Grozio) e, per altro verso, che il Giuridico derivi soltanto dall’uomo.
L’adesione all’una o l’altra tesi conduce a conclusioni diverse.
Nel primo caso, il diritto non conterrebbe altri doveri che quelli del diritto naturale (I. Kant), voluto peraltro da Dio stesso poiché di per sé giusto e, per la sua universalità, comune a tutti gli uomini (Huig Van Groot-Grozio, 1583-1645): l’unico potere, quello civile, si fonderebbe, pertanto, sulle leggi di natura e queste sarebbero ben fondate perché date da Dio.
Anche il diritto di punire deriverebbe dalla legge di natura. La legge dell’ordine, pertanto, sarebbe data dal Creatore, connaturata all’uomo e precedente alla società civile: quest’ultima sarebbe, quindi, soltanto uno strumento di questa legge (Carrara). Anche il concetto di libertà consisterebbe non nella libertà di scelta bensì nel non essere impediti nell’esplicazione della propria azione naturale: libertà intesa, quindi, come potere di agire seguendo la propria natura (Thomas Hobbes, 1588-1679).
Diversamente, la competenza alla creazione ed alla definizione della norma spetterebbe unicamente all’uomo, senza che questi debba fare ricorso ad alcun principio naturalmente precostituito se non all’uso della logica o dell’esperienza. La psicologia umana sarebbe, infatti, tesa a conoscere il bene e la verità attraverso il senso e l’intelletto (Marsilio Ficino, 1433-1499).
L’uomo, a differenza delle altre creature rigorosamente collocate da Dio in un ordine preciso da cui non possono evadere, sarebbe stato gratificato della possibilità di scegliere ed agire sulla sua stessa natura che è libertà e capacità di scelta. L’uomo sarebbe, quindi, il centro della realtà ed il signore degli eventi e del mondo naturale: egli non è collocato in una gerarchia ma sarebbe in grado di eleggere liberamente da sé il suo posto (Pico Della Mirandola, 1463-1494) ed al centro della realtà naturale e storica (Voltaire).
Secondo tale tesi, la ragione è libertà e sobrietà: essa, e non la natura, genera la storia. E’ necessario, in base a tale visione, tradurre le forme giuridiche materiali in principi astratti (C.F. Gerber, 1846): gli assiomi di detta tesi sono la sacralità del diritto perché creato dall’uomo ed il primato della persona sulla società.
Gli uomini non sarebbero guidati da alcuni principi naturali bensì opererebbero secondo criteri imposti da situazioni storiche, geografiche, tradizioni e leggi precedenti: in altri termini, le situazioni di fatto in cui un popolo vive determinerebbero un certo “spirito” che si concretizza in determinate leggi.
Compito dell’uomo sarebbe, comunque, allargare le proprie conoscenze in ogni campo e tendere a realizzare una sempre maggiore libertà e felicità (Charles di Secondat- Montesquieu, 1689-1755) e compito principale della legge sarebbe soddisfare i bisogni e gli interessi della persona.
La Natura rappresenterebbe, cioè, il disordine: perciò, la legge sarebbe soltanto quella coniata dall’uomo.
E’ da rilevare, tuttavia, che tale legge è fallibile se la ragione viene mitizzata: la Giustizia sfuggirebbe alla Ragione e, comunque, quest’ultima, in quanto entità superindividuale posta per un fine superiore, sfuggirebbe al controllo umano. La validità della ragione sarebbe, cioè, strettamente dipendente da quella del pensiero: quest’ultimo, però, può essere il mero risultato di una certa epoca storica.
Sulla base della considerazione che la legge segue il fatto, si sostiene che il diritto, in realtà, non sia preesistente o precostituito e debba, quindi, seguire la propria evoluzione. Se l’uomo è in grado di mutare il diritto vuol dire che non esiste una sorta di precostituzione del diritto.
Si replica che tale evoluzione sarebbe, comunque, utile ad includere principi naturali ed, in quante tale, essa stessa naturalmente precostituita: l’evoluzione, in altri termini, sarebbe consentita o addirittura necessaria al solo fine di perseguire il miglioramento del diritto.
Nella prospettiva de iure condendo, il diritto, sarebbe, comunque, delegittimato in tutte quelle ipotesi in cui si rivelasse non conforme alle proprie radici.
Non coltivare il ricordo del passato equivale a seminare non sulla terra ma sul cemento (Giovanni Guareschi): il passato proietta già una storia (Andrè Gide). Viceversa, sarebbe l’uomo a predeterminare il diritto, generando le basi di un conflitto, anche mediato, con situazioni od eventi ignorati.
Il diritto naturale comprende le qualità e le condizioni naturali dell’uomo e del suo ambiente e non va, invece, confuso con gli istinti naturali di condotta.
Per diritto naturale, segnatamente, si intende il complesso di regole che, nell’elaborazione della ragione umana, si ritengono connaturate ai rapporti di convivenza fra gli uomini, senza la necessità di un intervento esterno da parte del legislatore. Tuttavia, è stato affermato che si tratti di principi di ordine morale e sociale che non possono essere considerati veri e propri principi e norme giuridiche finchè non vengono tradotti in precetti positivi.
Peraltro, pur optando per la tesi della piena legittimazione esclusiva ed incondizionata dell’uomo, si può notare che il suo intervento regolatore si fermerebbe fino al proprio interesse, senza spingersi oltre questa “considerazione di convenienza”: non vi sarebbero, cioè, leggi eternamente giuste, universalmente vere, al di fuori dei gusti, dell’opportunismo, dell’interesse dei più forti.
La tesi positivista sarebbe destituibile di fondamento considerando che essa è sostenuta da coloro che non hanno concettualmente in considerazione la natura o il suo valore. La stessa democrazia non è un mito che può sostituire la legge morale naturale.
Non sarebbe, peraltro, sostenibile l’invalidità (o l’insanità) di una regola sulla mera eccezione che la stessa conduca alla rinuncia di una parte di sé o entri in conflitto con la volontà o i bisogni soggettivi ovvero sia dal singolo acquisibile con sforzo. D’altra parte, le valutazioni soggettive non contribuirebbero automaticamente alla comprensione delle regole naturali: queste ultime sarebbero, inoltre, semplicemente superiori alle regole stabilite dall’uomo.
Così non sarebbe, invece, per quel positivismo di ispirazione religiosa secondo cui Dio sarebbe nell’uomo, manifestandosi con le opere dei Santi. L’uomo, creato da Dio, sarebbe il “naturale portatore della divina volontà di Bene” (Giannozzo Manetti, 1396-1459). Dio include (e complica) tutte le cose ed, al tempo stesso, grazie all’atto creativo porta ad unità tutte le cose: ecco, così, che ogni singolo può cogliere Dio interiormente (Nicola Cusano, 1401-1464).
“Ogni cosa è in ogni cosa” (Anassagora).
Dio sarebbe un’idea innata nell’uomo e tale idea servirebbe come garanzia della realtà del mondo: l’esistenza di Dio sarebbe testimoniata direttamente dalla Coscienza dell’uomo (Renè Descartes-Cartesio, 1596-1650) ovvero dalla sua ragione: se i sensi permettono di raccogliere il materiale sensibile, è la ragione ad elaborarlo e ciò sarebbe dovuto ad un’anima spirituale originata da Dio (Pierre Gassendi, 1592-1655). E’ stato, altresì, affermato che Dio sarebbe presente nell’animo umano sotto forma di desiderio: tale sentimento, che avverte la necessità di un sovrammondo di giustizia, sarebbe sufficiente a non dubitare dell’esistenza di Dio (Rousseau).
Una terza tesi, intermedia, sostiene che la Natura non comprenda tutto il diritto e che il giuridico non derivi interamente dall’uomo. L’uomo, quindi, sarebbe legittimato ad intervenire esclusivamente là dove la natura non regoli ed, altresì, quando, pur contrastando un fatto naturale o il suo naturale accadimento o la sua naturale evoluzione, l’intervento non finisca per alterare la natura delle cose nella forma e nella sostanza.
L’uomo agisce in una realtà fatta di concatenazioni causali naturali delle quali fa, però, parte anche il suo atto di libera volontà (Pomponazzi).
Viceversa, il diritto così introdotto sarebbe innaturale, potendo, altresì, parlare di abuso di diritto ovvero di una sorta di illegalità.
Sarebbe, inoltre, consentito intervenire a mezzo della norma nei casi, anche alternativamente considerati, in cui: a) si tratti di garantire la possibilità effettiva di ottenere il ristoro di un danno di particolare rilevanza; b) il rimedio si attesti come la naturale possibilità o conseguenza di un normale processo evolutivo; c) il rimedio oggetto dell’intervento normativo sia disponibile in natura; d) la norma si dimostri il modo per ovviare all’indisponibilità naturale del rimedio.
Un’ulteriore tesi è quella che identifica in Dio la Natura e la Ragione. Nell’universo sarebbe presente una “causalità finale” (Aristotele) ed ogni atto umano sarebbe, quindi, semplicemente irrazionale. L’esperienza naturale, cioè, costituirebbe il dono di Dio per eccellenza (Bacon).
L’uomo potrebbe fare solo ciò che Dio ha già prestabilito (M. Lutero, 1483-1546). Dio, quale Assoluto in ogni senso, ha stabilito, sin dall’inizio, il destino di ogni singolo individuo: i meriti o i demeriti degli uomini non possono mutare i suoi disegni (Giovanni Calvino, 1509-1564).
Dio è presente costantemente nella natura, è “intelletto universale”, “causa” animatrice, luogo di tutte le idee, Dio-Natura, forma-materia (Giordano Bruno, 1548-1600).
Dio, principio d’ordine dell’universo in cui l’uomo è inserito armonicamente secondo un criterio di universale equilibrio (Anthony Shaftesbury, 1671-1713), sarebbe “sostanza che, per esistere, ha bisogno solo di se stessa”: è l’animatore presente nella natura e non trascendente ovvero è causa “immanente”, Dio-sostanza, e non causa esterna al mondo (distinto cioè dal prodotto).
Dio è la “sostanza in assoluto” e coincide con la natura.
La realtà è espressione di una necessità razionale immanente e, perciò, dedotta da Dio-principio assoluto, una sua logica conseguenza: è un tutto divino che vive in una dimensione atemporale (Spinoza).
La stessa natura sembra celare una provvidenzialità che rimanda a Dio (Butler).
In altri termini, ogni realtà esistente, non potendo emergere dal nulla, deve necessariamente avere una causa. Non potendo risalire all’infinito nella concatenazione causale, è necessario ammettere che esista una realtà non causata (Dio) dal quale dipenda tutta la realtà (Clarke).
L’uomo, cioè, deve pensare che esista qualcosa di assolutamente necessario: questo è Dio ed è la condizione necessaria di ogni possibilità (Immanuel Kant, 1724-1804).
Si tratterebbe, per lo meno, di accogliere la convinzione dell’esistenza di Dio, una “scommessa” (Pascal).
L’uomo possiede una natura imperfetta e finita e ciò dimostrerebbe che egli non è la causa di se stesso (Cartesio): l’esistenza di Dio sarebbe, quindi, una sorta di esigenza (Antonio Genovesi, 1713-1769).
Il mondo della natura sarebbe stato creato da Dio e, quindi, nella sua genesi e nel suo sviluppo sarebbe destinato a rimanere ignoto all’uomo (Hobbes).
Le ragioni dell’universo si trovano, cioè, soltanto nell’infinita mente divina: Dio, oltre ad aver creato l’universo, interviene instancabilmente per correggere e guardare l’universo (Isaac Newton, 1642-1727).
L’uomo, quindi, in quanto facente parte di tale concatenazione necessaria Dio-natura che è la ratio e l’ordine della realtà, non è libero e la sua personalità individuale si smarrisce nel Tutto. Tale ordine, peraltro, non può essere infranto da atti e gesti di libertà: l’uomo, infatti, non sarebbe una realtà distinta dagli altri aspetti della natura (Spinoza).
L’uomo sarebbe soltanto uno spettatore di una realtà stabilita continuamente da Dio (Arnold Geulinx, 1624-1669) il quale ha dato un ordine necessario all’universo (Johannes Keplero, 1571-1630). L’universo ha, cioè, bisogno di un eterno garante dell’ordine: in tale ordine, regolato da un Essere supremo, è inserito anche l’uomo (Francois Marie Arouet-Voltaire, 1694-1778).
La natura, nel suo intimo e nella sua totalità, può essere conosciuta soltanto da Dio e le relazioni sono volute secondo scopi precisi dal finalismo divino (Gassendi).
Si è parlato, altresì, della totale sproporzione tra l’uomo e l’universo anche senza fare riferimenti espliciti ad un’entità divina. L’uomo, nell’universo, sarebbe, cioè, solo una parte del Tutto, mosso unicamente da cause che egli non vede e mai potrà vedere (Cyrano de Bergerac, 1619-1655) e non sarebbe libero ma vivrebbe in una precisa concatenazione a cui non si potrebbe sottrarre (D’Holbach).
La pre-scienza divina, tuttavia, non potrebbe essere del tutto determinante nei confronti della libertà umana, sebbene proprio l’onnipotenza divina escluda che l’uomo possa essere libero fino in fondo (Lorenzo Valla, 1407-1457).
Soltanto l’esercizio della libertà, infatti, consentirebbe al singolo di guadagnarsi il favore divino con una vita creativa e libera da meschini vincoli (Erasmo da Rotterdam, 1466-1536).
Dio, suprema consapevolezza, ha, cioè, creato il mondo, scegliendone uno solo tra gli infiniti mondi possibili, secondo precise strutture logiche, mettendo in atto una serie di possibilità ideali: l’uomo, tuttavia, sarebbe libero nelle proprie scelte e, perciò, eticamente responsabile (Gottfried Wilhelm Leibniz, 1646-1716).
Proprio per la libera volontà dell’uomo che concede il suo assenso ad un giudizio intellettuale malcerto, la possibilità dell’errore umano è sempre presente e non è possibile imputare a Dio gli errori umani (Cartesio).
L’uomo sarebbe, comunque, in grado di percepire grazie alla sostanza spirituale e questa dimostra la propria esistenza in quanto permane attraverso il continuo svariare delle sensazioni: l’uomo, quindi, è sostanza spirituale dotata di intelletto e di capacità di disposizione delle idee.
Ciò indica che deve esistere uno Spirito infinito e supremo, Dio, creatore della realtà esclusivamente spirituale: la realtà oggettiva esiste perché è rappresentata e percepita da Dio il quale è la struttura permanente di tutte le idee (George Berkeley, 1685-1753). In altri termini, Dio, filosofia senza specificazione, come visione organica e totale del reale (Capograssi).
Esisterebbe, in tal senso, una sorta di cerchio divino che pone in collegamento legge naturale, dignità umana e diritti. La legge naturale sarebbe scritta da Dio nella coscienza umana e costituirebbe un denominatore comune a tutti gli uomini ed una guida universale su cui tutti possono intendersi (Benedetto XVI). Pertanto, nessun uomo sarebbe solo davanti a Dio: soltanto Dio sarebbe solo davanti agli uomini (Wiesel).
La dignità di ogni uomo, però, è garantita veramente soltanto quando tutti i suoi diritti fondamentali vengono riconosciuti, tutelati e promossi, tenendo presente che i diritti umani sono solidamente fondati in Dio e sono quelli essenzialmente fondati da Dio (Benedetto XVI, 11-12-2008).
Per altro verso, Dio non potrebbe essere inteso come la forza che determina i singoli fatti naturali ma, al più, come principio di coesione generale nel senso che avrebbe demandato alle forze insite nella natura il compito di realizzare quelle finalità fisiche e naturali proprie alla natura: natura e Dio sarebbero, cioè, distinti (Bernardino Telesio, 1509-1588).
L’universo sarebbe, quindi, al di fuori di ogni finalismo teologico, sarebbe messo in moto da Dio una volta per tutte e si muoverebbe secondo una necessità meccanica pura e semplice (George Louis de Buffon, 1707-1788): la natura sarebbe, così, una realtà autonoma rispetto ad ogni principio teologico, in trasformazione e capace di agire su stessa in senso evoluzionistico, mediante certe regole della compatibilità e della convenienza (Denis Diderot, 1713-1784).
L’uomo, fruendo dell’opera di Dio, agirebbe, cioè, secondo finalità che emergono dal fluire delle cose ovvero secondo un complesso sistema di fini che scaturiscono di volta in volta da fini precedenti, e non da un ordinato progetto precostituito da Dio. Pertanto, l’uomo sarebbe il protagonista libero della storia e quest’ultima percorsa da una tendenza finalistica intesa a realizzare la “città del genere umano”.
Il Fato o il Caso non potrebbero aiutare a comprendere le ragioni del corso degli eventi: le vicende umane sarebbero destinate, infatti, ad “alterne sorti” (corsi e ricorsi storici) (Giambattista Vico, 1668-1744).
Secondo un certo positivismo giuridico fondato su una base atea, Dio, in realtà, sarebbe soltanto un’entità-alibi al fine di delegittimare la ragione, la volontà e l’operato normativo dell’uomo.
La realtà (e l’uomo) sarebbe soltanto fisica e naturale e vivrebbe secondo la legge della necessità (Dietrich d’Holbach, 1723-1789): l’uomo, cioè, governerebbe se stesso secondo precise leggi naturali (istinto) che impongono ad ogni vivente precise logiche di comportamento (Julien Offroy de La Mettrie, 1709-1751). La storia sarebbe, così, un tendere progressivo (Gotthald Ephraim Lessing, 1729-1781).
Il fanatismo e l’intolleranza in tema di religione, d’altra parte, dimostrerebbero che l’esperienza religiosa nasce da un assieme di sentimenti umani (Hume).
La cultura umanistica, poi, ha inteso trasferire l’interesse culturale da una prospettiva teocentrica ad una antropocentrica: la sorte di un uomo sarebbe, così, rimessa alle scelte operate da altri uomini ovvero risiederebbe in se stesso.
Un’ulteriore tesi ha, infine, negato, contemporaneamente, il primato a Dio, alla Natura ed all’Uomo, sostenendo l’inesistenza di una finalità che regga il mondo e che tutto sia, in realtà, giocato su una sequenza affidata al caso o ad una causalità meccanica “efficiente”: la legge fisica, ad es., non sarebbe un’entità ma semplicemente una funzione indicante l’interdipendenza di due dati variabili (Galileo Galilei, 1564-1642).
Tale causalità sarebbe estranea alle intenzioni ed alle aspirazioni umane e, perciò, destinata a rimanere incomprensibile alla mente dell’uomo: a quest’ultimo, quindi, non potrebbe essere riconosciuto alcun privilegio gerarchico ed egli stesso non potrebbe essere ritenuto depositario della verità o metro di ogni misura morale (Michel de Montaigne).
E’ stato, peraltro, affermato che la legge sia volizione non dell’Universale o dell’individuale bensì di una generalità astratta (Croce), tendente al perseguimento di fini economici.
Il diritto, specie quello contemporaneo, si rivela spesso confliggente con il desiderio di scienza e conoscenza su tematiche difficili, quali quelle inerenti l’economia e le condizioni di esistenza dell’uomo, e la sua inquietudine.
In conclusione, l’importanza delle dottrine è dato dal fatto che le stesse pongono le basi etiche ed ideologiche delle organizzazioni sociali nei relativi molteplici aspetti.
Si tende sempre più ad ipotizzare, nella mera adesione ad una dottrina, maggiori possibilità in termini di plagio e di orientamento passivo e ad identificare la validità di una dottrina nella relativa capacità di proporre soluzioni possibili, a prescindere dal soggetto proponente.
Qualunque sia l’interpretazione o il punto di vista dell’uomo, la legge non può, in sintesi, prescindere dai valori dell’uomo, della Natura e di Dio

 


* avvocato, giornalista pubblicista, conciliatore professionista, Dottore di Ricerca Interfacoltà Agraria-Giurisprudenza in “uomo-ambiente”, Responsabile sezione cultura “uomo-ambiente” dell’Associazione dei Dottori in Scienze Agrarie e Forestali della provincia di Foggia

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Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 15/12/2010

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