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Alcune riflessioni sulle terre da riporto nei procedimenti di bonifica dei siti contaminati.
ADA LUCIA DE CESARIS*
Nell’ambito dei procedimenti di bonifica, ma non solo, sta emergendo in modo
sempre più rilevante il problema della gestione delle aree ove si riscontrano i
cosiddetti terreni di riporto, quei terreni che frammisti a rocce da scavo, e in
alcuni casi macerie e altri materilai, sono stati, legittimamente, collocati dal
dopoguerra in poi su tutte le aree ove era necessario riempire scavi o
effettuare interventi edilizi o rimodellazioni morfologiche e recuperi
ambientali.
Non vi è una definizione univoca di terreni di riporto, né per essi è prevista
una specifica regolamentazione. Recentemente però alcuni enti, in particolare
nella Regione Lombardia, hanno affermato la necessità considerare, e quindi
gestire, questa tipologia di terreno come rifiuti. Per i sostenitori di questa
tesi ogni qualvolta, nell’ambito di accertamenti su una determinata area si
rilevi la presenza di terreno da riporto, questo dovrebbe essere qualificato
come rifiuto e inviato allo smaltimento e al recupero. A questi casi non sarebbe
quindi applicabile la disciplina delle bonifiche, di cui all’art. 242 e seguenti
del d.lgs. n. 152/2006, bensì quella dell’abbandono di rifiuti regolata
dall’art. 192 del medesimo d.lgs.
Qualora questa tesi dovesse consolidarsi, le conseguenze si dimostrerebbero
molto più gravi di quelle che sino ad ora sono state effettivamente considerate,
l’obbligatorietà dell’avvio allo smaltimento di tutte le terre da riporto
determinerebbe infatti la necessità di trasportare milioni di metri cubi di
terreno per tutto il territorio nazionale, alla ricerca dei pochi impianti
disponibili che peraltro ben presto arriverebbero alla saturazione.
Un’interpretazione che non solo non ha un supporto normativo, ma che confligge
con gli obiettivi e i principi di politica ambientale comunitaria e nazionale,
oltre che porsi in contrasto con la normativa di riferimento.
E’ innanzitutto necessario chiarire che non si tratta di mettere in discussione
il fatto che ogni qualvolta all’esito di una verifica su un area si rilevi la
presenza di rifiuti - intesi come materiali distinguibili, per dimensione e
caratteristiche, abbandonati sul suolo o nel suolo - questi debbano
necessariamente essere trattati come tali, ciò anche nell’ambito di un
procedimento di bonifica.
Il terreno da riporto però è cosa diversa: è terreno che si è costituito e
composto nel tempo con altri materiali, in dimensioni e in composizione ormai
non differenziabile. Esso è parte integrante del contesto ove è stato inserito,
spesso costituisce la base ove hanno posto le fondamenta gli immobili o ove sono
stati realizzati giardini, cortili ecc.
Il terreno da riporto deve quindi necessariamente essere assimilato al suolo e
al sottosuolo di un determinato sito e quindi esso va valutato con le modalità
prescritte dalla normativa per queste matrici ambientali. Questo è peraltro
quanto affermato anche nell’allegato 2 alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006 ove
i “materiali di riporto” sono considerati oggetto di caratterizzazione, al pari
del suolo e del sottosuolo.
Ma che questa tipologia di terreno non sia definibile automaticamente come
rifiuto, se non in presenza delle condizioni per cui ai sensi della normativa
qualsiasi sostanza può divenire rifiuto (art. 183, primo comma, lettera a)1,
lo si ricava anche dalla lettura combinata del comma 1, lettere b) e c), e comma
4 dell’art. 1852. Con
la conseguenza che se dalle indagini non risultassero superate le CSC o a valle
dell’analisi di rischio le CSR, anche nella parte in cui si ipotizza la presenza
di terreno riportato, il sito deve ritenersi non contaminato e nessun intervento
deve realizzarsi sullo stesso, salvo che il suolo venga escavato al fine di
essere utilizzato per fini diversi da quello per cui è stato prelevato o con
l’intenzione di essere eliminato.
Un percorso diverso porterebbe a conseguenze aberranti: il terreno non di
riporto, che pur superando per alcune sostanze le CSC non presenta superamenti
di CSR non deve essere asportato e neppure bonificato; il terreno di riporto
anche in assenza di superamenti di CSC deve essere comunque qualificato rifiuto
e quindi asportato e inviato allo smaltimento. Ciò non solo come detto
provocherebbe la produzione di enormi quantitativi di rifiuti, che di fatto non
sono tali, ma finirebbe per incidere in modo determinante sui progetti di
bonifica, riqualificazione e sui costi degli stessi.
Chi scrive dubita però che si potrà far recedere dall’equiparazione terreni da
riporto/rifiuti quei soggetti che ne sono sostenitori solo sulla base delle
considerazioni appena svolte, si auspica quindi quanto prima un intervento
normativo, anche solo di natura regolamentare che chiarisca questo aspetto
nell’interesse di tutti, ma soprattutto dell’ambiente che deve essere tutelato
anche contro chi assume posizioni non confortate dal dato normativo e dalla
ragionevolezza tecnico operativa.
* Avvocato in Milano
1 L’art. 183, primo
comma lettera a) definisce «rifiuto» “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi”.
2 L’art. 185 così reca: “1. Non rientrano nel campo di
applicazione della parte quarta del presente decreto:
b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici
collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt.
239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati;
c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel
corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a
fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato
scavato.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 02/03/2011