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Argomenti trattati:

Dopo un anno il sindaco che non demolisce integra il reato di omissione di atti di ufficio;

La prassi per le demolizioni: il procedimento  amministrativo  - il procedimento penale;

L’ordine di demolizione impartito in sentenza deve essere eseguito dal p.m. e non dal sindaco;

La demolizione deve essere ordinata anche nella sentenza di patteggiamento;

Anche l’ordine di remissione in pristino della normativa sui vincoli deve essere eseguito dal p.m.;

Le procedure per il p.m.;

Le demolizioni nei parchi: competente l’Ente Parco;

La convenzione ministeriale;

 

 

 

INTEGRA IL REATO OMISSIVO IL SINDACO CHE NON DEMOLISCE  ENTRO UN ANNO

La demolizione delle opere abusive e la remissione in pristino dello stato dei luoghi dopo interventi illeciti sul territorio rappresentano punto nevralgico della campagna contro l’abusivismo edilizio e per la tutela del suolo in linea  generale.

 

Sul punto si registra una importantissima sentenza della Corte di Cassazione (Sez. VI penale – Sentenza n. 9400 del 22 luglio 1999 – Imp. Aresu), con la quale la Suprema Corte stabilisce un termine oggettivo e giuridico per i tempi di abbattimento in ordine all’attività del sindaco. In realtà si deve registrare fino ad oggi una situazione di stallo e sostanziale inerzia della pubblica amministrazione comunale in materia di demolizione delle opere abusive, giacché i relativi procedimenti non vengono attuati di fatto e rinviati sine die con argomentazioni infinite pur senza negare ufficialmente l’attuazione del provvedimento. In altre parole nessun sindaco ha mai detto o scritto ufficialmente che non vuole abbattere, anzi il provvedimento formale (atto dovuto) viene di solito emanato. Consegue però una situazione successiva di abbandono soporifero delle relative procedure con argomentazioni dilatorie che di fatto rinviano e diluiscono nel tempo la pratica attuazione fino ad un dimenticatoio generalizzato. Il risultato concreto è che le opere soggette a demolizione restano inalterate mentre la pratica a livello meramente formale è avviata. Su questo importante passaggio interviene la Corte di Cassazione stabilendo il termine massimo di tolleranza per tale procedura, che viene individuato in un anno. Così la Corte, in parole povere, decreta (sotto comminatoria di sanzione penale per il reato omissivo a carico del sindaco) che il comune deve attuare tutto l’iter formale e pratico per gli abbattimenti al massimo entro un anno, termine nel quale la Corte ricomprende sia la fase puramente burocratico/amministrativa sia la fase di materiale attuazione. E così se dopo un anno dall’inizio dell’atto dovuto l’opera è ancora in piedi scatta la omissione di atti di ufficio penalmente sanzionata per il sindaco.

 

Nel caso affrontato dalla sentenza il TAR Sardegna aveva annullato una concessione edilizia ritenuta illegittima e aveva ordinato al sindaco la demolizione del manufatto abusivo. Dunque detto ordine non era stato eseguito dal primo cittadino ed era scattata la denuncia per omissione. La Corte, nel confermare il reato omissivo, stabilisce (e questo è il punto più importante della sentenza) i termini oltre i quali matura l’omissione formale. Infatti, fino ad oggi di fronte alle inerzie più sfrenate della pubblica amministrazione comunale non si è mai riusciti ad individuare il reato di omissione di atti di ufficio perché il Codice penale nell’articolo 328 indica come criterio temporale un generico “senza ritardo” nel doveroso comportamento del pubblico ufficiale. Ma cosa voleva dire “senza ritardo” nel campo delle demolizioni delle opere abusive? Il relativo tempo di razionale tolleranza è stato sempre diluito all’infinito e dunque il ritardo è diventato praticamente cronico ed eterno. Praticamente stabile e permanente. E gli abbattimenti non sono stati mai eseguiti. Ora, dopo che la Cassazione ha stabilito in modo inequivocabile che, invece, dopo un anno scatta l’omissione formale, la quantivizzazione del termine “senza ritardo” del reato omissivo nel campo urbanistico-edilizio è stata ben definita. Ed in particolare, fatto ancora più importante, tale quantivizzazione è stata sancita soprattutto per l’ottemperanza dell’ordine di demolizione non solo proprio del sindaco (procedura genetica naturale della P.A.) ma anche e soprattutto per l’ordine impartito dal giudice (nel caso di specie amministrativo ma naturalmente ed a maggior ragione anche penale) il quale fino ad oggi ogni volta comminato in sentenza di condanna è stato sempre puntualmente disatteso e non attuato dai comuni con gli stessi sistemi dilatori e nebulizzanti. Oggi invece è chiarissimo che laddove un sindaco riceva l’ordine di demolizione di un giudice (amministrativo o penale) dopo un anno dalla mancata esecuzione dell’ordine stesso è soggetto alla denuncia e naturale condanna per il reato di omissione di atti di ufficio.

 

Questa sentenza costituisce dunque un rilevantissimo principio innovativo nel campo degli abusivismi e genera un effetto di pratica operatività dalle dimensioni di vastissima portata. Ma vediamo in quale contesto giuridico e di fatto la pronuncia va ad innestarsi per meglio comprendere quanto può incidere nel contesto della campagna sull’abusivismo.

 

La prassi per le demolizioni: il procedimento  amministrativo - il procedimento penale

La legge n. 47/85 ha creato una duplice, ed affatto sovrapposta, competenza istituzionale per contrastare gli abusi nel campo urbanistico-edilizio; demandando alla pubblica amministrazione da un lato, ed al magistrato penale dall’altro compiti paralleli e sinergici.

 

Ed é pacifico che il ruolo primario in sede di prevenzione e repressione degli illeciti é stato assegnato alla  pubblica amministrazione la quale ha assunto il ruolo di controllo preliminare del territorio e di intervento immediato e diretto verso gli abusi riscontrati.

 

L’azione del sindaco costituisce ciclo chiuso e totale in questa fase di azione repressiva, giacché é di sua specifica competenza  tutta la prassi fin dagli albori dell’ordinanza di sospensione dei lavori fino, nella chiusura dell’iter, al provvedimento finale che deve culminare con quegli strumenti che sono stati varati per far sì che l’opera illecita, nonostante tutto, non rimanga poi lì inalterata: l’abbattimento coattivo o l’acquisizione al patrimonio pubblico. E queste due azioni terminali rappresentano il vero effetto reale di tutta la procedura amministrativa, giacché tendono da un lato ad evitare  che comunque il titolare dei lavori abusivi usufruisca in modo praticamente definitivo  dell’opera illecita e dall’altro  ad eliminare concretamente dal territorio l’opera stessa (o quantomeno a creare una fruizione a vantaggio pubblico con una forzata tolleranza, se possibile, con gli assetti urbanistico-territoriali).

 

Nel contempo il magistrato deve perseguire l’illecito per l’aspetto penale, ma in teoria la procedura amministrativa dovrebbe essere già esaurita, o quantomeno ad elevatissima fase, al momento del dibattimento.

 

Così incardinato, se rispettato,  il sistema normativo evita certamente ogni rischio di  presunte sovrapposizioni o interferenze giurisdizionali verso il campo amministrativo.

 

Ma la realtà storica dei fatti, evidente sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ha dimostrato che questa fase finale della procedura ben raramente (quasi mai) é stata portata avanti fino in fondo dalla P.A. (in altre parole, abbattimenti o acquisizioni sono stati casi sporadici e non la regola sistematica).

 

Del resto questa osservazione é confermata indirettamente dal fatto che concessioni in sanatoria ma soprattutto condoni tombali hanno visto masse enormi di abusivismi di ogni tipo perfettamente vivi e vitali affollarsi per pretendere il proprio turno: se le procedure amministrative fossero state rispettate fino in fondo, ben poche sarebbero state le opere abusive da condonare giacché gli abbattimenti o le acquisizioni avrebbero dovuto azzerarle sistematicamente.

Ed il legislatore nel 1985, evidentemente  con una realistica intuizione, ha creato una ulteriore norma di copertura di garanzia quando nell’art. 7/ultimo comma della legge n. 47 prevede per il  giudice penale l’obbligo di ordinare a sua volta nella sentenza di condanna la demolizione delle opere abusive “se ancora non sia stata altrimenti eseguita”.

 

In realtà tale ordine impartito dal giudice penale doveva restare entità marginale, perché in linea di principio la demolizione doveva essere già stata eseguita  (naturalmente dalla P.A.) e dunque il rafforzativo contenuto in sentenza doveva avere ben pochi effetti pratici.

 

Ma i fatti concreti sono andati ben diversamente. E le sentenze penali di condanna sono giunte (e passate in giudicato) quasi sempre con le procedure amministrative giunte intanto comunque ad un punto inerte e con le opere abusive ancora lì intatte e vitali (e magari abitate).

 

Ed ecco dunque che, svilita la funzione primaria della P.A. che non é quasi mai riuscita a concludere con forza coattiva la sua (doverosa) procedura, il ruolo del giudice penale diventa a sua volta primario  in riferimento a tale aspetto della stessa procedura che resta sempre  nodale perché rappresenta il concreto destino degli abusivismi di ogni tipo (soprattutto grandi e grandissimi).

 

L’ordine impartito dal giudice non va pertanto quasi mai ad incidere a livello di pura forma su una prassi amministrativa che ha concluso (o quantomeno sta per concludere) l’attività repressiva propria, ma va ad innestarsi  traumaticamente su una narcotizzata pratica burocratica giacente in attesa degli eventi.

 

L’ordine del giudice penale, inizialmente, veniva trasmesso dal magistrato alla  pubblica amministrazione (Comune)  per la pratica esecuzione. Ma gli effetti inerti sono in genere rimasti inalterati, perché quelle amministrazioni che non avevano avuto la forza coattiva di demolire di propria iniziativa non hanno mai trovato energie neppure per tradurre in pratica l’ordine contenuto in sentenza. E così, teoria a parte, le cose sono di fatto rimaste al punto iniziale; cioé, nel nulla di fatto. E su tale aspetto si innesta, con effetti dirompenti, la sentenza Sez. VI penale – Sentenza n. 9400 del 22 luglio 1999 – Imp. Aresu sopra citata, stabilendo che il Sindaco ha un anno di tempo per demolire.

 

In questo contesto, tuttavia,  la magistratura ha ritenuto che, comunque, l’esecuzione dell’ordine in questione  sia di competenza giurisdizionale penale e non amministrativa;    gli atti  vanno dunque traslmessi al P.M. anziché al sindaco per la fase attuativa. La Corte di Cassazione ha confermato in passato  tale orientamento.

 

L’ordine di demolizione impartito in sentenza deve essere eseguito dal p.m. e non dal sindaco

Infatti le Sezioni unite  penali della Corte di Cassazione con la sentenza c.c. 19/6/96 n. 15  (pres. Callà - rel Albamonte - ric. Pm in proc. Monterisi)  hanno stabilito che:

1) l'ordine di demolizione  delle opere abusive  impartito ex art. 7 legge 47/85  dal giudice penale in sentenza di condanna per violazioni alla normativa urbanistico-edilizia non deve essere eseguito dalla pubblica amministrazione ma, al contrario, la caratterizzazione che tale provvedimento riceve dalla sede in cui viene adottato conferma la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria  riguardo alla pratica esecuzione  dello stesso;

2) non essendo neppure ipotizzabile che l’esecuzione di un provvedimento adottato dal giudice venga affidata alla pubblica amministrazione salvo che la legge non disponga altrimenti in modo espresso, gli atti relativi devono essere trasmessi dal giudicante al PM in sede affinché, in caso di omessa attuazione spontanea da parte del prevenuto, provveda all'esecuzione degli ordini medesimi a cura del proprio ufficio, eventualmente avvalendosi della forza pubblica;

3) l’organo promotore dell’esecuzione va dunque identificato nel pubblico ministero, con connessa parallela funzione del giudice dell’esecuzione per quanto di specifica competenza; le spese della procedura sono a carico del condannato inadempiente ed a tal fine la cancelleria del giudice dell’esecuzione deve provvedere al recupero relativo  previa eventuale garanzia reale a seguito di sequestro conservativo imposto su beni dell’esecutato.

Va sottolineato il concetto di fondo espresso al riguardo: “La giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria riguardo all’esecuzione dell’ordine di demolizione è conseguente alla caratterizzazione che tale provvedimento riceve dalla sede in cui viene adottato, non essendo neppure ipotizzabile che l’esecuzione di un provvedimento adottato dal giudice venga affidata alla pubblica amministrazione, salvo che la legge non disponga diversamente”. Dunque si affermare che attraverso successive stratificazioni legislative si è creata una duplicità di interventi repressivi: uno riservato alla P.A. e l'altro all'A.G.  Non si vede, quindi, perché proprio l'autorità giudiziaria non potrebbe eseguire l'ordine da lei stessa dato; in definitiva neanche la tanto conclamata funzione di supplenza vi osta, essendo la stessa - a ben riflettere - concettualmente incompatibile con la pretesa assolutezza della riserva amministrativa in materia.

 

Va rilevato, peraltro, il concetto espresso nella riportata sentenza in ordine alla qualificazione del territorio non “più considerato come supporto inerte del processo edificatorio”. Già in precedenza le Sezioni Unite avevano sottolineato che “lo stesso territorio costituisce il bene oggetto della relativa tutela (penale) bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività”  (Cass. Sez. Un. 21 dicembre 1993, Borgia). Un orientamento perfettamente in linea con le moderne concezioni di conservazione ambientale.

 

Successivamente la Cassazione ha sempre confermato tale principio. Si veda a titolo esemplificativo: “All'esecuzione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo, emesso con la sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47, deve provvedere il pubblico ministero” (Cassazione Penale - Sezione III - Sentenza del 6 maggio 1999 n. 1149  - Avitabile).  Ed ancora: “L'ordine di demolizione delle opere costruite senza la prescritta concessione, previsto dall'articolo 7, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47, è sanzione sostanzialmente amministrativa, ma essendo attribuito alla competenza del giudice, il quale lo impartisce con la sentenza di condanna, acquista natura formalmente giurisdizionale e nell'ambito della giurisdizione viene coattivamente eseguito secondo le regole dell'esecuzione penale, da parte del pubblico ministero e secondo le disposizioni adottate a istanza delle parti dal giudice dell'esecuzione penale. “ (Cassazione Penale - Sezione III - Sentenza del 26 ottobre 1999 n. 12165 - Pres. Paoletti).

 

La demolizione deve essere ordinata anche nella sentenza di patteggiamento

La confermata competenza del P.M. per l’esecuzione dell’ordine di demolizione impartito dal giudice va letta e rafforzata in sinergia con un altro importante principio ormai pacificamente e sistematicamente sancito dalla Cassazione: questo ordine deve essere obbligatoriamente inserito anche nella sentenza di patteggiamento.  Si veda, per tutte, Cass. pen. sez. III, 16 novembre 1995, n. 3123 (c.c. 28 settembre 1995), P.G. in proc. Cristofaro: "L'ordine di demolizione, previsto dall'ultimo comma dell'art. 7 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 è sanzione formalmente giurisdizionale ma sostanzialmente amministrativa di tipo ablatorio che il giudice deve disporre - non trattandosi di pena accessoria né di misura di sicurezza - anche nella sentenza applicativa di pena concordata tra le parti ai sensi dell'art. 444  c.p.p., a nulla rilevando che l'ordine medesimo non abbia formato oggetto dell'accordo intercorso tra le parti. Ciò in quanto l'ordine di demolizione costituisce per il giudice atto dovuto non suscettibile di valutazione discrezionale, sottratto alle disponibilità delle parti, e del quale l'imputato deve tenere comunque conto nell'operare la scelta del patteggiamento."

 

L’orientamento riserva particolare rilevanza su questa prassi, giacché la Cassazione giunge a stabilire che "l'ordine di demolizione preveduto dall'art. 7, L. 28 febbraio 1985, n. 47, ha natura di sanzione amministrativa e non di pena accessoria, per cui è applicabile anche nell'ipotesi di sentenza pronunciata sull'accordo delle parti, trattandosi di sentenza di condanna, ogni qual volta vi sia stata inerzia della pubblica amministrazione. La sentenza che ometta tale pronuncia va di conseguenza annullata, per violazione di legge, limitatamente alla mancata applicazione dell'ordine di demolizione, che può essere disposto direttamente dalla Corte di cassazione." (Cass. pen. sez. III, 11 febbraio 1994, n. 2779 (c.c. 21 dicembre 1993), Criscione).

 

Il concetto assume specifico pregio dato che moltissimi reati di violazione della legge n. 47/85 vengono affrontati con il ricorso all’applicazione di pena su accordo delle parti e, date le modeste more per il passaggio  giudicato della connessa sentenza, l’esecuzione dell’ordine in questione diventa operativo in tempi proporzionalmente brevi.

Al contrario, le sentenze di patteggiamento che omettono tale ordine azzerano completamente la procedura in esame (in sinergia con forti riduzioni di pena).

 

Successivamente l’orientamento della Corte sul punto è rimasto costante. Si veda, a titolo esemplificativo, una pronuncia che estende il concetto anche alla normativa sui vincoli: “ L'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disciplinato dall'art. 1 sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, avendo natura non di pena accessoria, ma di sanzione amministrativa, la cui applicazione è una conseguenza obbligata della sentenza di condanna, deve essere disposto anche a seguito della sentenza di "patteggiamento", che è equiparata alla sentenza di condanna ad ogni effetto non espressamente escluso dalla legge o che non presupponga un accertamento cognitione plena  della responsabilità penale. A nulla rileva che esso non abbia formato oggetto dell'accordo, trattandosi di atto dovuto e sottratto alla disponibilità delle parti, del quale l'imputato deve tener conto nell'attivare la procedura alternativa in questione.” (Cassazione Penale - Sezione VI - Sentenza del 13 marzo 1998 n. 3228 - P.G. in proc. Poli C.).

 

Va ancora sottolineato che “Il giudice, nel concedere la sospensione condizionale della pena inflitta per il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza o in difformità della concessione edilizia, può legittimamente subordinare detto beneficio all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato, mediante la demolizione dell'opera eseguita, disposta in sede di condanna del responsabile.” (Cassazione Penale - Sezione III - Sentenza del 24 settembre 1999 n. 10934 - De Roberto).

 

Anche l’ordine di remissione in pristino della normativa sui vincoli deve essere eseguito dal p.m.

 

Infine va rilevato che la tendenza interpretativa della Suprema Corte tendeva, prima dell’attuale decisione delle Sezioni Unite, a ricollegare la competenza del P.M. per l’esecuzione dell’ordine di demolizione previsto dalla legge n. 47/85 all’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi previsto dall’art. 1/sexies della legge n. 431/85 (cosiddetta “legge Galasso” – oggi T.U. sui vincoli D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490).

 

Nella già citata Cass. pen. Sez. III, 28 gennaio 1993, n. 21, ad esempio, si avvalora l'estendibilità del concetto ai reati previsti dalla legge 431/85 (oggi  T.U. D.lgs n. 490/99), assegnando anzi a detti illeciti natura ancor più diretta in ordine a detta attività di rimessione in pristino come  direttamente attuabile  ad opera del magistrato.

 

Infatti la Suprema Corte stabilisce addirittura che  " (...)   l'ordine di demolizione attiene al settore edilizio-urbanistico, disciplinato non in via primaria-fondamentale nell'assetto costituzionale; quello di ripristino paesaggistico ha invece una evidente incidenza costituzionale, essendo diretta espressione del ricordato art. 9. (.. .)".

 

Ed aggiunge poi che detto ordine di rimessione in pristino " (...) non è espressione di una attività di supplenza, assegnata legislativamente al giudice nel caso di inerzia della P.A., ma è esercizio di un potere riservato in modo autonomo e concorrente con quello dell'amministrazione stessa. (...)” ed “ (...)  il legislatore ha conferito il compito al magistrato penale, che deve ordinare il ripristino dei luoghi. Conseguenziale è evidentemente l'esecuzione penale del provvedimento con l'esclusione (...)  di ogni diversa forma di esecuzione medesima. (...)".

 

E dunque la Suprema Corte stabilisce chiaramente che parallelamente all'ordine di demolizione previsto dalla legge 47/85, soprattutto l'ordine di rimessione in pristino previsto dalla legge 431/85 (oggi  T.U. D.lgs n. 490/99)  deve essere eseguito in via giudiziaria penale e quindi dal PM.

 

Alla luce della riportata sentenza delle Sezioni Unite, seppur la stessa riguarda espressamente l’ordine di abbattimento ex art. 7/ultimo comma legge n. 47/85, credo sia logico poter argomentare che, in coerenza con i principi di parallelismo in precedenza sanciti dalla stessa Suprema Corte, la definitiva conferma della competenza esecutiva del P.M. debba intendersi rafforzata anche implicitamente per l’ordine di remissione in pristino dello stato dei luoghi ex   T.U. D.lgs n. 490/99.

 

E del resto  la disciplina interpretativa parallela tra i due ordini é stata sancita dalla Cassazione anche con riguardo all’obbligatorietà della disposizione nella sentenza di patteggiamento: "in materia paesaggistica, i'ordine di rimessione in pristino stato è provvedimento dovuto e conseguenziale alla pronuncia di condanna. trattasi di sanzione penale di carattere ripristinatorio, attribuita all' autonoma competenza del giudice ordinario. quest'ultimo non esercita alcun potere di supplenza rispetto alla p.a., che mantiene intatti i concorrenti poteri di autotutela. ne deriva che esso, non essendo annoverabile tra le pene accessorie (che sono tipiche e legislativamente elencate) va disposto anche con la sentenza di patteggiamento." (cass. pen.. sez. iii, 16 marzo 1994, n. 268 (c.c. 27 gennaio 1994), oppio). Ed anche per tale ordine la suprema corte stabilisce che “non comportando alcuna decisione di merito, stante la sua assoluta obbligatorietà, può essere adottato dalla corte di cassazione a norma dell' art. 620, lett. 1), allorché sia stato omesso dalla decisione impugnata."  (cass. pen., sez. vl, 13 gennaio 1994, n. 195, guerriero).

 

"Va sottolineato che successivamente alla citata pronuncia delle Sezioni Unite l’orientamento della Suprema Corte sul tema è rimasto poi costante; si veda per tutte: Cassazione Penale - Sezione II - Sentenza del 1° dicembre 1998 n. 12647 - Simeone).>

 

Le procedure per il p.m.  

La competenza esclusiva e totale dell’autorità giudiziaria nel settore comporta che le attività dovranno comunque essere gestite in proprio dall’ufficio del P.M. il quale, appare logico ed era già stato stabilito nelle pregresse pronunce della Suprema Corte, si avvarrà sia della forza pubblica che di organi tecnici esterni per le operazioni pratiche.

 

Le Sezioni Unite, prevenendo opportunamente e significativamente dubbi (onde evitare nuove fasi di stallo formali), affrontano anche il problema delle spese (che in precedenza aveva dato luogo a qualche freddezza applicativa) e stabiliscono che “la cancelleria del giudice dell’esecuzione deve provvedere al recupero delle spese del procedimento dell’esecuzione nei confronti del condannato (art. 181 norme att. C.p.p.), previa eventuale garanzia reale a seguito di sequestro conservativo imposto sui beni dell’esecutato (art. 316 c.p.p.), trattandosi di spese processuali” .

 

Naturalmente potranno presentarsi, poi, problemi pratici in ordine alle modalità dirette per le operazioni di abbattimento (ed in particolare di rimessione in pristino, che comporta una fase maggiormente propositiva); ed anche su tale punto si noti che le Sezioni Unite hanno ribadito la logica procedura da seguire: “Passando alle modalità di esecuzione ed agli  organi preposti, osserva questo Collegio che, essendo il titolo esecutivo costituito dalla sentenza irrevocabile, comprensiva  dell’ordine di demolizione, l’organo promotore dell’esecuzione va identificato nel pubblico ministero, il quale, ove il condannato non ottemperi all’ingiunzione a demolire, non potrà che investire il giudice di esecuzione, al fine della fissazione delle modalità di esecuzione. Non resta  quindi che applicare all’esecuzione dell’ordine di demolizione il procedimento attinente all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali: il pubblico ministero “cura di ufficio l’esecuzione....” (artt. 655 c.p.p. e 29 re.): ove sorga una controversia concernente non solo il titolo ma le modalità esecutive  viene instaurato dallo stesso pubblico ministero, dall’interessato o dal difensore procedimento innanzi al giudice dell’esecuzione (artt. 665 ss. C.p.p.).”. Concetto chiarissimo che consente certo di risolvere nella sede indicata ogni problema pratico sia sui tempi, mezzi e modi dell’operazione che sui soggetti ed organi incaricati in modo specifico.

 

Le demolizioni nei parchi: competente l’ente parco

Va altresì sottolineato che in base all’art. 29 della legge 6 dicembre 1991 n. 394 (legge quadro sulle aree protette) il potere inibitorio e di abbattimento/remissione in pristino in ordine alle opere abusive viene attribuito direttamente all’ente gestore. Infatti, viene previsto espressamente che il legale rappresentante dell’organismo di gestione dell’area naturale protetta, in caso di opere illegali in violazione delle normative (piano, regolamento o nulla osta) dispone l’immediata sospensione dell’attività in questione ed ordina in ogni caso la riduzione in pristino a spese del trasgressore, con la responsabilità solidale del committente, del titolare dell’impresa e del direttore dei lavori in caso di attività edilizia. Ma il punto ancora più importante risiede nel potere dello stesso legale rappresentate di procedere, in caso di inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino, alla esecuzione in danno degli obbligati secondo la procedura di cui all’art. 27 della L. n. 47/85. Il che significa praticamente che il potere attribuito ai sindaci in aree in protette viene sostanzialmente riversato sul legale rappresentante dell’ente parco il quale esercita gli stessi poteri inibitori e demolitori (o di remissione in pristino del sindaco) nel contesto del territorio del parco. E’ sottinteso che nel concetto di riduzione in pristino è compresa anche, ed anzi in primo luogo, la demolizione delle opere abusive (l’articolo 27 della legge n. 47/85 richiamato come rinvio procedurale ed operativo riguarda appunto la demolizione di opere illecite da parte dell’autorità amministrativa). Dunque, tale previsione consente all’interno delle aree protette una nuova individuazione di potere amministrativi operativi in verità fino ad oggi quasi mai attuati se non in maniera marginale e locale.  

 

La Convenzione Ministeriale

Va ricordato che  il 2O marzo 1998 é stata firmata una convenzione tra i ministeri della Difesa e dei Lavori Pubblici, dando attuazione alla legge 662/96, per consentire l’utilizzo dell’esercito per le demolizioni in caso di impossibilità di affidamento secondo le normali procedure amministrative.

Presso  i provveditorati regionali delle Opere pubbliche  sono istituiti appositi comitati composti da un rappresentante del comando militare e uno del prefetto a cui si aggregano rappresentanti del Comune interessato e dell’eventuale commissario regionale ad acta (in caso di inerzia del Comune).

La sinergia di queste elaborazioni giurisprudenziali (obbligatorietà del sindaco di concludere le procedure di abbattimento entro un anno e la competenza  parallela del PM per eseguire gli ordini di abbattimenti impartiti in sentenza oltre ai poteri del legale rappresentante dell’ente Parco) offrono concreti strumenti per favorire la pratica attuazione delle demolizione delle opere edilizie abusive. Sostanzialmente dunque ogni argomentazione per evitare e rinviare le demolizioni e le remissioni in pristino appare oggi strumentale e cela esclusivamente una mancata volontà pratica e concreta di agire. Le norme ci sono. Basta applicarle.

 

  Di Maurizio Santoloci

Magistrato – vice-presidente nazionale WWF Italia