AmbienteDiritto.it 

Legislazione  Giurisprudenza

 


AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Copyright © AmbienteDiritto.it

Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006  - ISSN 1974-9562
 

 Vedi altra: DOTTRINA
 

 

 Alcune riflessioni sulle terre da riporto nei procedimenti di bonifica dei siti contaminati.

 

ADA LUCIA DE CESARIS*

 


Nell’ambito dei procedimenti di bonifica, ma non solo, sta emergendo in modo sempre più rilevante il problema della gestione delle aree ove si riscontrano i cosiddetti terreni di riporto, quei terreni che frammisti a rocce da scavo, e in alcuni casi macerie e altri materilai, sono stati, legittimamente, collocati dal dopoguerra in poi su tutte le aree ove era necessario riempire scavi o effettuare interventi edilizi o rimodellazioni morfologiche e recuperi ambientali.


Non vi è una definizione univoca di terreni di riporto, né per essi è prevista una specifica regolamentazione. Recentemente però alcuni enti, in particolare nella Regione Lombardia, hanno affermato la necessità considerare, e quindi gestire, questa tipologia di terreno come rifiuti. Per i sostenitori di questa tesi ogni qualvolta, nell’ambito di accertamenti su una determinata area si rilevi la presenza di terreno da riporto, questo dovrebbe essere qualificato come rifiuto e inviato allo smaltimento e al recupero. A questi casi non sarebbe quindi applicabile la disciplina delle bonifiche, di cui all’art. 242 e seguenti del d.lgs. n. 152/2006, bensì quella dell’abbandono di rifiuti regolata dall’art. 192 del medesimo d.lgs.


Qualora questa tesi dovesse consolidarsi, le conseguenze si dimostrerebbero molto più gravi di quelle che sino ad ora sono state effettivamente considerate, l’obbligatorietà dell’avvio allo smaltimento di tutte le terre da riporto determinerebbe infatti la necessità di trasportare milioni di metri cubi di terreno per tutto il territorio nazionale, alla ricerca dei pochi impianti disponibili che peraltro ben presto arriverebbero alla saturazione. Un’interpretazione che non solo non ha un supporto normativo, ma che confligge con gli obiettivi e i principi di politica ambientale comunitaria e nazionale, oltre che porsi in contrasto con la normativa di riferimento.


E’ innanzitutto necessario chiarire che non si tratta di mettere in discussione il fatto che ogni qualvolta all’esito di una verifica su un area si rilevi la presenza di rifiuti - intesi come materiali distinguibili, per dimensione e caratteristiche, abbandonati sul suolo o nel suolo - questi debbano necessariamente essere trattati come tali, ciò anche nell’ambito di un procedimento di bonifica.


Il terreno da riporto però è cosa diversa: è terreno che si è costituito e composto nel tempo con altri materiali, in dimensioni e in composizione ormai non differenziabile. Esso è parte integrante del contesto ove è stato inserito, spesso costituisce la base ove hanno posto le fondamenta gli immobili o ove sono stati realizzati giardini, cortili ecc.


Il terreno da riporto deve quindi necessariamente essere assimilato al suolo e al sottosuolo di un determinato sito e quindi esso va valutato con le modalità prescritte dalla normativa per queste matrici ambientali. Questo è peraltro quanto affermato anche nell’allegato 2 alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006 ove i “materiali di riporto” sono considerati oggetto di caratterizzazione, al pari del suolo e del sottosuolo.


Ma che questa tipologia di terreno non sia definibile automaticamente come rifiuto, se non in presenza delle condizioni per cui ai sensi della normativa qualsiasi sostanza può divenire rifiuto (art. 183, primo comma, lettera a)1, lo si ricava anche dalla lettura combinata del comma 1, lettere b) e c), e comma 4 dell’art. 1852. Con la conseguenza che se dalle indagini non risultassero superate le CSC o a valle dell’analisi di rischio le CSR, anche nella parte in cui si ipotizza la presenza di terreno riportato, il sito deve ritenersi non contaminato e nessun intervento deve realizzarsi sullo stesso, salvo che il suolo venga escavato al fine di essere utilizzato per fini diversi da quello per cui è stato prelevato o con l’intenzione di essere eliminato.


Un percorso diverso porterebbe a conseguenze aberranti: il terreno non di riporto, che pur superando per alcune sostanze le CSC non presenta superamenti di CSR non deve essere asportato e neppure bonificato; il terreno di riporto anche in assenza di superamenti di CSC deve essere comunque qualificato rifiuto e quindi asportato e inviato allo smaltimento. Ciò non solo come detto provocherebbe la produzione di enormi quantitativi di rifiuti, che di fatto non sono tali, ma finirebbe per incidere in modo determinante sui progetti di bonifica, riqualificazione e sui costi degli stessi.


Chi scrive dubita però che si potrà far recedere dall’equiparazione terreni da riporto/rifiuti quei soggetti che ne sono sostenitori solo sulla base delle considerazioni appena svolte, si auspica quindi quanto prima un intervento normativo, anche solo di natura regolamentare che chiarisca questo aspetto nell’interesse di tutti, ma soprattutto dell’ambiente che deve essere tutelato anche contro chi assume posizioni non confortate dal dato normativo e dalla ragionevolezza tecnico operativa.

 

* Avvocato in Milano

1 L’art. 183, primo comma lettera a) definisce «rifiuto» “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi”.
2 L’art. 185 così reca: “1. Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto:
b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati;
c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato scavato.
 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 02/03/2011

^