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REGIONALISMO e FEDERALISMO

 

 

L’autonomia sancita dall’articolo 5 della Costituzione:
principio di autogoverno sociale.

 

 

di Cristian Ercolano
 

L’articolo 5 della Costituzione repubblicana introduce, in via di principio, la garanzia di un’ampia libertà conferita alle diverse collettività territoriali nel perseguimento e nella gestione di interessi locali, mediante il riconoscimento di una posizione di autonomia in favore dei rispettivi enti esponenziali.

Nell’articolo in esame il principio autonomistico non consiste solo in una risoluzione di intenti[1] ma è elevato a principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale: «La Repubblica, una ed indivisibile» insieme «riconosce e promuove» le autonomie ed il decentramento; si impegna, inoltre, ad «adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

La formulazione dell’articolo 5 avalla una comune lettura in cui il principio di unità si confonderebbe con quello di indivisibilità ed entrambi andrebbero ad individuare la forma organizzativa unitaria attuale come l’unica possibile. In realtà è ben possibile considerare separatamente i due principi[2], per poi verificare come si integrano fra di loro.

Innanzitutto il concetto di unità non è solo giuridico-formale ma soprattutto politico: a prescindere dall’articolazione dei poteri pubblici come concretamente sancita dalla Costituzione[3], ogni scelta fatta o da fare che li riguardi deve essere guardata attraverso la lente del principio in discorso di modo che il pluralismo, che la norma costituzionale riconosce e promuove, non si risolva in un pericolo per lo Stato stesso.

Esso è un “limite elastico”[4]. Indica, in altre parole, ciò che si può fare ed implica, certo, un giudizio di merito – per sua natura opinabile - ma il solo che permetta all'ordinamento di flettersi e adattarsi alle diverse esigenze che nel tempo emergano nella società: «La Costituzione non fotografa un ordine fisso e immobile, descrivibile come una cosa ordinata staticamente, ma disegna un ordine dinamico dove la parola “Stato” può cambiare di significato nel momento in cui l’ordinamento si apre a nuovi valori, onde la contrapposizione tra Stato e autonomie si scioglie in una successione tra un tipo di Stato e un altro, e non si irrigidisce, invece, in una contrapposizione, inutile e sterile, tra l’apparato statale e alcune fasce di enti autonomi»[5].

L’altro concetto, l’indivisibilità, indica ciò che non potrebbe mai essere deliberato, vale a dire la divisione dell’Italia. Quest’ultimo costituisce un “limite assoluto”, poiché «mentre è stabilito che il mutamento della forma istituzionale – repubblicana – non potrebbe avvenire col normale procedimento di revisione della Costituzione previsto dall’art. 138, la divisione della Repubblica non potrebbe essere legalmente deliberata in nessun modo e con nessun procedimento eccezionale», pena non un semplice mutamento istituzionale ma la “morte dell’Italia” [6].

In ultima analisi, la proclamazione dell’autonomia costituisce un minimum, il livello minimo di decentramento attuabile dall’ordinamento, in quanto rappresenta per i cittadini garanzia di democrazia e di libertà. Essa deve essere intesa non soltanto come un fine ma anche e soprattutto come un mezzo per riconoscere il valore delle singole persone ed assicurare la loro realizzazione attraverso la partecipazione alla vita sociale (art. 2 e 3 della Costituzione)[7]. «Al fondo dell’idea di autonomia vi è sempre un principio di autogoverno sociale ed ha senso introdurre una autonomia sul piano istituzionale in quanto sia sicuro che essa serve a vivificare la partecipazione sociale, a rendere effettiva, cioè, la libertà dei singoli e dei gruppi sociali, come presenza attiva nella gestione di amministrazioni comuni… L'autonomia diventa», in questo modo, «espressione di un modo di essere della Repubblica, quasi la faccia interna della sovranità dello Stato. Vi è un notevole passo in avanti» rispetto alla tradizione statutaria «in questa formula, e forse la più grossa anticipazione di tutta la Costituzione: la trasformazione dello Stato di diritto accentrato in uno Stato sociale delle autonomie»[8].

Il contenuto della sfera di autonomia che genericamente l’articolo 5 riconosce a tutti gli enti locali, è poi precisato nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione[9].

La caratteristica forse più importante del sistema risulta essere, ai nostri occhi, proprio il fatto che l’insieme dei poteri riconosciuti alle Regioni nonché le modalità della ripartizione degli stessi tra lo Stato e le Regioni – attuata secondo il modello del “separatismo duale” [10] consistente in una rigida separazione di competenze - sono direttamente stabiliti da norme di rango costituzionale, la Costituzione e gli Statuti regionali speciali, e perciò sottratti alla libera disposizione di una qualsiasi delle parti. Proprio su questa base, ad entrambe è riconosciuta la possibilità di investire la Corte costituzionale[11] del giudizio sugli atti ritenuti lesivi della propria sfera di competenze.

Dal punto di vista giuridico–formale in dottrina[12] si è concordi nell’identificare il concetto di autonomia in quelle posizioni giuridiche riconosciute a soggetti (individui od enti) di un ordinamento statuale dotati della potestà di produrre norme giuridiche che, con lo stesso valore ed efficacia di quelle emanate dallo Stato, contribuiscono a costituire un ordinamento proprio dell’ente che le produce.

Le Regioni vantano la posizione di autonomia più ampia tra quelle ipotizzabili: l’autonomia normativa di rango legislativo. Nella dottrina pubblicistica successiva alla Costituzione repubblicana il problema della natura giuridica del nascente ente regionale fu ampiamente dibattuto. Era chiaro a tutti che il principale dato identificativo conferitogli era proprio la capacità normativa. Molti, consapevolmente, desumevano da ciò la natura di «ente autonomo e non ente autarchico, dotato di sole competenze amministrative e regolamentari nell'ambito delle leggi statali»[13]; altri[14] consideravano l'autonomia degli enti regionali «non già semplicemente come capacità di porre norme giuridiche ma come capacità di esplicare una propria azione politica»; il Miele[15], controcorrente, definiva la Regione “ente autarchico” in quanto sottoposto, come le Province ed i Comuni ai poteri dello Stato, e quindi ordinamento derivato. Riassumeva tutte queste posizioni il Salemi[16] che attribuiva alla Regione non solo i caratteri dell'autonomia ma anche dell'autarchia, del decentramento istituzionale amministrativo e di semplice decentramento territoriale (“circoscrizione”). Ma la definizione più chiara e compiuta dell’autonomia fu quella del Giannini[17], il quale spiega che «essa si definisce come il potere attribuito ad enti non sovrani di emanare norme giuridiche equiparate alle norme dell’ente sovrano… Ma in quanto le norme che essi emanano fanno parte del diritto positivo vigente proprio dello Stato, esse non possono essere “autonome”… ma devono subordinarsi al sistema del diritto che entrano a comporre. Tale subordinazione deve avvenire secondo gradi di maggiore o minore intensità, ossia può variare la posizione che gli atti normativi di autonomia assumono nella gerarchia delle fonti… infine, normalmente, l’ordinamento positivo prevede delle misure per controllare che le norme di autonomia non eccedano dalla sfera loro assegnata».

All’autonomia normativa si accompagna l’altra fondamentale attribuzione della rappresentatività, così da assicurare una reale corrispondenza tra la volontà normativa dell’ente e gli interessi sostanziali della comunità stessa. Essa si concretizza nella elezione diretta degli organi dell’ente da parte della comunità territoriale di riferimento, “autonomia organizzatoria”, sempre secondo la definizione di Giannini, per cui il loro «indirizzo politico – amministrativo deriva non dallo Stato, ma dalla propria comunità, ossia dalla maggioranza della propria comunità; con la conseguenza che tale indirizzo può divergere da quello dello Stato, e perfino con esso contrastare, ove non vi sia corrispondenza di maggioranze tra la comunità statale e quella degli enti territoriali». Lo stesso Autore invece esclude che, per essi, possa parlarsi di “autonomia istituzionale”. Le Regioni sono enti autonomi «non per il fatto che siano elevati a persone giuridiche, ma solo quando in queste persone giuridiche sia organizzata in maniera autonoma e libera la vita locale, e vi sia autogoverno dei governanti e la volontà e l’azione di questi enti sia rispondente ai principi e alle direttive prevalenti tra gli uomini che vivono sul territorio»[18].

 


 


[1] ripetuta anche nella IX disposizione transitoria e finale: «La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni».

[2] Seguendo l’esempio di Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’articolo 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, 67 ss.

[3] La scelta dell’ordinamento regionale fu storicamente e politicamente obbligata, ma poteva anche essere diversa, cioè federale, senza per questo porre in pericolo il principio unitario.

[4] Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo, op. cit., 71.

[5] Berti, Principi fondamentali, art. 5, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1975, 278.

[6] Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo, op. cit., 72.

[7] «L’unità nazionale… ha bisogno delle autonomie locali proprio per tradursi in atto, perché è in esse che il singolo vive e si afferma», Allegretti, Autonomia regionale e unità nazionale, in Le Regioni, 1995, 20 ss.

[8] Berti, Principi fondamentali, art. 5, op. cit., 288; 286.

[9] Originariamente la Costituzione edificava un modello valevole per le Regioni, mentre per gli altri enti territoriali essa rinviava alla legislazione ordinaria. Erano stati, infatti, la legge 142/1990 prima, il d.lgs 267/2000 poi, ad assegnare a Comuni e Province l'autonomia statutaria e a fissare l'ambito dell'autonomia medesima. La legge di riforma costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” ha innovato al sistema ponendo, con ogni evidenza, sullo stesso piano istituzionale tutti gli enti territoriali, e provvedendo, inoltre, a costituzionalizzare la potestà statutaria degli enti locali: “… La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione…”, (art. 114).

[10] D’Atena, La vicenda del Regionalismo italiano ed i problemi della transizione al federalismo, in Federalismo e Regionalismo in Europa, a cura di D’Atena, Milano, 1994, 201.

[11] Giudice di costituzionalità delle leggi.

[12] Cfr. per tutti M.S. Giannini, Autonomia, voce in Enc. del Dir., Milano, 1958, vol. IV, 356 ss.

[13] così Virga, Le Regioni a Statuto speciale, Palermo, 1959, 33 ss.

[14] Crisafulli, Le funzioni “costituzionali” delle Regioni, Empoli, 1949, 9 ss.

[15] Miele, La Regione nella Costituzione italiana, Firenze, 1949, 19.

[16] Salemi, Natura giuridica della Regione, Palermo, 1949, 4 ss.

[17] Giannini, Autonomia, op. cit., 357

[18] Esposito, Autonomie locali e decentramento amministrativo, op. cit., 80 ss.