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IMPRENDITORI E IMPRESE.

 

LA POSIZIONE DI MERCATO, LE REGOLE DELLA ATTIVITA’ (* ).

 

 

M A R I O  B E S S O N E
 

Il ricorso alla formula di estrema sintesi <posizione di mercato> dell’impresa si deve all’intenzione di indicare appunto in via riassuntiva oggetti di disciplina normativa, attività e ancor prima strategie imprenditoriali che la discussione dovrà poi distintamente considerare muovendo tuttavia dal riscontro di finalità condivise da un operare delle imprese che è del più vario genere ma comunque immediatamente rivolto al mercato. In questa prospettiva di analisi sono necessariamente all’attenzione gli strumenti che l’impresa impiega per segnalarsi al mercato, le iniziative di offerta che prefigurano negoziazioni e contratti di allocazione di beni e servizi, l’agire di mercato secondo le regole di un sistema di concorrenza competitiva e molto altro ancora. Ognuna delle fattispecie che sarà necessario prendere in esame comporta valutazioni e riferimenti a disposizioni del codice civile ma anche a disposizioni di legislazione speciale molto lontane dalla semplificazione dei discorsi di genere elementare. E da molte parti di materia risulta ormai in grande evidenza il consolidarsi di un diritto comunitario dell’impresa. Da molte parti di materia al tempo stesso emerge il crescente rilievo di un consistente diritto giurisprudenziale dell’impresa così come dei fenomeni di self regulation o comunque di materiali normativi che sono soft law quando non si tratti pura e semplice lex mercatoria di fonte privata.


Va da sé che a tutto questo sarà possibile guardare soltanto per selezione di taluni argomenti che in modo particolare sembrano rappresentativi della posizione di mercato dell’impresa, lasciandosi invece sullo sfondo o non considerandosi affatto numerosi argomenti pure importanti e anch’essi da sempre presenti nelle riflessioni di più ampio orizzonte. In questo intervento di avvio della discussione si provvederà semplicemente ad indicare le parti di materia che si domanda di esaminare per quanto è possibile impiegando il metodo e gli strumenti di analisi economica del diritto delle imprese. A suo modo già la pura e semplice enumerazione di argomenti porta con sé una preferenza per le linee di percorso che si preciseranno ma i rilievi che seguono sono tutti rilievi di superficie e di prima approssimazione. Per una prima ricognizione di campo anche rilievi di tal genere tuttavia possono forse essere utili e comunque servono a delimitare l’ambito di materia. Quanto meno consentono ai successivi interventi di svolgersi in un contesto dove quanto è nozione primaria almeno in via di definizione elementare risulta già ricordato.


Operare per il mercato naturalmente significa molte cose. Ma in ogni caso significa necessariamente segnalare al mercato il nome e la identità dell’impresa, segnalare il luogo dove si esercita l’attività, segnalare per differenziazione i beni e i servizi che si offrono. Occorrono perciò i segni distintivi del più vario genere che saranno volta a volta un catalogo che illustra l’impresa o documenta le qualità dell’azienda, una denominazione di origine, una indicazione di provenienza o altro ancora. Si suggerisce tuttavia di circoscrivere l’analisi ai segni distintivi che presentano caratteri di maggior rilievo, trovano circostanziata disciplina normativa, costituiscono oggetto di posizioni di diritto particolarmente tutelate, considerandosi perciò in primo luogo la «ditta» nome che l’imprenditore impiega nello svolgimento della attività di impresa, l’«insegna» espressione linguistica o grafica che evidenzia l’azienda e il luogo di attività dell’impresa, il «marchio» emblema o parola o configurazione di oggetti o altro indicatore che comunque valga da elemento distintivo di «prodotti» o «servizi». E i rilievi di prima approssimazione sono ciò che riferisce una qualsiasi introduzione al sistema del diritto commerciale.


Regolata dagli artt. 2563 a 2566 la ditta deve contenere «almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore». È il suo nome commerciale non necessariamente identico al suo nome civile esistendo uno spazio aperto alla libera determinazione dell’imprenditore che tuttavia non opera senza vincoli. Il riferimento a <cognome> o <sigla> integra il requisito di verità della ditta ,che deve al tempo stesso informarsi al principio di novità dell’art. 2564 del codice civile perché il nome commerciale non deve essere <uguale> e neppur <simile> a quello di altri imprenditori. Occorre prevenire i fenomeni di <confusione> che possano determinarsi <per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui (…) è esercitata >. E la ditta è materia di un diritto che si acquista mediante la priorità dell’impiego di una particolare denominazione. Il diritto che si acquista è diritto ad un suo uso esclusivo dovendosi poi variamente distinguere tra la ditta <ordinaria> e la ditta <derivata> che un imprenditore impiega a seguito del suo acquisto di una azienda conservando l’originario nome commerciale dell’impresa Ma come si sa la ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda.


E si sa che gli imprenditori «società» hanno quale <ditta> una <ragione sociale> o una <denominazione sociale> regolate dall’art. 2567 per rinvio ad altre numerose norme del quinto libro del codice civile. Per disposizione di questa norma alle società si applicano le prescrizioni dell’art. 2564. Quanto alle imprese commerciali vale la regola dell’art. 2566. Il principio della priorità si riferisce alla iscrizione nel registro delle imprese che sarà rifiutata in caso di inosservanza del secondo comma dell’art. 2563 o nel caso della ditta derivata se manca il deposito di copia dell’atto che ha determinato successione nell’azienda. Anche all’insegna si applica la disposizione del primo comma dell’art. 2564 che esige le diversificazioni dei segni distintivi eventualmente necessarie per rimuovere possibili effetti di confusione. Sembra poi di dover applicare anche il principio che non consente trasferimenti di insegna se non insieme a trasferimenti di azienda. E se talvolta si tende a presentare il segno distintivo <insegna> come qualcosa che per il suo oggetto e la sua regolamentazione non esige particolari riflessioni sarà bene guardarsi dal rischio delle semplificazioni che dissimulano l’esistenza di problemi di disciplina. L’avvertenza che l’insegna evidenzia l’azienda e il luogo di attività dell’impresa esige comunque le precisazioni ricorrenti nelle esposizioni della miglior dottrina.


Si definisce l’insegna quale <segno> dislocato all’ingresso dei locali impiegati per l’offerta al pubblico dei beni e dei servizi che l’imprenditore produce o commercializza. <Segno> che serve sia a distinguere quell’imprenditore e quell’offerta da imprenditorie e offerte concorrenti sia ad assicurarne la agevole reperibilità. L’uso del segno <insegna> di per sé origina il relativo diritto. Dovrà essere insegna con i previsti caratteri di novità ma anche con caratteri di originalità tali da escludere possibili confusioni con insegne altrui. E a queste condizioni il diritto acquisito consente di inibire ad altri l’utilizzo del medesimo segno distintivo o di segni distintivi pericolosamente simili. Problemi tutt’altro che semplici insorgono (e dovranno essere valutati nel corso del seminario) per i comparti di mercato dove l’evolvere delle strategie della distribuzione commerciale porti con sé l’impiego di una medesima insegna da parte di una pluralità di imprenditori tra loro legati da accordi negoziali di integrazione verticale (oppure orizzontale) delle loro attività di mercato. Già per questa parte di materia molto altro occorrerà considerare dovendosi poi portare la maggior attenzione al segno distintivo dell’impresa costituito dal suo <marchio>.


La complessità della disciplina del marchio è commisurata alla particolare forza del suo valore segnaletico che sarà sufficiente evocare in via breve. Impiegato come strumento che presenta al mercato beni o servizi, il marchio usa «parole», «figure» o comunque «segni» che con le modalità consentite differenziano «beni» e «servizi» dell’impresa da altri che pure appartengano ad una medesima categoria commerciale di riferimento. Suoi obbligati requisiti di validità sono quindi il carattere di novità, la necessaria capacità distintiva, la liceità e infine la veridicità del messaggio, essendo espressamente stabilito il divieto di usare come marchio indicazioni «non veritiere» sulla «origine» o sulla «qualità» di «prodotti» e «merci». O di usare comunque «parole, figure o segni» tali da «trarre in inganno nella scelta» quanti si rivolgono con fiducia al mercato. Ma anche le nozioni di <novità>, <originalità> o capacità distintiva, <liceità > del marchio esigono circostanziate precisazioni. Da ciò tutta una serie di problemi di regime del marchio al centro di una continua evoluzione di orientamenti. A veder bene si tratta di problemi che se da sempre presentano caratteri di evidente rilievo tanto più rilevano nelle economie di mercato di inizio secolo.


Si pensi ai numerosi comparti di industria dove è così lieve (se non inesistente) la diversificazione di beni e servizi, di modo che la competizione imprenditoriale assegna un valore assolutamente strategico alla capacità distintiva ed evocativa del marchio per la sua forza di suggestione ormai tanto spesso diventato il fattore di prevalente incidenza nella determinazione delle motivazioni all’acquisto. Da ciò la sua valenza di advertising commerciale che pubblicizza il prodotto e assolutamente dominante se si pensa a quante volte il marchio <nome famoso > esercita un potere di cattura della domanda che non ha relazione con una qualsiasi connotazione informativa sulle componenti e sulla qualità del <prodotto>. Per il regime di trasferimento e concessione dell’art. 2573 del codice civile come si ricorderà il marchio e la legittimazione al suo uso possono circolare separatamente dall’azienda di origine di modo che il segno distintivo non ha più alcuna funzione di indicazione di provenienza. Ma questo è soltanto il più emblematico punto di emersione delle specialità di regime di questo segno distintivo dell’impresa che sono numerose . E numerose sono le questioni da discutere già se si considera in qual misura novità, capacità distintiva e liceità del marchio soltanto in apparenza sono nozioni di contenuto univoco.


La disciplina di materia in ogni caso presenta tutti i caratteri di una complessa normativa di settore che davvero non si presta ai discorsi di estrema sintesi. Al marchio si applicano in primo luogo gli artt. 2569 a 2574 del codice civile e speciali discipline del regio decreto 929 del 21 giugno 1942, da allora più volte modificato e significativamente modificato dal decreto legislativo 480 del 4 dicembre 1992 ma poi ancora dai decreti 198 del 19 marzo 1996 e 447 dell’8 ottobre 1999. E anche a non considerare il marchio comunitario che ( osservandosi le disposizioni della disciplina del regolamento del dicembre 1993) consente di operare in ogni ambito dell’Unione europea, l’analisi da svolgere sarà in ampia misura ricognizione di normative nazionali che si sono codificate in recepimento di direttive comunitarie o correlate ad accordi transnazionali. Normative di diritto interno e di diritto privato europeo o comunque sovranazionale chiamate a regolare un vasto repertorio di fattispecie che qui semplicemente e soltanto in parte riferisco ma che l’ulteriore svolgimento del seminario dovrà passare in circostanziata rassegna.


Occorrerà distinguere tra il marchio che svolge la sua funzione di identificazione con le parole del marchio <denominativo> e il marchio che invece si avvale di una rappresentazione grafica ,essendo perciò marchio <figurativo> così come possono darsi fattispecie di marchio <misto> che aggregano parole e rappresentazione grafica. E come si sa può svolgere funzione di marchio anche la forma del prodotto. Occorrerà poi distinguere tra il marchio speciale che riguarda singoli oggetti e marchio generale che ne contrassegna una intera serie. Allo stesso modo occorrerà ancora distinguere a seconda che si tratti della singola impresa o di marchio di un insieme di imprese, di marchio di fabbrica dell’impresa di produzione, del marchio di servizio dell’impresa di servizi o del marchio di commercio delle imprese di distribuzione. Ma si devono considerare anche ulteriori distinzioni e fattispecie. L’art. 2570 regola la materia dei marchi collettivi che garantiscono «l’origine, la natura la qualità» dei «prodotti e servizi» offerti da intere categorie di «produttori o commercianti». Va poi adesso tenuto presente il particolare rilievo dei contratti di merchandising del marchio che in numerosi comparti di mercato ne accrescono il valore e grandemente ne incrementano le modalità di uso.


Dovendo valere da segno distintivo di «prodotti» e «servizi» offerti al mercato il marchio istituzionalmente conferisce un diritto all’uso esclusivo che si acquista mediante registrazione presso l’Ufficio centrale dei brevetti e dei marchi. E’ vero che l’art. 2571 assicura (limitata) protezione anche al marchio non registrato ma soltanto la registrazione garantisce la pienezza del diritto. E naturalmente la materia presenta caratteri di particolare rilievo. Si avvia un procedimento inteso ad accertare la compresenza dei diversi requisiti di validità del marchio, in caso di esito positivo del giudizio provvedendosi alla registrazione che come si diceva di per sé comporta «acquisto del diritto di esclusiva all’uso del segno distintivo». A protezione del marchio registrato si danno azioni cautelari così come azioni di cognizione del diritto e di sua ulteriore tutela. La registrazione ha comunque efficacia preclusiva dell’uso o della successiva «registrazione (...) di un marchio eguale o simile». Ma va pur sempre considerato il regime che l’art. 2571 prefigura in ragione della priorità di impiego del segno distintivo.


Chi «ha fatto uso» di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare «ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta» nei limiti in cui anteriormente se ne era avvalso. Nella prospettiva della policy di trasferibilità che si è indicata per rinvio all’art. 2573 , il trasferimento del marchio a terzi è regolato da norme dove si stabilisce che il marchio può essere trasferito per «la totalità» o «per una parte» dei «prodotti» o «servizi per i quali è stato registrato». Ma ancora una volta operano norme di protezione dei destinatari del messaggio. Il trasferimento del marchio è consentito soltanto quando sia provato che non ne deriva «inganno» in «quei caratteri» dei prodotti o servizi che sono «essenziali nell’apprezzamento del pubblico». A queste condizioni è possibile anche la sua già ricordata concessione in licenza d’uso. Il caso della cessione di azienda è disciplinato dal secondo comma dell’art. 2573. E si ricordi che impiegando il modello e la strumentazione dei reati di falso alla tutela del marchio si è provveduto anche mediante la sanzione di abusi che configurano fattispecie a rilevanza penale.


In materia di segni distintivi dell'impresa la rivoluzione telematica di inizio secolo origina poi i fenomeni che inevitabilmente impegnano i law makers alla elaborazione di nuovo diritto. Va in modo particolare considerato il crescente rilievo del domain name, il nome del sito Internet che mediante segnalazione alle autorità di regolazione della rete informatica naming authority e registration authority si acquisisce appunto come un nuovo <segno distintivo> secondo il criterio di preferenza indicato dal principio first came,first served. Nel corso del seminario dovrano essere specialmente valutati i problemi che insorgono quando la parola impiegata dall'imprenditore come domain name corrisponde all'altrui denominazione di impresa o ad un altrui marchio già registrato E in caso di un uso perverso della regola che <chi arriva per primo> alla rete cattura per sé il domain name sarà chiaro che occorre reagire ad operazioni di illecito cybergrabbing con una applicazione in senso forte delle normative che ad ogni impresa assicurano protezione ed impiego esclusivo del marchio e degli altri segni distintivi della sua attività. Da ciò l’intero ordine di problemi che ha trovato riscontro in una significativa elaborazione di soft law alla scala sovranazionale e in un contenzioso all’origine di un diritto giurisprudenziale sicuramente orientato nella giusta direzione.

Anche a non considerare (come invece si deve) la valenza di advertising correlata all’impiego di un marchio <famoso> o comunque suggestivo, segnalarsi al mercato significa poi (e significa sempre più) fare intelligente ricorso alla comunicazione di immagine e alla forza persuasiva dello strumento pubblicitario. Nè sarà necessario rilevare in qual misura sempre più numerosi settori di industria offrono «prodotti» e «servizi» di per sé scarsamente differenziati di modo che molto spesso a orientare la domanda di mercato è soltanto la capacità di influenza dello strumento pubblicitario. Regolare il suo impiego è quindi parte obbligata di una disciplina delle attività di impresa e di una politica del diritto con finalità di tutela del «consumatore» che con forza crescente sono sentite ovunque come fattore costitutivo di una economia di mercato dei tempi di capitalismo maturo. E non mancano discipline a carattere speciale sufficientemente esemplificate dal regime della pubblicità radio-televisiva e da altri ancora che la discussione dovrebbe prendere attentamente in esame. Per fare ancora un esempio si pensi alla pubblicità dei prodotti alimentari. Ma naturalmente la materia dell’advertising è parte un ordine di problemi molto più generale e ormai risalente, a veder bene già documentato con la necessaria evidenza dalla <Carta europea di protezione dei consumatori> approvata dal Consiglio d’Europa nel lontano 1973.
Nel corso degli anni Novanta dovevano poi segnare una storica svolta le norme del Trattato di Maastricht e ancora le norme del Trattato di Amsterdam del 1997. E di tutto questo sarà necessario ampiamente discutere. Quanto alla legislazione nazionale significative indicazioni di tendenza si devono già alle disposizioni della legge 281 del 30 luglio 1998 che disegnavano appunto le grandi linee di un generale statuto dei diritti dei consumatori successivamente integrato dalle disposizioni dei decreti legislativi 84 del 25 febbraio 2000 e 224 del 23 aprile 2001. E da lungo tempo parte importante di questo necessario statuto dei diritti sono le numerose disposizioni di regime dell’impresa ad oggetto particolare, dovendosi ricordare in special modo quante nel caso di «frode in commercio» e altri ancora indicano la tutela del consumatore come interesse protetto anche dalla norma penale. Nella fase storica più recente interventi del legislazione nazionale e l’elaborazione comunitaria di nuovo diritto nel segno della consumer protection hanno finalmente configurato con maggiore organicità la disciplina di materia ormai documentata da una intera letteratura. E in questa prospettiva di analisi la disciplina della pubblicità commerciale è soltanto un frammento del più generale «statuto» dei diritti e delle garanzie di tutela che si devono ai consumatori.


La speciale disciplina della pubblicità commerciale in più di una direzione di analisi merita tuttavia una attenzione anche maggiore di quella che di regola le si riserva dovendosi intanto considerare che il fare advertising è ormai oggetto di un settore di impresa ormai anche nel caso italiano (e da tempo) diventato maturo ramo di industria. La serie degli <utenti di pubblicità>, il repertorio dei <mezzi> di pubblicità, le figure professionali che ne risultano coinvolte, il sistema dei contratti di pubblicità sono regolati da una disciplina che sicuramente presenta tutti i caratteri di un particolare ordinamento di comparto. E ordinamento da prendere in esame finalmente guardando agli evidenti caratteri di complessità che non consentono più puri e semplici discorsi di superficie. Si pensi soltanto alla materia dei contratti di pubblicità che sono volta a volta contratti di diffusione della pubblicità gabellare, contratti di pubblicità below the line, contratti di telepromozione, contratti di pubblicità redazionale e di product placement, contratti delle centrali-media, contratti di di concessione pubblicitaria o di agenzia pubblicitaria e (molti)altri ancora.


In diversa prospettiva di analisi la clamorosa influenza che le strategie imprenditoriali di pubblicità commerciale esercitano sulla domanda di mercato e perciò sulle policies di promozione dell’impresa è cosa di rilievo tale da motivare nuova attenzione per argomenti che pure si sono già infinite volte discussi. Ma occorre la necessaria chiarezza senza che tuttavia occorra dilungarsi in riferimenti di ordine generale. Naturalmente la pubblicità è persuasione più di quanto non sia informazione. Nel disegno delle norme costituzionali non è (come pure talvolta si è teorizzato) materia delle espressioni di pensiero considerate dall’art. 21 ma più semplicemente e soltanto una delle forme dell’iniziativa economica che si regola con la norma dell’art. 41. Valgono principio di libertà e di pubblici controlli secondo la previsione del terzo comma della norma. Per taluni settori di impresa operano disposizioni di diritto penale. Con estensione di campo sempre maggiore operano anche sistemi di vigilanza amministrativa in più di un caso attivati mediante strumenti di prevenzione e di sanzione dell’illecito di segno molto forte.


E sarà cosa utile se nel corso del seminario si preciserà il particolare regime di vigilanza attivato dalle norme del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria del febbraio 1998 per le iniziative di persuasione pubblicitaria attivate dal settore delle imprese di offerta dei servizi di investimento che movimentano il mercato finanziario. Per adesso tuttavia più interessa segnalare gli interrogati che riguardano le discipline generali in tema di pubblicità ingannevole stabilite dalla direttiva comunitaria 450 del 1984, che provvedendo al <riavvicinamento delle disposizioni legislative (...) degli Stati membri> impegnava il legislatore nazionale ad un intervento operato con il decreto legislativo 74 del 25 gennaio 1992. Con ogni evidenza occorreva proteggere dalla «pubblicità ingannevole» e «dalle sue conseguenze sleali» sia «i soggetti che esercitano una attività commerciale, industriale, artigianale o professionale»» sia «i consumatori» e più in generale «gli interessi del pubblico» destinatario di «messaggi pubblicitari». E per il secondo comma dell’art. 1 del decreto legislativo 74 la pubblicità deve essere «palese, veritiera e corretta».


<Palese> e perciò immediatamente riconoscibile come messaggio pubblicitario. <Veritiera> e <corretta> non essendo tale la informazione «pubblicitaria» che «in qualunque modo» possa «indurre in errore» appunto per il suo carattere «ingannevole». Si devono leggere con particolare attenzione la lettera b) dell’art. 2 e l’art. 3 del decreto legislativo (ma anche le disposizioni dell’art. 5 per valutare importanti fattispecie di genere particolare). E si deve leggere il terzo comma dell’art. 4 che stabilisce divieto della pubblicità «subliminale». Va infine considerato quanto spesso l'e. commerce costituisce inevitabilmente spazio aperto a nuove e speciali forme di pubblicità decettiva via Internet variamente praticate anche mediante un uso deviante del domain name, della tecnica del link o altre ancora. A tutto questo si domanda di guardare con valutazioni di law in action perché più di considerazioni intese a fare teoria generale in questa materia oggi interessano analisi che consentano di verificare quanto a risultati l’operare degli strumenti che qui si richiamano semplicemente per memoria.


Il decreto legislativo del gennaio 1992 assegna le note competenze all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che attivata dalla iniziativa di «concorrenti» , di «consumatori» o di organismi di loro rappresentanza ha legittimazione ad assumere provvedimenti di urgenza con la conseguente sospensione del messaggio così come provvedimenti definitivi di divieto. Sono sanzioni previste anche la pubblicazione della decisione che dichiara «ingannevole» il messaggio o invece l’ordine di dichiarazioni «rettificative». Quanto al danno causato dalle imprese che impiegano pubblicità «ingannevole» esiste ampia legittimazione per l’agire in giudizio dei danneggiati con il rilevante beneficio dell’inversione dell’onere della prova. Di volta in volta sarà possibile avvalersi delle norme in tema di concorrenza sleale, della disciplina di reazione al danno «ingiusto» dell’art. 2043 o di altri possibili rimedi del diritto civile. E se del caso operano strumenti del diritto penale e sanzioni penali. Ma la materia ha una sua evidente specialità di modo che in punto di analisi economica e di politica del diritto sarà bene avviare una riflessione intesa a valutarne il rendimento.


In materia di pubblicità comparativa ha preso posizione la direttiva comunitaria 55 del 1997 poi recepita dal decreto legislativo 67 del 25 febbraio 2000. L’impiego di mezzi di pubblicità comparativa è stato a lungo contrastato da più parti, e comunque da gran parte del mondo imprenditoriale. Ma la comparazione tra «servizi» e «prodotti» consente certamente utili confronti di qualità e accresce la trasparenza del mercato, con tutti i risultati di segno positivo documentati dall’esperienza dei Warentest, i confronti merceologici variamente operati da specialisti e così diffusi in numerosi settori di industria. E l’art. 3 del decreto legislativo 67 adesso consente e indica come pubblicità comparativa il messaggio pubblicitario che «in modo esplicito» oppure «implicito» identifica un concorrente, così come i «beni» o i «servizi» che l’impresa concorrente offre al mercato. Va tuttavia considerata la norma dell’art. 5 del decreto dove si stabiliscono le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Il suo messaggio non deve ingenerare «confusione sul mercato» né causare l’altrui «discredito» o «denigrazione». Sono consentiti soltanto confronti con carattere di oggettività. Deve trattarsi di confronti relativi a connotazioni di «beni» e «servizi» davvero qualificanti, e perciò connotazioni «essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative». E ancora una si domandano valutazioni di rendimento dei congegni normativi.


Anche in materia di pubblicità commerciale va infine segnalato quanto di utile si può fare per via di self regulation delle imprese. Alla eventuale attivazione di «organismi volontari e autonomi di autodisciplina» espressamente si riferisce l’art. 8 del decreto legislativo 74. E dagli anni Sessanta opera appunto secondo principio di self regulation un Codice di lealtà pubblicitaria, costituito da norme di fonte privata che imprese del settore e loro «utenti» per contratto si impegnano ad osservare, così da garantire alla comunicazione pubblicitaria i caratteri di un utile «servizio per il pubblico». Sia pure con tutti i limiti delle normative private (e per quanto deriva dalle disposizioni dell’art. 1372 del codice civile), si configurano «sanzioni» applicate da un Giurì e da un Comitato di controllo che sono organi di questa associazione tra imprese. Orientamenti che sono ormai regola consolidata in materia di pubblicità «superlativa», di testimonials o comunque di «onestà» del messaggio pubblicitario meritano certamente apprezzamento confermando il valore positivo di una esperienza che tuttavia sarà il caso di discutere per valutare in qual misura a strumenti di tal genere possa consegnarsi la necessaria funzione di garanzia e di consumer protection.

Il fare «impresa» porta poi con sé una tale varietà di possibili iniziative e in punto di diritto sono a disposizione dell’imprenditore strumenti giuridici della attività così multiformi da rendere naturalmente impensabile una qualsiasi rappresentazione di sintesi. E a veder bene per certe parti di materia di essa non si avverte una reale necessità considerato quanto spesso a regolare rapporti giuridici e situazioni per l’impresa giuridicamente rilevanti provvedono norme di carattere generale senza che si configuri in consistente misura uno speciale diritto di imprenditori e imprese. Ma esistono tuttavia pur sempre e sono molte la disposizioni e le fattispecie di genere particolare che aggiungono notevoli contenuti a ciò che comunemente si indica come lo statuto normativo dell’imprenditore. Da ciò specialità di disciplina che nel corso degli anni recenti si sono poi moltiplicate in una misura che naturalmente si spiega con la crescente complessità e le sempre più numerose articolazioni delle economie di mercato dei tempi del capitalismo maturo. Ne emergono regimi differenziati in evidenza già se soltanto si guarda al repertorio delle norme di ordinamento dei contratti dell’impresa.


L’argomento ha tutto il rilievo dovuto alla elementare considerazione che se significa molte cose assai diverse tra loro fare «impresa» in ogni caso significa fare in modo continuativo e su larga scala contratti con una grande varietà di controparti. Contratti di lavoro con i dipendenti, contratti per organizzare l’impresa o per ricevere fattori produttivi, credito e quant’altro possa occorrere allo svolgimento della attività. Fare «mercato» in ogni caso significa concludere contratti di impresa che al mercato offrono «beni» o «servizi». Il loro insieme ha una sua indiscutibile specialità che è anche specialità di regimi normativi , già ampiamente documentata da ciò che dispongono gli artt. 1469 bis a 1469 sexies del codice civile per i contratti del «consumatore», così come le norme in apertura degli anni Novanta disposte dal decreto legislativo 50 del 15 gennaio 1992 in riferimento ai contratti «negoziati fuori della sede dell’impresa». Da allora già per questo comparto di attività contrattuali dovevano seguire le regolamentazioni di settore a tutela della controparte non professional dell‘impresa che non è certamente necessario enumerare anche se per talune si consiglia una attenzione assolutamente particolare. E penso alla disciplina dei contratti di offerta di strumenti finanziari e di servizi di investimento o al nuovo regime dei contratti dell’ecommerce del genere business to consumer.


I contratti di impresa che si sono richiamati tuttavia rappresentano soltanto uno dei comparti da considerare essendo utile portare attenzione ad un più generale scenario di fattispecie nella prospettiva indicata da una imponente dottrina dove non mancano orientamenti fortemente contrastanti. Studiosi che pure guardano con approfondite riflessioni al mondo delle imprese talvolta tendono ad accreditare l’assunto che per i contratti dell’imprenditore non occorra un particolare discorso prevalendo le disposizioni che si applicano ad essi così come ad ogni altro. Ma non manca davvero materia per un assunto di diverso genere. Se è vero che il codice civile in vigore ha rimosso la logica di sistema del codice di commercio del 1882, non esistendo più la preesistente categoria dei contratti commerciali per essere conclusi tra imprenditori o da imprenditori con altri (e per la loro specialità separatamente regolati), sembra tuttavia difficile da ciò derivare senza incertezze l’assunto di una integrale unicità di sistema. E in ogni caso di tutto questo occorre discutere mettendo gli orientamenti di teoria generale del contratto a confronto con quanto è indicazione normativa.


Sia norme di diritto nazionale sia norme di diritto sovranazionale sembrano infatti delineare infatti su scala molto ampia i caratteri distintivi di un diritto dei <contratti di impresa> a valere per la generalità dei contratti dei quali un imprenditore è parte per l’esercizio delle sue attività imprenditoriali. E già senza spingersi più avanti delle norme del codice civile non si tratta semplicemente di leggere l’art. 1330 in tema di formazione del contratto o in tema di sua interpretazione gli artt. 1368 e 1370 (e norme come gli artt. 1370, 1341, 1722, 1824, 2558) che pure visibilmente configurano regole riservate in via esclusivo all’agire negoziale degli imprenditori. Allo stesso modo nel corso della discussione andrà tenuta in conto la disciplina di numerosi contratti che se non sono necessariamente contratti di impresa per loro natura riguardano in modo particolare imprenditori e imprese come nel caso del contratto di trasporto, del contratto di spedizione, del contratto di agenzia e altri ancora (come ad esempio il contratto di mediazione, la somministrazione o il contratto estimatorio). E si pensi a talune fattispecie di vendita disciplinate dal codice civile ma ancor più alle disposizioni della Convenzione dell’aprile 1980 in materia di vendita internazionale di cose mobili.


Con attenzione anche maggiore si dovrà poi considerare il grande numero dei contratti dove una impresa è invece parte necessaria. Saranno volta a volta contratti della impresa bancaria, dell’impresa assicurativa, delle imprese che sottoscrivono contratti di appalto o contratti di diverso genere ma pur sempre qualificati da loro evidenti caratteri di specialità. E per fare ancora un esempio assolutamente emblematico sarà chiaro in qual misura una complessa trama di contratti di impresa in senso tecnico <collegati> invariabilmente si ritrova in qualsiasi operazione di securitization, la così rilevante operazione di cartolarizzazione di crediti (e di loro trasformazione in strumenti finanziari) regolata dalle norme della legge 130 dell'aprile 1999. Dal leasing al franchising, dal factoring al merchandising, dal catering a numerosi altri di più incerta qualificazione sono infine numerosi i contratti «nuovi» e spesso non (ancora) codificati che configurano ulteriori scenari di diritto dell’impresa. Altre fattispecie meritano certamente la maggior attenzione Ma se questa è la prospettiva di analisi mi sembra che possa essere davvero molto utile guardare una volta di più in modo particolare al repertorio delle fattispecie negoziali che caratterizzano la materia finanziaria.


E perciò ad un comparto di contratti di impresa come già si diceva ormai regolati per intero da discipline di legge speciale. Sicuramente rappresentative di un diritto dei contratti a sé sono le norme che disciplinano i contratti di investimento e di gestione patrimoniale proposti al mercato del risparmio dal settore delle imprese di intermediazione finanziaria. Ma lo sono anche le discipline delle convenzioni di gestione delle risorse di fondi pensione <chiusi> secondo il regime del decreto legislativo 124 del 1993 (poi ampiamente integrato dalle norme del decreto legislativo 47 del 2000 con la previsione di piani pensionistici individuali) o in tutt’altro contesto le norme di regime dei contratti di credito al consumo. E in una prospettiva di analisi ancora diversa si leggano le norme della legge 52 del 21 febbraio 1991 dove si dispongono regole per la cessione verso corrispettivo di crediti pecuniari da una impresa <cedente> ad un <cessionario> che sia banca o altro intermediario finanziario. In materia di contratti tra imprese sarà infine utile rileggere con attenzione l’art. 9 della legge 192 del 18 giugno 1998 che riguarda il caso dell’impresa «in grado di determinare» nei rapporti commerciali con un’altra impresa «un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi» da ciò derivando la nullità dei patti che concretano un abuso di dipendenza economica.


Da tutto questo caratteri di specialità dei contratti dell'imprenditore che sono di evidenza forse anche maggiore se alle attività di impresa si guarda nella prospettiva dei mercati ormai a tutto campo transnazionali, ormai così decisamente caratterizzati da speciali discipline di soft law quando non da regole di pura e semplice lex mercatoria. Mercati come si sa si sa per molta parte ormai movimentati da transazioni che si operano con strumentazione informatica e via Internet e dove Business to business e business to consumer significano commercio elettronico secondo una tecnica di rapporto precontrattuale, modalità di identificazione dell'accordo negoziale e regole di sua esecuzione che già di per sé configurano un nuovo diritto dei contratti di impresa. Rilevano convenzioni, interchange agreements, uniform rules dell'operare negoziale e comunque discipline pattizie variamente elaborate in sedi e da organismi internazionali. In questi comparti di mercato davvero si ritrova un nuovo diritto dei contratti di impresa che quando non è lex mercatoria risulta tuttavia molto spesso dominato da regole di soft law che impegnano a ripensare il principio di gerarchia delle fonti.


E si è già ricordato tutto il rilievo delle normative comunitarie dovendosi discutere almeno quanto si è disposto con la direttiva 31 dell' 8 giugno 2000 intesa appunto a stabilire una prima regolazione delle transazioni dell'e.commerce poi integrata dalle normative della recente direttiva in materia di <vendita a distanza dei servizi finanziari>. Ma se questo fosse il comparto dei contratti di impresa da assoggettare a più circostanziata analisi si dovrebbe guardare molto più in là degli ordinari fenomeni di e.commerce per considerare l’orientamento espresso in modo univoco dal legislatore comunitario che adesso progetta action plans e mercati dove il ricorso alle tecnologie dell’informatica prefigura attività, perciò contratti di impresa e un nuovo diritto dei contratti di impresa che semplicemente segnalo per i necessari approfondimenti. Anche queste linee di evoluzione dell’ordinamento sembrano aggiungere argomenti all’assunto già variamente condiviso da autorevole dottrina e talvolta espresso con valutazioni di insieme che mi sembra utile ripetere per offrire precisi termini di riferimento alla discussione da svolgere.


Si indicano gli anni Ottanta o gli anni immediatamente successivi quale punto di avvio di un processo evolutivo in direzione di <un diritto speciale dei contratti di impresa> che in via breve può essere così rappresentato. Operano fonti del diritto nazionale che se in parte sono norma di legge in altra parte si devono ad interventi di autorità amministrative, a prassi commerciali, a codici di self regulation e atti <fonte> ancora diversi .Così come operano (e con forza anche maggiore) regole di diritto sovranazionale che che se in parte sono direttive comunitarie in altra parte si devono invece a regolamenti di fonte comunitaria, a convenzioni internazionali in materia di commercio ma non soltanto. Risultato ne sono discipline dei contratti di impresa che se sono quanto mai diversificate per l’oggetto e per i contenuti trovano tuttavia comune riscontro nella rilevanza assegnata allo status di imprenditore e alla posizione di mercato dell’impresa. In che misura tutto questo costituisca o possa in futuro costituire una svolta di sistema è per l’appunto uno dei temi aperti alla discussione.

Discussione che tuttavia può riguardare anche temi diversi ma pur sempre appartenenti alla materia della posizione di mercato dell’impresa e delle sue attività negoziali di impresa. Temi che in questo intervento di apertura possono essere semplicemente essere indicati per richiamo di quanto insegna già il manuale universitario. Con la frequenza e la estensione di campo che sono peculiari di taluni settori di impresa ma comunque sempre per fare contratti l’imprenditore si avvale di quanti possano agire in suo nome e per suo conto. Si riscontrano poi le precise distinzioni di regime che agli specialisti di materia si domanda di rappresentare guardando a ciò che è law in action e complesso insieme dei problemi emersi nella esperienza operativa e negli orientamenti giurisprudenziali. Se si tratta di collaborazioni prestate da quanti non sono dipendenti dell’impresa naturalmente valgono le norme di disciplina generale della rappresentanza, essendo appena il caso di ricordare che quando invece l’imprenditore sia commerciale e si avvalga di dipendenti dell’impresa si applica la particolare disciplina stabilita per «institori», «procuratori» e «commessi» dalle norme degli artt. 2203 a 2213. Sempre che l’imprenditore non decida di limitare le attribuzioni dei suoi dipendenti lo svolgimento di mansioni professionali perciò porta i con sé i poteri di rappresentanza normalmente commisurati alla mansioni svolte.
Cosa che in linea di principio tutela i terzi entrati in rapporto con l’impresa ben sicuri di trattare con qualcuno che ha legittimazione a contrarre. Ma come si sa esistono fattispecie che meritano una particolare attenzione gia con riguardo agli <institori> dipendenti al vertice dell’impresa o di una sua «sede secondaria» o ancora di un suo singolo «ramo», che sia pure entro i limiti segnati dall’art. 2204 possono «compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa» e per quanto sia materia di «preposizione institoria» possono «stare in giudizio in nome» dell’imprenditore che li ha designati. Ma non è cosa semplice stabilire quali atti sono gli <pertinenti all’impresa> e la stessa nozione di <pertinenza > all’impresa ha carattere di forte astrazione. Si presentano poi altre fattispecie con carattere di problematicità che allo stesso modo interessano l’agire dei <procuratori>, per essi valendo la norma dell’art. 2209 dove li si indica come <dipendenti> che svolgono attività in posizione dirigente anche se non al vertice dell’organizzazione per non essere «preposti» all’esercizio dell’impresa. Per tutti è regola che delle obbligazioni contratte operando per l’impresa risponderà l’imprenditore «rappresentato». Ma quanto alle possibili limitazioni dei poteri di institori e procuratori è certamente utile un approfondimento interpretativo con riguardo con agli artt. 2204 a 2207 molto rilevando ciò che l’art. 2208 dispone in punto di loro personale responsabilità. Da ciò fattispecie e interrogativi che tuttavia mi limito a segnalare per la loro possibile discussione.


Ancora per semplice richiamo di quanto si legge nel manuale universitario indico altri argomenti (e altri problemi) che sarà utile prendere in circostanziato esame. Quale che ne sia l’assetto organizzativo così come il settore di operatività, e chiunque sia ad agire per l’impresa si impongono i doveri di correttezza enumerati da norme che configurano particolare disciplina di materia. Con norma di principio generale impone doveri di correttezza l’art. 2598 del codice civile. Viola doveri di questo genere giuridicamente rilevanti e «compie atti di concorrenza sleale» chiunque si avvalga «direttamente o indirettamente» di un qualsiasi «mezzo non conforme» alle regole della «correttezza professionale» e «idoneo a danneggiare l’altrui azienda». Le norme degli artt. 2598 a 2601 sottraggono poi il fenomeno alla disciplina generale dell’illecito civile che in tempi ormai lontani costituiva l’unico strumento di reazione alle possibili fattispecie di concorrenza sleale. Ne deriva un ulteriore incremento dello speciale diritto di imprenditori e imprese in un senso che emerge con chiarezza già ad una prima lettura del manuale universitario.


Le norme del codice civile riguardano imprenditori in concorrenza tra di loro. Imprenditori che agiscano in violazione di regole di correttezza e imprenditori che ne risentano un pregiudizio. Si tratta perciò di disposizioni che proteggono il generale interesse del mondo imprenditoriale a che la competizione di mercato sia corretta quanto occorre per consentire al mercato di premiare i migliori. Finalità delle norme è dunque una garanzia di osservanza di corrette regole del confronto di mercato tra imprese. E non la tutela dei consumatori se non nel senso che gli atti di concorrenza sleale tra imprenditori molto spesso pregiudicano anche aspettative e interesse dei consumatori. Molto spesso e tuttavia non sempre perché ad esempio la vendita «sotto costo» è atto di concorrenza sleale ma i consumatori ne sono evidentemente avvantaggiati. In ogni caso gli atti di concorrenza sleale vengono sanzionati per la loro oggettiva contrarietà ai doveri di correttezza imprenditoriale occorrendo domandarsi ancora una volta quali sia il rendimento operativo delle disposizioni del codice.


Considerato che si reagisce alla oggettiva contrarietà dell’agire di impresa ai doveri di fairness professionale si incorre in sanzione anche quando non si configuri una fattispecie particolarmente qualificata dal riscontro di una «colpa» o di un «dolo». Si è stabilita una presunzione di contrarietà di certi atti alla regola di correttezza che sarà possibile vincere soltanto con la prova che nel caso singolo quel comportamento non era atto di concorrenza sleale. Le disposizioni del codice civile comunque espressamente colpiscono gli atti di confusione quali sono l’uso di altrui «segni distintivi», la «imitazione servile» del «prodotto» di una impresa concorrente e «qualsiasi altro mezzo» capace di ingenerare «confusione». Puniscono gli atti di denigrazione commerciale intesi come tali le «notizie» e gli «apprezzamenti» sui «prodotti» e sull’«attività» di un concorrente capaci di «determinarne il discredito». Reagiscono alla appropriazione di pregi «dei prodotti o dell’impresa» di «un concorrente». Ancor prima vale tuttavia clausola generale dell’art. 2598 che in linea di principio considera e sanziona l’impiego di «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale» e come si diceva «idoneo a danneggiare l’altrui azienda».


E il ricorso alla tecnica della clausola generale ha consentito di identificare (per sanzionare) una intera serie di fattispecie particolarmente lesive. Si pensi allo spionaggio industriale e ai suoi possibili (indebiti) risultati di acquisizione di informazioni riservate dell’impresa concorrente. Si pensi alla strategia di vendite «sotto costo» o alle operazioni di dumping intese ad espellere dal mercato imprese concorrenti. O ancora al boicottaggio e allo storno di dipendenti progettato per disgregare la altrui impresa. Ma esistono anche altre fattispecie provatamente lesive. E gli atti di concorrenza sleale comunque non sono un numero chiuso essendo quindi sempre possibile che l’evolvere della giurisprudenza configuri nuove fattispecie di comportamenti contrari ai doveri della correttezza professionale. Anche in questo senso mi sembra che grande attenzione occorra adesso per i comparti del mercato ove sono più diffuse le tecnologie del commercio <elettronico>. Ne risultano infatti praticate strategie di impresa pericolosamente devianti. E per fare soltanto un esempio si pensi al meta tag, la parola non visibile sulla pagina web e tuttavia catturata dai motori di ricerca che consente al sito aziendale di attrarre a sé il navigatore in Internet, di modo che impiegando come parola nascosta un altrui segno distintivo con formidabile automatismo diventa senz'altro possibile sottrarre visibilità ad una impresa concorrente con risultati di evidente sviamento della clientela.


Ma questo è soltanto un esempio dei problemi di tutela dei segni distintivi e di difesa da atti di concorrenza sleale che le prassi dell' e.commerce aggiungono ad altre prassi devianti esistendo ancor prima dei problemi particolari un problema generale di valutazione del sistema normativo complessivamente considerato. All’impresa che subisce atti di concorrenza sleale l’art. 2599 assicura sia il rimedio inibitorio che il rimedio restitutorio. La sentenza che «accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione» e «adotta gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti». Se si tratta di atti «compiuti con dolo o con colpa» per l’art. 2600 «l’autore è tenuto» al risarcimento dei danni dovendosi sempre ricordare che «accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume». Per disposizione dell’art. 2601 «quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale» sono legittimati ad agire le «associazioni professionali» e «gli enti» che «rappresentano la categoria». Speciali discipline di garanzia si ritrovano in materia di «mezzi di comunicazione di massa» e di pubblicità radiofonica o televisiva ma anche in materia di partecipazione al capitale sociale di imprese bancarie, editoriali e altre ancora.


Perciò ad una scala assai ampia comprensibilmente perciò ritorna l’interrogativo che impegna a valutare in qual misura norme codificate e diritto di fonte giurisprudenziale conseguono l’atteso risultato di prevenzione dei comportamenti devianti e di reazione all’illecito di impresa. Se in diversa prospettiva di analisi si guarda poi alle regole dell’agire imprenditoriale che in via immediata riguardano la complessa trama dei rapporti di mercato tra imprese e consumatori destinatari dell’offerta dei «prodotti» e dei «servizi», come già si diceva lo scenario di ogni economia a capitalismo maturo restituisce l’immagine di un complesso universo di normative a carattere speciale che una volta di più fanno ormai sistema a sé. Normative che adesso non è il caso di richiamare perchè sarà la serie dei successivi interventi a precisare qual è oggi il punto di arrivo del tormentato evolvere in direzione delle necessarie policies di tutela dei consumatori , a quanti interverranno al tempo stesso domandandosi di prefigurare lo scenario delle innovazioni di sistema che al di là delle divagazioni in astratto è sensato discutere come materia di una regolamentazione non rinviata ad un imprecisato futuro.


La direzione del percorso normativo in ogni caso si percepisce con grande evidenza. Disposizioni in tema di «sicurezza» dei «prodotti» quali ad esempio sono quelle del decreto legislativo 115 del marzo 1995 e disposizioni regolatrici del danno da «prodotti difettosi» secondo il regime del decreto 224 del maggio 1988, gli artt. 1469 bis a 1469 sexies del codice civile in tema di clausole vessatorie dei contratti conclusi dall'imprenditore con una controparte <consumatore> così come le normative per la materia dei contratti negoziati «fuori dei locali commerciali» regolata già dal decreto legislativo del gennaio 1992 e le normative a valere per i contratti conclusi mediante «tecniche di comunicazione a distanza» disciplinati con il decreto legislativo 185 del 22 maggio 1999 si possono considerare primi passi di avanzamento in direzione di un miglior ordinamento di materia che ha poi ricevuto altre e significative integrazioni. Si tratta allora di provvedere ad una ricognizione di campo che muovendo da una rassegna delle normative già in atto e di quante sembrano dover diventare in tempi brevi normative operanti restituisca una immagine sufficientemente rappresentativa di un contesto di regolamentazioni che per che la compresenza di direttive comunitarie e di legislazioni nazionali sembra finalmente configurare un nuovo diritto privato europeo dell’impresa e dei rapporti di consumo.

In una prospettiva di analisi ancora diversa da quante si sono già segnalate sarà infine chiaro che ad una discussione sulla posizione di mercato dell‘impresa non è consentito ignorare i fenomeni di possibile aggregazione di imprese. E senza spingermi più avanti della pagina del mauale uiversitario richiamo in via breve il fattore di crescente incidenza sul sistema organizzativo delle attività imprenditoriali che deriva dall’organizzarsi secondo regola di integrazione delle forze mediante congegni di cooperazione tra imprese. Immagino che sarà attentamente considerato nella sua tipicità il caso di più imprenditori che istituiscono una organizzazione comune «per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese». È il caso del consorzio e del contratto di consorzio dell’art. 2602 nella sua qualità di contratto associativo che per la sua attuazione prefigura una assemblea dei consorziati e un organo con funzioni di gestione Ma anche altre fattispecie si prestano ad utili approfondimenti. Se si tratta di consorzio con attività esterna operano le disposizioni degli artt. 2612 a 2615 bis. I programmi di genere consortile sul modello dell’art. 2602 si possono poi avviare costituendo una società consortile secondo la previsione dell’art. 2615 ter Saranno naturalmente società (e ad esempio società per azioni) che non perseguono scopo di profitto ma per l’appunto finalità consortili. E se in linea di principio vale la disciplina del tipo societario che si è prescelto non mancano gli argomenti da discutere.


Alla scala sovranazionale rilevante congegno di cooperazione è il gruppo europeo di interesse economico, il Geie disciplinato dal regolamento comunitario 2137 del 25 luglio 1995 dovendosi tuttavia considerare anche le norme del decreto legislativo 240 del 23 luglio 1991. Membri del «gruppo» non sono necessariamente e soltanto imprese ma deve comunque trattarsi di operatori con diversa appartenenza nazionale. La struttura della organizzazione che il «gruppo» si assegna in linea generale segue il modello del consorzio con attività esterna. E va tenuto presente che il Geie non ha «lo scopo di realizzare profitti per sé stesso» perché sua finalità è soltanto l’agevolare e incrementare la attività degli appartenenti al gruppo. Si costituisce per contratto e opera un organo collegiale partecipato da tutti i membri del Geie. Delle obbligazioni risponde il patrimonio del «gruppo». In via «sussidiaria» tuttavia solidalmente e illimitatamente rispondono anche quanti ne sono parte. Come si sa il ricorso alla strumentazione offerta dal Geie non si è praticato con la frequenza che in astratto sembrava dovesse assicurare maggior successo a questa modalità di cooperazione. E saranno gli esperti di materia a spiegare che cosa ne disincentiva l’impiego.


Infine il fenomeno joint venture e gli altri che definizioni di prima approssimazione in via breve rappresentano come una associazione temporanea di imprese. In punto di forma giuridica alla associazione temporanea di imprese si provvede mediante contratti innominati secondo il regime dell’art. 1322 del codice civile senza costituire nuove imprese o una nuova società. Una delle imprese «parte» del contratto associativo agisce da capo gruppo nei rapporti con i terzi secondo le regole del mandato con rappresentanza. Come sempre le formule di estrema sintesi tuttavia rinviano ad una notevole varietà di situazioni da prendere separatamente in esame. Va considerato in qual misura taluni settori di attività sono materia di legislazione speciale. E sarà cosa utile portare attenzione alle norme della legge 109 del febbraio 1994 per il regime dell’appalto di opere pubbliche. Quanto poi alle joint ventures ormai così di frequente attivate per realizzare opere o comunque portare a risultato affari di genere complesso,si tratti di attrezzare intere parti di una città ,di apprestare autostrade ,di costruire impianti industriali a grandi dimensioni,o di altro ancora, come si sa ne risulta integrata una volta di più la fattispecie dell’ associazione temporanea di imprese spesso operante alla scala sovranazionale.


Gli specialisti di materia insegnano che se non esiste una modellistica di joint ventures con i caratteri stilizzati degli istituti consolidati da apparati normativi di genere codificato esiste tuttavia pur sempre la precisa distinzione tra incorporated joint venture che in funzione di cooridmato si avvale della costituzione di un soggetto (societario) distinto dalle imprese partecipanti e contractual joint venture operante invece soltanto a mezzo del contratto che vincola le imprese partners. E insegnano che in ogni caso la prassi internazionale,il ricorso agli usi del commercio e una giurisprudenza arbitrale che stabilisce principi a valere come <precedente> con forti capacità di vincolo sempre più tendono a configurare un ordinamento di materia dove principio di buona fede in senso oggettivo e regola pacta sunt servanda, regole tradizionali di formazione del consenso e di reazione all’inadempimento ( ma insieme con queste anche altre ) fanno sistema. In che modo e con quali esiti è appunto quanto agli specialisti di materia nella misura del possibile si domanda di precisare. (segue)

(*) Queste pagine trascrivono la prima parte dei <materiali per l’insegnamento > da impiegare come intervento di apertura di un <seminario per la didattica > a svolgersi nel corso2003.