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 Furto archeologico e onere della prova.

 

Di Giovanni Lamarca

 

 

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Il furto archeologico è un reato di sospetto e di possesso. Era previsto dall'art.67 della legge 1089/39 ed è ora confluito, con una formulazione parzialmente simile, nell'art.125 del Testo Unico in materia di beni culturali ed ambientali. Prima di esaminare questi due articoli è opportuno fare un premessa.


Nel 1909 con la legge n. 364 il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento una regola generale per cui tutti i beni di pregio storico-artistico e archeologico trovati nel territorio dello Stato appartengono allo Stato italiano a titolo originario. Quindi tutti i beni trovati da quel momento in poi, appartengono allo Stato. Tuttavia la norma non era presidiata da una sanzione penale.


Solo nel 1939 con la legge 1089 nell'art.67 è stata introdotta la figura di reato del furto archeologico cioè dell'impossessamento di beni storico-archeologici, riproposto con una formulazione sostanzialmente identica dall'art.125 del T.U. in materia di beni culturali ed ambientali anzidetto, che fu approvato con il decreto legislativo n. 490 del 1999. Questa è la situazione normativa, legislativa.


Nel 1939 la legge 1089 all'art.67 prevedeva che chiunque si impossessasse di cose di antichità e d'arte rinvenute fortuitamente ovvero in seguito a ricerche od opere in genere era punito ai sensi dell'art.624 c.p., che è la norma riguardante il furto. Attualmente, invece l'art.125 del T.U., che riproduce lo stesso reato, prevede che chiunque si impossessa dei beni culturali indicati nell'art.2 del T.U., appartenenti allo Stato a norma dell'art.88, è punito con la reclusione fino a 3 anni e con la multa di £ 60.000, che è la stessa pena prevista all'art.624 c.p. per il furto.


Le due norme hanno una formulazione sostanzialmente identica, ma c'è una piccola differenza: l'art.125, a differenza del 67 fa riferimento a "beni culturali", da una parte risolvendo un dubbio interpretativo e dall'altro confermando un orientamento giurisprudenziale con riferimento al bene oggetto del reato.


Per quanto riguarda il dubbio interpretativo c'è da dire che la giurisprudenza aveva ristretto la portata dell'art.67 omettendo la tutela penale per le cose rilevanti culturalmente che non fossero antiche o artistiche. Quindi, secondo questo orientamento, i beni dotati di spessore culturale ma non del carattere dell'antichità o artisticità, come richiedeva l'art.67, non potevano essere tutelati.


Ora il riferimento generico ai beni culturali ci fa affermare che qualunque bene culturale anche non artistico o antico è protetto dalla norma.
L'art.125, d'altra parte, conferma quell'orientamento della Cassazione per cui la cosa archeologica o antica priva di interesse culturale non rientra nell'art.67.


Forse il concetto di "bene culturale" presenta qualche limite perché è molto vago sebbene antico e artistico abbiano già un loro significato, ma con il suo inserimento all'interno dell'art.125 se ne è definita più precisamente la portata rispetto all'art.67 della legge del '39.
Venendo al punto, l'art.125 prevede due ipotesi delittuose, la prima si concreta in una condotta statica, la seconda in una condotta dinamica.


La condotta dinamica consiste nell'acquisizione della disponibilità di un bene culturale; la condotta statica nel semplice possesso: in quest'ultimo caso però molto spesso nella prassi si risponde non di furto archeologico ma di ricettazione (art 648 c.p.) o di incauto acquisto (art 712 c.p.).


L'art. 125 del T.U. dei beni culturali nella condotta statica è un reato di sospetto perché si presuppone la condotta dinamica di impossessamento.


La giurisprudenza prevalente con riferimento a questo reato ritiene che il possesso di beni culturali sia un possesso presuntivamente illecito.


Questo perché nel nostro ordinamento i beni che vengono trovati nel territorio dello Stato italiano appartengono allo Stato a titolo originario, purché si tratti di beni trovati dopo il 1909. Perciò, secondo la giurisprudenza maggioritaria, spetta al possessore provare che quel bene non appartiene allo Stato ma appartiene a sé: è evidente che l'onere della prova cade sul possessore.
Tuttavia vi sono nel nostro ordinamento delle ipotesi in cui il bene culturale può ancora essere in proprietà del privato.
 

Così nel caso in cui:
1. il bene sia stato trovato prima del 1909 e sia stato trasmesso in successione ereditaria.
2. il bene sia stato acquistato all'estero e portato in Italia;
3. il bene sia nel possesso del soggetto privato perché lo Stato lo ha rilasciato come premio (art.89 T.U.: tutte le volte in cui il soggetto trova dei beni culturali , lo Stato deve riconoscergli un premio, che può essere in denaro o in natura, compreso lo stesso bene) .
 

In queste ipotesi il soggetto può dimostrare, ricadendo sempre su di lui l'onere della prova, che ha il legittimo possesso dei beni.
Questa lettura della giurisprudenza è stata avversata dalla dottrina la quale ha detto che è evidente in questo caso la violazione del principio di non colpevolezza (art.27 co2 Cost) perché non è l'accusa a dover provare la veridicità del possesso, ma è il possessore del bene, il detentore che deve discolparsi, provando, cioè, la legittima provenienza storica del bene.


Indizi utili, a sostegno di questa tesi, si rinvengono in una pronuncia della Corte Costituzionale sulla prova della legittima provenienza in riferimento all'art.12 quinquies comma 2 del decreto legge 306/92 convertito nella legge 356/92.


E' necessario esaminare il contenuto della sentenza della Corte non per la figura di reato che è ormai scomparsa, ma per il contenuto della motivazione che afferma i principi fondamentali in tema di reati di sospetto e soprattutto del rapporto tra i reati di sospetto e le misure di prevenzione. L'art.12 quinquies comma 2 prevedeva che coloro nei cui confronti pende procedimento penale in uno dei delitti previsti dall'articolo sulla ricettazione, dall'articolo sull'impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita, dall'articolo sul riciclaggio e da tutta un'altra serie di norme, se risultano essere titolari, o avere la disponibilità a qualsiasi titolo, di denaro, beni o altre utilità di valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini dell'imposta sul reddito o alla propria attività economica e dei quali non possono giustificare la legittima provenienza sono puniti con la reclusione da due a cinque anni e il denaro, i beni e le altre utilità sono confiscati.


Quindi è un delitto che punisce soggetti, sottoposti al procedimento penale per determinati reati qui indicati, che vengono trovati in possesso di beni che sono di valore sproporzionato rispetto alla loro attività economica e non giustificano la "legittima provenienza".


La Corte ha dichiarato incostituzionale questo articolo per violazione del principio di presunzione di non colpevolezza di cui all'art.27 comma 2 Cost.
 

Questo per due ragioni fondamentali.
 

1. In primis, si è detto che il fatto che un soggetto viene sottoposto a procedimento penale, deve avere, in base al principio di presunzione di non colpevolezza, valore neutro; infatti non è possibile che, dal fatto che il soggetto è sottoposto a procedimento penale si desuma la soggettività attiva di un reato. Diversamente gli artt.707c.p. e 708 c.p. (altre ipotesi di reato di sospetto) parlano di condannato e non fanno riferimento al soggetto che è sottoposto a procedimento penale e quindi sotto questo profilo sono conformi al principio di presunzione di non colpevolezza. Questo è il primo profilo di violazione del principio di presunzione di non colpevolezza. Si osserva che, così operando, nell'art.12 quinquies il legislatore ha fatto sostanzialmente uso della tecnica tipica delle misure di prevenzione. Infatti, nel nostro ordinamento esiste una misura di prevenzione prevista da una legge speciale la quale prevede la confisca nei confronti di coloro che, indiziati di un delitto o anche sottoposti a procedimento penale, vengono trovati in possesso di beni sproporzionati rispetto alla loro attività economica e di cui non giustifichino la loro legittima provenienza. Quindi, vi è una identità tra la fattispecie prevista da questa misura di prevenzione e la fattispecie di cui all'art.12 quinquies, solo che la prima è una misura di prevenzione e sfocia nella confisca, la seconda invece è un reato e sfocia nella reclusione. Ma questa tecnica tipica delle misure di prevenzione non è corretta secondo la Corte Costituzionale. Infatti , rispetto alle misure di prevenzione è possibile avere come soggetto attivo un indiziato perché la misura di prevenzione è una misura ante delictum. Invece, il reato non può fondarsi sulla figura del semplice indiziato o sottoposto a procedimento penale.
 

2. L'altro profilo di violazione del principio appena enunciato riguarda l'inversione dell'onere della prova, perché l'art.12 quinquies chiede al soggetto di provare la "legittima" provenienza dei beni e valori economici trovati in possesso. Anche in questo caso l'articolo è diverso rispetto agli art.707 c.p. e art.708 c.p., perché questi articoli richiedono, non di provare "legittima" provenienza dei valori in possesso, ma, rispettivamente, la destinazione e la provenienza, dando una giustificazione plausibile del perché si è in possesso di quei beni; il giudice dovrà poi valutare e nel dubbio appurare in concreto, se la provenienza è legittima o meno.
Quindi, nell'art.12 quinquies c'è una INVERSIONE VERA E PROPRIA DELL'ONERE DELLA PROVA, mentre nel caso degli artt.707 e 708 c.p. c'è un SEMPLICE ONERE DI ALLEGAZIONE in capo al privato. Se il, giudice ritiene la giustificazione plausibile l'accetta altrimenti verifica.
 

Ad esempio, la Corte di Cassazione aveva annullato una sentenza della Corte D'Appello, la quale aveva condannato il soggetto che era stato trovato in possesso di vari assegni per un importo esorbitante per la sua attività. Il soggetto aveva giustificato la provenienza e non la "legittima" provenienza di questi assegni, perché il capo di imputazione era l'art.708, dicendo che questi assegni gli erano stati consegnati da un suo congiunto affinché venissero convertiti in denaro contante e da un suo amico perché li convertisse presso terzi. Il giudice d'Appello ha ritenuto non plausibile questa giustificazione e lo ha condannato ex art.708 c.p. . La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d'Appello mettendo in evidenza che l'art.708 c.p. richiede che il giudice, qualora ritenga non plausibile la giustificazione deve verificare, e nel caso di specie era possibile perché si trattava non di banconote, di cui è difficile stabilire la provenienza, ma di assegni e quindi era possibile risalire alla banca trattaria, al traente, al girante.


Questo è un esempio di cosa significa dimostrare la provenienza e non la "legittima" provenienza di cui all'art.12 quinquies, che, quindi, comporta una inversione dell'onere della prova che contrasta con il principio di presunzione di non colpevolezza. Questa inversione dell'onere della prova non si ha, secondo la sentenza della Corte Costituzionale negli artt.707 e 708 c.p., perché questi richiedono semplicemente una plausibile e circostanziata giustificazione della provenienza o della destinazione. Per queste ragioni l'art.12 quinquies è stato eliminato e già in quella sentenza la Corte Costituzionale aveva fatto capire che l'art.707 c.p. e l'art.708 c.p. sotto questo profilo potevano essere salvati.
 

Nel furto archeologico ci troviamo nella stessa situazione cioè il detentore di beni culturali deve provare la legittima provenienza di quel bene.
 

Ancora: viene ad essere violato il diritto di difesa perché si pone a carico del soggetto una difesa impossibile perché per il trasferimento dei beni culturali non è prevista la forma scritta quindi non c'è alcun documento che prova il fatto che il bene passi ad un altro e che il possesso spetta a quel determinato soggetto.
 

E ancora si osserva che tutte le volte che il legislatore ha voluto porre a carico del soggetto possessore un onere, quello di dimostrare la legittimità del possesso, o comunque l'onere d'allegazione, l'ha fatto espressamente: in tema di possesso è la norma stessa che stabilisce che il soggetto deve dimostrare l'attuale destinazione o provenienza.
 

Nell'art.125 come nel 67 questa volontà non è espressa, quindi è assurdo pensare che in via interpretativa si deve desumere che il possesso è presumibilmente illecito e che debba essere il possessore a dimostrare la legittimità di quel possesso.
 

Quindi, in assenza di un'espressa presa di posizione del legislatore si applicano le norme processuali: perciò l'accusa prova la responsabilità penale.
 

La presunzione d'illegittimità del possesso, per i sostenitori di questa teoria, deriva dal fatto che i beni culturali appartengono allo Stato e quindi se si è stati trovati in possesso di questi beni si presume l'appartenenza allo Stato e spetta al possessore dimostrare il contrario.
Tuttavia si ribatte, da altri autori che non è vero che il possesso dei beni culturali in mano di in privato è presumibilmente illecito, infatti, non sono poche le ipotesi (già viste) in cui è possibile che il bene appartenga al privato.
 

Questo significa che questa ricostruzione di liceità del possesso non è poi così certa perché vi possono essere situazioni in cui il bene appartiene allo Stato e situazioni in cui appartiene al privato, non si può dire quindi che ci sia sempre presunzione d'illiceità del possesso seppure relativa.
 

C'è quindi un primo orientamento per cui c'è un'illiceità presunta del possesso ed è quello della giurisprudenza prevalente; un secondo per cui è l'accusa a dimostrare l'illiceità del possesso da parte del privato ed è quello sostenuto dalla giurisprudenza recente della Corte di Cassazione e dalla dottrina
 

Riguardo alla struttura del reato si analizzano in breve l'elemento oggettivo e quello soggettivo:

 

Elemento oggettivo.


Secondo un primo orientamento il possesso dei beni culturali ART.125 T.U. va inteso nel senso normale di possesso nell'ambito del diritto penale: va inteso cioè nel senso di potere di fatto sulle cose al di fuori della sorveglianza del titolare della cosa stessa, o di chiunque esercita un potere superiore. Quindi due sono gli elementi che caratterizzano il possesso penale: potere di fatto su una cosa (disponibilità della stessa) e questo potere esercitato al di fuori della sfera di controllo del titolare.
 

E' un concetto diverso rispetto a quello civilistico, perché in ambito civilistico il possesso si caratterizza per l'animus, cioè il soggetto è possessore non tanto perché ha la disponibilità del bene, ma perché non riconosce l'altrui posizione, cioè non riconosce che il bene è altrui.
 

Nel caso di furto di beni culturali se applichiamo la regola generale del processo penale dobbiamo affermare che il possesso di beni culturali consiste nel fatto che viene trovato il bene, se ne ha la disponibilità di fatto, e la esercita al di fuori della sfera di sorveglianza dello Stato.
 

Secondo un diverso orientamento quest'affermazione è giusta ma bisogna dire qualcosa in più, e cioè che deve essere trascorso quel lasso di tempo necessario per denunciare il ritrovamento del bene all'autorità, altrimenti non matura quel possesso che legittima la condanna ex art.125 del T.U. per possesso ingiustificato di beni culturali.
 

Quindi ci sarebbe una condotta commissiva (possedere) e una condotta omissiva (non avere denunciato l'autorità).
 

Elemento soggettivo.


si tratta di un reato a dolo generico, coscienza e volontà di possedere beni culturali; è necessario che il soggetto che possiede questo bene sia consapevole del valore culturale, se manca questa consapevolezza il soggetto incorre in errore sul fatto che costituisce reato e quindi si applica l'art.47 che prevede che, se vi è errore sul fatto che costituisce reato, il soggetto non è punito per mancanza di dolo, salvo che l'ignoranza sia dovuta a colpa.


Quindi se si è in possesso di un bene senza sapere che si tratta di un bene culturale non si commette il reato di cui all'ART.125, per mancanza di dolo per errore sul fatto.

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* GIURISPRUDENZA
1. Sulla presunzione d'illegittimità del possesso: Cass. pen. Sez. II 21/11/1997 n.12716
2. Sulla vigenza delle normali regole processuali: Cass. Pen. Sez. III 16/03/2000
 

Dott. Lamarca Giovanni

 

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