Attività d'impresa, diritto comunitario, corporate social responsibility (*)
Mario Bessone
1. Soltanto alcune (e per quanto è possibile brevi ) considerazioni che naturalmente non sono intervento con carattere di organicità ma semplicemente materiali allineati per offrire alla discussione un primo riferimento ad argomenti che mi sembrano di sicuro rilievo. E per non fare più lungo discorso richiamo senza variazioni di contenuto una serie di temi e di interrogativi già altrove e più di una volta rappresentati
Né mi sembra che occorra aggiungere un repertorio di definizioni a quanto osservano gli studiosi di economia quando insegnano che è imprenditore chi organizza fattori di produzione, perciò risorse di capitale e forza lavoro per svolgere una attività, la attività di impresa che dall'impiego di capitale e lavoro deriva beni e servizi offerti al mercato.Ma sarà appena il caso di ricordare in qual misura le formule di estrema sintesi rinviano ad un intero universo di fenomeni molto diversi tra loro.
Fenomeni da discutere con il metodo insegnato dagli studiosi di law and economics e comunque diversi per l'oggetto quanto possono essere diverse l'offerta di mercato dell'industria, dei settori del commercio, dell'agricoltura, dell'artigianato e altri ancora comunque ulteriormente diversificate dalle posizioni di mercato e dalle dimensioni della attività di impresa. Se si pensa a tutta la distanza che separa grande impresa e gruppi di imprese da iniziative di minore grandezza essendo poi in una posizione a sé il comparto dei piccoli imprenditori,sarà agevole convenire che difficilmente potrebbe essere utile una discussione nell'astratto mondo dei discorsi generali su < imprenditori, regola giuridica e mercati>
.E in avvio di una discussione con senso della realtà non credo che occorra ripetersi che una cosa è l'impresa esercitata per iniziativa individuale, altra cosa l'impresa organizzata nella forma giuridica della società che aggrega persone e mezzi per "l'esercizio in comune di una attività economica", mediante conferimenti di risorse che consentono di operare con strumenti e ad una scala semplicemente impensabile per l'impresa organizzata a misura delle forze del singolo imprenditore individuale.
Perciò "impresa" e "società" sono davvero nozioni di prima approssimazione ad una materia che non consente più di tanto semplificazioni e percorsi lineari. E se fosse necessario l'esperienza dei mercati finanziari conferma che anche "mercato" è parola povera di contenuto esistendo tanti mercati quanti sono i beni e i servizi oggetto di offerta.Anche in questo senso per fare chiarezza sarà davvero consigliabile l'impiego degli strumenti di analisi predisposti dagli studiosi di analisi economica del diritto(e la dovuta attenzione alle metodologie del realismo giuridico).
Nel corso della discussione occorrerà quindi molto distinguere lasciando sullo sfondo gli enunciati di premessa che si leggono nelle pagine di apertura del manuale di diritto commerciale dove pure utilmente si avverte che l'imprenditore opera a suo rischio e secondo principio di economicità. E ancora le pagine del manuale precisano < rischio > che i ricavi della attività non riescano a compensare i suoi costi, principio di <economicità> significando organizzare l'impresa in modo tale da scongiurare quel rischio spingendo i ricavi ad una soglia così elevata da remunerare sia i fattori di produzione sia lo stesso imprenditore con un suo margine di profitto a premio della attività svolta.
Nel caso dell'imprenditore pubblico o di altri imprenditori che non perseguano finalità di profitto a premiare l'iniziativa economica sarà il risultato di un attivo o di un pareggio di bilancio a riprova del positivo andamento delle attività di impresa.Se in questo modo le pagine del manuale consentono di fare chiarezza svolgendo bene il loro compito tuttavia (come sempre accade ) la semplicità degli enunciati non trova riscontro in una realtà delle cose che inevitabilmente restituisce l'immagine di un complesso universo di imprenditori ,imprese e mercati tutto da esplorare e nel segno delle maggiori incertezze. E che sia così sa bene chi già in superficie consideri lo scenario delle fonti di diritto che adesso segnalerò in modo sommario, essendo tuttavia stabilito che i successivi interventi dovranno invece provvedere ai necessari approfondimenti di genere sistematico.
Disciplinano la materia disposizioni del quinto libro del codice civile che anche altrove tuttavia stabilisce disposizioni regolatrici di imprese e società. Ma al tempo stesso intervengono norme di diversa fonte non escluse le norme del diritto penale. A integrare il sistema delle fonti primarie concorre poi in misura determinante un crescente numero di leggi a carattere speciale ormai presenti con una estensione di campo e in quantità tali da motivare l'assunto dei molti che mettono in evidenza un processo di avanzata decodificazione della materia. Esistono in ogni caso separati ordinamenti di settore.
L'impresa bancaria ha un suo speciale regime. Normative a sé valgono per l'impresa assicurativa.Altre caratterizzano le attività di impresa a svolgersi nel contesto della nuova previdenza privata con finalità pensionistica. L'impresa attiva nel settore di industria dei financial services ha sue particolari discipline essendo come si sa impresa a diritto speciale la stessa società di gestione dei mercati di strumenti finanziari . E questi sono soltanto alcuni punti di più evidente emersione di un consistente insieme di ordinamenti di comparto.Altro ancora appartiene poi ad un sistema delle fonti normative ormai multiforme che per il suo stesso oggetto rende indispensabile una attenta analisi economica del diritto dell'impresa.
Una giurisprudenza talvolta davvero creativa configura un autentico diritto giurisprudenziale di imprenditori e società . Con valore normativo operano usi commerciali e altre regole di soft law. Rilevano variamente discipline di fonte privata che sono lex mercatoria volta a volta costituita da regolamenti di associazioni imprenditoriali, contratti di genere normativo, statuti di correttezza professionale. E se è vero che è in atto una visibile tendenza ad ampliare lo spazio aperto a forme di self regulation la autoregolazione di imprese e imprenditori commerciali , di società e mercati a veder bene sono tuttavia pur sempre numerose le modalità di loro regolazione con gli strumenti del diritto amministrativo e della pubblica vigilanza.
Strumenti che in più di un caso operano secondo logica di formalismo burocratico con risultati di segno negativo infinite volte documentati. Ma sono ormai in atto notevoli inversioni di tendenza e con riguardo alle imprese <società di capitali> i decreti legislativi del gennaio 2003 hanno segnato una autentica svolta di sistema. Quanto alla frammentazione della disciplina per via di norme di legge speciale, in più di un caso tali da configurare separati ordinamenti di settore e un particolare regime di attività e imprese, sarà chiaro che lo scenario imprenditoriale dei tempi di capitalismo maturo presenta caratteri di complessità sconosciuti al mondo che poteva immaginare il legislatore dei lontani tempi del codice civile.
Guardando alle linee evolutive del sistema ( e a quanto maggiormente interessa discutere ) si deve infine segnalare il dirompente processo di destatualizzazione dovuto alla posizione di grande e sempre maggior incidenza delle nome sovranazionali.Con una crescente estensione di campo operano con particolare forza le fonti di diritto dell'Unione Europea. Per fare soltanto alcuni riferimenti con riguardo a materie che la discussione dovrebbe considerare si pensi al regime della società europea e adesso recepimento della direttiva 86 del 2001 dove si regolamenta la partecipazione dei lavoratori al processo di costituzione della società europea. O si pensi al regolamento 1725 dell'ottobre 2003 in materia di adozione dei principi contabili internazionali gli Ias che portano con sé radicale riforma del diritto contabile. E sono numerose le innovazioni di disciplina ancora insufficientemente considerate.
Per fare un esempio assai rilevante segnalo il decreto legislativo 274 dell' agosto 2003 che ha provveduto a quanto occorreva in osservanza delle direttive comunitarie 107 e 108 del 2001 modificative della direttiva 611 del 1985 in materia di < coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative riguardanti taluni organismi d'investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) > . E significativo esito delle nuove normative di decreto ( che hanno comportato riformulazione e integrazione di talune norme del Tuf ,il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria del 1998 ) sono innovazioni della disciplina del comparto delle attività di gestione del rispamio che nel corso della discussione sarà davvero il caso di commentare.
Alle disposizioni delle direttive comunitarie ma anche a regolamenti di diritto comunitario in ogni caso si devono numerose e importanti riforme della disciplina come si sa spesso variata anche in punto di principi generali e di complessivo assetto del sistema. Già ne risulta una autentica uniformazione sovranazionale del diritto dell'impresa che coinvolge e trasforma la stessa nozione di "impresa" in un senso che agli specialistici di materia si domanda di precisare nel modo che sarà ritenuto preferibile .Ma il riferimento che si è fatto alla società a statuto europeo e ai principi internazionali di contabilità Ias regolanti in modo innovativo la materia di bilancio non deve considerarsi casuale trattandosi di argomenti che la discussione non dovrà trascurare .E sempre in una prospettiva di analisi attenta all'operare di imprese ad una scala sovranazionale si guardi al così rilevante mondo della imprenditorialità cooperativa.
Se la riforma legislativa della disciplina delle società di capitali del gennaio 2003 ha significativamente variato il regime nazionale delle società cooperative , sarà bene prendere in approfondito esame anche i recenti svolgimenti di diritto europeo. Ad esito di un lungo e complesso negoziato come si sa a luglio del 2003 la Commissione ha prefigurato uno < statuto della società cooperativa europea > che si progetta di rendere operativo dal 2006 con importanti risultati di di sviluppo sovranazionale delle attività di genere cooperativo.La proposta della Commissione indica infatti come <statuto> della società cooperativa europea un complesso di disposizioni (non sostitutive delle norme di diritto nazionale ma comunque ) intese a consentire un ampiamento e una ristrutturazione delle operazioni transfrontaliere che sarà cosa di grande rilievo.
Più ancora alla discussione si domanda poi di documentare la politica comunitaria di armonizzazione che in modo così evidente riguarda il diritto delle imprese societarie della financial economy e dei mercati finanziari. In questo senso le già segnalate normative del decreto legislativo dell'agosto 2003 sono soltanto particolare punto di emersione di una ben più generale politica del diritto ma possono certamente valere da esempio emblematico. Le Sgr società di gestione del risparmio ne ricevono notevoli semplificazioni delle discipline di procedimento autorizzatorio.Si amplia l'ambito dei loro poteri di autonomia quanto alla determinazione dei financial products da acquisire al patrimonio di fondi comuni di investimento . E diventa possibile la emissione di quote del fondo comune con diverso valore e diversi diritti dell'investitore (così come le Sicav società di investimento a capitale variabile sono ammesse alla emissione di < frazioni> di azioni).
Quanto al calcolo del valore delle quote emesse dal fondo comune è previsto che per indicazione della Sgr a ciò possa provvedere la banca depositaria dei valori della società di gestione del risparmio con tutti i conseguenti benefici di contenimento dei costi dell'attività gestoria. Si prefigura poi ( cosa di grande rilievo) il modello della società di gestione del risparmio <armonizzata> , essendo stabilito che da < società con sede e direzione generale in uno dei paesi dell'Unione Europea > possono essere prestate anche fuori del <paese di origine > sia la gestione di risparmio collettiva <in monte> che la gestione personalizzata di portafoglio.Da ciò lo spazio aperto ad un operare transnazionale delle imprese della financial industry che tuttavia sarà fortemente regolato dalle necessarie disposizioni di garanzia.
Con riguardo alle regole di comportamento delle società di intermediazione mobiliare si sono infatti apportate integrazioni alle disciplina di materia (e nel caso italiano all'art. 40 del Tuf ) essendo comunque stabilito che la società di gestione del risparmio oltre che nell'interesse degli investitori dovrà operare in modo conforme alle esigenze di < integrità> del mercato mobiliare .La società dovrà <organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse > in situazioni di conflitto dovendo poi < agire in modo da assicurare comunque un equo trattamento >, cosi' come è imperativamente stabilito l'obbligo di < adottare misure idonee a salvaguardare i diritti > degli investitori e < procedure idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi> di investimento.
Secondo l'ormai consolidato modello di law making nella materia finanziaria il decreto legislativo 274 rinvia poi la ulteriore definizione della disciplina ai poteri regolamentari di Banca d'Italia e Consob.E per opinione generale il rendimento operativo delle nuove normative del decreto dell' agosto 2003 è una variabile in misura decisiva appunto dipendente dal genere delle normazioni secondarie che saranno congegnate dalle autorità di pubblica vigilanza . Da ciò ulteriori e rilevanti argomenti per la discussione da svolgere nel modo che si preferirà esistendo tuttavia temi che mi sembrano davvero obbligati.Penso alla progettata <implementazione > della direttiva comunitaria del in tema di market abuse.
Per il caso di <ragionevole sospetto> che una transazione sia viziata da insider trading o da agiottaggio si progetta di stabilire un principio di obbligo a gravare sull'intermediario di mercato mobiliare , disponendosi un suo obbligo di < comunicazione > alla autorità di vigilanza del< paese di origine > precisato nel senso che all'intermediario si domanda di segnalare alla autorità di vigilanza il genere di transazione , i motivi del sospetto,l'identità del soggetto che ha impartito l'ordine e quant'altro occorre per una esauriente rappresentazione della fattispecie. E la prevista <implementazione> della direttiva in materia di insider trading (e più in generale di <abusi di mercato > ) va discussa nei suoi aspetti problematici.
In modo particolare va discusso con quale estensione di campo il possibile conferimento di funzioni di < polizia > all'impresa di intermediazione mobiliare prefiguri situazioni di genere davvero problematico , perché se è vero che in caso di mancata ( e dolosa ) comunicazione all'autorità di vigilanza incorrerebbe in sanzioni allo stesso modo è chiaro che in caso sospetto poi risultato destituito di fondamento l'intermediario con ogni probabilità incorrerebbe in azioni di responsabilità avviate dal cliente (ingiustamente) sospettato. E anche a non considerare altre questioni di specie immagino che la discussione riserverà molte attenzioni ad una tematica degli abusi di mercato che comunque deve essere discussa nella prospettiva di analisi di un mercato finanziario ormai sempre più sovranazionale.
E se tutto questo è nell'ordine delle cose considerato che da sempre il diritto dell'impresa e delle società going public allo stesso modo del diritto dei mercati finanziari ha vocazione transnazionale, sarà semmai il caso di valutare a fondo in qual misura lo scenario di inizio secolo si caratterizza per la compresenza di fenomeni che ai problemi di genere transnazionale assegnano una nuova e assai problematica dimensione.
Né si rende necessario un lungo discorso .Sono i fenomeni con formula di estrema sintesi indicati come economia globale e new economy. Come si sa globale l'economia di questo inizio secolo è nella crescente quantità volta a volta documentata dall'operare di imprese che operano alla scala internazionale considerando loro < mercato > l'intera serie dei mercati dove sia possibile una offerta di beni e servizi. E a questa strategia di presenza globale assicurano strumenti decisivi i congegni di genere telematico variamente costituiti dalle possibili modalità di integrazione delle tecnologie della telecomunicazione con quelle dell'informatica e di Internet.
Da ciò una economia < produttiva > e una economia < finanziaria> che per gran parte ormai ignorano i confini nazionali , e insieme con tutto questo la new economy di inizio secolo che sarà possibile disciplinare quanto occorre soltanto mediante complessi apparati di norme transnazionali operative a tutto campo. Norme che in ampia misura sembrano ancora allo stato di spesso incerte progettazioni che tuttavia meritano certamente grande attenzione e una documentata discussione.
Se è vero che a tutt'oggi non esiste una disciplina di economia globale e new economy con gli indispensabili caratteri di universalità significativi passi nella giusta direzione si devono alla politica del diritto nel segno della moral suasion e alle <raccomandazioni> dell'Unione Europea che si aggiungono ai già richiamati regolamenti e all' ormai così consistente numero di direttive comunitarie .Ma anche in questa materia sono davvero urgenti normative che valgano da legge applicabile all'intero contesto di un sistema economico che ad una dimensione più ampia di quella europea ormai opera senza più alcun regolamento di confini.
E per fare soltanto un esempio( ma un esempio sicuramente emblematico ) dell' e.commerce andranno regolati in modo più organico e alla scala indicata tutti i suoi diversi comparti , e in modo particolare il business to business commercio elettronico tra imprese così come il business to consumer nella complessa trama dei rapporti tra imprese e consumatori dei beni e dei servizi offerti al mercato. Ma con riguardo al business to consumer va adesso considerato con grande attenzione il disposto della legge comunitaria del 2003 , la legge 306 dell'ottobre 2003 dove si è stabilito che entro l'ottobre 2004 un decreto legislativo dovrà recepire la direttiva 65 del 2002 in tema di prestazione e commercializzazione a distanza dei servizi di finanziari.
Da ciò finalmente la necessaria integrazione della disciplina in materia di commercio elettronico stabilita con la direttiva 31 del 2000 a suo tempo recepita con il decreto legislativo del. Ne risultano prefigurate consistenti misure di miglior tutela dell'investitore considerati i doveri di sua informazione (con mezzi di supporto durevole ) imposti all'operatore professionale quanto a identità dell'offerente strumenti finanziari e financial services, natura del servizio offerto, contenuti del contratto di investimento di volta in volta proposto e altro ancora.
Come si ricorderà a maggior tutela dell'investitore la normativa comunitaria prevede poi sue facoltà di recesso entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto senza corresponsione di penali o vincolo di motiva zione del recesso ( facoltà estesa a trenta giorni dalla comunicazione da parte dell'impresa della conclusione del contratto se si tratta di assicurazione sulla vita on line ,essendo stabilito un termine di trenta giorni anche per il caso di adesione a forme pensionistiche private ).
E la nuova disciplina comunitaria in materia di prestazione e commercializzazione a distanza dei servizi di finanziari stabilisce ulteriori garanzie di tutela dell' investore ( là dove prescrive < esclusione> di un qualsiasi suo <obbligo> nella eventualità di <fornitura > di un servizio non richiesto e ) quando appunto a sua protezione impegna i legislatori nazionali alla configurazione di un rigoroso regime di sanzione dei comportamenti devianti.Ma di regime giuridico della e.economy occorre discutere a fondo in più ampia prospettiva di analisi con precisa indicazione di che cosa è realistico progettare in un contesto di ingegneria istituzionale che guardi davvero allo scenario di insieme.
L'universo delle attività di impresa e dei settori dell'economia che sono new economy attrezzata con strumentazione telematica ha infatti le grandi dimensioni che ben si conoscono. .Si pensi al comparto delle transazioni via Internet per così dire consumer to consumer rese praticabili dall'immediato contatto che la rete web consente a chiunque di stabilire con altri mediante l'attività di intermediazione svolta da imprese dell'industria informatica che provvedono all'incontro di domanda e offerta sullo schermo dei loro computers. E si pensi alle attività di e.procurement variamente costituite da <prestazioni> e da <forniture di beni> che l'imprenditorialità privata assicura ad amministrazioni pubbliche appunto nelle forme dell'e.commerce.
Si pensi infine in qual misura lo stesso e.government ,il flusso crescente dei pubblici servizi dalle amministrazioni erogati per via informatica porta con sé anche operazioni ausiliarie di privati imprenditori. Economia globale e new economy delle tecnologie dell'informatica operano con modalità che assegnano il ruolo protagonista a contratti di impresa che per quanto è possibile si sottraggono al controllo di una normativa che vincoli le iniziative di mercato.E in tempi di capitalismo maturo qualsiasi normativa di vincoli per eccesso porta con sé risultati di segno negativo. Questo tuttavia non significa in alcun modo che si possa consegnare attività imprenditoriali e mercati ad una privata lex mercatoria che stabilisca da sé le sue regole.
Da ciò l'urgente necessità delle normative che alla scala sovranazionale si devono progettare e rendere effficamente operative per identificare un possibile punto di equilibrio tra autonomia di impresa e garanzie di una regolazione pubblica delle attività di mercato.Ma anche quando si tratti di new economy per intanto a imprese e mercati occorre pur sempre guardare nella prospettiva indicata da norme di costituzione economica da segnalarsi per una serie di precise enunciazioni di principio che lo specialista di materia è chiamato a commentare .Ancora una volta non servono e rischiano di essere devianti le personali preferenze di politica del diritto che in ogni caso non sono parte della nostra discussione.Ma esiste pur sempre e ha grande evidenza una politica del diritto che le disposizioni costituzionali imperativamente prescrivono.
Le attività di impresa sono iniziativa economica regolata dall'art. 41 e la norma regola l'iniziativa economica secondo principio di libertà ma prefigura pur sempre limiti, programmi e controlli. L'"iniziativa economica privata è libera"ma alle libertà di "iniziativa economica privata" tuttavia segnano un limite valori costituzionali ancora più forti, essendo stabilito che "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". E "a fini sociali" la norma costituzionale segnala al legislatore ordinario i possibili strumenti di politica del diritto.
Se occorre "la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica" sia privata o pubblica "possa essere indirizzata e coordinata" appunto "a fini sociali". Per l'art. 43 sono ancora "fini di utilità generale" e il "preminente interesse generale" a motivare originarie riserve o successivi trasferimenti al settore pubblico di "determinate imprese" o di "categorie di imprese" che si riferiscano "a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio". E nel corso della discussione sarà pur necessario ricordare in che misura la norma costituzionale dell'art. 47 vincola ogni comparto dell'economia finanziaria all'osservanza delle regole di garanzia di < tutela del risparmio > in < tutte le sue forme>.
2. Sarà in ogni caso necessario guardare al disegno delle norme costituzionali nella sua completezza. Limiti, programmi, controlli e riserve di attività non sono infatti spazio aperto alla pura e semplice decisione politica. Possono operare soltanto nella misura indicata da regole di costituzione economica che se presidiano valori della collettività ancora una volta al tempo stesso si pongono a garanzia delle libertà dei privati. Garanzia di libertà di iniziativa in una economia di mercato dove competere secondo regole di concorrenza tra imprenditori e imprese. Le norme costituzionali gravemente ignorano il mercato ma il principio della libertà di concorrenza a veder bene è già contenuto nella garanzia di libertà dell'iniziativa economica.
Se posizioni dominanti o intese restrittive della concorrenza o concentrazioni di poteri non consentono ad altri l'accesso al mercato o spingono fuori del mercato, "libertà di concorrenza" è infatti soltanto un insieme di parole senza un significato utile. Da ciò il grande rilievo della legge 287 dell' ottobre 1990 che finalmente guarda al mercato e al principio di concorrenza nel modo che era necessario. E la sua norma di apertura avverte che si tratta di disposizioni stabilite " in attuazione dell'art. 41 Cost." appunto " a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica".
Una volta ancora richiamo le pagine del manuale universitario. Occorreva assegnare al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile. L'art. 2595 avverte che la concorrenza deve svolgersi "nei limiti stabiliti dalla legge". L'art. 2596 circoscrive l'oggetto e l'orizzonte temporale degli accordi contrattuali di non concorrenza. L'art. 2597 obbliga "a contrattare con chiunque" e a "parità di trattamento" l'imprenditore che operi in regime di monopolio legale. E alla concorrenza le norme del codice civile (sono le norme degli artt. 2598 a 2601) ancora guardano per la dovuta prevenzione e sanzione degli atti di concorrenza sleale.
Ad esse si dovevano aggiungere discipline di settore certamente utili. Ma una cosa è la serie delle frammentate disposizioni che pretendono lealtà nelle relazioni di mercato tra imprese, vincolano l'imprenditore monopolista ad un corretto agire di mercato e segnano un limite ai poteri negoziali dei singoli imprenditori, derivando da ciò in modo indiretto e comunque molto limitato risultati di miglior andamento delle attività di mercato e di tutela dei consumatori. Tutt'altra cosa una organica disciplina di garanzia a misura dei principi di costituzione economica.
E in che direzione muovere indicavano già le norme del diritto comunitario che stabiliscono disciplina quanto al mercato internazionale. Sono norme che riguardano il "commercio tra gli Stati membri" e operano a garanzia della osservanza delle regole del "gioco della concorrenza nel Mercato comune". Regole del gioco con ogni evidenza violate se accordi tra imprese, posizioni di dominio o iniziative di concentrazione imprenditoriale non consentono ad altri di partecipare alla competizione commerciale con reali possibilità di successo. E nel disegno della normativa europea provvedere a che "la concorrenza non sia falsata" è un valore che ha tutto il rilievo indicato dall'art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea.
Ad "un regime inteso a garantire" che sul mercato si operi secondo principio di concorrenza è riservata la posizione che compete agli strumenti e alle "politiche" da considerare nel numero dei fattori determinanti per realizzare il progetto comunitario. Operano perciò disposizioni che ne sono elemento costitutivo e impegnano ad interventi con finalità di prevenzione e di sanzione dei comportamenti devianti.Disposizioni che semplicemente richiamo per la discussione che seguirà.
Il primo comma dell'art. 81 del Trattato vieta tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che per l'appunto possano "pregiudicare" il commercio o che "abbiano per oggetto o per effetto" di "impedire", "restringere" o falsare" la competizione imprenditoriale. E la medesima norma già enumera una serie di accordi, decisioni e pratiche da considerare materia di divieto. Per una interpretazione in senso forte delle garanzie di libertà di commercio "tra Stati membri" merita poi grande attenzione la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea.
Parte rilevante dell'ordinamento di settore è anche la disciplina di esenzione dal divieto disposta dal terzo comma dell'art. 81 per il caso di intese che "contribuiscano a migliorare" produzione industriale o settore distributivo e ancora a "promuovere il progresso tecnico" o "economico". Ma in linea generale il secondo comma dell'art. 81 avverte che gli accordi incompatibili con il principio di libera concorrenza sono (vietati e) nulli "di pieno diritto", operando poi gli "ordini di cessazione" e le sanzioni che si indicano in via di disciplinare regolamentare.
Ancora in funzione di garanzia di effettività del principio di concorrenza e guardando al "commercio" interstatuale la norma dell'art. 82 del Trattato stabilisce regole e divieti per il caso dello "sfruttamento abusivo" di una posizione dominante. Situazioni di questo genere si configurano quando singole imprese "o più imprese" si avvalgono di una posizione forte che consente di determinare prezzi, controllare la dinamica di un settore di attività o comunque di imporre un dominio su taluni comparti del "mercato comune". Per disposizione del regolamento comunitario 4064 del 21 dicembre 1989 (a suo tempo modificato dal regolamento 1310 del 30 giugno 1997) si esercita infine una rigorosa vigilanza sulle operazioni di concentrazione imprenditoriale.
Si tratti di fusione di imprese, della acquisizione del controllo di imprese o della costituzione di una nuova impresa, occorreva infatti reagire ad iniziative che possano originare o rendere più forte una "posizione dominante" ancora una volta tale da ostacolare in misura significativa la concorrenza "nel mercato comune" o in una sua "parte sostanziale". Ma se questo accade si provvederà mediante divieti, interventi correttivi e misure di sanzione a misura delle particolarità della singola fattispecie (essendo una volta di più consigliabile ragionare in termini di analisi economica del diritto di imprese e società).
Naturalmente molto altro si deve poi precisare e sarà precisato nel corso degli interventi ad essi domandandosi di valutare in qual misura la legge del 10 ottobre 1990 ha finalmente assicurato regole anche al mercato nazionale seguendo una medesima linea di politica del diritto. "A tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica" le sue disposizioni stabiliscono disciplina per le "intese", gli "abusi" di "posizione dominante" e "le concentrazioni di imprese" che "non ricadono" nell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria. E "qualora ritenga che una fattispecie al suo esame non rientri nell'ambito di applicazione" della legge nazionale, l'Autorità garante "ne informa la Commissione delle Comunità europee" e "trasmette" ad essa "tutte le informazioni in suo possesso".
Le disposizioni della legge 287 valgono perciò soltanto quando è in questione "il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale" o "in una sua parte rilevante". Ma le prescrizioni sovranazionali rilevano anche in ambiente nazionale perché il quarto comma dell'art. 1 della legge 287 avverte che l'"interpretazione" delle sue disposizioni deve compiersi "in base ai principi" dell'ordinamento comunitario. Saranno davvero molto utili interventi intesi a segnalare tutto il rilievo istituzionale di questa continuità normativa e i suoi possibili risultati di genere operativo.
Regolando il mercato nazionale la legge dell'ottobre 1990 in ogni caso assegna al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile e alle singole normative di settore. Opera una autorità amministrativa indipendente che ha consistenti poteri di intervento, per l'appunto una Autorità garante della concorrenza e del mercato che le norme della legge del 1990 impegnano a svolgere funzioni di vigilanza di segno molto forte. A queste altre ne aggiungono gli artt. 21 e 22 della legge che prefigurano una significativa attivazione di rapporti tra Autorità garante e soggetti rappresentativi della volontà politica.
"Allo scopo di contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del mercato"l'Autorità garante "individua" nelle stesse norme di legge o in "provvedimenti" di natura amministrativa le possibili "distorsioni della concorrenza" e del "corretto funzionamento del mercato" che non sono "giustificate da esigenze di interesse generale" (e occorre perciò prevenire o rimuovere). Ancora l'Autorità garante "può" infine "esprimere pareri sulle iniziative legislative o regolamentari" nel contesto di una interlocuzione con governo e parlamento che è certamente un punto forte del sistema. Di questo insieme di funzioni istituzionali e di altro ancora si desidera conoscere molto più di quanto insegna il manuale universitario.
Le funzioni di vigilanza operano con la estensione di campo precisata dalla norma dell'art. 8 dove si stabilisce che le disposizioni della legge antitrust si applicano sia "alle imprese private" che "a quelle pubbliche". Il secondo comma dell'art. 8 riserva uno speciale regime alle imprese che "per disposizione di legge" esercitano "la gestione di servizi di interesse economico generale" oppure operano in regime di "monopolio legale". Ma finalmente si reagisce agli abusi di posizione dominante che in vario modo violano il principio di libera concorrenza.
Abusi che la legge del 1990 colpisce con norme che ingiungono la "eliminazione delle infrazioni" e in caso di "infrazioni gravi" applicano "sanzioni amministrative" di "genere pecuniario" molto onerose. E particolare attenzione si deve riservare alle fattispecie enumerate dalla norma dell'art. 3 della legge 278 che formula espresso divieto di imposizione di prezzi, di usi devianti della forza contrattuale e di quant'altro impedisca o limiti "produzione", "accessi al mercato", "sviluppo tecnico" progresso tecnologico "a danno dei consumatori".
Già in questa materia l'Autorità garante opera con i poteri di indagine assegnati dalla norma dell'art. 12. Per "verificare l'esistenza di infrazioni" provvederà perciò a prendere in esame gli "elementi" di valutazione "portati a sua conoscenza da pubbliche amministrazioni" o da chiunque vi abbia interesse. Ma anche d'ufficio l'Autorità garante può procedere ad indagini conoscitive "di natura generale", considerando l'andamento di settori economici "nei quali l'evoluzione degli scambi, il comportamento dei prezzi" o altre circostanze "facciano presumere che la concorrenza sia impedita, ristretta o falsata".
Si svolgeranno attività istruttorie osservando le regole disposte dall'art. 14. Alle imprese indagate si assicurano doverose garanzie di ascolto anche mediante la presentazione di "deduzioni" e "pareri" in ogni fase del procedimento. Ma il secondo comma della norma al tempo stesso legittima l'Autorità garante all'impiego dei più ampi mezzi di indagine "in ordine a qualsiasi elemento rilevante ai fini dell'istruttoria". E quando fossero riscontrate "infrazioni" seguiranno "diffide" che assegnano un termine per la loro "eliminazione" così come le possibili misure sanzionatorie contestualmente indicate dall'art. 15.
Costituiscano "accordi", "deliberazioni" o altri congegni di genere negoziale sono poi vietate e comunque "nulle ad ogni effetto" le intese che possano pregiudicare, e l'art. 2 della legge precisa "in maniera consistente" la naturale dinamica di una economia di concorrenza. "Intese" di questo genere possono riguardare imprese e consorzi di imprese, loro "associazioni" o "altri organismi similari". E molto ampio è lo scenario dei possibili oggetti dell'accordo, che di volta in volta riguarderà "fonti di approvvigionamento", "sbocchi" o "accessi al mercato", investimenti e tecnologie produttive, "prezzi" e "condizioni contrattuali" o ancora diversa tecnica operativa di restrizione della concorrenza.
Ma quale che sia la tecnica o la materia delle intese "restrittive della libertà di concorrenza" sarà necessario agire in prevenzione e a sanzione dei comportamenti devianti. Possono tuttavia darsi situazioni che consentono un regime di deroga al divieto dovendosi considerare quanto stabilisce il primo comma dell'art. 4. E dagli interventi che seguiranno si attendono approfondimenti che al di là dell'astratto disegno delle norme consentano una motivata valutazione di quanto è law in action .
È infatti previsto che l'Autorità garante "per un periodo limitato" autorizzi intese altrimenti vietate in considerazione del possibile "beneficio per i consumatori" o della "necessaria concorrenzialità" delle imprese "sul piano internazionale". E opera un regime particolare in caso di intese "comunicate all'Autorità garante" seguendo la previsione dell'art. 13. Ma invariabilmente la funzione di pubblica vigilanza deve corrispondere tutti caratteri di rigore già segnalati.
Anche in presenza di "intese" o comunque di "accordi" del genere prefigurato dall'art. 2 della legge si svolgerà attività istruttoria secondo il regime dell'art. 12 (una volta di più non essendo escluso l'impiego degli strumenti di vigilanza ispettiva). E anche quando si tratti della fattispecie di "intese" provatamente "restrittive" della libertà di concorrenza vale l'indicato regime di reazione alle infrazioni che si fossero accertate.Si rende perciò assai utile una ricognizione di campo con il metodo dell'analisi economica del diritto che offra elementi di giudizio sia pure in via di prima approssimazione capaci di documentare il rendimento operativo dei congegni normativi.
Rilevano infine le operazioni di concentrazione imprenditoriale. E naturalmente il fenomeno si presenta in forme tanto varie quanto lo sono le opportunità che si offrono ai protagonisti dell'economia finanziaria. Possono perciò configurarsi fattispecie assai diverse tra loro, così come sono diverse le modalità di organizzazione di un insieme unitario di risorse e di attività. Talvolta si tratterà di fusione di imprese, altra volta di controllo di imprese acquisito mediante partecipazioni al loro capitale (o "mediante contratto" oppure "con qualsiasi altro mezzo"), altra volta ancora del caso di "due o più imprese" che costituiscono una impresa comune.
Se si configurano fattispecie del genere e della grandezza indicate dall'art. 16 della legge le operazioni di concentrazione imprenditoriale devono comunque essere preventivamente comunicate alla Autorità garante per le necessarie valutazioni.E la materia è di evidente rilievo di modo che si rendono opportune essendo comunque domandate e attese le considerazioni di studiosi che la materia conoscono per loro maturata esperienza professionale.
Occorre infatti valutare se le operazioni progettate comportano "la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante" tale da "eliminare o ridurre" le possibilità di concorrenza "in modo sostanziale e durevole". Quando sia necessario sarà perciò avviata una istruttoria secondo le previsioni degli artt. 16 a 18 della legge. All'Autorità garante anche in questa materia competono poteri di sospensione e di divieto così come i rilevanti poteri di sanzione dell'art. 19, che consente di infliggere "sanzioni amministrative pecuniarie" ancora una volta particolarmente onerose. E anche su questo fronte garantire libertà di concorrenza significa fare quanto è indispensabile per consentire una competizione tra imprese che in punto di qualità e di prezzi assicuri migliori opportunità ai consumatori dei beni e dei servizi che sul mercato si offrono.
In ogni caso una "economia di mercato aperta e in libera concorrenza" è quanto già il Trattato di Maastricht indicava come modello obbligato per ogni paese dell'Unione Europea .Ma la dimensione mondiale dei fenomeni di e.commerce rende ormai urgente la progettazione di normative senza confini di territorio .E una volta di più sono attese le valutazioni degli esperti di materia .
3. In che misura "imprese" e "mercato" costituiscono un universo multiforme è cosa che la discussione dovrebbe documentare guardando allo scenario di insieme dei soggetti imprenditore. Dovunque ma in modo particolare nel caso italiano come si sa scenario che si caratterizza per la compresenza di privati imprenditori e impresa pubblica. Ancora una volta si deve guardare alle norme di costituzione economica che in questo senso sono norme di forte indirizzo politico.
Ne risulta delineato un sistema di complessa configurazione dove si assegnano distinti ambiti di operatività a settori di impresa che sono economia di mercato di contro ad altri che invece non sono spazio aperto alla dinamica del mercato. E indicando quali attività "la legge" può "riservare originariamente" o "trasferire" sia "allo Stato" che ad altri "enti pubblici", l'art. 43 al tempo stesso definisce e circoscrive l'ambito dei settori di impresa appunto sottratti alla disciplina generale di una economia di mercato.Seguendo il previsto metodo di lavoro mi limito ad indicare in via breve( e perciò a riassumere ) le informazioni offerte dal manuale universitario che si tratterà di integrare nella ampia misura che è davvero necessaria.
La norma dell'art. 43 stabilisce tale "riserva" (e una possibilità di successivo "trasferimento" al settore dell'economia che non è di mercato) per "imprese o categorie di imprese" che si riferiscano a "servizi pubblici essenziali" o a fonti di energia "o a situazioni di monopolio" e "abbiano carattere di preminente interesse generale". Le attività escluse da qualsiasi possibilità di riserva (o di successivo "trasferimento") appartengono invece all'economia di mercato, essendo sicuro principio di costituzione economica che quando si opera sul mercato (e secondo regola di mercato) impresa privata e impresa pubblica si trovano (e devono essere) in identica posizione.
Ma sarà bene precisare e discutere ciò che a questo riguardo espressamente dispone l'art. 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea. Si considera infatti la posizione delle "imprese pubbliche" e delle imprese in regime di "diritti speciali o esclusivi". E si stabilisce che "gli Stati membri non emanano" né "mantengono" a loro favore "alcuna misura" di "aiuto" o di altro genere che comunque contrasti con quanto su scala generale il vincolo comunitario domanda in punto di competizione imprenditoriale secondo regola di uniformità di regime. Una volta stabilito che questi sono i principi di quadro generale al vertice del sistema, occorrerà poi distinguere tra le diverse modalità dell'intervento pubblico in economia.
Intervento pubblico che pur presente anche altrove nell'esperienza del nostro paese ha costituito fenomeno di particolare rilievo. E fenomeno segnato da grandi differenze di modello. Una cosa è infatti l'ente pubblico "imprenditore" che in via diretta esercita attività di impresa (operando il regime degli artt. 2093, 2201 e 2221) e altra cosa la partecipazione di un ente pubblico al capitale sociale di una impresa che tuttavia continua pur sempre ad essere impresa privata (operando perciò l'ordinario regime dell'impresa privata ma anche le norme degli artt. 2449 e 2450).
E se è vero che la varietà delle fattispecie non si presta a falsificanti semplificazioni occorrendo una voltà di più serie analisi con il metodo insegnato dagli studiosi di law and economics, sarà pur sempre utile indicare in via di prima approssimazione le grandi linee del sistema così come la sue progressive trasformazioni, dovute ad una politica di privatizzazione dell'economia pubblica che lungo il corso degli anni Novanta ha segnato come si sa una storica inversione di tendenza.
Con riguardo all'impresa pubblica in senso proprio si sono conosciute imprese "organo" e imprese "ente pubblico". Nel primo caso è l'ente pubblico che esercita una attività di impresa mediante un suo organo. E considerato che l'attività di impresa ha carattere sussidiario, l'ente pubblico non diventa imprenditore. Se a dirigere l'impresa è un organo con poteri di autonomia, si precisa la fattispecie delle "aziende autonome" come nel caso dell'Azienda delle Ferrovie dello Stato dal 1905 al 1985. Ma anche le aziende autonome si configurano pur sempre come imprese "organo"
E più precisamente come organo di una pubblica amministrazione, che svolge attività di impresa senza essere separata "persona giuridica" e senza disporre di un patrimonio a sé. Il loro regime normativo comporta fattori di complessità (e incertezze) che in queste pagine non è necessario approfondire. Sarà semmai il caso di segnalare tutto il rilievo del processo di trasformazione di "aziende autonome" in "enti pubblici economici", e poi in società per azioni (come nel caso emblematico delle Ferrovie dello Stato e dell'"Ente poste italiane" poi diventati società per azioni a partecipazione statale).
Quando si configurano imprese "ente pubblico" ad operare sono invece enti pubblici economici, perciò dotati di personalità giuridica e autonomia patrimoniale perfetta. L'esercizio della attività di impresa qualifica l'ente come imprenditore. Se per la disciplina dell'ente non mancano speciali prescrizioni di diritto pubblico, la attività di impresa si esercita pur sempre secondo le regole del diritto privato. Valgono le norme di statuto generale dell'imprenditore (e quando è il caso operano le norme di regime dell'imprenditore commerciale, sia pure ad esclusione di quante comportano procedure concorsuali).
Con riguardo all'oggetto della attività si deve poi ancora distinguere tra fattispecie fortemente diversificate, come emerge con ogni evidenza dal confronto tra l'impresa ente pubblico operativo che si era attivato per provvedere ad una offerta di mercato (come nel caso dell'Enel) e l'impresa ente pubblico di gestione che (come nel caso dell'Iri o dell'Eni) si era congegnato come holding chiamata a svolgere funzioni di controllo di società a loro volta costituenti "gruppi" di società. Ma come si è già ricordato i processi di "privatizzazione" del settore pubblico dell'economia dovevano disegnare tutt'altro scenario.
L'universo delle imprese che sono società a partecipazione pubblica è da sempre anch'esso multiforme. Deve il suo complessivo insieme ad una serie di vicende assai particolari che non è qui possibile riferire. E comunque è universo che davvero non si presta a una rappresentazione per le vie brevi del discorso in astratto. Possono infatti darsi partecipazioni totalitarie, partecipazione di maggioranza o ancora partecipazioni di minoranza. Operandosi nella forma giuridica della società di capitali, in linea di principio vale la disciplina delle norme del codice civile anche se non mancano le particolarità di regime.
L'art. 2451 stabilisce regole per società di interesse nazionale prefigurando un modello di impresa poco praticato (ma va considerato che come società di interesse nazionale si era configurata la Rai sul modello della società per azioni a totale partecipazione pubblica). E l'art. 2449 stabilisce che "se lo Stato" o altri "enti pubblici" hanno partecipazioni in una società per azioni "l'atto costitutivo può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci" (cosa che può accadere "anche in mancanza di partecipazione azionaria" nelle fattispecie indicate dall'art. 2450).
In tempi di progressiva privatizzazione del settore pubblico dell'economia, la maggior attenzione si deve tuttavia riservare ad una complessa legislazione a carattere speciale, che delinea nuovi scenari appunto provvedendo alla trasformazione di "aziende autonome" e di "enti pubblici economici" in imprenditori che esercitano l'attività nella forma giuridica delle imprese di diritto privato. E se si pensa quali erano le grandezze, l'ambito di operatività e la connotazione politica del settore pubblico dell'economia, sarà chiaro in che misura norme orientate in questa direzione già di per sé avviano un processo di riforma in senso forte che agli esperi di materia si domanda di commentare.
Ne risulta infatti uno dei fattori costitutivi di un modello di organizzazione del potere economico che nel caso italiano presentava tutti i caratteri del sistema a dominanza pubblica. Segnano il punto di svolta la legge 218 del 30 luglio 1990 e il decreto legislativo 356 del 20 novembre di quell'anno, che con procedure diversificate consentono di "trasformare" in società per azioni "enti" creditizi e "fondazioni" bancarie. Ma l'argomento natural mente esige tutti i necessari approfondimenti perché guardando al quadro generale è di immediata evidenza in qual misura "privatizzare" significa volta a volta cose molto diverse tra loro.
Si "privatizza" già quando semplicemente si trasforma un ente pubblico in società per azioni. In tal caso si opera in termini di forma giuridica. E per esempio nel modo seguito dalla legge 359 dell'8 agosto 1992 con riferimento a Iri, Eni, Ina e Enel. Ma sarà utile segnalare anche il decreto legislativo 369 del 14 agosto 1992 che ha trasformato "in società per azioni" l'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato. Una più circostanziata ricognizione di campo dovrà richiamare altri interventi legislativi di sicuro rilievo.
Interventi legislativi che congegnano operazioni di ingegneria giuridica talvolta notevolmente diversificate in ragione delle particolarità delle singole fattispecie. Da tutti è comunque condiviso un progetto che per l'essenziale invariabilmente utilizza una medesima tecnica di configurazione normativa della "privatizzazione". Impiegando a tal fine disposizioni di legge speciale e con atto unilaterale si costituiscono società per azioni che hanno lo Stato come unico socio della società "impresa privatizzata". Al variare della forma giuridica e dello statuto normativo dell'impresa immediatamente conseguono importanti effetti quanto al regime del suo operare. E tuttavia rimangono invariati i pubblici poteri di comando che i successivi interventi provvederanno a documentare.
Altro è invece "privatizzare" in senso sostanziale sostituendo a proprietà pubblica e pubblico controllo una privata proprietà e un privato controllo dell'impresa. Quando così si opera risultato infatti ne sono una evidente sottrazione di interi settori di impresa all'influenza dominante e al gioco di forze che consentono alla politica di concertare una distribuzione (politica) dei poteri di governo dell'economia. E al modello della dominanza pubblica si sostituisce il modello normativo del mercato dove soggetti privati competono ad armi pari.
Interventi legislativi di questo genere naturalmente non si compiono senza che ne risulti trasformato l'intero assetto (e variata la dinamica) del sistema economico. Ma "privatizzare" in senso forte è ciò che alla scala internazionale ha caratterizzato la politica del diritto degli ultimi decenni essendo semmai necessario ricordare e commentare le difficoltà e le contraddizioni del caso italiano. Se molto si è realizzato infatti non sono mancate (e continuano a essere consistenti) le posizioni di sostegno alle tradizionali forme di dominanza pubblica. A ogni passo ideologie conservatrici e interessi pesanti contrastano le intenzioni legislative di riforma.
Se il discorso delle "privatizzazioni" è molto più di un puro e semplice discorso di congegni normativi, come sempre sono tuttavia le norme a stabilire un punto fermo negli svolgimenti della vicenda. E in questa prospettiva di analisi meritano la più attenta lettura disposizioni come quelle della legge 474 del luglio 1994che aveva provveduto a "norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni". Norme che come si ricorderà a suo tempo avevano conservato consistenti (e discussi) poteri allo Stato, e più precisamente al Ministro del tesoro quanto alla nomina di amministratori, alla adozione di deliberazioni di particolare oggetto e al gradimento di soggetti che possano acquisire partecipazioni rilevanti.
A veder bene si trattava di norme che al tempo stesso prefigurano tuttavia pur sempre ipotesi di larga destinazione al libero mercato delle partecipazioni al capitale sociale delle imprese pubbliche "privatizzate". Ne risulta delineata una politica del diritto di preciso orientamento ma assai problematica che agli esperti di materia si domanda di illustrare.. Sembra difficile immaginare una possibile inversione di tendenza ma sono da valutare e da discutere le ulteriori linee di percorso e le reali chances di avanzamento di un processo ancora lontano dal suo punto di arrivo.
4. In tutt'altra prospettiva di analisi la discussione che si desidera avviare è poi pensata come una ricognizione di campo attenta ai problemi di regime dell'imprenditorialità privata che possano sembrare di maggior rilievo.E di essi non sarà davvero il caso di fare una qualsiasi rassegna perché i successivi interventi sicuramente provvederanno alla necessaria ricognizione di campo. Sia pure in via breve segnalo tuttavia un ordine di problemi che ancora una volta consiglia attenzione e forse suggerisce ripensamenti quanto alle policies legislative tradizionalmente consolidate in tema di statuto giuridico dell'imprenditore.
Si tratta di materia che ben si conosce di modo che richiamare le nozioni del manuale universitario ma ancor prima ricevute dal quinto libro del codice civile non sarà cosa che sottragga molto tempo, anche considerato che è bene lasciare sullo sfondo le numerose e assai motivate considerazioni di quanti hanno espresso decisa critica alla generale nozione di imprenditore codificata dall' art. 2082, per circoscrivere il discorso alla ratio legis e ai contenuti delle disposizioni che definiscono identità e regime dei soggetti che esercitano attività di impresa così come dei possibili oggetti della loro attività.
E a tutto questo si deve guardare muovendo da norme del codice civile che soltanto in parte corrispondono alle necessità di una disciplina nel segno della dovuta chiarezza. Sono comunque disposizioni in più di un caso pensate a misura di assetti imprenditoriali e mercati che nel corso del tempo sono irreversibilmente diventati altra cosa da quanto poteva immaginare il legislatore di allora. Ne deriva una intera serie di difficoltà interpretative inevitabilmente originate da normative lineari ma no altrettanto convincenti.
Norrmative che precisando le grandi linee del sistema come si sa comprensibilmente situano in posizione dominante le disposizioni che riguardano l'imprenditore commerciale, secondo una logica di insieme che assegna poi diverso regime all'impresa agricola senza tuttavia integrare la disciplina di materia con la previsione di ulteriori fattispecie. Altri imprenditori e altri generi di impresa il codice civile non sembra conoscere . Cosa che come i successivi interventi preciseranno è all'origine di complessi problemi che meritano attenta riflessione.
E' infatti assai e elevato e continuamente crescente numero delle attività che in senso economico sembrano configurare imprese di un genere diverso da quante sono "commerciali" o "agricole" per la natura stessa del loro oggetto. Sempre più spesso si avverte perciò la distanza che talvolta ormai spesso separa la configurazione giuridica di imprenditori e imprese dalla realtà di una evoluta economia di mercato ,con tutti i risultati di segno negativo immediatamente evidenti se davvero si ragiona quanto è necessario in termini di analisi economica del diritto di imprese e società.
Ma le norme del codice civile per questa parte della disciplina non consentono alternative e il loro disegno di insieme è assolutamente univoco. In questo senso non servono (e non fanno chiarezza) complessi discorsi di genere pericolosamente astratto. Nei modi che si preciseranno l'art. 2135 stabilisce chi è "imprenditore agricolo". E ogni imprenditore che non lo sia per le norme del codice civile sarà imprenditore commerciale. O comunque imprenditore assoggettato alle disposizioni di regime dell'imprenditore commerciale che qui semplicemente si richiamano per rinvio alle pagine del manuale universitario.
L'imprenditore commerciale è figura di imprenditore che trova la sua rappresentazione in ciò che si legge all'art. 2195 dove in senso letteratle si enumerano soltanto le categorie degli imprenditori "soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese". Ma considerato che come regola di principio l'obbligo di registrazione riguarda per l'appunto le imprese di genere commerciale, come si sa l'art. 2195 è al tempo stesso norma che stabilisce quali attività nel sistema del codice civile appartengono all'ambito delle attività in senso giuridico commerciali.
Impiegando un lessico che è davvero di prima approssimazione ad una adeguata ricognizione di campo la norma dell'art. 2195 si riferisce alle attività che nel linguaggio dell'economia costituiscono "industria", e perciò "produzione" per il mercato di "beni" e "servizi" oppure invece "attività intermediaria nella circolazione dei beni", e perciò "commercio" in senso tecnico e attività del settore distributivo o comunque "intermediazione" del più vario genere.Né si rendono necessarie ulteriori e particolari precisazioni.
E' vero che la norma contiene un più circostanziato elenco di attività da considerare impresa commerciale in considerazione del loro particolare oggetto ma si tratta tuttavia pur sempre di attività di "produzione", e più precisamente di produzione di "servizi" come nel caso delle imprese di trasporto oppure di attività intermediaria come nel caso di imprese bancarie e imprese assicurative. E poi ci sono le attività "ausiliarie delle precedenti" anch'esse assoggettate al regime dell'art. 2195 senza ulteriori indicazioni che provvedano a circoscrivere l'ambito delle attività da considerare per l'appunto ausiliarie. A questo la normativa del codice civile altro non aggiunge.
In presenza di disposizioni di genere classificatorio che impiegano questo genere di formule di estrema sintesi, la loro organizzazione in sistema doveva inevitabilmente offrire materia ad una tormentata elaborazione di teorie e comunque a molte discussioni che sia pure in via breve sembra utile ricordare.Si è ampiamente discusso se la norma dell'art. 2195 presenti carattere tassativo o se invece anche altre attività si possano considerare attività di impresa commerciale.La questione tuttavia non mi sembra tuttavia presentare motivi di speciale interesse perché la formulazione della norma è così estensiva da comprendere in sé ogni e qualsiasi attività di impresa del genere indicato.
E per fare l'esempio di una innovazione di sistema particolarmente rilevante si pensi all'impresa configurata come <società per la cartolarizzazione dei crediti> secondo il regime dell'art. 3 della legge 130 dell'aprile 1999. Quanto all'attività delle imprese che per essere ausiliarie sono anch'esse imprese " commerciali ", e quindi per l'art. 2195 assoggettate al regime condiviso dalla generalità delle imprese commerciali, sarà semplicemente il caso di indicare come tali le attività di imprese che svolgono nelle forme più varie una funzione servente, si tratti dell'"agenzia immobiliare" che opera in posizione ausiliare di altre imprese, dell'imprenditore che offre consulenza aziendale, delle imprese che provvedono a servizi di deposito o di spedizione oppure altre ancora.
Se interrogativi di statuto giuridico si pongono sono interrogativi che riguardano diverso oggetto indicando evidenti insufficienze dela normativa del codice civile. Interrogativi che segnalo per una possibile discussione dovendosi considerare il complesso e problematico insieme delle imprese che non operano in posizione ausiliare, svolgono attività che non presentano i caratteri distintivi dell'art. 2195 e finiscono quindi per configurare fattispecie con notevoli caratteri di atipicità.
Si è perciò spesso impiegata la ben nota definizione di imprese civili per indicare appunto imprese che al mercato offrono "beni" e "servizi" di incerta qualificazione ma comunque lontani dall'essere attività di produzione industriale o di intermediazione commerciale in senso tecnico. Si pensi alle imprese che come le imprese minerarie producono senza trasformare materie prime. E agli imprenditori che comunque offrono servizi non commerciali come nel caso delle imprese che offrono un servizio scolastico, di altre che organizzano pubblici spettacoli o altre ancora che operano da agenzia investigativa.
Attività di questo genere sono sempre più numerose in diversi settori dell'economia del "terziario" e sono sicuramente in fase espansiva. L'argomento merita perciò molta attenzione quanto alle norme da applicare. Talvolta è sembrato di poter sostenere che ci si trova in presenza di attività da considerare come oggetto di imprese appartenenti ad un tipo a sé. E si è proposto di applicare ad esse soltanto le norme di statuto generale dell'imprenditore con esclusione di quante valgono per le imprese commerciali.Opinione che mi sembra difficile condividere.
Se così fosse per interi comparti di impresa risultato tuttavia ne sarebbe una scarsa regolazione di imprenditori e attività. Risultato tutt'altro che opportuno e del tutto ingiustificato perché si tratta pur sempre dell'operare di imprese che "producono" per il mercato secondo la ratio legis dell'art. 2195 essendo perciò ragionevole applicare ad esse la disciplina che vale per l'imprenditore commerciale.Ma anche di tutto questo sarà utile discutere.
All'universo normativo delle imprese commerciali mi sembra infine appartenere con ogni evidenza anche l'impresa artigiana. Si deve ricordare che molti non sono di questo avviso e sarà bene confrontare le opinioni . Ma se è vero che chi è artigiano non svolge attività "industriale" nell'accezione dell'art. 2195 sarà chiaro che l'impresa artigiana svolge pur sempre una attività "diretta alla produzione di beni e servizi". E già si diceva che il sistema del codice civile non conosce imprese diverse dall'impresa commerciale se non nel caso dell'impresa agricola che naturalmente è tutt'altra cosa.
Semmai si deve avvertire che la discussione da svolgere con riguardo all'impresa artigiana dovrebbe muovere da una analisi delle grandi linee del sistema. Va considerato il disegno delle norme costituzionali, e perciò il secondo comma dell'art. 45 Cost. dove si prefigurano interventi con finalità di "tutela" e di "sviluppo" dell'artigianato così come lo spazio a suo tempo già aperto dalla norma dell'art. 117 a possibili interventi del legislatore regionale. Occorre poi considerare la disposizione del codice civile che (all'art. 2083) guarda all'artigiano come figura di "piccolo imprenditore". Occorre infine valutare il particolare rilievo delle norme della "legge quadro" per l'artigianato, le norme della legge 443 dell'agosto 1985 che stabiliscono misure di incentivazione e sostegno di questo importante comparto dell'economia.
La materia è fortemente specialistica e saranno gli specialisti di materia a fare chiarezza In apertura di discorso ricordo soltanto che l'intervento legislativo operato con la legge "quadro" del 1985 ha provveduto a significative disposizioni di principio. Per indicazione delle norme della legge dell'agosto 1985 è possibile oggetto dell'impresa artigiana qualsiasi "produzione di beni" o qualsiasi "produzione di servizi". , essendo tuttavia esclusi taluni settori di attività enumerati dal primo comma dell'art. 3 (e tra questi comunque quanti appartengono all'ambito di operatività dell'impresa agricola).
Imprenditore artigiano è chi "esercita personalmente" e "professionalmente" in qualità di "titolare" la attività di impresa. Ne deriva "piena responsabilità" per "oneri" e "rischi" conseguenti alla "direzione e gestione" della attività. Ma al tempo stesso chi è "artigiano" alla attività assicura il suo contributo svolgendo "in misura prevalente" il "proprio lavoro, anche manuale" nel "processo produttivo" che caratterizza l'impresa. Non è invece stabilito un principio di prevalenza del lavoro suo (e di membri della famiglia) sul lavoro altrui e sul capitale investito nell'impresa essendo stabiliti soltanto limiti di soglia al numero dei dipendenti "estranei alla famiglia dell'imprenditore".
Norma del codice civile e norme di legge speciale offrono ampia materia a contrastanti orientamenti. Secondo una opinione, le diverse norme coesistono dovendosi provvedere ad una loro (non facile) organizzazione in sistema unitario. Secondo altra opinione, le norme di legge speciale sono invece ormai la nuova disciplina di statuto dell'imprenditore artigiano, operando in sostituzione di quanto si possa derivare dall'art. 2083 del codice civile, che per altri invece si deve ancora ritenere norma costitutiva della nozione di impresa artigiana per ciò che non sia legislazione di "incentivazione" e "sostegno" del settore. E anche questo è importante argomento per la discussione.
Se è vero che l'artigiano appartiene al numero degli imprenditori commerciali mi sembra allo stesso modo indiscutibile che non apparterrà necessariamente al numero dei "piccoli imprenditori". In caso di insolvenza sarà quindi soggetto al regime delle procedure concorsuali ogni volta che non si tratti di piccola impresa artigiana. E non è "piccola impresa" l'impresa artigiana che si costituisca in forma di società, volta a volta società in nome collettivo, in accomandita semplice o ancora società a responsabilità limitata "unipersonale" non essendo poi da escludere il ricorso alla forma giuridica della società cooperativa.Da ciò ulteriori argomenti per un utile approfondimento.
Va infine segnalata la innovazione disposta dalle norme della legge delche ha amplia il numero delle possibili fattispecie di configurazione dell'impresa artigiana come società di capitali secondo il tipo della società a responsabilità limitata. A integrazione del regime già stabilito per l'impresa "unipersonale", le norme della nuova legge consentono anche alla società artigiana di costituirsi come "società a responsabilità limitata" se "nel processo produttivo" più di un socio "in prevalenza" svolge "lavoro personale", e se la maggioranza dei soci "attivi" nel "processo produttivo" detiene la maggioranza del capitale sociale.
Anche a non considerare i possibili benefici di carattere fiscale, una normativa che costituisce porta aperta all'ingresso di un grande numero di imprese artigiane nel comparto delle società a responsabilità limitata è innovazione di consistente rilievo. Permette infatti alle imprese di acquisire le maggiori risorse finanziarie così necessarie per l'innovazione tecnologica e per una presenza di mercato davvero competitiva.Ma anche di ciò possono utilmente dire soltanto gli esperti professionali della materia.
Infine la posizione di quanti sono imprenditori dell'agricoltura. L'art. 2135 del codice civile come si sa definisce l'impresa agricola e più precisamente l'imprenditore agricolo, inteso come tale "chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame" e "attività connesse ". Ancora l'art. 2135 avverte poi che "si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli" ma soltanto se e in quanto si tratti di attività "che rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura".
Sono perciò certamente attività connessa all'esercizio dell'impresa agricola tutta una serie di trasformazioni del prodotto della attività (e per esempio la trasformazione dell'uva in vino), così come l'offerta dei prodotti della coltivazione del fondo (e per esempio esposti al pubblico per una diretta vendita a chi passa). Ma non sono più esercizio normale dell'agricoltura una attività industriale di trasformazione dei prodotti o l'organizzazione di una rete di vendita sul modello del grande commercio.Altro si dovrebbe aggiungere ma più delle questioni particolari interessa una discussione in termini analisi economica del diritto che guardi allo scenario generale.
Fino a che l'attività svolta dall'impresa appartiene all'ambito delle attività che per la norma del codice civile sono fare impresa "agricola", il suo regime si caratterizza per la sua speciale disciplina che come si ricorderà in estrema sintesi significa esclusione delle prescrizioni che valgono per l'imprenditore commerciale. Ne deriva uno statuto giuridico di impresa di genere molto lineare che sarà bene richiamare e che in via breve può essere così rappresentato.
La iscrizione dell'impresa agricola nella sezione speciale del registro delle imprese ha gli effetti di pubblicità legale stabiliti dall'art. 2 del decreto legislativo 228 del 2001.. Non operano le disposizioni intese a regolare l'agire negoziale dei dipendenti che agiscono in rappresentanza dell'imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni che per l'imprenditore commerciale stabiliscono stringenti vincoli in materia contabile. E in caso di insolvenza l'imprenditore agricolo non è assoggettato alle procedure concorsuali. Ne consegue uno statuto giuridico dell'imprenditore agricolo che in grande parte costituisce oggetto di motivate perplessità e comunque occorre discutere.
Già in linea di principio è ormai molto discutibile la stessa distinzione di regime tra impresa agricola e impresa commerciale. Si tratti di "coltivazione del fondo" o di quant'altro è attività indicata dall'art. 2135, anche in agricoltura sono ormai assolutamente prevalenti modalità d'uso delle risorse e tecnologie produttive davvero lontane da ciò che un tempo segnava la loro distanza dalle imprese di genere industriale. Va poi rilevato che per un mondo di agricoltura "industrializzata" il ricorso al credito e al mercato dei capitali è fenomeno a grandi dimensioni.
Con frequenza sempre maggiore mancano perciò le ragioni costitutive di una speciale disciplina. Anche in questo senso le norme del codice civile delineano uno statuto giuridico dell'impresa agricola che guarda al passato e in ampia misura da ripensare.
5 . La discussione che si è progettato sarà tuttavia discussione in via principale e per la grande parte espressamente riservata alla disciplina dell'imprenditore commerciale , l'imprenditore che sia <società commerciale > e in modo particolare < società per azioni > con particolare riguardo alle società di capitali a grande dimensione e caratterizzate dall'appartenenza ad un gruppo di società . Ancora una volta si domanda una analisi di stretto diritto positivo con speciale riguardo agli argomenti che saranno indicati più avanti occorrendo tuttavia al tempo stesso valutare anche un ordine di problemi e regole di diverso genere che sarà forse utile segnalare fino da ora.
Si pensi al non financial report costituito dal bilancio sociale dell'impresa oggi sempre più al centro di numerose iniziative e di così ampio dibattito.Si teorizza e si comincia a praticare la responsabilità sociale dell'impresa quale <rendicontazione > del suo operare agli stakeholders e alla generalità dei soggetti interessati <alla vita dell'azienda >. E precisando i contenuti del bilancio <sociale > dell'impresa rappresentativo della sua corporate social responsibility, si avverte che il bilancio sociale dell'impresa non deve essere semplicemente un documento in più da allegare ai documenti di bilancio prescritti dal diritto contabile di imprese e società.Rilevano <grandezze di natura sociale e ambientale > e gli altri valori collettivi variamente indicati nel modello elaborato dall'Istituto europeo per il bilancio sociale.
In puntuale correlazione con il bilancio di esercizio dell'impresa il bilancio sociale non financial report elaborato dall'Istituto europeo è modello condiviso dal Social and Ethical Auditing and Accounting Network . Muove da una <premessa metodologica > e consiste di più parti che variamente riguardano <identità aziendale >,<rendiconto > di impresa ,criterii di rilevazione dei fattori significativi, <attestazioni> procedurali e altro ancora,trattandosi comunque di documentare il punto di incontro tra <quantità economiche > e <qualità di relazione > tra impresa , decisioni di impresa e posizione di interesse della collettività sociale di riferimento.
Segnalo in via breve la riflessione ormai ampiamente avviata nel mondo anglosassone dove molto autorevolmente e adesso anche in posizioni ufficiali di autorità di governo si asserisce che va respinta l' <idea erronea secondo la quale > l'agire di impresa e <obiettivi sociali> inevitabilmente <si trovano> in obbligato <conflitto> aggiungendosi che le imprese <devono essere <socialmente responsabili> con un forte impegno nelle <comunità> di loro appartenenza. In questo senso si prefigurano (e occorre discuterne) iniziative di <prevenzione > dei fenomeni di degrado ambientale, modalità di erogazione di servizi che migliorano la < qualità > del lavoro, promozione e sostegno di attività che favoriscano i processi di < contenimento> dei fattori di separatezza e antagonismo tra mondo dell'impresa e <società civile>.
Ma vi è di più se si considerano i risultati dell'analisi svolta dal londinese Institute of business ethics secondo che le imprese <più virtuose > finiscono per essere <premiate dal mercato> visto che realizzano performances migliori di quante ne conseguono imprese <meno sensibili> ai temi etica economica. Già nel corso degli anni Novanta autorevoli studiosi avevano sostenuto che le società di capitali < con loro codice etico> finiscono per conseguire i migliori risultati in termini di market value added inteso come tale il <maggior valore> che gli azionisti acquisiscono a fronte del <costo del loro investimento >.
E l'indagine dell' Institute of business ethics ha adesso applicato anche il parametro dell'Eva ,economic value added per rilevare risultati positivi anche quanto al <profitto che la gestione di impresa realizza> in sovrappiù nel confronto con < il rendimento minimo atteso dagli investitori >. Medesime indicazioni sembrano derivarsi sia dall'impiego del Roe misurante il <ritorno > economico del capitale investito dall'impresa sia dalle ulteriori valutazioni in termini di price/earning ratio e perciò calcolando il rapporto tra valore di mercato delle azioni e utile per azione.
Già in questo senso pare confermato (ma occorre discuterne) che la corporate social responsibility , la rendicontazione sociale dell'impresa sia anche egoisticamente premiante.Certo è che sempre più spesso si domanda di coniugare <il bene dell'impresa > con < il bene della più ampia comunità sociale > considerando che le iniziative orientate in questa direzione comunque portano con sé rilevanti <benefici > all' impresa, perché ne accrescono la reputazione , valorizzano segni distintivi e <marchio> societario, incrementano i processi di <fidelizzazione della clientela> essendo ormai visibilmente diffuso un sentire collettivo che privilegia le imprese socialmente responsabili.
Il problema e l'interrogativo oggi dominanti tuttavia sono se <la virtù > può <essere imposta >,e perciò se in materia di attività dell'impresa <socialmente responsabili> sia miglior policy codificare regole di diritto o se invece alla corporate social responsibility occorra riconoscere <natura volontaria >. E la posizione preferibile sembra essere che sono impensabili normative con carattere di imperatività là dove si rende necessario lasciare spazio alla autonomia e alle libertà di impresa Ma ( anche di questo sarà bene discutere e ) se deve considerarsi esclusa una inimmaginabile policy di segno dirigista comunque possono utilmente pensarsi normative di incentivo.
Occorrono in ogni caso indicazioni di segno forte in via di moral suasion così come puntuali normative di self regulation o comunque di soft law davvero capaci di impegnare imprenditori e imprese a <tener conto dell'impatto economico,sociale e ambientale > che il loro operare ha <sulle comunità> che ne sono interessate. Come si sa anche nel nostro paese le strategie di governo del welfare state adesso indicano l'argomento della corporate social responsibility come< strategico per i rapporti tra economia e società> , i progressi in direzione della responsabilità sociale dell'impresa essendo adesso segnalati nel numero delle <priorità del semestre di presidenza italiana> del .E la discussione in materia di previdenza privata con finalità pensionistica sempre più spesso guarda adesso alla possibile attivazione di fondi pensione <etici>.
Merita poi attenta considerazione (e ampia discussione ) l'orientamento di recente emerso nel corso dei lavori della Conferenza europea che ha considerato in modo assai incisivo < il ruolo delle politiche pubbliche nella promozione > della responsabilità sociale di impresa. E la <proposta italiana > si è concretata nella < definizione> di un certo numero di <indicatori> con caratteri di flessibilità intesi a <misurare> appunto < il grado> di responsabilità sociale dell'impresa <tenendo debitamente conto delle sue dimensioni>. Ne risulta precisato che <attori principali > del sistema sono <le imprese, il ministero del Welfare e un (…) organismo > denominato corporate social responsibility Forum ,e al tempo stesso stabilito che il <fondamento su cui poggia l'architettura del sistema > sarà un Social Statement anch'esso contestualmente definito.
Una volta avvertito che il sistema deve operare ( non in forza di imperatività di norme ma ) su <base volontaria > si è prefigurata una <autovalutazione> in termini di responsabilità sociale che l'impresa possa svolgere verificando la conformità del suo operare ai previsti e assai numerosi <indicatori> della maturata responsabilità sociale dell'impresa.. Da ciò il social statement da trasmettere al Crs Forum per le valutazioni di sua competenza che in caso di esito positivo consentiranno all'impresa di conseguire i benefici premiali da attivare quale incentivo alla assunzione imprenditoriale di una forte social responsibility .
Ne è confermato un orientamento (del ministero per il Welfare State e più in generale ) del governo ulteriormente definito dal riferimento ad una ancora più ampia politica di Social Commitment, intesa ad incentivare con un sistema premiale (di genere fiscale o ancora diverso ) le imprese che al di là della loro social responsibility provvedano ad avviare iniziative socialmente meritevoli ( e per esempio ,iniziative di attenzione ai problemi delle famiglie disagiate ,degli anziani o altre ancora ). Ma il sindacato osserva che <la responsabilità sociale dell'impresa(..) si misura prima di tutto al suo interno (…) nelle relazioni con i lavoratori > .E sarà utile una discussione che si misuri con il problema senza nulla concedere ai discorsi che astraggono dalla realtà.
Cosa consigliabile anche quando la discussione da avviare riguarderà in modo più stringente i tradizionali problemi di regime delle società di capitali e di corporate governance .Agli esperti di materia si domanda una puntuale ricognizione delle esperienze e delle progettazioni normative in atto anche in una prospettiva di comparazione , in questa prospettiva di analisi insieme a molto altro meritando certamente attenzione la vicenda del rapporto Higgs elaborato dal gruppo di lavoro presieduto appunto da Derek Higgs che per incarico del governo ha redatto il documento reso noto a gennaio del 2003.
E' un documento di <raccomandazioni> secondo logica di autoregolamentazione self regulation che non diventerà norma di legge ma comunque sarà accorpato al Code di governance che le imprese si impegnano a sottoscrivere going public con la loro offerta di titoli al mercato dei capitali di rischio. Suo punto di particolare rilievo è la raccomandata indicazione di un elevato numero di componenti dei consigli di amministrazione <non esecutivi e <indipendenti> . E <almeno la metà del consiglio> dovrebbe essere composta appunto da amministratori indipendenti chiamati a funzioni di garanzia quanto a controlli contabili,remunerazioni dei dirigenti e altro ancora secondo la logica di un controllo che sia anche propositivo <nell'interesse della azienda oltre che degli azionisti >.
E ad un senior indipendent director si è pensato come interlocutore degli azionisti di minoranza con funzioni di loro speciale tutela . Altro punto forte del progetto è la distinzione tra presidente chairman anch'egli in posizione di indipendenza come <garante di tutti> e amministratore delegato <curatore degli interessi aziendali>,operando perciò una precisa logica di check and balances all'interno della organizzazione societaria che di per sé esclude la transizione da un ruolo all'altro.Tuttavia già ad aprile del 2003 il dibattito era assai accesso da più parti temendosi policies interpretative di segno dirigista e le possibili forme di conflittualità tra amministratori con responsabilità di gestione e amministratori indipendenti.
In ambito sovranazionale meritano poi speciali attenzioni le proposte che in tema di corporate governance sono in corso di elaborazione all'Ocse essendo prevista una loro definitiva formulazione per il maggio 2004. Già molto interessa la metodologia di lavoro privilegiata considerato che per la progettazione di regole di governo societario l'Ocse ha domandato il più ampio contributo sia ai paesi membri sia ad autorità di pubblica vigilanza , ad <istituzioni non governamentali>, a organizzazioni sindacali, e altre associazioni rappresentative di interessi collettivi.
E se è vero che dall'Ocse possono attendersi ( non modelli di regolamentazione al dettaglio ma ) soltanto generali enunciazioni di principio , sembra di comprendere che si tratterà di basic rules non limitate alle tradizionali questioni della garanzia di trasparenza e correttezza dell'informazione societaria, invece variamente intese a considerare i problemi correlati a competenze e indipendenza degli organi della gestione societaria , a stock options e remunazione degli amministratori , conflitti di interesse nella complessa dinamica di rapporto tra società emittenti,intermediari di mercato mobiliare, analisti finanziari e società di rating. In questa prospettiva di analisi già il caso italiano offre tuttavia ampia materia di riflessione
(continua ).
(* ) In queste pagine si trascrive una prima parte dei < materiali per una discussione > impiegati per indicare l'oggetto di un <incontro per la didattica> a svolgersi nel corso dell'anno accademico .