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Ancora una volta sul livello differenziale di rumore:

repetita iuvant ??

 

 

 

Esame critico della sentenza Consiglio di Stato, Sez IV, 18 febbraio 2003, n. 880

 

 

di    Silvano  Di  Rosa (**)

 

 

 

 Sommario:

1. Premessa; – 2. Presupposti e rinvii; – 3. Un accenno alla precedente decisione istruttoria del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 6274 del 12 novembre 2002; – 4. La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV,18 febbraio 2003 n.880; – 5. Commenti; – 6. Conclusioni; –  Testo delle sentenze.

 

 

 

1 – Premessa

Contando sulla radicata saggezza del famoso detto: repetita iuvant [1], auspichiamo che tornare, ancora una volta, sullo stesso argomento possa effettivamente servire a qualcosa e/o – volesse il cielo !! – giovare a qualcuno.  D’altronde – per quanto promanata da Palazzo Spada[2] – non era possibile astenersi dal commentare una statuizione come quella presa in esame; sia per il contenuto seriamente enigmatico  che la caratterizza, sia in quanto fonte di consistenti perplessità causate dalla “problematica” interpretazione, con essa, attribuita ad alcune norme vigenti in materia di tutela dall’inquinamento acustico.

 

Dopo un tale esordio, difficilmente sarà possibile evitare accuse di megalomania o similari; anche se, per amor del vero, non è l’immodestia che ci spinge a scrivere nuovamente sul “livello differenziale di rumore”, bensì  – pregio o difetto !! – la voglia di  perseverare nel nostro intento: «fare tutto il possibile, “grattando con pazienza il fondo del barile”, perché non  venga tolto ai cittadini uno strumento normativo utile a tutelare il loro benessere e – scusate se è poco !! – la propria salute». In subordine, ovviamente, siamo altresì motivati a ripeterci sullo stesso tema per sopperire all’evenienza di non esser stati chiari la prima volta!

 

 

2 – Presupposti e rinvii

            Il tema è stato affrontato piuttosto di recente[3], esaminando dettagliatamente – fra le altre cose – le problematiche connesse con il criterio differenziale[4], il livello differenziale di rumore (LD)[5] ed i valori limite differenziali  di immissione[6].

 

In particolare, si è evidenziato:

 

-     Che i valori limite differenziali di immissione[7]  rientrano nella definizione di valore limite di immissione (valida per quelli assoluti  e per i differenziali), fornita alla lettera f) dell’art. 2.1 della legge 447 del ’95.

 

-     Che per valore limite di immissione deve intendersi il valore massimo di rumore – immesso, da una o più sorgenti sonore, nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esternomisurato in prossimità dei ricettori.

 

-     Che la verifica del rispetto dei valori limite differenziali  di immissione  non deve/può essere effettuata quando:

 

a)  il rumore ambientale misurato a finestre aperte è inferiore a 50 dB(A) – in periodo diurno –, oppure a 40 dB(A) – in periodo notturno –;

b) il rumore ambientale misurato a finestre chiuse è inferiore a 35 dB(A) – in periodo diurno –, oppure a 25 dB(A) – in periodo notturno –;

c) il ricettore si trova nelle aree classificate come “esclusivamente industriali”;

d) si tratta di rumorosità prodotta:

· dalle infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali e marittime;

· da attività e comportamenti non connessi con esigenze produttive, commerciali e professionali;

· da servizi e impianti fissi dell'edificio adibiti ad uso comune (limitatamente al disturbo provocato all'interno dello stesso).

 

 

-     Che la verifica dei valori limite differenziali  di immissione deve essere effettuata solo e soltanto all’interno di "ambienti abitativi"[8] e quindi esclusivamente in locali “interni” ad un edificio; così come lo sono sicuramente le stanze di una civile abitazione.

 

-     Come il secondo comma dell’ articolo 2 del DPCM 1° marzo 1991, fissasse delle «differenze da non superare» tra il livello equivalente del rumore ambientale e quello del rumore residuo. Differenze, stabilite come pari a: 5 dBA durante il periodo diurno e  3 dBA durante il periodo notturno, da verificare all’interno degli ambienti abitativi e costituenti ulteriori limiti costanti e valevoli ovunqueindipendentemente dalle classi di destinazione d’uso del territorio – tranne che “nelle” zone del territorio comunale qualificabili come «esclusivamente industriali»; quindi verificabili  in ogni luogo tranne che nelle aree interessate “esclusivamente” dalla presenza di attività industriali, e   prive  di insediamenti abitativi.

 

-     Che il trovarsi – ad esempio: come tecnici competenti in acustica ambientale incaricati di una misurazione – all’interno di una civile abitazione (quale tipico “ambiente abitativo”) implichi “per forza” (rectius:per legge”!) di doversi considerare come situati  al di fuori di aree “esclusivamente industriali”; ciò per il solo fatto (necessario e sufficiente) di essere all’interno di quella  tipologia strutturale (la “civile abitazione”) di cui le aree “esclusivamente industriali” devono essere “prive” (la presenza di un’abitazione civile qualificherebbe l’area perlomeno come “prevalentemente industriale” – classe V – risultando essere interessata da insediamenti industriali e con scarsità di abitazioni; se non addirittura appartenente a classi inferiori); tanto da dover ritenere sempre possibile ed obbligatoria[9] la verifica dei valori limite differenziali  di immissione  all’interno di una civile abitazione; sia “in presenza” che “in assenza” di una zonizzazione acustica del territorio comunale.

 

-     Come l’art. 4, comma 1, ultimo periodo, del D.P.C.M. 14.11.1997, stabilisca che: «Tali valori[10] non si applicano nelle aree classificate nella classe VI  della tabella A allegata al presente decreto» escludendo tassativamente che ciò possa esser letto come:« Tali valori non si applicano alle aziende situate nelle aree classificate nella classe VI  della tabella A allegata al presente decreto», in quanto non ha alcuna importanza la posizione della sorgente di rumore, essendo rilevante esclusivamente la posizione dei ricettori (se non altro, in forza di quanto previsto alla lettera f), del comma 1, dell’art. 2, della legge 447/95).

 

-     Come, nella “fase transitoria” prevista dal DPCM del 1991 – e quindi in attesa della suddivisione del territorio comunale nelle zone  (cioè in assenza di zonizzazione) –,  fosse prevista fin dal 1991:

  

· con il primo  comma dell’art. 6 (DPCM 1.03.1991): l’applicazione di limiti massimi del livello sonoro equivalente (Leq A), cogenti “a prescindere” dall’esistenza di una “zonizzazione”, ed aventi dei valori specifici (70 dBA e 70 dBA) proprio per le «zone esclusivamente industriali».

· con il secondo comma  dello stesso art. 6: la doverosa applicazione del criterio differenziale[11]; verificandone strumentalmente il rispetto, con le stesse modalità previste per il “dopo zonizzazione [12]

 

-    Che le «dizioni» utilizzate nell’ art. 2.2 del DPCM 1 marzo 1991[13], nell’art. 6.2 dello stesso decreto[14] e nell’art. 4.1  del DPCM 14 novembre 1997, devono considerarsi identiche. Ciò in quanto il “legislatore” (secondario) del ’91 ha scelto di indicare in quali aree poteva” essere applicato il criterio differenziale, mentre invece il legislatore (secondario) del ’97 ha preferito designare quali sono le aree  in cui non si può” applicare  il livello differenziale; lasciando, in ogni caso, immutato il concetto sostanziale cui ci si riferisce (“aree esclusivamente industriali” oppure “aree di Classe VI” sono la stessa identica cosa, nel 1991, nel 1997 e nel 2003! E’ soltanto all’interno di tali aree che non può essere preteso il rispetto dei valori limite differenziali  di immissione!!)

 

-     Che la tabella 1, allegata al DPCM 1.03.1191, e la tabella A, di cui al DPCM 14.11.1997 sono identiche, così come lo sono le definizioni di  aree prevalentemente  industriali[15](classe V) e di aree esclusivamente  industriali[16] (classe VI) in esse contenute.

 

-     Come sia innegabile che il rinvio effettuato dall’art. 8, primo  comma, del D.P.C.M. 14 novembre 1997,  riguardi solamente  al comma 1  dell’art. 6 del D.P.C.M. 1.03.1991 – e quindi ai soli valori limite assoluti di immissione –. D’altronde sarebbe stato assolutamente inutile richiamare il secondo comma dello stesso articolo, in quanto, nella fase transitoria[17], sono solo e soltanto i valori limite assoluti di immissione  (di cui all’art. 3 del D.P.C.M. 14 novembre 1997, e quelli di emissione e gli altri di qualità) a non poter trovare una concreta applicazione, essendo – questi e non i differenziali !! – riferiti ognuno a precise classi di destinazione d’uso  del territorio.  Il “legislatore del ‘97” non aveva proprio alcun bisogno di fare un rinvio anche al comma 2 dell’art. 6 del decreto del ’91, dato che non  è ammissibile confondere dei valori limite assoluti di immissione con dei valori limite differenziali di immissione. Nel citato art. 8.1 non v’è scritto che (in attesa che i comuni provvedano agli adempimenti…) si applicano “solo e soltanto” i limiti di cui all’art. 6.1 del decreto del ’91 (limiti assoluti); così che l’unico significato attribuibile a tale rinvio è il seguente: «in attesa delle zonizzazioni dei territori comunali, si applicano i limiti (assoluti) dell’art. 6.1 del decreto del ’91 al posto dei limiti (assoluti) di cui all’art. 3 del D.P.C.M. 14 novembre 1997[18]», senza bisogno di alcun rinvio al secondo comma dell’art. 6 DPCM 1.03.1991 in quanto i valori limite differenziali  di immissione di cui all’art. 4 del D.P.C.M. 14 novembre 1997 sono del tutto operativi, perchè indipendenti dall’esistenza o meno di una classificazione acustica  del territorio e quindi direttamente applicabili senza bisogno di alcun rinvio  a norme precedenti[19].

 

-     Che, già nel 1991 (così come nel 1997 ed anche oggi), era prevista la doverosa verifica del livello differenziale di rumore in tutte le zone diverse da quelle “esclusivamente industriali” (quindi anche nelle aree prevalentemente industriali), scartandone l’applicabilità solamente  in queste ultime; ciò,  nonostante fosse evidente l’impossibilità di avere (nel marzo del 1991) a disposizione una zonizzazione acustica  del territorio; anzi prevedendone esplicitamente l’applicazione “in attesa della suddivisione del territorio”. Quindi, se era possibile – per non dire facile – individuare, nel 1991, quali fossero le “zone esclusivamente industriali” (in cui non poter verificare il rispetto del criterio differenziale)  “senza alcuna zonizzazione”, appare difficilmente sostenibile che non lo sia più possibile oggi! Risultando irragionevole negare l’odierna fattibilità di ciò che già poteva esser fatto (e veniva fatto!!) nel 1991.

 

-     Come risulti evidente che sia la stessa norma a pretendere l’individuazione – anche senza zonizzazione!! – delle zone esclusivamente industriali; stabilendo, al precitato art. 6.1 del DPCM 1.03.1991 (riguardo ai limiti assoluti), che: «…in attesa della suddivisione del territorio comunale nelle zonesi dovessero applicare i due specifici limiti (70 dBA di giorno e 70 dBA di notte) valevoli proprio per le “zone esclusivamente industriali” !!». Dimostrando in tal modo – la stessa norma !! –  come fosse del tutto inutile la zonizzazione acustica, per individuare tale classi di territorio. Diversamente, non avrebbe avuto alcun senso fissare ed imporre “fin da subito” il rispetto di limiti  “specifici” (per tali aree), prevedendone, addirittura, l’applicazione in attesa (e quindi prima) della suddivisione in zone del territorio. Tali aree potevano e possono essere agevolmente individuate, anche grazie allo strumento urbanistico[20], ma soprattutto per il tramite di una puntuale verifica dell’assenza, in esse, quantomeno di civili abitazioni; questo sia nel 1991 come pure nel 2003!!

 

-     Come lo stesso Ministero dell’Ambiente, con proprie comunicazioni[21], avesse esplicitamente confermato che i valori limite differenziali di immissione sono applicabili   “a prescindere”  dall’esistenza – nel comune – della classificazione acustica del territorio (zonizzazione); sia perché le misurazioni (per tale tipo di verifica) devono essere effettuate all’interno degli ambienti abitativi, sia perché la vigente normativa non prevede valori limite differenziali di immissionedifferenti” e dipendenti dalle diverse classi d’uso del territorio comunale (cosa che invece è prevista per i valori limite assoluti di immissione).

 

-     Come anche l’ Assoacustici – Associazione nazionale di Specialisti di acustica www.assoacustici.it , nei propri documenti n. 1/98 [22] e n° 3/99 [23], avesse confermato pienamente l’ applicabilità  dei valori limite differenziali di immissione anche nei comuni non dotati del piano di classificazione acustica del territorio!!!

 

Ottenendo – alla fine – un vero e proprio elenco di argomentazioni, finalizzate a dimostrare come i valori limite differenziali di immissione di rumore siano applicabili anche in assenza di zonizzazione acustica del territorio comunale. Elenco, però, tanto lungo quanto (evidentemente) non ancora sufficiente ad incidere, in maniera significativa, su certe posizioni saldamente assunte e mantenute in merito a tale argomento. Neppure i contenuti della Sentenza T.A.R. Umbria, 23 aprile 2001, n. 236in cui il Giudice umbro giungeva a conclusioni più che ragionevoli[24] – hanno sortito qualche benefico effetto. Quindi, essendo stato sopraffatto anche il buon senso, non è rimasto altro da fare che “tornare alla carica…”; confidando nella forza dirompente della goccia che, cadendo reiteratamente nello stesso punto, ha la capacità di scavare anche “la roccia”.

 

 

3 – Un accenno alla precedente decisione istruttoria del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 6274 del 12 novembre 2002. ^

 

            Prima di quanto statuito con la sentenza che ci apprestiamo a commentare, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato – con la decisione istruttoria  adottata nella camera di consiglio del 9 luglio 2002,  conosciuta come la n° 6274 del 12 novembre 2002  (e riportata, nella sua parte essenziale, in calce al presente lavoro) – aveva già avuto modo di sostenere:

 

1°) che il sistema previsto dall’art. 6 della legge 447/1995 presuppone il preventivo frazionamento acustico del territorio comunale, precisando come sia onere del Comune predisporre i c.d. piani di zonizzazione, con un preciso contenuto tecnico stabilito dalla citata normativa e con una particolare attenzione a quelle specifiche situazioni di fatto che – come nel caso di specie  – meritano (principalmente a cagione della loro vetustà e delle possibili conseguenze dannose alla salute) di essere valutate e disciplinate in maniera non illogica.

 

2°) che tale comune non ha adottato alcun piano di zonizzazione acustica, qualificandolo (il Consiglio di Stato) come strumento necessario ad individuare sia quelle aree sulle quali possono essere consentiti più elevati strumenti di rumorosità ovvero gli spazi necessari a garantire un adeguato abbattimento del rumore stesso, in relazione alle sorgenti sonore presenti ed ai livelli di rumorosità da esse prodotte, sia le eventuali “fasce- cuscinetto” tra zone diversamente classificate.

 

3°) che proprio l’art. 4 della legge n.447/1995 prevede esplicitamente che le regioni – nel fissare con legge i criteri di classificazione da rispettarsi da parte dei comuni – devono stabilire “il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente, misurato secondo i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 1° marzo 1991”, stabilendo altresì, che “qualora nell’individuazione delle aree, nelle zone già urbanizzate, non sia possibile rispettare tale vincolo a causa di preesistenti destinazioni d’uso, si prevede l’adozione dei piani di risanamento di cui all’art. 7”; piani che, peraltro, debbono essere approvati dal consiglio comunale.

 

4°) che, nella specie, per …verificare effettivamente quali possano essere gli effettivi limiti di rumorosità che dovranno essere rispettati dagli operatori, appare necessario la preventiva predisposizione della zonizzazione acustica, allo stato mancante.

 

Tutte asserzioni su cui non staremo a soffermarci, in quanto già divenute oggetto di specifici commenti[25] nel nostro precedente lavoro, richiamato alla nota 3.

 

 

4 – La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV,18 febbraio 2003 n.880. ^

 

            Oggi si tratta di commentare un’altra sentenza; quella con cui lo stesso Giudice di Secondo Grado si è definitivamente pronunciato sull’appello esperito con ricorso n° 2662/2002, annullando la sentenza del T.A.R. per la Toscana n. 2187, del  21 dicembre 2001. Sentenza che aveva respinto il gravame mosso contro il provvedimento di un comune toscano, con cui era stato ordinato a due società, situate in zona industriale, di presentare un piano di bonifica acustica, per ricondurre la rumorosità prodotta dai propri impianti entro i valori limite differenziali  di immissione di 3 dB(A), per la notte, e di 5 dB(A), per il periodo diurno; valori risultati ampiamente superati da accertamenti condotti – dall’organo di controllo – presso civili abitazioni dislocate nella adiacente zona agricola di altro comune. Ci riferiamo alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 18 febbraio 2003 n.880 (di cui riportiamo un estratto in calce al presente lavoro).

 

Con tale decisione – in maniera diretta o indiretta, implicita o esplicita, intenzionale oppure fortuita – il Consiglio di Stato:

 

 1°)       ha accolto le ragioni avanzate dalle società appellanti; avallando i concetti – da queste sostenuti – che (con perplessità e preoccupazione) vengono, di seguito, riassunti per sommi capi:

 

                                 I.      il criterio del “valore limite differenziale”, non è applicabile fino al momento in cui non si sia proceduto, da parte dei Comuni, alla c.d. “zonizzazione” del territorio comunale.

 

                                 II.      Le misurazioni di rumorosità non dovevano essere condotte presso un’abitazione privata posta fuori della zona industriale, bensì, partendo dal presupposto che si debba fare riferimento alla zona in cui si trova la sorgente sonora e non a quella vicina dove il rumore si propaga, il rumore doveva essere rilevato nel luogo in cui risultava emesso (quindi presso gli stabilimenti ubicati in zona industriale).

 

2°)       ha negato le contrapposte tesi  del controinteressato (abitante della civile abitazione in cui sono state effettuate le misurazioni); il quale aveva inutilmente eccepito che:

 

a) ai sensi del combinato disposto dell’art. 6 del D.P.C.M. del 1991 e dell’art.4 del D.P.C.M., il criterio del limite differenziale deve considerarsi applicabile anche in assenza della zonizzazione acustica del territorio comunale;

 

b) il rumore (e, quindi, il limite differenziale) è stato correttamente misurato nella zona in cui esso è udibile e, quindi, presso la propria abitazione; non certo nella zona in cui si trova lo stabilimento da cui si propaga;

 

 

3°)        ha dato risalto  ad elementi  che, fatalmente, determinano un crescendo di dubbi e titubanze:

 

-     il riferirsi all’attività industriale appellante in termini di realtà localizzata da oltre venti anni in quel comune, come se ciò non valesse anche per il cittadino lamentante, qualificato meramente come odierno resistente;

 

-     il riconoscere che le contestazioni rivolte agli impianti delle società appellanti riguardano il superamento dei valori limite differenziali [26]  e non  dei valori limite assoluti  di immissione;     affermando però, subito dopo, che il sistema previsto dall’art. 6 della legge n. 447/1995 presuppone il preventivo azzonamento acustico del territorio comunale[27]; · asserzione che, viceversa, avrebbe un senso ed una logica solo se l’argomento trattato vertesse in tema di valori limite assoluti  di immissione e non certo su valori limite differenziali  di immissione ;

 

-    l’evidenziare che l’art. 4 della legge n.447/1995 preveda esplicitamente che le regioni  debbano stabilire il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente misurato secondo i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 1° marzo 1991, prevedendo l’adozione dei piani di risanamento nel caso in cui nell’individuazione delle aree acustiche in zone già urbanizzate (con preesistenti destinazioni d’uso) non sia possibile rispettare il predetto vincolo; · trascurando però che tutto ciò non ha niente a che vedere con i valori limite differenziali  di immissione, ma solo e soltanto con i valori limite assoluti  di immissione, quelli di qualità, ecc.

 

-    l’aver, prima, escluso che  l’impianto – oggetto del provvedimento comunale – fosse a “ciclo continuo”, sottolineando l’insussistenza del requisito (sostanziale) di cui alla lettera  a) del primo comma art. 2 del DM 11.12.1996 [28] (atteso che, nella specie – come correttamente rilevato, dal Consiglio di Stato, sulla base di quanto risultato dagli accertamenti tecnici compiuti dalla A.S.L. e dalla A.R.P.A.T. –, “l’unico impianto funzionante realmente di continuo è la centrale termica, oltre che, in particolari periodi dell’anno, la centrale frigorifera”), per poi, viceversa, giungere a considerarlo tale (quindi  a ciclo produttivo continuo), in forza dell’altro  parametro (del tutto formale ed astratto) previsto alla lettera  b) del primo comma dello stesso art. 2 anzidetto – la cui sussistenza, oltretutto, risulta essere stata dimostrata producendo un limitatissimo estratto dell’articolato del contratto collettivo nazionale di categoria –,  e quindi  non  soggetto all’applicazione del limite differenziale (dato il palesato rispetto dei valori limite assoluti  di immissione).

 

 

5 – Commenti. ^

 

            Il Consiglio di Stato, così facendo, ha iscritto una forte ed ingiustificata ipoteca sulle chances operative poste – dal legislatore – a disposizione dell’organo di controllo competente in materia di inquinamento acustico; dando vita ad una strana miscellanea di indicazioni che, promiscuamente, sono state riferite – in dei momenti – ai valori limite di immissione differenziali  e – in altre occasioni – ai valori limite di immissione assoluti; come se si trattasse di parametri analoghi  o concettualmente sovrapponibili. 

 

            La classificazione in zone acustiche, prevista dall’art. 6 della legge 447/95, è stata presentata – nella sentenza – come strumento essenziale alla salvaguardia ed alla tutela del cittadino (nei riguardi delle problematiche scaturenti dall’inquinamento acustico), ma, nel contempo, è stata paradossalmente “messa di traverso”, come vero e proprio ostacolo, a totale ostruzione dell’altra strada – parallela – di tutela, altrettanto valida e percorribile: quella fondata sulla verifica del rispetto dei valori limite di immissione differenziali di rumore. Quindi, il rivolgersi del Giudice – in maniera pressoché esclusiva – alla prima via di tutela del cittadino, ha paradossalmente impedito di ottenerne la protezione per il tramite della seconda; scartata, in pratica, per questioni erronee o poco più che formali.

 

            Con ciò non si ha la minima intenzione di deprezzare il ruolo della classificazione acustica  del territorio comunale, in quanto è certamente un mezzo insostituibile per giungere a determinati scopi di tutela. Anzi, sembra addirittura giusto e necessario ribadirne l’indiscussa importanza (riguardo ai valori limite di immissione assoluti); così come, però, appare altrettanto legittimo e corretto sottolineare l’assoluta indipendenza ed autonomia dei valori limite differenziali  di immissione rispetto a tale strumento di pianificazione acustica.

 

Su tale evidenza non ci sarebbe bisogno di aggiungere alcunché a quanto già detto; ma avendo la consapevolezza che “la prudenza non è mai troppa”, riteniamo preferibile fornire ulteriori elementi a sostegno della nostra tesi, quali:

 

 

 

Per quanto concerne gli altri aspetti della questione in esame, dovrebbero essere sufficienti ancora poche righe per finire di dirimere ogni dubbio; quantomeno per evitare di ripetere concetti già esposti:

 

-     In merito al fatto che le misurazioni siano state “correttamente” condotte presso l’abitazione del lamentante, appare sufficiente richiamare la previsione di cui alla lettera f), del comma 1, dell’art. 2, della legge 447/95[29] ed anche le indicazioni fornite con il punto 5) dell’allegato B al DM 16 marzo 1998[30].

 

-    Circa il fatto che si tratti di un contenzioso  “risalente nel tempo”, basti pensare che, già nel 1987, si era incardinato un contenzioso civile fra le società appellanti ed  il controinteressato (abitante della civile abitazione esposta al rumore).

 

-    A proposito del “divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente” – contenuto nell’art. 4 della legge n. 447/1995 – è verificabile da chiunque come tutto ciò, per quanto vero, non riguardi affatto l’applicazione dei valori limite differenziali  di immissione [31]; i quali, viceversa, si misurano all’interno delle abitazioni e non  assumono valori diversi a seconda della classe di territorio  in cui si è situati (salva l’inapplicabilità delle zone esclusivamente industriali).

 

-     Infine, l’aver considerato gli impianti delle società appellanti come “a ciclo produttivo  continuo”, nonostante  il palese riconoscimento – da parte dello stesso Giudice – che “l’unico impianto funzionante realmente di continuo è la centrale termica, oltre che – in particolari periodi dell’anno – la centrale frigorifera (tanto che la turnazione sulle 24 ore giornaliere risulta indicata, dalle controparti, come una mera scelta aziendale di natura economica), non fa altro che dimostrare – se non altro – come la forma, a volte, possa riuscire a “soffocare” la sostanza.

 

Non potendosi, però, nascondere dietro ad un dito, è giusto evidenziare che la concreta realtà dei fatti dimostra – al di là di quanto finora detto – come la soccombenza, nel giudizio in esame, abbia messo a tacere le pretese dei resistenti, marchiando, oltretutto, come “inutile” il richiamo (da questi ultimi fatto) a numerose sentenze di tribunali amministrativi regionali[32] del tutto attinenti al caso di specie. Tutto è stato travolto…… ad esclusione del fatto che le ragioni di quanto verificatosi continuano a non esserci affatto chiare! Questo persiste saldamente.

 

 

6 – Conclusioni. ^

 

            La questione si conclude da sola – senza eccedere in altri commenti inutili o ridondanti –, lasciando l’amaro in bocca e, soprattutto – che è peggio !! –, il frastuono nelle orecchie dei cittadini; i quali ambivano semplicemente ad una migliore qualità della vita; che poteva essere perseguita in forza di uno strumento normativo ampiamente utilizzato, fin dal marzo 1991, anche in assenza di zonizzazione acustica. Strumento che oggi, viceversa, “sembra” (???) esser divenuto non più utilizzabile. 

 

            I cittadini pretendevano forse troppo ….. oppure sarà necessario un serio ripensamento su quanto accaduto?

 

 (**)     Dottore in giurisprudenza
     Consulente legale ambientale
               membro A.N.E.A.  n° 335
                silvanodiros@email.it   –  silvanodiros@yahoo.it

 

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  Testo sentenze per esteso  ^

Testo della decisione istruttoria del 

Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6274 del 12 novembre 2002
 

omissis…

FATTO

Con sentenza n.2187 del 21 dicembre 2001 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sez. II°, respingeva il ricorso proposto dalle società Syrom 90 S.p.A. e Polymat avverso l’ordinanza n. 14/4 del 3 febbraio 2000, con la quale il responsabile del 4° servizio del Comune di Vinci aveva ingiunto alle citate società –ai sensi dell’art. 217 del Testo Unico delle leggi sanitarie-di presentare un piano di bonifica acustica dei loro impianti siti nel predetto territorio, in grado di riportare la rumorosità complessiva degli stessi entro i limiti di 3 dB in orario notturno ed entro i 5 dB in orario diurno.

Appellano la predetta decisione le soccombenti società, deducendo i seguenti motivi di gravame:

1) “Falsa applicazione dell’art.2, comma 3, lett. b), della legge 26 ottobre 1995, n.447, in relazione al D.P.C.M. dell’1 marzo 1991 e all’art. 8 del D.M. 14 novembre 1997.

Falsa applicazione dell’art.2, comma 6, del D.P.C.M.1 marzo 1991: violazione di legge”.

Contrariamente a quanto ritenuto dal T.A.R., il criterio del “ valore limite differenziale”, di cui all’art.6, secondo comma, del D.P.C.M. 1 marzo 1991, adottato dall’ARPAT nei rilevamenti effettuati nel caso di specie e riportato nell’impugnata ordinanza, non sarebbe applicabile fino al momento in cui non si sia proceduto, da parte dei Comuni, alla c.d. “zonizzazione” del territorio comunale.

Inoltre, sarebbe, altresì, errata la contrapposizione effettuata dai primi giudici tra “sorgenti sonore fisse” e “sorgenti sonore mobili” e, comunque, per interpretare correttamente la citata disposizione, si dovrebbe fare riferimento alla zona in cui si trova la sorgente sonora e non a quella vicina dove il rumore si propaga.

Infine, nella specie, poiché la zona dove sono ubicati gli stabilimenti in questione è  industriale, quella dove sorge l’abitazione del sig. Pluchino avrebbe dovuto essere lasciata a spazio libero ovvero a sufficiente distanza dalla prima. Pertanto, la situazione creatasi sarebbe dipesa da una errata pianificazione urbanistica dei due comuni confinanti (Vinci e Cerreto Guidi), che non si sarebbero correttamente coordinati tra di loro.

2) “ Falsa applicazione degli artt. 1 e 2  del D.M. 11 dicembre 1996 in relazione all’art. 3 dello stesso D.M.: Violazione di legge”.

Contrariamente a quanto sostenuto dal TAR nella gravata decisione, l’impianto in questione sarebbe da considerarsi “a ciclo continuo produttivo”, secondo la definizione indicata nell’art. 2 del D.M. 11 dicembre 1966, in quanto esso presenterebbe “ caratteristiche tali da consentirne la fermata produttiva nel fine settimana, ma non quella giornaliera di otto ore”.

Inoltre, le appellanti contestano anche l’interpretazione effettuata dai primi giudici con riferimento alle condizioni di sussistenza affinchè un impianto industriale possa essere definito a ciclo continuo, sostenendo che le condizioni all’uopo previste dal citato art.2 del D.M. del 1966 e, cioè, l’attività ininterrotta, pena la conseguenza di danni gravi all’impianto, e l’applicazione di contratti collettivi di lavoro “sulle ventiquattro ore per cicli settimanali”, andrebbero considerate come “ condizioni alternative e non aggiuntive “, con la conseguenza che il ricorrere di una sola di esse sarebbe sufficiente a qualificare l’impianto “ a ciclo produttivo continuo”. E poiché, nella specie, l’impianto de quo sarebbe regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro “ sulle ventiquattro ore per cicli settimanali”, sarebbe pienamente dimostrato che l’impianto stesso rientrerebbe nella menzionata definizione del citato art. 2.

3) “Eccesso di potere per sviamento di potere”.

Viene reiterato il motivo di gravame articolato nel ricorso introduttivo con riferimento a quella parte dell’ordinanza impugnata in cui si afferma che” la rumorosità dell’impianto in questione risulta da anni di estrema gravità per l’igiene pubblica”. Il richiamo all’igiene pubblica sarebbe falso e tendenzioso, atteso che la zona limitrofa in cui è situata l’abitazione del sig. Pluchino sarebbe agricola e, quindi, non destinata alla residenza, per cui alcuna incidenza della contestata immissione si verificherebbe sulla “igiene pubblica”.

Lo sviamento risulterebbe direttamente dall’atto impugnato, in quanto lo scopo reale della Pubblica Amministrazione sarebbe stato quello di favorire il sig. Pluchino ed i suoi congiunti, unica “ popolazione vicina” di cui si parla nell’ordinanza.

Resisteva al ricorso il controinteressato, il quale - premesso di essere un coltivatore diretto residente, dal 1967, in una casa colonica nel comune di Cerreto Guidi al confine con il comune di Vinci - contestava analiticamente le censure e le affermazioni delle ricorrenti società, sostenendo, in particolare che:

a)        ai sensi del combinato disposto dell’art. 6 del D.P.C.M. del 1991 e 4 del D.P.C.M., il criterio del limite differenziale si applicherebbe anche in assenza di zonizzazione del territorio da un punto di vista acustico;

b)       il rumore (e, quindi, il limite differenziale) andrebbe misurato nella zona in cui esso è udibile e, quindi, dalla sua abitazione e non dalla zona in cui si trova lo stabilimento;

c)        le aziende appellanti non potrebbero considerarsi a ciclo produttivo continuo, ai fini dell’esclusione del criterio differenziale, come chiarito dall’ARPAT, e la relazione prodotta dalle interessate – in quanto documento di parte (peraltro presentata solo in secondo grado)- non sarebbe, ex se, probante del contrario.

d)       l’inquinamento acustico, nonostante le sentenze favorevoli conseguite dall’interessato in sede civile, persisteva, con grave danno alla salute.

Si costituiva anche il comune di Vinci, che insisteva per la legittimità della contestata ordinanza, adottata su precisi presupposti di fatto e pareri tecnici (A.S.L. ed A.R.P.A.T.) e concludeva per la reiezione dell’appello.

All’odierna camera di consiglio l’appello è passato in decisione.

DIRITTO

1) Come diffusamente evidenziato in narrativa, la controversia all’esame del Collegio s’incentra sulla legittimità di una attività industriale di produzione di nastro adesivo, localizzata da oltre venti anni nel comune di Vinci, sotto il profilo del suo possibile inquinamento acustico per eccedenza di immissioni sonore provenienti dallo stabilimento e ritenute dannose per la salute dell’odierno resistente, abitante con la famiglia in una casa colonica posta oltre il confine comunale e precisamente nel territorio di un altro comune, quello di Cerreto Guidi.

In particolare, le contestazioni rivolte agli impianti delle società originarie ricorrenti e odierne appellanti con il provvedimento di “bonifica acustica” impugnato in primo grado riguardano il superamento dei valori limite differenziali- normativamente disciplinati dalla legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n.447 e dai D.P.C.M 1 marzo 1991 (art.6) e 14 novembre 1997 (art. 4), che hanno introdotto i “valori limite differenziali di immissione”- e non anche il superamento dei valori assoluti.

Al riguardo, giova preliminarmente evidenziare in termini generali che il sistema previsto dall’art. 6 della richiamata legge presuppone il preventivo azzonamento acustico del territorio comunale ed è onere del Comune predisporre i c.d. piani di zonizzazione, con un preciso contenuto tecnico stabilito dalla citata normativa e con una particolare attenzione a quelle specifiche situazioni di fatto che- come nel caso di specie- meritano, principalmente a cagione della loro vetustà e delle possibili conseguenze dannose alla salute, di essere valutate e disciplinate in maniera non illogica.

Orbene, nella situazione in cui il comune di Vinci ha operato, non è stato ancora adottato alcun piano di zonizzazione acustica, strumento necessario ad individuare sia quelle aree sulle quali possono essere consentiti più elevati strumenti di rumorosità ovvero gli spazi necessari a garantire un adeguato abbattimento del rumore stesso, in relazione alle sorgenti sonore presenti ed ai livelli di rumorosità da esse prodotte, sia le eventuali “fasce- cuscinetto” tra zone diversamente classificate.

D’altra parte, proprio l’art. 4 della menzionata legge n.447/1995 prevede esplicitamente che le regioni – nel fissare con legge i criteri di classificazione da rispettarsi da parte dei comuni- devono stabilire “ il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente misurato secondo i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 1° marzo 1991”, stabilendo altresì, che “qualora nell’individuazione delle aree nelle zone già urbanizzate non sia possibile rispettare tale vincolo a causa di preesistenti destinazioni d’uso, si prevede l’adozione dei piani di risanamento di cui all’art. 7”, piani che, peraltro, debbono essere approvati dal consiglio comunale.

Pertanto, nella specie, per verificare effettivamente quali possano essere gli effettivi limiti di rumorosità che dovranno essere rispettati dagli operatori, appare necessario la preventiva predisposizione della zonizzazione acustica, allo stato mancante.

2)  Quanto sopra premesso, di deve ora procedere all’esatta interpretazione dell’art. 2 del richiamato D.M. 11 dicembre 1996, che contiene la definizione di “impianto a ciclo produttivo continuo”, caratteristica che le odierne appellanti assumono essere posseduta dall’impianto de quo, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza impugnata.

Stabilisce la citata disposizione: “si intende per impianto a ciclo produttivo continuo:a) quello in cui non è possibile interrompere l’attività senza provocare danni all’impianto stesso, pericolo di incidenti o alterazioni del prodotto o per necessità di continuità finalizzata a garantire l’erogazione di un servizio pubblico essenziale;

b) quello il cui esercizio è regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro o da norme di legge, sulle ventiquattro ore per cicli settimanali, fatte salve le esigenze di manutenzione”.

Sul punto, affermano i primi giudici che, ai fini della corretta definizione di uno stabilimento industriale come “impianto a ciclo continuo”, le condizioni previste dal citato art. 2 del D.M.del 1996 debbano sussistere entrambe. Sostengono, invece, le società ricorrenti che i menzionati presupposti sono tra loro alternativi, nel senso che  basterebbe la sussistenza di uno di essi per identificare l’impianto nella categoria in questione.

La tesi dell’alternatività dei citati presupposti merita di essere condivisa.

Induce a tale conclusione l’interpretazione logico-letterale della disposizione in esame.

Invero, appare agevole ritenere che alla lett. a) del menzionato art. 2 sono state considerate alcune situazioni tecniche (interruzione d’attività provocante danni all’impianto, mancata continuità d’esercizio finalizzata all’erogazione di un servizio pubblico essenziale, ecc.), la cui possibile evenienza vale a qualificare indirettamente l’impianto di riferimento quale “impianto a ciclo produttivo continuo”; mentre, con la lett. b) dello stesso articolo, si è inteso completare la fattispecie, stabilendo che in tutte le ipotesi in cui si applica all’esercizio il contratto collettivo nazionale di lavoro “ sulle ventiquattro ore per cicli settimanali”, per ciò stesso, in maniera diretta ed automatica, l’impianto sia da ritenere a ciclo produttivo continuo.

3) Stabilita l’alternatività (e non la sussistenza cumulativa) dei menzionati presupposti, bisogna, ora, esaminare se i medesimi siano posseduti dallo stabilimento colpito dall’ordinanza contestata.

In ordine al requisito sub a), esso- a parere del Collegio- deve essere escluso, atteso che- come correttamente rilevato dal T.A.R. sulla base di quanto risultato dagli accertamenti tecnici compiuti dalla A.S.L. e dalla A.R.P.A.T.- nella specie, “l’unico impianto funzionante realmente di continuo è la centrale termica, oltre che- in particolari periodi dell’anno- la centrale frigorifera”.

 Ne consegue che lo stabilimento in questione non può essere ricondotto, sotto l’esaminato profilo, alla menzionata tipologia dell’impianto a ciclo continuo, con particolare riferimento alla “impossibilità di interrompere l’attività produttiva senza provocare danni all’impianto stesso”.

4) Per quanto concerne, invece, il secondo dei predetti requisiti, relativo alla vigenza, nel caso di specie, di un contratto collettivo nazionale di lavoro, contenente disposizioni relative ai lavoratori impiegati con il sistema delle “ventiquattro ore per cicli settimanali”, esso, allo stato degli atti, non risulta provato, di tal che, ai fini del decidere, sul punto occorre disporre specifica istruttoria per accertare preliminarmente la sussistenza o meno della suddetta circostanza di fatto.

A tal uopo, il Collegio ritiene necessario richiedere alle società ricorrenti copia conforme del richiamato contratto collettivo di lavoro.

Il su indicato documento dovrà essere depositato nella Segreteria della Sezione entro il termine in dispositivo fissato.

Nel frattempo,va sospesa ogni ulteriore determinazione in rito,nel merito e sulle spese.

P. Q. M:

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale(Sezione Quarta), impregiudicata ogni altra questione,come da motivazione,richiede alle società appellanti di depositare nella Segreteria della Sezione il menzionato  documento entro il termine di 30 (trenta) giorni dalla comunicazione in forma amministrativa della presente decisione o dalla sua notificazione a cura della parte più diligente.

Ordina che la su estesa decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Rinvia la causa all’udienza del 10 dicembre 2002;

Così deciso in Roma, dalla Sezione IV del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 9 luglio 2002omissis

 

_________________________________________________

 ^

Testo della sentenza del

Consiglio di Stato, Sez. IV,18 febbraio 2003 n. 880

omissis…

FATTO

Con sentenza n. 2187 del 21 dicembre 2001 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sez. II°, respingeva il ricorso proposto dalle società Syrom 90 S.p.A. e Polymat avverso l’ordinanza n. 14/4 del 3 febbraio 2000, con la quale il responsabile del 4° servizio del Comune di Vinci aveva ingiunto alle citate società – ai sensi dell’art. 217 del Testo Unico delle leggi sanitarie - di presentare un piano di bonifica acustica dei loro impianti siti nel predetto territorio, in grado di riportare la rumorosità complessiva degli stessi entro i limiti di 3 dB in orario notturno ed entro i 5 dB in orario diurno.

Appellano la predetta decisione le soccombenti società, deducendo i seguenti motivi di gravame:

1) “Falsa applicazione dell’art.2, comma 3, lett. b), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, in relazione al D.P.C.M. dell’1 marzo 1991 e all’art. 8 del D.M. 14 novembre 1997.

Falsa applicazione dell’art.2, comma 6, del D.P.C.M. 1 marzo 1991: violazione di legge”.

Contrariamente a quanto ritenuto dal T.A.R., il criterio del “valore limite differenziale”, di cui all’art.6, secondo comma, del D.P.C.M. 1 marzo 1991, adottato dall’ARPAT nei rilevamenti effettuati nel caso di specie e riportato nell’impugnata ordinanza, non sarebbe applicabile fino al momento in cui non si sia proceduto, da parte dei Comuni, alla c.d. “zonizzazione” del territorio comunale.

Inoltre, sarebbe, altresì, errata la contrapposizione effettuata dai primi giudici tra “sorgenti sonore fisse” e “sorgenti sonore mobili” e, comunque, per interpretare correttamente la citata disposizione, si dovrebbe fare riferimento alla zona in cui si trova la sorgente sonora e non a quella vicina dove il rumore si propaga.

Infine, nella specie, poiché la zona dove sono ubicati gli stabilimenti in questione è industriale, quella dove sorge l’abitazione del sig. Pluchino avrebbe dovuto essere lasciata a spazio libero ovvero a sufficiente distanza dalla prima. Pertanto, la situazione creatasi sarebbe dipesa da una errata pianificazione urbanistica dei due comuni confinanti (Vinci e Cerreto Guidi), che non si sarebbero correttamente coordinati tra di loro.

2) “Falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del D.M. 11 dicembre 1996 in relazione all’art. 3 dello stesso D.M.: Violazione di legge”.

Contrariamente a quanto sostenuto dal TAR nella gravata decisione, l’inpianto in questione sarebbe da considerarsi “a ciclo continuo produttivo”, secondo la definizione indicata nell’art. 2 del D.M. 11 dicembre 1966, in quanto esso presenterebbe “ caratteristiche tali da consentirne la fermata produttiva nel fine settimana, ma non quella giornaliera di otto ore”.

Inoltre, le appellanti contestano anche l’interpretazione effettuata dai primi giudici con riferimento alle condizioni di sussistenza affinchè un impianto industriale possa essere definito a ciclo continuo, sostenendo che le condizioni all’uopo previste dal citato art.2 del D.M. del 1966 e, cioè, l’attività ininterrotta, pena la conseguenza di danni gravi all’impianto, e l’applicazione di contratti collettivi di lavoro “sulle ventiquattro ore per cicli settimanali”, andrebbero considerate come “ condizioni alternative e non aggiuntive “, con la conseguenza che il ricorrere di una sola di esse sarebbe sufficiente a qualificare l’impianto “ a ciclo produttivo continuo”. E poiché, nella specie, l’impianto de quo sarebbe regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro “ sulle ventiquattro ore per cicli settimanali”, sarebbe pienamente dimostrato che l’impianto stesso rientrerebbe nella menzionata definizione del citato art.2.

3) “Eccesso di potere per sviamento di potere”.

Viene reiterato il motivo di gravame articolato nel ricorso introduttivo con riferimento a quella parte dell’ordinanza impugnata in cui si afferma che” la rumorosità dell’impianto in questione risulta da anni di estrema gravità per l’igiene pubblica”. Il richiamo all’igiene pubblica sarebbe falso e tendenzioso, atteso che la zona limitrofa in cui è situata l’abitazione del sig. Pluchino sarebbe agricola e, quindi, non destinata alla residenza, per cui alcuna incidenza della contestata immissione si verificherebbe sulla “igiene pubblica”.

Lo sviamento risulterebbe direttamente dall’atto impugnato, in quanto lo scopo reale della Pubblica Amministrazione sarebbe stato quello di favorire il sig. Pluchino ed i suoi congiunti, unica “ popolazione vicina” di cui si parla nell’ordinanza.

Resisteva al ricorso il controinteressato, il quale- premesso di essere un coltivatore diretto residente, dal 1967, in una casa colonica nel comune di Cerreto Guidi al confine con il comune di Vinci- contestava analiticamente le censure e le affermazioni delle ricorrenti società, sostenendo, in particolare che:

e)        ai sensi del combinato disposto dell’art. 6 del D.P.C.M. del 1991 e 4 del D.P.C.M. 14 novembre 1997, il criterio del limite differenziale si applicherebbe anche in assenza di zonizzazione del territorio da un punto di vista acustico;

f)        il rumore (e, quindi, il limite differenziale) andrebbe misurato nella zona in cui esso è udibile e, quindi, dalla sua abitazione e non dalla zona in cui si trova lo stabilimento;

c)      le aziende appellanti non potrebbero considerarsi a ciclo produttivo continuo, ai fini dell’esclusione del criterio differenziale, come chiarito dall’ARPAT, e la relazione prodotta dalle interessate – in quanto documento di parte (peraltro presentata solo in secondo grado)- non sarebbe, ex se, probante del contrario.

g)        l’inquinamento acustico, nonostante le sentenze favorevoli conseguite dall’interessato in sede civile, persisteva, con grave danno alla salute.

Si costituiva anche il comune di Vinci, che insisteva per la legittimità della contestata ordinanza, adottata su precisi presupposti di fatto e pareri tecnici (A.S.L. ed A.R.P.A.T.) e concludeva per la reiezione dell’appello.

In esecuzione dell’adempimento istruttorio disposto con la menzionata decisione n. 5274/2002, tutte le parti depositavano ulteriori memorie e note difensive, ribadendo le rispettive tesi difensive.

DIRITTO

1) Come diffusamente evidenziato in narrativa, la controversia all’esame del Collegio s’incentra sulla legittimità di una attività industriale di produzione di nastro adesivo, localizzata da oltre venti anni nel comune di Vinci, sotto il profilo del suo possibile inquinamento acustico per eccedenza di immissioni sonore provenienti dagli stabilimenti e ritenute dannose per la salute dell’odierno resistente, abitante con la famiglia in una casa colonica posta oltre il confine comunale e precisamente nel territorio di un altro comune, quello di Cerreto Guidi.

In particolare, le contestazioni rivolte agli impianti delle società originarie ricorrenti e odierne appellanti con il provvedimento di “bonifica acustica” impugnato in primo grado riguardano il superamento dei valori limite differenziali- normativamente disciplinati dalla legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n.447 e dai D.P.C.M 1 marzo 1991 (art.6) e 14 novembre 1997 (art. 4), che hanno introdotto i “valori limite differenziali di immissione”- e non anche il superamento dei valori assoluti.

Al riguardo, come affermato nella decisione di questa Sezione n.6274/2002, del 12 novembre 2002, il sistema previsto dall’art. 6 della richiamata legge n. 447/1995 presuppone il preventivo azzonamento acustico del territorio comunale ed è onere del Comune predisporre i c.d. piani di zonizzazione, con un preciso contenuto tecnico stabilito dalla citata normativa e con una particolare attenzione a quelle specifiche situazioni di fatto che- come nel caso di specie- meritano, principalmente a cagione della loro vetustà e delle possibili conseguenze dannose alla salute, di essere valutate e disciplinate in maniera non illogica.

Orbene, nella situazione in cui il comune di Vinci ha operato, non è stato ancora adottato alcun piano di zonizzazione acustica, strumento necessario ad individuare sia quelle aree sulle quali possono essere consentiti più elevati strumenti di rumorosità ovvero gli spazi necessari a garantire un adeguato abbattimento del rumore stesso, in relazione alle sorgenti sonore presenti ed ai livelli di rumorosità da esse prodotte, sia le eventuali “fasce-cuscinetto” tra zone diversamente classificate.

D’altra parte, proprio l’art. 4 della menzionata legge n.447/1995 prevede esplicitamente che le regioni – nel fissare con legge i criteri di classificazione da rispettarsi da parte dei comuni- devono stabilire “ il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente misurato secondo i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 1° marzo 1991”, stabilendo altresì, che “qualora nell’individuazione delle aree nelle zone già urbanizzate non sia possibile rispettare tale vincolo a causa di preesistenti destinazioni d’uso, si prevede l’adozione dei piani di risanamento di cui all’art. 7”, piani che, peraltro, debbono essere approvati dal consiglio comunale.

Pertanto, nella specie, per verificare effettivamente quali possano essere gli effettivi limiti di rumorosità che dovranno essere rispettati dagli operatori, appare necessario la preventiva predisposizione della zonizzazione acustica, allo stato mancante.

2)  Quanto sopra premesso e ribadito che la definitiva soluzione della questione di cui trattasi potrà raggiungersi soltanto all’esito dell’adozione del menzionato strumento di pianificazione territoriale, occorre, ora, stabilire se l’impianto in questione abbia o meno la caratteristica di “ impianto a ciclo produttivo continuo”, come affermato dalle odierne appellanti, contrariamente all’assunto contenuto nell’ordinanza impugnata-

Stabilisce l’art. 2 del richiamato D.M. 11 dicembre 1996 che: “si intende per impianto a ciclo produttivo continuo:a) quello in cui non è possibile interrompere l’attività senza provocare danni all’impianto stesso, pericolo di incidenti o alterazioni del prodotto o per necessità di continuità finalizzata a garantire l’erogazione di un servizio pubblico essenziale;

b) quello il cui esercizio è regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro o da norme di legge, sulle ventiquattro ore per cicli settimanali, fatte salve le esigenze di manutenzione”.

Bisogna, quindi esaminare se i menzionati presupposti - la cui sussistenza non è prevista in via cumulativa ma alternativa, nel senso che basterebbe la vigenza di uno soltanto di essi per identificare la categoria dell’impianto (cfr., al riguardo, la citata decisione di questa Sezione n.6274/2002) - siano o meno posseduti dagli stabilimenti colpiti dalla contestata ordinanza.

2.1) In ordine al possesso del requisito sub a), esso è stato già escluso da questa Sezione con la citata sentenza n.6274/2002, atteso che- come correttamente rilevato dal T.A.R. sulla base di quanto risultato dagli accertamenti tecnici compiuti dalla A.S.L. e dalla A.R.P.A.T. - nella specie, “l’unico impianto funzionante realmente di continuo è la centrale termica, oltre che - in particolari periodi dell’anno- la centrale frigorifera”.

Pertanto, lo stabilimento in questione non può essere ricondotto, sotto l’esaminato profilo alla menzionata tipologia dell’impianto a ciclo continuo, con particolare riferimento alla “impossibilità di interrompere l’attività produttiva senza provocare danni all’impianto stesso”.

2.2) Per quanto concerne, invece, il secondo dei predetti requisiti, relativo alla vigenza, nel caso di specie, di un contratto collettivo nazionale di lavoro, contenente disposizioni relative ai lavoratori impiegati con il sistema delle “ventiquattro ore per cicli settimanali”, esso - a parere del Collegio - può ritenersi provato a seguito della specifica istruttoria disposta per accertare la sussistenza o meno della suddetta circostanza di fatto.

Invero, dai documenti depositati, anche in udienza (C.C.N.L. relativo agli addetti dell’industria della gomma, cavi elettrici ed affini nonché industria delle materie plastiche; verbali di accordo tra la R.S.U. e l’Azienda ed accordo tra il Consiglio di fabbrica e l’Azienda), risulta chiaramente quanto segue:

a)        le previsioni del C.C.N.L. per i lavoratori dell’industria della gomma e della plastica- ancorchè non sembrino disciplinare in maniera automatica e diretta il lavoro sulle ventiquattro ore per cicli settimanali- consentono, tuttavia, di organizzare, negli stabilimenti de quibus, il lavoro a ciclo continuo, quale scelta di specie dell’imprenditore, da concordare con le rappresentanze sindacali;

b)       tale scelta industriale di ricorrere al “ciclo continuo”, specie nei reparti “recupero solventi” e “spalmatura” (maggiormente interessati dalla contestata ordinanza di bonifica acustica), risulta effettuata soventemente, attraverso specifici accordi sindacali tra Azienda e parti sociali;

c)        la mancanza di un tempestivo aggiornamento dei predetti accordi - il cui contenuto, peraltro, difficilmente potrebbe essere considerato obsoleto nel caso di specie - non induce a ritenere che il “minimum” di modalità di svolgimento del “ciclo continuo” nei citati reparti estrusione e spalmatura non sia in concreto sempre applicabile.

Pertanto, ritiene il Collegio che – contrariamente all’assunto delle odierne parti controinteressate - gli impianti delle società appellanti possono essere considerati a ciclo produttivo continuo. Ne consegue che, ancorchè privi del primo requisito contemplato nell’art. 2 del D.M. 11 dicembre 1996 (impossibilità di interruzione dell’attività produttiva senza provocare danni all’impianto), gli stabilimenti in questione posseggono, comunque, il secondo dei requisiti previsti dal citato art. 2 (applicazione nei loro confronti dei contratti collettivi di lavoro sulle ventiquattro ore per cicli settimanali) e ciò li esonera - allo stato - dal rispetto dei limiti di inquinamento acustico, fissati dalla vigente normativa per la generalità degli altri impianti industriali ed in particolare dal rispetto del criterio del “limite differenziale” fissato dai D.P.C.M. 1 marzo 1991 e 14 novembre 1997,

3) E’ evidente, poi, che, allorquando il Comune interessato avrà provveduto all’azzonamento acustico del territorio comunale, con l’adozione dell’apposito strumento necessario ad individuare le eventuali aree sulle quali garantire un adeguato abbattimento del rumore, la situazione de qua potrà essere valutata e disciplinata in maniera diversa.

4) Alla luce delle su esposte considerazioni, l’appello va accolto e, per l’effetto, va annullata l’impugnata sentenza.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, lo accoglie e,  per l’effetto, annulla l’impugnata sentenza .

Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma dalla Sezione IV del Consiglio di Stato, nella camera  di  consiglio  del 10 dicembre 2002,

 

_________________________________________________

[1]  secondo cui «ripetere più volte una cosa può, in alcuni casi, essere utile»

[2] Sede del Consiglio di Stato

[3] Cfr. Di Rosa Silvano,«Ancora enigmatica l’applicabilità del livello differenziale di rumore, nei comuni “non zonizzati” ?!» pubblicato in L’Amministrazione Italiana, 2003, fasc. 01, pag. 50-62 prima parte e fasc. 02, pag. 210-223 seconda parte; in RivistAmbiente, La Tribuna, Piacenza, 2003, fasc. 2, pag. 133 – 147; nel sito www.leggiweb.it (nella sezione articoli del «Menù principale»); nel sito www.ambientediritto.it   (nella sezione dottrina); nel sito www.altalex.it   (nella sezione articoli & riviste dal 12 febbraio 2003); nel sito www.notiziariogiuridico.it   (nella sezione novità dal 31 gennaio 2003).

[4] di cui agli artt. 2.2 e 6.2 del D.P.C.M. 1° marzo 1991, rubricato «Limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell'ambiente esterno»

[5] Al punto 13 dell’allegato A al D.M. 16 marzo 1998

[6] All’art. 4 del  D.P.C.M. 14 novembre 1997 ed all’art. 2.3, lettera b), della Legge 26.10.1995, n. 447

[7] 5 dB per il periodo diurno e 3 dB per il periodo notturno

[8] ambiente abitativo: ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l'immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive

[9] se ne sussistono i requisiti ex-art. 4.2, lettere a  e b del DPCM 14.11.1997

[10] Riferendosi ai valori limite differenziali  di immissione

[11] stante la propria estraneità e/o indifferenza nei riguardi della classificazione in zone  del territorio comunale

[12] sempre per le ragioni anzidette: misura da svolgersi all’interno di ambienti abitativi che, in quanto tali, non possono esistere in un’area qualificabile come “esclusivamente industriale

[13] “Per le zone non esclusivamente industriali …sono stabilite…” (e quindi si applicano)

[14] “Per le zone non esclusivamente industriali …sono stabilite…” (e quindi si applicano)

[15] « Rientrano in questa classe le aree interessate da insediamenti industriali e con scarsità di abitazioni »

[16] « in questa classe le aree esclusivamente interessate da attività industriali e prive di insediamenti abitativi »

[17] da intendersi come arco temporale in cui i comuni provvedano alla classificazione acustica del proprio territorio comunale

[18] In quanto effettivamente inapplicabili prima dell’adozione del piano di classificazione acustica del territorio

[19] Diversamente sarebbe stato richiamato anche il secondo comma dell’art. 6 del decreto del ’91, in maniera che i valori limite differenziali di immissione del decreto del ’91 avrebbero transitoriamente sostituito i valori limite differenziali di immissione del decreto del ’97.

[20]   Consiglio Stato sez. V, 16 maggio 1995, n. 801, in   Riv. giur. edilizia 1995,I, 644

 

[21] Ne sono esempio la prot. 2187/99/SIAR-26.05.1999 indirizzata ad un altro comune toscano e la prot. 1970/98/SIAR-13.05.1998 indirizzata alla A.S.L. n° 1 di Massa Carrara.

[22] approvato dall’assemblea dei soci del 28.04.1998, dall’Osservatorio legislativo in Verona in data 2.06.1998 e dal Consiglio Direttivo in data 8.06.1998. Dove al punto 2 del predetto documento, si legge: «A differenza di quanto previsto dal DPCM 1/3/91, che prevede un doppio regime, transitorio e definitivo, sia per i limiti assoluti di zona che per i limiti differenziali, il DPCM 14/11/97 prevede una fase transitoria solo per i limiti assoluti esterni. Quindi il regime dell’art. 4 è da intendere come definitivo e come tale valido a prescindere dalla classificazione in zone che i comuni devono effettuare»

[23] approvato dal Consiglio Direttivo del 17 settembre 1999; ed in cui, a pagina 1, quartultimo rigo, si afferma: «I limiti differenziali di immissione si possono applicare anche in assenza di zonizzazione» ed anche che «il criterio differenziale dell’art. 4 del DPCM 14.11.1997 deve essere applicato in sostituzione del criterio differenziale del DPCM 1° marzo 1991».

 

[24] affermando come, pur in carenza di zonizzazione acustica – nonostante paventati dubbi sull’applicabilità dei valori limite differenziali  di immissione, criterio differenziale – risulti vero che: «sia il cennato decreto del 1991, sia quello successivo del 1997 rendono ben chiara l’idea che per le aree non esclusivamente industriali (come quella di specie) non è stata affatto delineata una soluzione di continuità in ordine al cumulo dei due criteri di valutazione di cui si discute (“criterio differenziale” e “criterio assoluto”). Infatti, a parte la perfetta corrispondenza letterale delle due norme in rassegna (2° co. dell’art. 6 del decreto del 1991 e 1° co. dell’art. 4 del decreto del 1997) che già chiaramente fa propendere per la delimitazione del divieto di cumulo dei due criteri solo per le aree esclusivamente industriali (e, quindi, non per le altre), vi è da dire che sotto il profilo logico e teleologico è del tutto irragionevole pensare che il “criterio differenziale” già operante in base al decreto del 1991 possa essere stato congelato durante il periodo transitorio (di carenza di zonizzazione), pur in presenza di una situazione urbanistica e (soprattutto) di una esigenza di tutela della salute pubblica, assolutamente identiche durante il periodo di riferimento (e cioè dal 1991 al 1998).»

   

[25]  Queste, in sintesi, le osservazioni  mosse: 1°) quanto indicato (appunto) al punto 1°) vale solo e soltanto per l’applicazione dei valori limite assoluti  di immissione (oltre che quelli di emissione e quelli di qualità), non certo per i valori limite differenziali  di immissione; come ampiamente dimostrato in precedenza e come torneremo a farlo fra breve. Quindi il Supremo Collegio – non sappiamo per quale ragione –  ha scambiato le due tipologie di limiti.

 

2°) il fatto che il comune non abbia ancora adottato alcun piano di zonizzazione acustica, implica sicuramente (ma solo e soltanto) che tale Ente non possa pretendere il rispetto dei valori limite assoluti  di immissione, né di quelli di emissione e neppure di quelli di qualità. Potrà esigere esclusivamente l’osservanza dei limiti assoluti  di cui all’art. 6, primo comma, del DPCM 1° marzo 1991 ma anche i valori limite differenziali  di immissione di cui all’art. 4 del D.P.C.M. 14.11.1997!!

 

3°) è del tutto autentica l’affermazione secondo cui:  siail divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, caratterizzate da valori limite che si discostano in misura superiore a 5dBA di livello sonoro equivalente”, sia la necessità “di adottare dei piani di risanamento di cui all’art. 7 nel caso in cui non sia possibile rispettare tale vincolo”, sono esplicitamente previsti dall’art. 4, primo comma, lettera a)[25], della legge 447/1995. Ma è altrettanto veritiero e doveroso precisare che – in tale articolo – tale obbligo viene riferito unicamente all’applicazione dei valori di qualità di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h), della stessa legge e non  certamente per l’applicazione dei valori limite differenziali  di immissione di cui all'articolo 2, comma 3, lettera b), della 447/95 e neppure a quelli più genericamente indicati all'articolo 2, comma 1, lettera f), della stessa legge !

 

4°) Non è affatto vero che, per verificare quali possano essere gli effettivi limiti di rumorosità che dovranno essere rispettati, sia necessaria la preventiva predisposizione della zonizzazione acustica; perlomeno quando si tratti della verifica dei valori limite differenziali  di immissione.

 

[26] normativamente disciplinati dalla legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n.447 e dai D.P.C.M 1 marzo 1991 – art.6 – e 14 novembre 1997 – art. 4 –, che hanno introdotto i “valori limite differenziali di immissione”

[27] Questa la massima riportata in calce alla sentenza: «Il sistema previsto dall’art. 6 della legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995, n.447, presuppone il preventivo azzonamento acustico del territorio comunale ed è onere del Comune predisporre i c.d. piani di zonizzazione, con un preciso contenuto tecnico stabilito dalla citata normativa e con una particolare attenzione a quelle specifiche situazioni di fatto che meritano, principalmente a cagione della loro vetustà e delle possibili conseguenze dannose alla salute, di essere valutate e disciplinate in maniera non illogica…»

[28] Art. 2 – Ai fini dell'applicazione del presente decreto si intende per: · impianto a ciclo produttivo continuo: a) quello di cui non è possibile interrompere l'attività senza provocare danni all'impianto stesso, pericolo di incidenti o alterazioni del prodotto o per necessità di continuità finalizzata a garantire l'erogazione di un servizio pubblico essenziale; b) quello il cui esercizio è regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro o da norme di legge, sulle ventiquattro ore per cicli settimanali, fatte salve le esigenze di manutenzione;

 

[29] f) valori limite di immissione [sia quelli assoluti  sia quelli differenziali] : il valore massimo di rumore che può essere immesso da una o più sorgenti sonore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno, misurato in prossimità dei ricettori;

[30] 5. Misure all'interno di ambienti abitativi: Il microfono della catena fonometrica deve essere posizionato a 1,5 m dal pavimento e ad almeno 1 m da superfici riflettenti. Il rilevamento in ambiente abitativo deve essere eseguito sia a finestre aperte che chiuse, al fine di individuare la situazione più gravosa. Nella misura a finestre aperte il microfono deve essere posizionato a 1 m dalla finestra; in presenza di onde stazionarie il microfono deve essere posto in corrispondenza del massimo di pressione sonora più vicino alla posizione indicata precedentemente. Nella misura a finestre chiuse, il microfono deve essere posto nel punto in cui si rileva il maggior livello della pressione acustica.

 

[31] Art. 4, comma 1  Le regioni, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, definiscono con legge: a) i criteri in base ai quali i comuni, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera a), tenendo conto delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio ed indicando altresì aree da destinarsi a spettacolo a carattere temporaneo, ovvero mobile, ovvero all'aperto procedono alla classificazione del proprio territorio nelle zone previste dalle vigenti disposizioni per l'applicazione dei valori di qualità di cui all'articolo 2, comma 1, lettera h), stabilendo il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a comuni confinanti, quando tali valori si discostano in misura superiore a 5 dBA di livello sonoro  equivalente misurato secondo i criteri generali stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 57 dell'8 marzo 1991. Qualora nell'individuazione delle aree nelle zone già urbanizzate non sia possibile rispettare tale vincolo a causa di preesistenti destinazioni di uso, si prevede l'adozione dei piani di risanamento di cui all'articolo 7;

 

[32] T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 31.03.1999, n. 371/372; del T.A.R. Lazio, Sez. II, 19.09.1992, n. 1851; del T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 23.11.1999, n. 634