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REGIONALISMO e FEDERALISMO

La forma di Stato tra storia e prospettive.

di Cristian Ercolano

Ci sono momenti nella storia costituzionale degli Stati in cui le migliori menti politiche del tempo, riunite in consesso, sono poste di fronte ad una scelta fondamentale: nel caso dell’ordinamento italiano la scelta della forma di governo fu rimessa direttamente al popolo; alla Costituente rimaneva, quindi, da definire la forma di Stato.
La decisione non riguardava solo la scelta fra Stato accentrato e decentrato, ma anche e soprattutto quella fra le possibili forme riconducibili al secondo tipo.
La difesa delle libertà e la partecipazione popolare al nuovo ordinamento democratico furono le fondamenta su cui poggiare la nascita delle Regioni.
Ma lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere anche optando per la forma di Stato federale?

Si dice che la scelta federalista implica soprattutto un’adesione culturale al modello, nonché l’occasione data da una particolare situazione storica contingente. L'itinerario formativo tipico, comune alla stragrande maggioranza degli Stati federali - ma disatteso in almeno due casi, Austria e Belgio – prevede, infatti, la preesistenza di più entità sovrane indipendenti fra loro e in posizione di equiordinazione. Lo stadio finale di tale evoluzione è il passaggio ad un vero e proprio Stato, mediante un accordo di carattere internazionale, con una conseguente traslazione di sovranità in favore della Federazione, essendo gli Stati membri ormai soggetti alla prevalenza del diritto federale e agli interventi autoritari delle autorità centrali.

A ben vedere, ed almeno in via di principio, nel caso dell’Italia ricorrevano entrambe queste condizioni.

L’idea ottocentesca secondo la quale il modo migliore di rendere “uno” un Paese diviso è quello di riconoscerne le diversità, emerge con forza proprio nel periodo costituente, propugnata da giuristi quali l’Esposito[1] e da alcuni degli stessi membri dell’Assemblea costituente, on. Lussu, Finocchiaro Aprile, Tosato, Bordon.

Questa teoria aveva d’altronde delle profonde basi culturali ed ideologiche: era stata propugnata molto autorevolmente da pensatori del calibro di Cattaneo, Ferrari e Gioberti in un periodo in cui, per di più, la sopravvivenza dei vari Stati preunitari offriva a tale tesi una forte legittimazione storica.

L’Unità d’Italia, l’adesione, cioè, dei vari Stati preunitari all’ordinamento monarchico–costituzionale piemontese, era, infatti, avvenuta mediante annessioni: «Per lo più sanzionate da votazioni popolari – i cosiddetti plebisciti -, esse rivestono talvolta la figura giuridica di Trattati internazionali[2] ma, più spesso, di atti interni dichiaranti l’appartenenza al territorio dello Stato di determinate Province[3]. Il Governo era stato, infatti, per legge, autorizzato nell’ottobre 1860 ad accettare e stabilire con reali decreti l’annessione allo Stato di quelle Province dell’Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifestasse liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra monarchia costituzionale. La parziale definizione giuridica dei singoli territori veniva, poi, integrata da norme provvisorie sotto la temporanea amministrazione di essi e dalla estensione ad essi della legislazione vigente nel Regno, ed in particolare delle leggi elettorali, al fine di ammetterne i rappresentanti nella Camera elettiva»[4].

Qualche autore si spinge fino ad indicare, nei plebisciti, vere e proprie «risoluzioni votate dal popolo, sovranità popolare esercitata direttamente dal popolo stesso», una delle forme storiche - vero e proprio “contratto” - da cui lo Stato può avere origine[5].

Senza arrivare a tanto, si può certamente affermare che il valore giuridico delle manifestazioni plebiscitarie fu, comunque, importantissimo; esse giustificarono e riconobbero lo Stato italiano nelle forme e nei modi con cui si era venuto creando: con la diplomazia, con la forza militare e, finalmente, con la volontà popolare. Fu una vera e propria ratifica popolare dell’Unità. Essa dava valore e forza allo Stato italiano di fronte ai propri cittadini e nei confronti degli Stati esteri.

Questa digressione storica è necessaria, ai nostri fini, per giustificare l’assunto che l’Italia avrebbe potuto, legittimamente, nascere come Stato federale[6].

Nel processo di federalizzazione degli Stati, l’iniziativa e lo sviluppo dello stesso processo sono governati direttamente dalle singole entità preesistenti, che decidono di concedere poteri, fino a perdere sovranità, in favore del nascente Stato federale.
La discrasia del caso italiano dal modello sta solamente nel fatto che, all’adesione volontaristica degli Stati preunitari allo Stato unitario che poteva preludere ad una sopravvivenza di quegli ordinamenti originari, non seguì la creazione di un nuovo ordinamento costituzionale che avvenne solo un centinaio di anni dopo.
La mancata adesione al modello federale fu giustificata dalle vicende storiche successive all’Unità che tanto avevano contribuito a formare le coscienze italiane
[7].

Simile quindi il momento propulsivo, nel quale si realizza il potere sovrano di auto–limitazione degli Stati che decidono di associarsi, diverso il successivo processo storico di formazione dello Stato.

Altra fondamentale caratteristica che viene spesso attribuita agli ordinamenti particolari come risultato del processo di federalizzazione di uno Stato è la loro presunta originarietà. Al contrario, il processo di regionalizzazione sarebbe governato direttamente dallo Stato centrale, e l'autonomia sarebbe quindi ottriata, concessa dall'ordinamento centrale e non certamente originaria.

Confutabile è certamente il primo punto: già Crisafulli aveva affermato che «per ritenere la cosiddetta originarietà dei poteri spettanti agli Stati membri, bisognerebbe dimostrare che essi si fondano esclusivamente sui rispettivi ordinamenti parziali e non sull’ordinamento dello Stato centrale, come invece avviene ed è concordemente ammesso… Non bisogna confondere la indiscutibile originarietà, che tali ordinamenti potevano avere prima del sorgere dello Stato federale, con la posizione ad essi spettante dopo il loro inserimento nell’ordinamento federale complessivo… L'originarietà esprime un modo d'essere giuridico dell'ordinamento, in quanto autolegittimantesi, esclusivo, autosufficiente e quindi impenetrabile». Queste circostanze, come non ricorrono nel caso dello Stato regionale, così «non ricorrono nel caso degli ordinamenti degli Stati membri di Stati federali…»[8], la cui sopravvivenza alla creazione del nuovo Stato è sancita e legittimata dalle stesse Costituzioni federali. Mortati[9] si spinge fino a ritiene che «se si guarda più da vicino al reale funzionamento degli ordinamenti federativi si deve giungere a negare la sovranità dei singoli Stati membri che vengono pertanto considerati alla stregua di semplici enti di decentramento autarchico».

Ma anche sul processo di regionalizzazione italiano si può avanzare una diversa considerazione. La formazione delle Regioni è avvenuta attraverso un atto di volontà unilaterale dello Stato: non vogliamo certamente confutare questo dato, che dal punto di vista formale è lapalissiano. Dal punto di vista sostanziale, esso non è, però, così incontrovertibile.

Prova importante di quanto affermato è la genesi di alcuni ordinamenti particolari: le Regioni speciali.

Come d’altronde nel processo unitario precedentemente descritto anche nella formazione dello Stato decentrato fondamentale importanza ebbero proprio quelle che assurgeranno a Regioni speciali.

Di nuovo prendiamo in considerazione il momento propulsivo: si legge spesso nei manuali che, al termine della Seconda Guerra mondiale, il Paese era scosso da profondi conflitti sociali; l’espressione più evidente di tale situazione erano le tendenze separatistiche presenti soprattutto in Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino - Alto Adige[10].

Non vogliamo avanzare alcuna tesi contrattualistica riguardo alle concessioni fatte a queste Regioni; non intendiamo, cioè, affermare che i movimenti separatistici si ergessero a “contraenti” con lo Stato.

E’ pur certo, però, che in proposito la condotta dello Stato fu quasi obbligata: a queste, già prima dell’avvio dei lavori della Costituente o contemporaneamente ad essi, si volle dare una risposta con l’anticipato riconoscimento di varie forme di autonomie regionali[11].

E, forse ancor più importante, tutte le Regioni in discorso parteciperanno fattivamente alle varie fasi di approvazione degli Statuti speciali, soprattutto in sede di formazione e presentazione dei progetti alla Commissione di redazione che dovrà poi presentarli all’Assemblea Costituzionale.

Gli Statuti speciali sono sì da considerare atti dello Stato; ma la stessa Assemblea Costituente tenne in grande considerazione, in tutti i casi, le proposte, i progetti od anche i semplici suggerimenti che giungevano dagli organi regionali. Si aggiunga a ciò che in almeno un caso (quello siciliano) lo Statuto fu direttamente redatto dagli organi Regionali, approvato senza formali modifiche con atto del governo nazionale[12], e trasformato in legge costituzionale dalla Costituente senza che esso fosse neppure coordinato col nascente ordinamento costituzionale[13].

Da queste premesse qualcuno trae la conclusione che «la maggior parte degli Statuti speciali sono stati in realtà elaborati dai rappresentanti delle forze politiche locali e poi recepiti quasi senza modifiche nell’ordinamento generale, ovvero stabiliti attraverso un sistema di consultazioni sul piano internazionale e interno, risultando di fatto vincolati, quanto al loro contenuto, di fronte al potere legislativo dello Stato»[14].

Pur non arrivando a tanto – approvare gli Statuti speciali mediante leggi costituzionali voleva dire certo concedere loro il grado di intangibilità propria delle norme costituzionali, ma anche e soprattutto affermare la sovranità dello Stato centrale sui nuovi enti - è chiara l’importanza che le Regioni in discorso ebbero nel processo di regionalizzazione del nostro paese.

Essi sono, quindi, ordinamenti derivati nella stessa interpretazione da noi usata a proposito degli Stati federali. Ed hanno partecipato, per di più determinandolo, al processo che ha portato all’adozione dei propri ordinamenti particolari.

Nel tempo, le Regioni speciali hanno rappresentato un evidente ed importantissimo esperimento, necessario forse non direttamente a loro stesse, ma soprattutto alla nascita, avvenuta solo negli anni ’70, dell’altro modello di Regione, quello ordinario; esso ha potuto giovarsi dell’esperienza delle prime per raggiungerle ed addirittura superarle in quanto ad efficienza e a competenze esercitate.

Negli ultimi tempi, e lo dimostrano le recenti modifiche del Titolo V della Costituzione ed ancor di più le ultime proposte avanzate in Parlamento, anziché risultare superato quello della “specialità” sembra poter assurgere a modello valido per tutte le Regioni.

Si va sempre più rafforzando la prospettiva che tutte le Regioni ordinarie possano assumere connotati di “specialità”, in deroga all’ordinario riparto di competenze sancito dalla Costituzione, il quale costituirebbe quindi il minimum di autonomia assicurato a tutte.

In realtà «la Costituzione non fotografa un ordine fisso e immobile, descrivibile come una cosa ordinata staticamente, ma disegna un ordine dinamico dove la parola “Stato” può cambiare di significato nel momento in cui l’ordinamento si apre a nuovi valori»[15].

Questo processo in continuo divenire, guidato dalla teorica affermazione del concetto di Unità nella diversità operata dall’articolo 5 della nostra Costituzione, unitamente alla legittimazione giuridico-dottrinale dell’ultimo cinquantennio e a quella politica degli ultimi tempi deve costituire il passo decisivo verso la piena accettazione della possibile coesistenza fra lo Stato unitario e l’ordinamento federale.

Come risulterà del tutto evidente l'innovazione e l'evoluzione di un ordinamento per forza di cose deve procedere per tappe[16] e deve essere assimilata e fatta propria dai cittadini, che sono i soggetti primi cui essa si rivolge.

Ed in questo processo evolutivo la Costituzione rappresenta la cornice legale, somma garanzia nei confronti delle contingenze politiche, entro cui costruire la necessaria comunicazione biunivoca fra governanti e governati. La Costituzione non dovrebbe, insomma, assumere come proprio valore fondante la immutabilità del suo assetto politico-istituzionale, ma dovrebbe mirare a garantire ed assecondare la possibilità dell’innovazione che, attraverso il metodo democratico, si svolga nelle forme e nei modi da essa prefissati.

In questa prospettiva, come le Regioni speciali possono essere considerate una vera e propria preparazione del paese alla regionalizzazione, così tutto il Regionalismo italiano può essere considerato una lunga, proficua preparazione delle coscienze italiane ad una vera, reale trasformazione in senso federale del paese.

                                                                           Cristian Ercolano

 


[1] Cfr. Esposito, Autonomia locale e decentramento amministrativo nella nuova Costituzione, in Riv. Dir. Pubbl., 1948, 193 ss.

[2] Trattati di Zurigo, del 10 novembre 1859, con la doppia cessione della Lombardia dell’Austria alla Francia e da questa al Regno di Sardegna e, nel 1866, Trattato di pace tra l’Austria e l’Italia, contemplante la cessione di Venezia e di Mantova; li considera veri e propri Trattati internazionali “che sancivano la cessione, senza costringere in alcuna maniera la volontà dei popoli” Fusinato, Annessione, voce in Enc. Giuridica italiana, Milano, 1892, vol. 1.2.2, 2055 ss.

[3] Toscana, Italia centrale e meridionale, più tardi Roma.

[4] Marongiu, Storia del Diritto italiano: ordinamento ed istituti di governo, Milano, 1985, 465.

[5] Fusinato, Annessione, op. cit., 2055 ss. ed in particolare, per le citazioni, il paragrafo “Teoria dei Plebisciti”, 2072 ss.; fra le righe egli arrivava alla conclusione che l’Italia dopo l’Unità fosse «un nuovo individuo nella sfera internazionale, costituito per consociazione degli antichi Stati italiani, i quali vollero tutti rinunziare alla loro separata esistenza per dar vita ad un unico Stato che tutti li assorbì nella grande Unità politica nazionale».

[6] «Nel risorgimento, l’Unità in senso elementare – il superamento del frazionamento in più Stati separati e l’indipendenza dal dominio straniero – è stata inizialmente concepita da vaste correnti (monarchico–moderate e repubblicano–democratiche) come configurabile su basi federali… è importante ricordarsi della bipartizione dei possibili itinerari, come originariamente concepiti. L’unità politica nazionale poteva assumere forma federale – senza cessare di essere intesa come autentica unità – e in tal caso sarebbe risultato arbitrario contrapporre Stato federale ed unità», Allegretti, Autonomia regionale e unità nazionale, in Le Regioni, 1995, 9 – 10.

[7] Nel tempo è, infatti, sempre finita per prevalere una visione antiunitaria del Federalismo, giustificata dall'assunto che esso avrebbe finito per acuire le differenze sociali e culturali fra le popolazioni e avrebbe costituito un freno a livello economico. Si scelse quindi la centralizzazione del potere come unica possibilità di superamento delle diversità secolari del Paese.

[8] citaz. in Crisafulli, Lezioni di Diritto costituzionale, I, Padova, 1970, 71 – 72.

[9] Mortati, Istituzioni di Diritto pubblico, II, Padova, 1976, 1512 – 1514, e con lui tutta una serie di studiosi, tanto da poter considerare questa come la dottrina dominante, cfr. Lucatello, Lo Stato federale, Padova, I, 1967, 37 ss., 97 ss., 111 ss.; Id., Stato federale, in Scritti giuridici, Padova, 1983, 183 ss.; Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’articolo 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, 67 ss.; Friedrich, Trends of Federalism in theory and practice, New York, 1968; ma anche Reposo, Stato federale, voce in Enc. Giur., Roma, 1993, vol. XXX, 2 - 3; De Vergottini, Stato federale, voce in Enc. del Diritto, Varese, 1990, vol. XLIII, 831 ss.; Id., Diritto costituzionale comparato, Padova, 1987, 281 ss.; Gizzi, Manuale di diritto regionale, Milano, 1991, 786 ss.; Cuocolo, Diritto regionale italiano, Torino, 1991, 3 ss.; Paladin, Diritto costituzionale, Padova 1991, 51 ss.; Martines/Ruggeri, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1987, 32 ss.

[10] Cfr. sul punto ad esempio Bartole/Mastragostino, Le Regioni, Bologna, 1997, 16; Masciocchi, Lineamenti di diritto costituzionale, Milano, 1995, 12; Martines/Ruggeri, Lineamenti di diritto regionale, op. cit., 7; Gizzi, Manuale di diritto regionale, op. cit., 12.

[11] La specialità attribuita a queste Regioni doveva costituire la soluzione costituzionale interna data al riconoscimento di un pericolo concreto; sarebbe insomma «non il frutto di una decisione unanime e definitiva... sull'opportunità dell'ordinamento regionale come tale, ma soltanto il corrispettivo necessario alla conservazione di tali Regioni all'unità nazionale, il tributo pagato per sottrarre consensi e togliere consistenza ad ambizioni ben più eversive...». Rotelli, L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1970, 51.

[12] Regio Decreto legislativo 15 maggio 1946 n. 455.

[13] Legge costituzionale n. 2 del 26 febbraio 1948.

[14] Gizzi, Manuale di Diritto regionale, Milano, 1991, 787. Contra De Siervo, Gli Statuti delle Regioni, Milano, 1974, 54, secondo il quale la Commissione per gli Statuti regionali procedette ad una vera e propria redazione dei testi degli Statuti della Sardegna, del Trentino – Alto Adige e della Valle d’Aosta, sulla base certo dei progetti esistenti e consultando anche i rappresentanti delle forze politiche locali «ma, in termini formali, con piena libertà».

[15] Berti, Principi fondamentali, art. 5, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1975, 278.

[16] Chiaro è l’esempio dato in proposito dal Belgio. Nato dalla separazione delle Province meridionali dal Regno unito dei Paesi Bassi, esso si organizzò in forma accentrata nonostante i problemi posti dalla convivenza di tre diverse comunità linguistico-culturali: i Fiamminghi, i Valloni e la minoranza germanofona. La riforma regionale, attuata in varie fasi negli anni ’70 e ’80, è stata la tappa intermedia di un processo di decentramento sfociato inevitabilmente nel Federalismo con la revisione costituzionale del ’93. Sul punto cfr. Senelle, Il Belgio, in Federalismo e Regionalismo in Europa, a cura di D’Atena, Milano, 1994, 31 ss.; Peccolo, Evoluzione politico istituzionale e riforma dello Stato, in L’ordinamento federale belga, a cura di Francis Del Peree, Torino, 1994, 38 ss.