AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Tutti i diritti sono riservati - Copyright © - AmbienteDiritto.it
Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
Furto archeologico e onere della prova.
Di Giovanni Lamarca
www.AmbienteDiritto.it
Il furto archeologico è un reato di sospetto e di possesso. Era previsto
dall'art.67 della legge 1089/39 ed è ora confluito, con una formulazione
parzialmente simile, nell'art.125 del Testo Unico in materia di beni culturali
ed ambientali. Prima di esaminare questi due articoli è opportuno fare un
premessa.
Nel 1909 con la legge n. 364 il legislatore ha introdotto nel nostro
ordinamento una regola generale per cui tutti i beni di pregio
storico-artistico e archeologico trovati nel territorio dello Stato
appartengono allo Stato italiano a titolo originario. Quindi tutti i beni
trovati da quel momento in poi, appartengono allo Stato. Tuttavia la norma non
era presidiata da una sanzione penale.
Solo nel 1939 con la legge 1089 nell'art.67 è stata introdotta la figura di
reato del furto archeologico cioè dell'impossessamento di beni
storico-archeologici, riproposto con una formulazione sostanzialmente identica
dall'art.125 del T.U. in materia di beni culturali ed ambientali anzidetto,
che fu approvato con il decreto legislativo n. 490 del 1999. Questa è la
situazione normativa, legislativa.
Nel 1939 la legge 1089 all'art.67 prevedeva che chiunque si impossessasse di
cose di antichità e d'arte rinvenute fortuitamente ovvero in seguito a
ricerche od opere in genere era punito ai sensi dell'art.624 c.p., che è la
norma riguardante il furto. Attualmente, invece l'art.125 del T.U., che
riproduce lo stesso reato, prevede che chiunque si impossessa dei beni
culturali indicati nell'art.2 del T.U., appartenenti allo Stato a norma
dell'art.88, è punito con la reclusione fino a 3 anni e con la multa di £
60.000, che è la stessa pena prevista all'art.624 c.p. per il furto.
Le due norme hanno una formulazione sostanzialmente identica, ma c'è una
piccola differenza: l'art.125, a differenza del 67 fa riferimento a "beni
culturali", da una parte risolvendo un dubbio interpretativo e dall'altro
confermando un orientamento giurisprudenziale con riferimento al bene oggetto
del reato.
Per quanto riguarda il dubbio interpretativo c'è da dire che la giurisprudenza
aveva ristretto la portata dell'art.67 omettendo la tutela penale per le cose
rilevanti culturalmente che non fossero antiche o artistiche. Quindi, secondo
questo orientamento, i beni dotati di spessore culturale ma non del carattere
dell'antichità o artisticità, come richiedeva l'art.67, non potevano essere
tutelati.
Ora il riferimento generico ai beni culturali ci fa affermare che qualunque
bene culturale anche non artistico o antico è protetto dalla norma.
L'art.125, d'altra parte, conferma quell'orientamento della Cassazione per cui
la cosa archeologica o antica priva di interesse culturale non rientra
nell'art.67.
Forse il concetto di "bene culturale" presenta qualche limite perché è molto
vago sebbene antico e artistico abbiano già un loro significato, ma con il suo
inserimento all'interno dell'art.125 se ne è definita più precisamente la
portata rispetto all'art.67 della legge del '39.
Venendo al punto, l'art.125 prevede due ipotesi delittuose, la prima si
concreta in una condotta statica, la seconda in una condotta dinamica.
La condotta dinamica consiste nell'acquisizione della disponibilità di un bene
culturale; la condotta statica nel semplice possesso: in quest'ultimo caso
però molto spesso nella prassi si risponde non di furto archeologico ma di
ricettazione (art 648 c.p.) o di incauto acquisto (art 712 c.p.).
L'art. 125 del T.U. dei beni culturali nella condotta statica è un reato di
sospetto perché si presuppone la condotta dinamica di impossessamento.
La giurisprudenza prevalente con riferimento a questo reato ritiene che il
possesso di beni culturali sia un possesso presuntivamente illecito.
Questo perché nel nostro ordinamento i beni che vengono trovati nel territorio
dello Stato italiano appartengono allo Stato a titolo originario, purché si
tratti di beni trovati dopo il 1909. Perciò, secondo la giurisprudenza
maggioritaria, spetta al possessore provare che quel bene non appartiene allo
Stato ma appartiene a sé: è evidente che l'onere della prova cade sul
possessore.
Tuttavia vi sono nel nostro ordinamento delle ipotesi in cui il bene culturale
può ancora essere in proprietà del privato.
Così nel caso in cui:
1. il bene sia stato trovato prima del 1909 e sia stato trasmesso in
successione ereditaria.
2. il bene sia stato acquistato all'estero e portato in Italia;
3. il bene sia nel possesso del soggetto privato perché lo Stato lo ha
rilasciato come premio (art.89 T.U.: tutte le volte in cui il soggetto trova
dei beni culturali , lo Stato deve riconoscergli un premio, che può essere in
denaro o in natura, compreso lo stesso bene) .
In queste ipotesi il soggetto può dimostrare, ricadendo sempre su di lui
l'onere della prova, che ha il legittimo possesso dei beni.
Questa lettura della giurisprudenza è stata avversata dalla dottrina la quale
ha detto che è evidente in questo caso la violazione del principio di non
colpevolezza (art.27 co2 Cost) perché non è l'accusa a dover provare la
veridicità del possesso, ma è il possessore del bene, il detentore che deve
discolparsi, provando, cioè, la legittima provenienza storica del bene.
Indizi utili, a sostegno di questa tesi, si rinvengono in una pronuncia della
Corte Costituzionale sulla prova della legittima provenienza in riferimento
all'art.12 quinquies comma 2 del decreto legge 306/92 convertito nella legge
356/92.
E' necessario esaminare il contenuto della sentenza della Corte non per la
figura di reato che è ormai scomparsa, ma per il contenuto della motivazione
che afferma i principi fondamentali in tema di reati di sospetto e soprattutto
del rapporto tra i reati di sospetto e le misure di prevenzione. L'art.12
quinquies comma 2 prevedeva che coloro nei cui confronti pende procedimento
penale in uno dei delitti previsti dall'articolo sulla ricettazione,
dall'articolo sull'impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita,
dall'articolo sul riciclaggio e da tutta un'altra serie di norme, se risultano
essere titolari, o avere la disponibilità a qualsiasi titolo, di denaro, beni
o altre utilità di valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini
dell'imposta sul reddito o alla propria attività economica e dei quali non
possono giustificare la legittima provenienza sono puniti con la reclusione da
due a cinque anni e il denaro, i beni e le altre utilità sono confiscati.
Quindi è un delitto che punisce soggetti, sottoposti al procedimento penale
per determinati reati qui indicati, che vengono trovati in possesso di beni
che sono di valore sproporzionato rispetto alla loro attività economica e non
giustificano la "legittima provenienza".
La Corte ha dichiarato incostituzionale questo articolo per violazione del
principio di presunzione di non colpevolezza di cui all'art.27 comma 2 Cost.
Questo per due ragioni fondamentali.
1. In primis, si è detto che il fatto che un soggetto viene sottoposto a
procedimento penale, deve avere, in base al principio di presunzione di non
colpevolezza, valore neutro; infatti non è possibile che, dal fatto che il
soggetto è sottoposto a procedimento penale si desuma la soggettività attiva
di un reato. Diversamente gli artt.707c.p. e 708 c.p. (altre ipotesi di reato
di sospetto) parlano di condannato e non fanno riferimento al soggetto che è
sottoposto a procedimento penale e quindi sotto questo profilo sono conformi
al principio di presunzione di non colpevolezza. Questo è il primo profilo di
violazione del principio di presunzione di non colpevolezza. Si osserva che,
così operando, nell'art.12 quinquies il legislatore ha fatto sostanzialmente
uso della tecnica tipica delle misure di prevenzione. Infatti, nel nostro
ordinamento esiste una misura di prevenzione prevista da una legge speciale la
quale prevede la confisca nei confronti di coloro che, indiziati di un delitto
o anche sottoposti a procedimento penale, vengono trovati in possesso di beni
sproporzionati rispetto alla loro attività economica e di cui non
giustifichino la loro legittima provenienza. Quindi, vi è una identità tra la
fattispecie prevista da questa misura di prevenzione e la fattispecie di cui
all'art.12 quinquies, solo che la prima è una misura di prevenzione e sfocia
nella confisca, la seconda invece è un reato e sfocia nella reclusione. Ma
questa tecnica tipica delle misure di prevenzione non è corretta secondo la
Corte Costituzionale. Infatti , rispetto alle misure di prevenzione è
possibile avere come soggetto attivo un indiziato perché la misura di
prevenzione è una misura ante delictum. Invece, il reato non può fondarsi
sulla figura del semplice indiziato o sottoposto a procedimento penale.
2. L'altro profilo di violazione del principio appena enunciato riguarda
l'inversione dell'onere della prova, perché l'art.12 quinquies chiede al
soggetto di provare la "legittima" provenienza dei beni e valori economici
trovati in possesso. Anche in questo caso l'articolo è diverso rispetto agli
art.707 c.p. e art.708 c.p., perché questi articoli richiedono, non di provare
"legittima" provenienza dei valori in possesso, ma, rispettivamente, la
destinazione e la provenienza, dando una giustificazione plausibile del perché
si è in possesso di quei beni; il giudice dovrà poi valutare e nel dubbio
appurare in concreto, se la provenienza è legittima o meno.
Quindi, nell'art.12 quinquies c'è una INVERSIONE VERA E PROPRIA DELL'ONERE
DELLA PROVA, mentre nel caso degli artt.707 e 708 c.p. c'è un SEMPLICE ONERE
DI ALLEGAZIONE in capo al privato. Se il, giudice ritiene la giustificazione
plausibile l'accetta altrimenti verifica.
Ad esempio, la Corte di Cassazione aveva annullato una sentenza della Corte D'Appello, la quale aveva condannato il soggetto che era stato trovato in possesso di vari assegni per un importo esorbitante per la sua attività. Il soggetto aveva giustificato la provenienza e non la "legittima" provenienza di questi assegni, perché il capo di imputazione era l'art.708, dicendo che questi assegni gli erano stati consegnati da un suo congiunto affinché venissero convertiti in denaro contante e da un suo amico perché li convertisse presso terzi. Il giudice d'Appello ha ritenuto non plausibile questa giustificazione e lo ha condannato ex art.708 c.p. . La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d'Appello mettendo in evidenza che l'art.708 c.p. richiede che il giudice, qualora ritenga non plausibile la giustificazione deve verificare, e nel caso di specie era possibile perché si trattava non di banconote, di cui è difficile stabilire la provenienza, ma di assegni e quindi era possibile risalire alla banca trattaria, al traente, al girante.
Questo è un esempio di cosa significa dimostrare la provenienza e non la
"legittima" provenienza di cui all'art.12 quinquies, che, quindi, comporta una
inversione dell'onere della prova che contrasta con il principio di
presunzione di non colpevolezza. Questa inversione dell'onere della prova non
si ha, secondo la sentenza della Corte Costituzionale negli artt.707 e 708 c.p.,
perché questi richiedono semplicemente una plausibile e circostanziata
giustificazione della provenienza o della destinazione. Per queste ragioni
l'art.12 quinquies è stato eliminato e già in quella sentenza la Corte
Costituzionale aveva fatto capire che l'art.707 c.p. e l'art.708 c.p. sotto
questo profilo potevano essere salvati.
Nel furto archeologico ci troviamo nella stessa situazione cioè il detentore
di beni culturali deve provare la legittima provenienza di quel bene.
Ancora: viene ad essere violato il diritto di difesa perché si pone a carico
del soggetto una difesa impossibile perché per il trasferimento dei beni
culturali non è prevista la forma scritta quindi non c'è alcun documento che
prova il fatto che il bene passi ad un altro e che il possesso spetta a quel
determinato soggetto.
E ancora si osserva che tutte le volte che il legislatore ha voluto porre a
carico del soggetto possessore un onere, quello di dimostrare la legittimità
del possesso, o comunque l'onere d'allegazione, l'ha fatto espressamente: in
tema di possesso è la norma stessa che stabilisce che il soggetto deve
dimostrare l'attuale destinazione o provenienza.
Nell'art.125 come nel 67 questa volontà non è espressa, quindi è assurdo
pensare che in via interpretativa si deve desumere che il possesso è
presumibilmente illecito e che debba essere il possessore a dimostrare la
legittimità di quel possesso.
Quindi, in assenza di un'espressa presa di posizione del legislatore si
applicano le norme processuali: perciò l'accusa prova la responsabilità
penale.
La presunzione d'illegittimità del possesso, per i sostenitori di questa
teoria, deriva dal fatto che i beni culturali appartengono allo Stato e quindi
se si è stati trovati in possesso di questi beni si presume l'appartenenza
allo Stato e spetta al possessore dimostrare il contrario.
Tuttavia si ribatte, da altri autori che non è vero che il possesso dei beni
culturali in mano di in privato è presumibilmente illecito, infatti, non sono
poche le ipotesi (già viste) in cui è possibile che il bene appartenga al
privato.
Questo significa che questa ricostruzione di liceità del possesso non è poi
così certa perché vi possono essere situazioni in cui il bene appartiene allo
Stato e situazioni in cui appartiene al privato, non si può dire quindi che ci
sia sempre presunzione d'illiceità del possesso seppure relativa.
C'è quindi un primo orientamento per cui c'è un'illiceità presunta del
possesso ed è quello della giurisprudenza prevalente; un secondo per cui è
l'accusa a dimostrare l'illiceità del possesso da parte del privato ed è
quello sostenuto dalla giurisprudenza recente della Corte di Cassazione e
dalla dottrina
Riguardo alla struttura del reato si analizzano in breve l'elemento oggettivo e quello soggettivo:
Elemento oggettivo.
Secondo un primo orientamento il possesso dei beni culturali ART.125 T.U. va
inteso nel senso normale di possesso nell'ambito del diritto penale: va inteso
cioè nel senso di potere di fatto sulle cose al di fuori della sorveglianza
del titolare della cosa stessa, o di chiunque esercita un potere superiore.
Quindi due sono gli elementi che caratterizzano il possesso penale: potere di
fatto su una cosa (disponibilità della stessa) e questo potere esercitato al
di fuori della sfera di controllo del titolare.
E' un concetto diverso rispetto a quello civilistico, perché in ambito
civilistico il possesso si caratterizza per l'animus, cioè il soggetto è
possessore non tanto perché ha la disponibilità del bene, ma perché non
riconosce l'altrui posizione, cioè non riconosce che il bene è altrui.
Nel caso di furto di beni culturali se applichiamo la regola generale del
processo penale dobbiamo affermare che il possesso di beni culturali consiste
nel fatto che viene trovato il bene, se ne ha la disponibilità di fatto, e la
esercita al di fuori della sfera di sorveglianza dello Stato.
Secondo un diverso orientamento quest'affermazione è giusta ma bisogna dire
qualcosa in più, e cioè che deve essere trascorso quel lasso di tempo
necessario per denunciare il ritrovamento del bene all'autorità, altrimenti
non matura quel possesso che legittima la condanna ex art.125 del T.U. per
possesso ingiustificato di beni culturali.
Quindi ci sarebbe una condotta commissiva (possedere) e una condotta omissiva
(non avere denunciato l'autorità).
Elemento soggettivo.
si tratta di un reato a dolo generico, coscienza e volontà di possedere beni
culturali; è necessario che il soggetto che possiede questo bene sia
consapevole del valore culturale, se manca questa consapevolezza il soggetto
incorre in errore sul fatto che costituisce reato e quindi si applica l'art.47
che prevede che, se vi è errore sul fatto che costituisce reato, il soggetto
non è punito per mancanza di dolo, salvo che l'ignoranza sia dovuta a colpa.
Quindi se si è in possesso di un bene senza sapere che si tratta di un bene
culturale non si commette il reato di cui all'ART.125, per mancanza di dolo
per errore sul fatto.
______________________________________
* GIURISPRUDENZA
1. Sulla presunzione d'illegittimità del possesso: Cass. pen. Sez. II
21/11/1997 n.12716
2. Sulla vigenza delle normali regole processuali: Cass. Pen. Sez. III
16/03/2000
Dott. Lamarca Giovanni
AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Tutti i diritti sono riservati - Copyright © - AmbienteDiritto.it
Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006