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L’evoluzione dell’amministrazione pubblica:

 

dallo Stato autoritario all’umile cittadino.

LEO STILO

 

La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in questi ultimi anni, appare sempre più di frequente come un terreno teatro di un inconciliabile conflitto interiore vissuto dal diritto amministrativo italiano. Tale reazione è causata del rigetto provocato dall’innesto, nel DNA autoritario del diritto amministrativo, di sequenze genetiche liberali contenute nella Costituzione e nel diritto comunitario.

Sembra diffondersi, tra gli studiosi e pratici del diritto, l’esigenza, quasi catartica, di rileggere attraverso le lenti dei principi liberali e democratici, acquisiti attraverso lunghi anni di complesse evoluzioni culturali, il diritto amministrativo. Questo procedimento è attuato, in alcuni casi inconsapevolmente, al fine di tracciare i caratteri essenziali della matrice originaria del diritto amministrativo per depennarlo di tutti quegli aspetti che appaiono di sapore “troppo” illiberale, perché legati a visioni autoritarie e assolute dello Stato.

Nel sistema giuridico/sociale italiano è diffusa, a partire dal livello epidermico sino a quello più profondo e intimo, una concezione autoritaria dello Stato in sé e del suo momento di incontro/scontro con i singoli individui che ne costituiscono l’aspetto sociale.

L’idea dell’esistenza di un interesse della società, astrattamente intesa, considerato come qualcosa di diverso dalla semplice somma dei singoli interessi dei membri della comunità, riconduce il pensiero di un osservatore della struttura del moderno “Stato” e dei suoi rapporti con l’individuo (socio), indietro nel tempo… sino a ritrovare la matrice prima della sua stessa idea istitutiva nel Sacro Romano Impero.

In tale epoca, infatti, è nella persona dell’Imperatore che, doverosamente, confluiscono i diversi ruoli propri dell’estrinsecazione empirica del potere di governo; tali poteri, però, sono riconducibili all’unica icona del sovrano: massima espressione del potere assoluto e corpo tangibile della volontà dello Stato.

Nasceva così, da questa “visione d’autorità”, il seme dell’idea dello Stato portatore di un interesse pubblico distinto da quello dell’intera massa dei sudditi.

L’intima natura dei rapporti tra chi detiene il potere, l’autorità governante, e chi è oggetto dell’esercizio del potere, i governati, in fondo non è mutata: la struttura non è cambiata e la rivoluzione francese, con le sue epocali conseguenze, è riuscita a colpire solo la struttura formale dell’ancien regime senza modificarne la struttura sostanziale.

La rivoluzione è riuscita a mettere da parte la figura del Re e la sua “sacra” icona; però, purtroppo, non è riuscita a scalfire la forza posta alla base della struttura rappresentativa che ha reso lo Stato, monarchico o repubblicano, una persona giuridica portatrice di un potere autoritario.

Questa visione dei rapporti tra governanti e governati ha condotto inevitabilmente ad identificare lo Stato come un’entità portatrice di interessi propri e diversi da quelli del singolo e della sua stessa collettività. Tale cornice deve rappresentare la premessa di fondo con cui esaminare il momento di frizione e contatto tra lo Stato e il singolo individuo, soggetto titolare di diritti ed interessi legittimi.

L’atto amministrativo si configura nella sua intima essenza, come un chiaro momento di sintesi tra l’autorità del soggetto Pubblica Amministrazione e l’elemento volontaristico di derivazione privatistica comune ad ogni agire.

La prima componente dell’atto amministrativo è connessa, per forza intrinseca e in modo indissolubile, all’idea di autorità intesa come: « …il potere dell’uomo sull’uomo, e quindi individua una posizione di supremazia che consente a taluno – al portatore di potere e dell’autorità, appunto – di imporre il proprio giudizio e più semplicemente la propria volontà agli altri.»(SATTA).

Tale processo evolutivo appare legato alla nascita stessa dello Stato ed alla cosciente rinuncia ad un sistema di relazioni interpersonali di natura contrattuale, paritaria, a favore di un complesso apparato autoritario in cui il potere è delegato ad assemblee ristrette (oggi) o a singoli individui (nel passato).

Si crea così un’entità nuova distaccata dalla società e dagli individui di cui essa è espressione di volontà; tale entità divenendo detentrice del potere di gestire, programmare e realizzare l’interesse collettivo lo attua tramite atti di volontà caratterizzati da un sacro alone d’autorità.

«Immaginificamente e schematicamente si può dire che in un certo momento della storia, l’autorità morale di chi promuoveva il consenso dell’assemblea intorno alla propria proposta venne istituzionalizzata, con la creazione di un organo, dell’assemblea e della collettività; ma in quello stesso momento l’organo per ferrea legge di natura, cominciò anche ad avere vita propria, diversa e contrapposta alla vita della società.»(SATTA).

Nel momento in cui si considera l’organo gestore della cosa pubblica “cosa” diversa dalla comunità, contrapponendolo ad essa, nasce l’idea dello Stato e della sua intrinseca carica autoritaria.

Questo nuovo soggetto non si mette in relazione con la comunità e con i suoi singoli membri utilizzando meccanismi di natura paritetica, agendo contrattualmente ad esempio, ma adotta dei meccanismi che sono il riflesso della posizione di superiorità che ne costituiscono l’intrinseca antica essenza.

Questa prima constatazione descrive, in modo intuitivo, solo una faccia della medaglia: lo Stato interagisce con gli individui (soci) attraverso strutture e con modalità autoritarie.

Riprendendo il discorso, allo scopo di giungere ad una successiva importante constatazione, si deve notare che l’evoluzione in oggetto è la medesima che nel corso dei secoli ha condotto ad identificare lo Stato come una persona giuridica rappresentativa di interessi pubblici, non identificabili con quelli della comunità di persone che costituisce la base personale dell’ordinamento, ma propri dello Stato in sé.

Questa “personificazione” ha determinato lo scollamento tra lo Stato, ormai “persona autonoma” dotata di una vita e di fini propri, e la società consapevolmente costituita da individui eteronomi. Lo Stato, a causa di questo meccanismo culturale, viene posto ad un livello sovraordinato ai singoli e alla loro somma e testimonianza chiara di questa condizione è data dalla impossibilità, mitigata in questi ultimi anni grazie al diritto comunitario, per il singolo di far valere in modo pieno e assoluto quelli che in realtà sono dei veri e propri diritti soggettivi sminuiti nella pratica e ridotti a delle parvenze di diritto, conosciuti comunemente con il nome di “interessi legittimi”.

Nei confronti dello Stato, l’individuo ha, in situazioni per fortuna sempre meno numerose, degli interessi legittimi tutelabili tramite giurisdizioni particolari e con modalità che sono sintomatiche di una soggezione, ancora fortemente sentita, del singolo nei confronti dello Stato sovrano.

Lo stesso soggetto che amministra in nome dello Stato, o di una qualsiasi sua appendice burocratica, è dotato di una “qualità”, pubblico ufficiale, che lo eleva al di sopra di una qualsiasi altra persona comune.

Un esempio di questo rapporto impari, intercorrente tra lo Stato e i suoi cittadini, si rinviene nella nascita solo recente, e ancora troppo esigua, della possibilità data ai singoli di portare davanti a un “Tribunale Internazionale” lo Stato che ha commesso un “fatto ingiusto” nei loro confronti. Il diritto internazionale è ancora oggi il territorio di esclusiva, o quasi, pertinenza degli Stati e dei loro “plenipotenziari”, di entità non “comuni” che grazie alle loro “qualità Autoritarie” possono agire a livello internazionale con gli altri “Sovrani” .

Ritornando all’atto amministrativo, oltre che dall’elemento autoritario esso è caratterizzato dall’astrattezza del suo concetto. La ricostruzione in chiave dogmatica del diritto privato ha fissato in un quadro di valori universali delle categorie concettuali in cui è possibile incasellare i diversi fenomeni delle esperienze concrete, si pensi al diritto soggettivo, all’azione e al negozio giuridico.

In questo apparato concettuale si colloca la figura dell’atto giuridico: atto volontario destinato a produrre gli effetti che l’ordinamento gli ascrive, destinato a produrre degli effetti negoziali e non negoziali.

Nel momento in cui si ammise la tutela giurisdizionale contro l’amministrazione pubblica, per la lesione dei diritti civili e politici del singolo, si avvertì materialmente l’esigenza di dare un nome a quelle “cose”, ad esempio espropriazione e autorizzazioni, che da essa promanavano. La soluzione fu trovata nell’elaborazione dogmatica del diritto privato attraverso un trapianto (sic et simpliciter) delle figure logico-concettuali privatistiche nel diritto amministrativo.

Il diritto amministrativo si trovò a muovere i primi passi con le gambe del diritto privato e con la testa dell’autorità sovrana, in un’ottica deformata in cui la tenuta dell’intera sovrastruttura concettuale, elaborata dalla dottrina e giurisprudenza in materia, è dovuta proprio all’astrattezza dei concetti presi in prestito dal diritto civile e posti a fondamento della volontà autoritaria dello Stato. All’interno della categoria concettuale “atto amministrativo” è ricondotta così qualunque manifestazione unilaterale di volontà, giudizio o conoscenza della pubblica amministrazione.

Sempre all’interno di questa stessa categoria si è individuata quella dei provvedimenti amministrativi, intesi come atti preordinati ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei terzi e capaci di essere portati ad esecuzione eventualmente contro la stessa volontà dei destinatari.

La dottrina e la giurisprudenza si sono dedicate con formidabile impegno a fissare i requisiti propri del provvedimento che deve essere: tipico, autoritario, esecutivo.

Naturalmente in questo breve scritto non si possono affrontare discorsi complessi tesi a descrivere aspetti problematici e attinenti ad ogni singolo carattere del provvedimento amministrativo.

La gran parte delle ricerche svolte sull’argomento sono però tese, in estrema sintesi, a trovare l’essenza dell’atto e del provvedimento amministrativo, ma ogni traguardo che sembra essere raggiunto, attraverso sofisticati e complessi ragionamenti, nell’identificazione e catalogazione delle singole caratteristiche nel momento della reale verifica non sempre è in essi presente. L’atto amministrativo si configura così come una categoria logico giuridica astratta e indeterminata capace di identificare una qualsivoglia manifestazione dell’amministrazione pubblica.

In realtà non esiste un solo tipo di atto amministrativo.

La realtà fenomenica in oggetto appare costituita da diverse realtà ognuna con proprie caratteristiche, in cui l’unico elemento comune appare la fonte di provenienza: un’autorità amministrativa…

In conclusione, tutto quello che si è voluto magmaticamente riversare in questo breve scritto trova la propria premessa logica nella visione autoritaria dello Stato e della gestione dei rapporti con il singolo individuo che è stata affrescata dall’illustre, e mai dimenticato, prof. Giovanni Marongiu e dalle brillanti intuizioni del prof. Satta comunicate attraverso alcuni importanti scritti e durante delle splendide lezioni all’Università di Roma.

E’ inutile parlare, per Satta, di potere o di competenza: noi abbiamo un soggetto, pubblica amministrazione, che è investito di determinati compiti da svolgere nell’interesse di tutti; perché non attribuiamo una reale valenza alla sua esistenza ?

Il diritto amministrativo, dopo secoli d’arroganza, deve compiere un atto d’umiltà e ritornare ad esercitare una funzione “modesta” al servizio della collettività. «L’orizzonte concettuale in cui si svolge la teoria delle funzioni pubbliche viene, così , definitivamente spostato dallo Stato, colto nel momento in cui agisce per il perseguimento dei propri fini, all’ordinamento statale visto nella dinamica della sua propria attuazione. Ciò che ora diventa il necessario punto di riferimento per la qualificazione dell’attività pubblica non è più l’uno o l’altro scopo dello Stato, ma la norma fondamentale regolatrice dell’ordinamento statale, a cui l’azione pubblica si riconnette e da cui prende slancio e direzione. In questo senso funzione pubblica è ogni attività che si costituisca come realizzazione dell’ordinamento, nella logica della produzione ed applicazione del diritto o anche di semplice obbedienza al diritto.» (MARONGIU).

La sacralità può essere considerata un attributo solo della sovranità popolare e non dello Stato in sé e del suo supremo e indeterminato interesse pubblico.

«Del resto, l’amministrazione negli ordinamenti contemporanei che si reggono sul principio di legalità non può essere nella sua essenza se non un’attività doverosa, che in tanto si legittima in quanto tende alla realizzazione dell’ordinamento di cui è funzione. »(MARONGIU)

LEO STILO