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REGIONALISMO e FEDERALISMO

 

Il regionalismo differenziato:

un buon punto di partenza per la riforma federalista.

(di Cristian Ercolano)

 

Introduzione.

Nel dibattito sul Federalismo successivo alle riforme costituzionali degli ultimi anni è emerso un elemento nuovo, in netta controtendenza rispetto ai vetusti processi evolutivi tendenti all’attuazione di un regionalismo dell’ “omologazione”. Si pensi alle Regioni ordinarie tutte uguali, con le medesime competenze enumerate nella Costituzione; ancora peggio è andata alle Regioni speciali. La specialità, nel modo in cui fu “ipotizzata” dall’Assemblea costituente, non fu mai pienamente attuata: sin dalla loro istituzione le Regioni comuni, dotate di un più ampio ed organico sistema di competenze migliorato nel tempo mediante continui interventi, hanno costretto quelle speciali ad una continua opera di adeguamento e rincorsa.

Queste ultime sono state sempre considerate come un minus, spesso sottovalutate e comunque mai al centro dell’attenzione. La situazione è apparentemente cambiata grazie alle varie proposte tendenti all’attuazione di un “regionalismo differenziato”[1], volto ad esaltare e valorizzare le potenzialità intrinseche di ciascuna Regione. A ben vedere, infatti, il regionalismo differenziato può essere considerato un valido banco di prova per il Federalismo: in uno Stato autenticamente federale tutte le Regioni sono speciali, nel senso che tutte devono godere di una forte autonomia che le caratterizzi.

Senza soffermarci a lungo in considerazioni di ordine storico–politico già ampiamente svolte nei precedenti scritti, ci limiteremo a considerare l’opportunità della sopravvivenza della cosiddetta “specialità” alla luce del nuovo assetto di competenze tra centro e periferia[2] e dei nuovi progetti di riforma del Titolo V della Costituzione.

 

La situazione attuale.

Apparentemente, le recenti riforme costituzionali non hanno fatto altro che aggravare lo status quo delle Regioni ad autonomia speciale. Si consideri, ad esempio, il concetto di competenza legislativa esclusiva legato, nel sistema previgente, alla specialità degli enti che ne erano dotati, considerato cioè come un quid pluris, come una qualità aggiuntiva. Infatti, l’unico esempio di competenza legislativa esclusiva delle Regioni era proprio quella attribuita ad alcune di esse identificate dall’articolo 116 in ragione della propria specialità.

Già il conferimento di questa competenza alle Regioni ordinarie (come risulta dalla riforma operata dalla legge costituzionale n. 3/2001[3]) le rende tutte “differenziate” fra di loro, o meglio “ordinariamente” dotate di competenza esclusiva, essendo tutte, almeno in via di principio, in grado di provvedere con nuovi e più penetranti poteri alle proprie necessità, e capaci di far risaltare le proprie specifiche connotazioni.

Dal punto di vista sostanziale poi, già un rapido raffronto fra le due discipline permette di notare che la riforma non ha solo esteso questa competenza prima valevole per le Regioni speciali a tutte le Regioni, ma ne ha ampliato la portata, prevedendo un sistema di limiti molto meno importanti rispetto a quelli previsti per le prime[4] ma soprattutto il rovesciamento dell’enumerazione delle materie: esso vale però solo per gli enti investiti dalla riforma, per cui le Regioni speciali continuano a mantenere l’enumerazione delle proprie competenze. Non manca chi, parlando in ipotesi di una possibile diversa interpretazione della riforma, accenna alla possibilità che il «rovesciamento dell’enumerazione sia destinato a valere anche per le Regioni a Statuto speciale. Infatti, se si accogliesse questo presupposto… il regime speciale andrebbe considerato un regime non già alternativo, ma aggiuntivo rispetto a quello ordinario. Esso, tuttavia, finirebbe – per quanto riguarda il sistema delle competenze - per dissolversi: risultando, quasi per intero, assorbito dal regime comune, per la ragione che le competenze elencate dagli Statuti risulterebbero, in buona sostanza, assorbite dalla competenza generale, residualmente spettante alle Regioni»[5]. Questa diversa interpretazione sembra trovare una conferma di ordine positivo nell’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, il quale, in via transitoria, dispone: «Sino all’adeguamento dei rispettivi Statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a Statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite«. La norma da un lato avalla le considerazioni sopra riportate[6], dall’altro annuncia una necessaria riforma degli Statuti speciali, prendendo quindi consapevolezza della loro inadeguatezza al nuovo sistema costituzionale delle autonomie.

E ancora: l’articolo 2 della legge costituzionale n. 3 del 2001 aggiunge un ultimo comma all’articolo 116 della Costituzione, la cui portata è di notevole rilievo: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117[7] e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s)[8], possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».  

La riforma sembra dunque muoversi in una duplice direzione: da un lato si permette alle Regioni speciali - che si trovano ad essere poste di diritto come lo erano state finora di fatto, in una posizione addirittura deteriore rispetto a quelle ordinarie[9] - di usufruire della migliore disciplina[10] prevista solo per le Regioni ordinarie; dall’altro si rafforza la prospettiva che tutte le Regioni ordinarie possano assumere connotati di “specialità”, in deroga all’ordinario riparto di competenze sancito dalla Costituzione[11], ma entro ambiti ben definiti, in quanto le ulteriori forme di autonomia devono riguardare solamente le materie menzionate nell’articolo[12]. Il mantenimento dell’articolo 116 della Costituzione, allora, non può significare altro che si tende a riconoscere “nuove specialità”, ma considerando quelli oggi esistenti come enti “più speciali” rispetto agli altri. In cosa debba consistere questa “maggiore specialità”, poi, non è naturalmente ben chiaro. C’è ad esempio chi prospetta una «specialità parziale o mobile e relativa… per materie (o meglio per oggetti o fini specificamente definiti), che trovi riunite in una stessa condizione Regioni ordinarie e… speciali, per fasce omogenee di territorio ed in relazione ad interessi o ad obiettivi dati»[13]; chi ancora prospetta la possibilità di riconoscere, alle Regioni speciali, una competenza esclusiva sulle stesse materie rimaste nell’ambito della competenza statale[14]; e c’è chi, rifacendosi alla tradizione, auspica una riscoperta delle vere radici della specialità, legate alle antiche problematiche economiche, alla collocazione spaziale delle Regioni, alla presenza di “minoranze” etniche e/o linguistiche, alla necessità di aumentarne il peso nelle relazioni internazionali[15]. «La specialità allora non consiste in poteri “maggiori” e/o differenti”, ma in poteri adeguati a intervenire sulle condizioni di difformità, così da assicurare a Regioni che sono speciali, e perciò caratterizzate da situazioni di “oggettiva diversità”, la migliore utilizzazione dei loro caratteri peculiari»[16].

Il fatto veramente importante, è che la discussione sulle autonomie sembra, almeno in questo periodo, non subire rallentamenti di sorta.

E’ singolare come sia il dettato del nuovo articolo 116, sia alcune recenti proposte di revisione dell’articolo 117 tendano ad avvicinare, in via di principio, il nostro al regionalismo spagnolo, antico modello del Costituente italiano, poi disatteso nei fatti[17].

La Costituzione spagnola del ‘78, infatti, col lasciare alle Regioni la facoltà di costituirsi come ente autonomo, e, per quanto a noi più interessa, di codeterminare il proprio ambito di competenze, non ha fatto altro che consentire la creazione di autonomie tutte tendenzialmente speciali, definite nei rispettivi Statuti[18]. Tale sistema è, in buona sostanza, il modello del primo progetto di riforma dell’articolo 117 (la cosiddetta “devolution”), ma anche, in qualche modo, dell’autonomia statutaria regionale di cui alla legge costituzionale n. 1 del 1999.

 

Il Disegno di Legge Bossi sulla “Devolution”.

Il disegno di legge costituzionale, approvato in prima lettura dalle due Camere[19], in sostanza aggiunge, dopo il quarto, un ulteriore comma all’articolo 117: «Nel rispetto dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali, ciascuna Regione può attivare, con propria legge, la propria competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie: a) assistenza e organizzazione sanitaria; b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione; c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; d) polizia locale».

Tale previsione non farebbe altro che provocare uno spostamento, nell’ambito della competenza esclusiva regionale, di materie che ora rientrano interamente nell’ambito delle materie di competenza esclusiva statale, o sono divise, a seconda dei vari aspetti presi in considerazione – ad es. l’istruzione – fra competenza statale esclusiva e concorrente. Questo spostamento sarebbe rimesso ad un atto – legge regionale – interamente attribuibile alla volontà dell’ente che lo produce. Ed è questa la novità sostanziale rispetto al procedimento stabilito dal riformato art. 116 della Costituzione, il quale prevede l’attribuzione di non meglio specificate “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, come un connotato di specialità, e quindi come una concessione dello Stato alle Regioni; il procedimento di approvazione della legge che dovrebbe trasferire gli ulteriori poteri, legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di una previa intesa fra lo Stato e la Regione interessata[20], serve proprio a “blindare” tale trasferimento di competenze prima che esso abbia luogo.

Al di là delle considerazioni sull’opportunità che dette materie possano essere lasciate alla competenza esclusiva regionale, si potrebbe attivare un meccanismo giuridico – una sorta di rinvio fisso operato dalla Costituzione alla fonte legislativa regionale - per cui le Regioni che lo volessero, potrebbero modificare le norme sulla competenza e assumere direttamente compiti che altrimenti continuerebbero a rientrare nella competenza statale. Inserito nel discorso che a noi sta più a cuore, ogni Regione potrebbe assumere direttamente connotati di “specialità”[21], attribuendosi ambiti di competenze che le altre non vogliono o non possono assumere.

Questo meccanismo, mobile e sempre in evoluzione, avrebbe forse permesso di superare il decennale immobilismo del nostro ordinamento, e di operare un costante adeguamento dei compiti delle Regioni alle loro effettive possibilità di esercitarli[22], ferma restando la possibilità dello Stato di riappropriarsene - in ossequio al principio di sussidiarietà – nei casi di inerzia o di evidente inettitudine dimostrata nell’esercizio delle funzioni stesse. Il dato negativo della proposta, facilmente individuato nei vari dibattiti svolti durante l’iter di approvazione, era che essa non risolveva il nodo delle – possibili - diverse velocità tra le Regioni; essendo rimessa ogni scelta sulla attivazione delle competenze in discorso alla autodeterminazione delle Regioni, si sarebbe presentato il rischio di una frattura insanabile tra di esse, molte bloccate nel vecchio sistema di competenze, altre in grado di definire con grande ampiezza alcune rilevanti politiche sociali[23].

Questo per quanto riguarda le Regioni attualmente ordinarie.

Per quelle speciali, ogni tentativo di riforma si scontra col problema della natura costituzionale dei rispettivi Statuti. Lo stesso articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001[24] che prevede la temporanea estensione ad esse della legge, nelle parti in cui preveda «forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite», è null’altro che una norma transitoria. L’articolo, anzi, prevede il necessario “adeguamento dei rispettivi Statuti” alle nuove disposizioni della Costituzione. «Ma in un contesto generale di ridisegno di tutte le autonomie regionali, non sembra avere significato partire da una aprioristica diversità di queste (e solo di queste) Regioni da tutte le altre e pure dall’intangibilità delle così opinabili forme giuridiche adottate a tal fine nel periodo costituente»[25].

 

La “Bozza” di Legge La Loggia.

Pochi giorni prima dell’approvazione alla Camera in prima lettura del DdL Bossi, il Consiglio dei ministri dell’11 aprile 2003 licenziava uno schema di Disegno di legge costituzionale recante “Nuove modifiche al Titolo V, parte seconda, della Costituzione”. Il disegno di legge c.d. “La Loggia” è tutt’ora  in itinere, tanto che l’ultima bozza risale agli ultimi giorni di agosto[26].

Essa abbandona l’innovativa strada ipotizzata in precedenza per tentarne un’altra, meno suggestiva ma forse più realizzabile.

Per quanto riguarda la tecnica di enumerazione delle materie, del progetto originario che, prevedendo la soppressione della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regione, avrebbe eliminato di fatto una fonte di conflitto tra i due livelli, rimane solo la predisposizione di un nuovo elenco di materie di competenza esclusiva delle Regioni che si aggiunge a quelle già tassativamente elencate in favore dello Stato: l’eliminazione del criterio residuale di individuazione delle materie è, però, solo apparente, visto che nello stesso articolo si specifica che rimane assorbito nella competenza regionale tutto ciò che non è riservato espressamente allo Stato (art. 7 della “bozza”). Nel dettaglio, il progetto sostituisce il comma 4 dell’attuale articolo 117 col testo della devoluzione, prevedendo la competenza legislativa esclusiva delle Regioni in alcune materie: assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione (nel rispetto dell’autonomia degli istituti), programmi scolastici di interesse regionale, polizia locale. A bilanciamento della concessione alle Regioni delle materie menzionate, si conferisce al Governo la facoltà di porre di fronte al Senato un conflitto per lesione dell’ “interesse nazionale”; tale meccanismo era scomparso a seguito della riforma ex Legge costituzionale 3/2001.

In sostanza possiamo dire che il DdL, nel solco della italica tradizione di compromesso, riprende il vecchio progetto sulla devoluzione e contemporaneamente reintroduce il limite dell’interesse nazionale: in sostanza un ritorno al regionalismo dell’ “omologazione”.

In tal senso spinge anche la proposta di abrogazione del terzo comma dell’attuale art. 116, vale a dire la possibilità introdotta dalla Legge 3/2001 di consentire a singole Regioni di accedere ad ulteriori forme e condizioni di autonomia su iniziativa di queste e legge aggravata del Parlamento (art. 4 del progetto). L’unico accenno alle attuali Regioni speciali, inoltre, è la previsione dell’art. 9, identica all’art. 10 della Legge costituzionale 3/2001 in quanto consente di estendere anche a queste ultime, in via transitoria, eventuali condizioni di autonomia “più ampie” di quelle attribuite alle Regioni ordinarie[27].

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[1] In proposito l’illuminante scritto di Frosini, La differenziazione regionale nel regionalismo differenziato, in Associazione italiana dei Costituzionalisti, on-line all’indirizzo www.associazionedeicostituzionalisti.it .

[2] Per le considerazioni che seguono cfr. in particolar modo D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale? Prime riflessioni sulle tendenze evolutive in atto (con particolare riguardo alla Sardegna e alla Valle d’Aosta), in Riv. di Dir. Costituzionale, 1999, 217 ss.; Luciani, Le Regioni a Statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano, in Riv. di Dir. Costituzionale, 1999, 220 ss.; Pitruzzella, relazione a Regioni a Statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, in AaVv, Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, atti del Convegno promosso da Luiss, Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” e curato da Berti e De Martin, Roma, 9 gennaio 2001, 133 ss.

[3] In proposito cfr. le considerazioni svolte in Ercolano, La Legge costituzionale n. 3 del 2001: alcune considerazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione, pubblicato in questa sezione del sito www.ambientediritto.it .

[4] per considerazioni più approfondite sui limiti espressi e/o impliciti cfr. lo scritto citato nella nota precedente.

[5] D’Atena, Dove va l’autonomia regionale speciale?, op. cit., 218 ss.; così anche Ruggeri, Elezione diretta dei Presidenti regionali, riforma degli Statuti, prospettive della “specialità”, in Riv. di Dir. Costituzionale, 1999, 236.

[6] A fronte di una riforma che ha completamente ribaltato i criteri di distribuzione delle materie tra Stato e Regioni, le “parti” della nuova legge costituzionale in cui si «prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite» alle autonomie speciali, per ciò direttamente applicabili alle stesse, sarebbero in sostanza quasi tutte: dalla enumerazione statale delle materie, alla nuova competenza concorrente, ai controlli, alla non espressa indicazione di alcuni limiti generali alla potestà legislativa regionale, come il limite dell’interesse nazionale e quello delle grandi riforme economico - sociali, al sindacato di costituzionalità delle leggi statali e regionali, per ricordarne alcune più rilevanti, a parte quelle disposizioni che trovano diretta applicazione, per espressa previsione della stessa legge costituzionale, anche nei confronti delle regioni ad autonomia differenziata. In proposito Mangiameli (intervento a Regioni a Statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, op. cit., 144) pone l’accento sui problemi che porrebbe tale soluzione; si avrebbe, invero, un doppio regime dato dall’estensione, alle Regioni speciali, di quello “ordinario”, che si aggiunge e non sostituisce quello “speciale”; queste Regioni si troverebbero quindi a godere, contemporaneamente, di una competenza generale e di una competenza enumerata, di potestà esclusiva e concorrente, spesso nei riguardi di una stessa materia, con evidenti problemi di sovrapposizioni di disciplina e di riconducibilità all’una o all’altra competenza.

[7] si tratta, in generale, delle materie di legislazione concorrente.

[8] E cioè: norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

[9] Così anche Caretti, La faticosa marcia di avvicinamento ad un assetto razionale del regionalismo italiano, in Le Regioni, 2000, 797.

[10] le norme che «prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite».

[11] Così anche Pitruzzella, relazione a Regioni a Statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, op. cit., 141 ss.

[12] In verità l’originario d.d.l. del Governo, (n. 5830, sul quale Falcon, Il Governo e il progetto di “Ordinamento federale” per la Repubblica, in Le Regioni, 1999, 3 ss., nonché Paganetto, Il significato della “specialità” regionale, op. cit., 1100), all’articolo 19, modificativo dell’art. 131 Cost., prevedeva genericamente la possibilità di stabilire anche per le Regioni ordinarie nuove forme e condizioni di autonomia, seppure nel rispetto delle norme in materia finanziaria (art. 119 della Cost.), della ripartizione costituzionale delle competenze normative tra gli enti (art. 118), nonché dei divieti imposti dall’articolo 120 Cost. e del potere di sostituzione del Governo, in caso di mancato rispetto di norme e Trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure in caso di pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica.

[13] Ruggeri, Elezione diretta dei Presidenti regionali, riforma degli Statuti, prospettive della “specialità”, op. cit., 237: «Il superamento di un piatto o incolore regionalismo uniforme, reso ancora più rigido e statico dalla secca (ma ormai vetusta) contrapposizione tra le sue due forme espressive tipiche o istituzionali… può, dunque, aversi a vantaggio di un regionalismo “funzionale” e dinamico, che distingua là dove v’è ragionevolmente da distinguere e tratti invece allo stesso modo interessi di ugual natura o rilievo, quale che sia l’ente nel cui territorio si manifestano».

[14] Mor, Le Regioni a Statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Le Regioni, 1998, 213.

[15] Tra gli altri: Pizzorusso, Regioni speciali: motivazioni storiche ed esigenze attuali, in Quaderni Regionali, 1989, 1025 ss.; Paladin (a cura di), La specialità oggi, Regioni speciali e Province autonome, Roma, 1987;

[16] Paganetto, Il significato della “specialità” regionale, op. cit., 1108.

[17] Già la legge costituzionale 3/2001 richiama, in qualche sua parte, la distribuzione di competenze tra centro e Regioni prevista dalla Cost. spagnola. Quest’ultima, infatti, presenta un’ampia enumerazione delle materie di competenza esclusiva dello Stato (art. 149 comma primo). Le Regioni spagnole possono però decidere di avocare a sé, tra le competenze che la Costituzione espressamente riserva loro, quelle che ritengano di poter esercitare (art. 148 commi primo e terzo). Esse possono assumere, inoltre, competenze nelle materie attribuite alla potestà esclusiva statale nel limite dei principi, le “basi”, e delle direttive fissate da una legge statale (art. 150 comma primo), nonché quelle trasferite o delegate mediante legge organica dello Stato (art. 150 comma secondo). Tutto ciò mediante l’inclusione di queste competenze nei rispettivi Statuti di autonomia, in proposito cfr. la nota seguente.

[18] Art. 146: “ Il progetto di statuto sarà elaborato da un’assemblea formata dai membri della Deputazione, o dell’organo interinsulare delle Province interessate, e dai deputati e senatori in queste eletti; sarà, quindi, presentato alle Cortes affinché compia il suo iter come legge”; art. 147: “…Gli statuti di autonomia dovranno contenere… le competenze assunte nell’ambito stabilito dalla Costituzione e le basi per il trasferimento alla Comunità dei relativi servizi”. Sulla Costituzione spagnola cfr. diffusamente Aparicio, Lineamenti di Diritto costituzionale spagnolo, Torino, 1992, e per le considerazioni in discorso 55 ss., nonché Lopez Guerra, Il tribunale costituzionale spagnolo e le autonomie regionali, in Federalismo e Regionalismo in Europa, a cura di D’Atena, Milano, 1994, 271 ss.

[19] Il DdL costituzionale veniva approvato - in prima lettura - dal Senato della Repubblica (AS 1187) in data 5 dicembre 2002 e trasmesso alla Camera dei deputati (AC 3461). Quest’ultima - in data 14 aprile 2003 - approvava senza modificazioni il testo trasmessole e lo rinviava al Senato per la seconda lettura (AS 1187B). A tutt’oggi il progetto è stato accantonato dalla maggioranza di Governo; solo alcuni aspetti dello stesso sono stati trasposti nella bozza di riforma “La Loggia”. Sul progetto si esprimono Caravita Di Toritto, Quale regime per l’introduzione delle autonomie differenziate? Spigolature intorno alla proposta di revisione costituzionale presentata dal Ministro Bossi, in Associazione italiana dei Costituzionalisti, on-line all’indirizzo www.associazionedeicostituzionalisti.it ; Salerno, Brevi osservazioni sulla riforma del Titolo V, la “devolution” e la logica istituzionale della lotteria; A.A.V.V., Federalismo e devoluzione; Caravita, Federalismo e devoluzione tra modelli estratti e funzionamento concreto, Antonini, Il “vaso di Pandora” del Federalismo: spunti sulla questione della devolution, tutti in Osservatorio sul Federalismo, on-line all’indirizzo www.federalismi.it; Morrone, Il Parlamento di fronte al progetto di Devolution, in Forum di Quaderni costituzionali, all’indirizzo www.unife.it/forumcostituzionale .

[20] che rispecchia maggiormente, dal punto di vista procedimentale, il modello spagnolo.

[21] Termine utilizzato ora in un’accezione atecnica.

[22] «Il modello più… autenticamente orientato alla promozione delle singole realtà regionali è quello che vede allo Stato riconosciuto un patrimonio essenziale di materie e funzioni, cui facciano capo interessi di esclusiva, provata dimensione nazionale o sopranazionale… Ogni altra materia o funzione, astrattamente suscettibile di essere attratta nell’orbita delle competenze regionali, dovrebbe trovarsi disposta in una sorta di ideale “paniere” cui le Regioni possano liberamente attingere e farla propria…», Ruggeri, intervento a Regioni a Statuto speciale e altre forme particolari di autonomia regionale, op. cit., 168.

[23] Sul punto si sofferma ad es. Pitruzzella, Il regionalismo differenziato nel “progetto Bossi”, in Associazione italiana dei Costituzionalisti, on-line all’indirizzo www.associazionedeicostituzionalisti.it .

[24] Cfr. più indietro nel testo.

[25] De Siervo, Ipotesi di revisione costituzionale: il cosiddetto Regionalismo “forte”, in Le Regioni, 1995, 48.

[26] Pubblicata su Il Sole 24 Ore del 30 agosto 2003. La cosiddetta “bozza dei saggi” è stata elaborata dai senatori Andrea Pastore, Domenico Nania, Roberto Calderoli e Francesco D’Onofrio. In proposito, per una prima analisi, si rinvia alle pubblicazioni in Forum di Quaderni costituzionali, settembre 2003, all’indirizzo www.unife.it/forumcostituzionale: Ceccanti, Guida ragionata di lettura della bozza di riforma costituzionale elaborata dai “saggi” della maggioranza; Fusaro, Prime valutazioni sul Disegno di legge costituzionale concernente il Senato federale della Repubblica, la composizione della Corte costituzionale la forma di governo e modificazione degli artt. 104, 117, 127 e 138 della Costituzione.

[27] «Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni di cui all’art. 7 della presente Legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a Statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano, per le parti in cui si prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite». Cfr. più indietro nel testo.