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Imprenditori e imprese commerciali.

 

I lineamenti generali della disciplina. (*)

 

 

Mario Bessone



1.1. Imprenditori, imprese e mercato .Le libertà di iniziativa e le regole di costituzione economica.Uno sguardo di insieme;1.2 La nozione e lo statuto giuridico di "imprenditore"..Regole di sistema e fenomeni devianti. Imprenditori occulti. Illecito di impresa, imprese illecite; 2. Imprenditori commerciali . Le dimensioni dell' impresa e i "piccoli imprenditori";3. Lo statuto giuridico dell'imprenditore commerciale. Il registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali. 4 L'azienda,il valore di avviamento.Opere dell'ingegno e invenzioni. I segni distintivi; 5.Organizzazione dell'impresa, discipline di contratto e regole di svolgimento delle attività di mercato ;6.1 Stato di insolvenza e par condicio dei creditori dell'impresa. La dichiarazione di fallimento e gli organi della procedura. Liquidazione dell'attivo e chiusura del fallimento. Il caso del concordato fallimentare;6.2.Le altre procedure concorsuali. Concordato preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa. L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi 7. Diritto penale dell'impresa.Costituzione economica e garanzie del controllo di legalità .Norme in bianco e grandi linee del sistema.La responsabilità sociale dell'impresa.


1.1.Imprenditori, imprese e mercato .Le libertà di iniziativa e le regole di costituzione economica. Uno sguardo di insieme

E' imprenditore chi organizza fattori di produzione, perciò risorse di capitale e forza lavoro per svolgere una attività, la attività di impresa che dall'impiego di capitale e lavoro deriva beni e servizi offerti al mercato. E in ogni senso dominante è la posizione dell'imprenditore che (con linguaggio pericolosamente indeterminato) le norme indicano come imprenditore commerciale. Ma lo scenario di insieme ha una estensione di campo che in apertura di discorso sarà bene considerare. Le formule di estrema sintesi infatti servono a poco e rinviano in prima approssimazione ad un intero universo di fenomeni molto diversi tra loro. Diversi per l'oggetto quanto possono essere diverse l'offerta di mercato dell'industria, dei settori dela distribuzione di beni e servizi, dell'agricoltura, dell'artigianato e altri ancora. Massimamente rilevano poi le dimensioni della attività di impresa. Si pensi a tutta la distanza che separa grande impresa e gruppi di imprese da iniziative di minore grandezza essendo poi in una posizione a sé il comparto dei <piccoli> imprenditori. E comunque una cosa è l'impresa esercitata per iniziativa individuale, altra cosa l'impresa organizzata nella forma giuridica della società che aggrega persone e mezzi per "l'esercizio in comune di una attività economica", mediante conferimenti di risorse che consentono di operare con strumenti e ad una scala semplicemente impensabile per l'impresa organizzata a misura delle forze del singolo imprenditore individuale.
Perciò "impresa" e "società" sono semplicemente nozioni di genere riassuntivo in una materia che non consente più di tanto semplificazioni e percorsi lineari. E anche "mercato" è parola povera di contenuto esistendo tanti mercati quanti sono i beni e i servizi oggetto di offerta. Occorrerà perciò molto distinguere. Ma vale pur sempre la regola che l'imprenditore in ogni caso opera a suo rischio e secondo principio di economicità. Il rischio è che i ricavi della attività non riescano a compensare i suoi costi. E principio di economicità significa organizzare l'impresa in modo tale da scongiurare quel rischio, spingendo i ricavi ad una soglia così elevata da remunerare sia i fattori di produzione sia lo stesso imprenditore con un suo margine di profitto a premio della attività svolta. Nel caso dell'imprenditore pubblico o di altri imprenditori che non perseguano finalità di profitto a premiare l'iniziativa economica sarà il risultato di un attivo o di un pareggio di bilancio a riprova del positivo andamento delle attività di impresa.
Disciplinano la materia disposizioni del quinto libro del codice civile (che anche altrove tuttavia stabilisce disposizioni regolatrici di imprese e società). E si sa quale radicale riforma di sistema si è compiuta con la nuova disciplina sostanziale e processuale delle imprese <società di capitali> stabilita dall'intervento legislativo del gennaio 2003. Ma al tempo stesso intervengono norme di diversa fonte non escluse le norme del diritto penale. A integrare il sistema delle fonti concorre poi in misura determinante un crescente numero di leggi a carattere speciale, ormai presenti con una estensione di campo e in quantità tali da motivare l'assunto dei molti che mettono in evidenza un processo di avanzata decodificazione della materia. Esistono in ogni caso separati ordinamenti di settore. L'impresa bancaria ha un suo speciale regime. Normative a sé valgono per l'impresa assicurativa. Le imprese del mercato finanziario hanno loro particolari discipline. E questi sono soltanto alcuni punti di più evidente emersione di un consistente insieme di ordinamenti di comparto. Altro ancora appartiene poi ad un sistema delle fonti normative ormai multiforme che per il suo stesso oggetto rende indispensabile una attenta analisi economica del diritto dell'impresa. 
Una giurisprudenza talvolta davvero creativa configura un autentico diritto giurisprudenziale di imprenditori e società . Con valore normativo operano usi commerciali e altre regole di soft law. Rilevano variamente discipline di fonte privata che sono lex mercatoria volta a volta costituita da regolamenti di associazioni imprenditoriali, contratti di genere normativo, statuti di correttezza professionale. E se è vero che è in atto una visibile tendenza ad ampliare lo spazio aperto a forme di self regulations di imprese e imprenditori commerciali ,di società e mercati a veder bene sono tuttavia pur sempre numerose le modalità di loro regolazione con gli strumenti del diritto amministrativo e della pubblica vigilanza. Strumenti che in più di un caso operano secondo logica di formalismo burocratico con risultati di segno negativo infinite volte documentati. Ma sono ormai in atto notevoli inversioni di tendenza e come già si diceva con riguardo alle imprese <società di capitali> i decreti legislativi del gennaio 2003 hanno segnato una autentica svolta di sistema. Quanto alla frammentazione della disciplina per via di norme di legge speciale, in più di un caso tali da configurare separati ordinamenti di settore e un particolare regime di attività e imprese, sarà chiaro che lo scenario imprenditoriale dei tempi di capitalismo maturo presenta caratteri di complessità sconosciuti al mondo che poteva immaginare il legislatore dei lontani tempi del codice civile.
Guardando alle linee evolutive del sistema (e a quanto oggi maggiormente rileva) si deve infine segnalare un dirompente processo di destatualizzazione dovuto alla posizione di grande (e sempre maggior) incidenza delle nome sovranazionali.Con una crescente estensione di campo operano con particolare forza le fonti di diritto dell'Unione Europea. E alle disposizioni delle direttive comunitarie ( ma anche a regolamenti di diritto comunitario) si devono numerose e importanti riforme della disciplina spesso variata anche in punto di principi generali e di complessivo assetto del sistema. Già ne risulta una autentica uniformazione sovranazionale del diritto dell'impresa che coinvolge e trasforma la stessa nozione di "impresa". Più ancora la politica comunitaria di uniformazione riguarda il diritto delle imprese societarie e dei mercati finanziari. Ma tutto questo è nell'ordine delle cose perché da sempre il diritto dell'impresa e delle società allo stesso modo del diritto dei mercati finanziari ha vocazione transnazionale. Lo scenario di inizio secolo si caratterizza tuttavia per la compresenza di fenomeni che ai problemi di genere transnazionale sempre più spesso assegnano una nuova dimensione.
Sono i fenomeni con formula di estrema sintesi indicati come economia globale e new economy. Come si sa globale l'economia di questo inizio secolo è nella crescente quantità volta a volta documentata dall'operare di imprenditori e imprese che operano alla scala internazionale considerando loro <mercato> l'intera serie dei mercati dove sia possibile una offerta di beni e servizi .E a questa strategia di presenza globale assicurano strumenti decisivi i congegni di genere telematico variamente costituiti dalle possibili modalità di integrazione delle tecnologie della telecomunicazione con quelle dell'informatica e di Internet. Da ciò una economia <produttiva> e una economia <finanziaria> popolate da imprese che per gran parte ormai ignorano i confini nazionali e la new economy di inizio secolo che sarà possibile disciplinare quanto occorre soltanto mediante complessi apparati di norme transnazionali operative a tutto campo. Norme in ampia misura ancora allo stato di spesso incerta progettazione insorgendo problemi che in queste pagine tuttavia semplicemente si segnalano per i possibili approfondimenti.
Si è già avvertito che se a tutt'oggi non esiste una disciplina di economia globale e new economy con gli indispensabilità caratteri di universalità significativi passi nella giusta direzione si devono alla politica del diritto el segno della moral suasion e alle <raccomandazioni> dell'Unione Europea che si aggiungono ai già richiamati regolamenti e all' ormai così consistente numero di direttive comunitarie .Ma anche in questa materia sono davvero urgenti normative che valgano da legge applicabile all'intero contesto di un sistema economico che ad una dimensione più ampia di quella europea ormai opera senza più alcun regolamento di confini. E per fare soltanto un esempio (ma un esempio sicuramente emblematico) dell' e.commerce andranno regolati alla scala indicata tutti i suoi diversi comparti , e in modo particolare il business to business commercio elettronico tra imprese così come il business to consumer nella complessa trama dei rapporti tra imprese e consumatori dei beni e dei servizi offerti al mercato.
L'universo delle attività di impresa e dei settori dell'economia che sono new economy attrezzata con strumentazione telematica ha tuttavia dimensioni ancora maggiori .Si pensi al comparto delle transazioni via Internet per così dire consumer to consumer ,rese praticabili dall'immediato contatto che la rete web consente a chiunque di stabilire con altri mediante l'attività di intermediazione svolta da imprese dell'industria informatica che provvedono all'incontro di domanda e offerta sullo schermo dei loro computers . E si pensi alle attività di e.procurement variamente costituite da <prestazioni> e da <forniture di beni> che l'imprenditorialità privata assicura ad amministrazioni pubbliche appunto nelle forme dell'e-commerce .Si pensi infine in qual misura lo stesso e.government ,il flusso crescente dei pubblici servizi dalle amministrazioni erogati per via informatica porta con sé anche operazioni ausiliarie di privati imprenditori. Economia globale e new economy delle tecnologie dell'informatica operano con modalità che assegnano il ruolo protagonista a contratti di impresa che per quanto è possibile si sottraggono al controllo di una normativa che vincoli le iniziative di mercato.E in tempi di capitalismo maturo qualsiasi normativa di vincoli per eccesso porta con sé risultati di segno negativo. Ma questo non significa in alcun modo che si possa consegnare attività imprenditoriali e mercati ad una privata lex mercatoria che stabilisca da sé le sue regole.
Da ciò l'urgente necessità delle normative che occorre progettare e rendere effficamente operative per identificare un possibile punto di equilibrio tra autonomia di impresa e garanzie di una regolazione pubblica delle attività di mercato. E anche quando si tratti di new economy per intanto a imprese e mercati occorre pur sempre guardare nella prospettiva indicata da norme costituzionali che si segnalano per una serie di precise enunciazioni di principio. Le attività di impresa sono iniziativa economica regolata dall'art. 41. E la norma costituzionale regola l'iniziativa economica secondo principio di libertà ma prefigura pur sempre limiti, programmi e controlli. L'"iniziativa economica privata è libera". Alle libertà di "iniziativa economica privata" tuttavia segnano un limite valori costituzionali ancora più forti essendo stabilito che "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". 
E "a fini sociali" la norma segnala al legislatore ordinario i necessari strumenti di politica del diritto. Se occorre "la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica" sia privata o pubblica "possa essere indirizzata e coordinata" appunto "a fini sociali". Per l'art. 43 sono ancora "fini di utilità generale" e il "preminente interesse generale" a motivare originarie riserve o successivi trasferimenti al settore pubblico di "determinate imprese" o di "categorie di imprese" che si riferiscano "a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio" . E in questa prospettiva di analisi (che deve in decisiva misura essere analisi economica del diritto di imprese e società) è necessario ricordare fino da ora in che misura la norma costituzionale dell'art. 47 vincola ogni comparto dell'economia finanziaria all'osservanza delle regole di garanzia di <tutela del risparmio> in <tutte le sue forme> .
Limiti, programmi, controlli e riserve di attività tuttavia non sono spazio aperto alla pura e semplice decisione politica. Possono operare soltanto nella misura indicata da norme di costituzione economica che se presidiano valori della collettività ancora una volta al tempo stesso si pongono a garanzia delle libertà dei privati. Garanzia di libertà di iniziativa in una economia di mercato dove competere secondo regole di concorrenza tra imprenditori e imprese. Le norme costituzionali ignorano il mercato ma il principio della libertà di concorrenza a veder bene è già contenuto nella garanzia di libertà dell'iniziativa economica. Se posizioni dominanti o intese restrittive della concorrenza o concentrazioni di poteri non consentono ad altri l'accesso al mercato o spingono fuori del mercato, "libertà di concorrenza" è infatti soltanto un insieme di parole senza un significato utile. Da ciò il grande rilievo della legge 287 dell' ottobre 1990 che finalmente guarda al mercato e al principio di concorrenza nel modo che era necessario. E la sua norma di apertura avverte che si tratta di disposizioni stabilite "in attuazione dell'art. 41 Cost." appunto "a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica".
Occorreva assegnare al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile. L'art. 2595 avverte che la concorrenza deve svolgersi "nei limiti stabiliti dalla legge". L'art. 2596 circoscrive l'oggetto e l'orizzonte temporale degli accordi contrattuali di non concorrenza. L'art. 2597 obbliga "a contrattare con chiunque" e a "parità di trattamento" l'imprenditore che operi in regime di monopolio legale. E alla concorrenza le norme del codice civile (sono le norme degli artt. 2598 a 2601) ancora guardano per la dovuta prevenzione e sanzione degli atti di concorrenza sleale. Ad esse si dovevano aggiungere discipline di settore certamente utili. Ma una cosa è la serie delle frammentate disposizioni che pretendono lealtà nelle relazioni di mercato tra imprese, vincolano l'imprenditore monopolista ad un corretto agire di mercato e segnano un limite ai poteri negoziali dei singoli imprenditori, derivando da ciò in modo indiretto e comunque molto limitato risultati di miglior andamento delle attività di mercato e di tutela dei consumatori. Tutt'altra cosa una organica disciplina di garanzia a misura dei principi di costituzione economica.
In che direzione muovere indicavano con chiarezza già le norme del diritto comunitario che stabiliscono disciplina quanto al mercato internazionale. Sono norme che riguardano il "commercio tra gli Stati membri" e operano a garanzia della osservanza delle regole del "gioco della concorrenza nel Mercato comune". Regole del gioco con ogni evidenza violate se accordi tra imprese, posizioni di dominio o iniziative di concentrazione imprenditoriale non consentono ad altri di partecipare alla competizione commerciale con reali possibilità di successo. E nel disegno della normativa europea provvedere a che "la concorrenza non sia falsata" è un valore che ha tutto il rilievo indicato dall'art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea. Ad "un regime inteso a garantire" che sul mercato si operi secondo principio di concorrenza è riservata la posizione che compete agli strumenti e alle "politiche" da considerare nel numero dei fattori determinanti per realizzare il progetto comunitario. Operano perciò disposizioni che ne sono elemento costitutivo e impegnano ad interventi con finalità di prevenzione e di sanzione dei comportamenti devianti.
Il primo comma dell'art. 81 del Trattato vieta tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che per l'appunto possano "pregiudicare" il commercio o che "abbiano per oggetto o per effetto" di "impedire", "restringere" o falsare" la competizione imprenditoriale. E la medesima norma già enumera una serie di accordi, decisioni e pratiche da considerare materia di divieto. Per una interpretazione in senso forte delle garanzie di libertà di commercio "tra Stati membri" merita poi grande attenzione la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea. Parte rilevante dell'ordinamento di settore è anche la disciplina di esenzione dal divieto disposta dal terzo comma dell'art. 81, per il caso di intese che "contribuiscano a migliorare" produzione industriale o settore distributivo e ancora a "promuovere il progresso tecnico" o "economico". Ma in linea generale il secondo comma dell'art. 81 avverte che gli accordi incompatibili con il principio di libera concorrenza sono (vietati e) nulli "di pieno diritto", operando poi gli "ordini di cessazione" e le sanzioni che si indicano in via di disciplinare regolamentare.
Ancora in funzione di garanzia di effettività del principio di concorrenza, e guardando al "commercio" interstatuale la norma dell'art. 82 del Trattato stabilisce regole e divieti per il caso dello "sfruttamento abusivo" di una posizione dominante. Situazioni di questo genere si configurano quando singole imprese "o più imprese" si avvalgono di una posizione forte che consente di determinare prezzi, controllare la dinamica di un settore di attività o comunque di imporre un dominio su taluni comparti del "mercato comune". Per disposizione del regolamento comunitario 4064 del 21 dicembre 1989 (a suo tempo modificato dal regolamento 1310 del 30 giugno 1997) si esercita infine una rigorosa vigilanza sulle operazioni di concentrazione imprenditoriale. Si tratti di fusione di imprese, della acquisizione del controllo di imprese o della costituzione di una nuova impresa, occorreva infatti reagire ad iniziative che possano originare o rendere più forte una "posizione dominante" ancora una volta tale da ostacolare in misura significativa la concorrenza "nel mercato comune" o in una sua "parte sostanziale". E se questo accade si provvederà mediante divieti, interventi correttivi e misure di sanzione a misura delle particolarità della singola fattispecie.
La legge del 10 ottobre 1990 ha finalmente assicurato regole anche al mercato nazionale seguendo una medesima linea di politica del diritto. "A tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica", le sue disposizioni stabiliscono disciplina per le "intese", gli "abusi" di "posizione dominante" e "le concentrazioni di imprese" che "non ricadono" nell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria. E "qualora ritenga che una fattispecie al suo esame non rientri nell'ambito di applicazione" della legge nazionale, l'Autorità garante "ne informa la Commissione delle Comunità europee" e "trasmette" ad essa "tutte le informazioni in suo possesso". Le disposizioni della legge 287 valgono perciò soltanto quando è in questione "il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale" o "in una sua parte rilevante". Ma le prescrizioni sovranazionali rilevano anche in ambiente nazionale, perché il quarto comma dell'art. 1 della legge 287 avverte che l'"interpretazione" delle sue disposizioni deve compiersi "in base ai principi" dell'ordinamento comunitario. E sarà appena il caso di segnalare tutto il rilievo istituzionale di questa continuità normativa.
Regolando il mercato nazionale la legge dell'ottobre 1990 assegna al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile e alle singole normative di settore. Opera una autorità amministrativa indipendente che ha consistenti poteri di intervento, per l'appunto una Autorità garante della concorrenza e del mercato che le norme della legge del 1990 impegnano a svolgere funzioni di vigilanza di segno molto forte. A queste poi altre ne aggiungono gli artt. 21 e 22 della legge che prefigurano una significativa attivazione di rapporti tra Autorità garante e soggetti rappresentativi della volontà politica. "Allo scopo di contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del mercato", l'Autorità garante "individua" nelle stesse norme di legge o in "provvedimenti" di natura amministrativa le possibili "distorsioni della concorrenza" e del "corretto funzionamento del mercato" che non sono "giustificate da esigenze di interesse generale" (e occorre perciò prevenire o rimuovere). Ancora l'Autorità garante "può" infine "esprimere pareri sulle iniziative legislative o regolamentari" nel contesto di una interlocuzione con governo e parlamento che è certamente un punto forte del sistema.
Le funzioni di vigilanza operano con la estensione di campo precisata dalla norma dell'art. 8 dove si stabilisce che le disposizioni della legge antitrust si applicano sia "alle imprese private" che "a quelle pubbliche". Il secondo comma dell'art. 8 riserva uno speciale regime alle imprese che "per disposizione di legge" esercitano "la gestione di servizi di interesse economico generale" oppure operano in regime di "monopolio legale". Ma finalmente si reagisce agli abusi di posizione dominante che in vario modo violano il principio di libera concorrenza. Abusi che la legge del 1990 colpisce con norme che ingiungono la "eliminazione delle infrazioni" e in caso di "infrazioni gravi" applicano "sanzioni amministrative" di "genere pecuniario" molto onerose. E particolare attenzione si deve riservare alle fattispecie enumerate dalla norma dell'art. 3 della legge 278, che formula espresso divieto di imposizione di prezzi, di usi devianti della forza contrattuale e di quant'altro impedisca o limiti "produzione", "accessi al mercato", "sviluppo tecnico" progresso tecnologico "a danno dei consumatori".
Già in questa materia l'Autorità garante opera con i poteri di indagine assegnati dalla norma dell'art. 12. Per "verificare l'esistenza di infrazioni" provvederà perciò a prendere in esame gli "elementi" di valutazione "portati a sua conoscenza da pubbliche amministrazioni" o da chiunque vi abbia interesse. Ma anche d'ufficio l'Autorità garante può procedere ad indagini conoscitive "di natura generale", considerando l'andamento di settori economici "nei quali l'evoluzione degli scambi, il comportamento dei prezzi" o altre circostanze "facciano presumere che la concorrenza sia impedita, ristretta o falsata". Si svolgeranno attività istruttorie osservando le regole disposte dall'art. 14. Alle imprese indagate si assicurano doverose garanzie di ascolto anche mediante la presentazione di "deduzioni" e "pareri" in ogni fase del procedimento. Ma il secondo comma della norma al tempo stesso legittima l'Autorità garante all'impiego dei più ampi mezzi di indagine "in ordine a qualsiasi elemento rilevante ai fini dell'istruttoria". E quando fossero riscontrate "infrazioni" seguiranno "diffide" che assegnano un termine per la loro "eliminazione" così come le possibili misure sanzionatorie contestualmente indicate dall'art. 15.
Costituiscano "accordi", "deliberazioni" o altri congegni di genere negoziale sono poi vietate e comunque "nulle ad ogni effetto" le intese che possano pregiudicare, e l'art. 2 della legge precisa "in maniera consistente" la naturale dinamica di una economia di concorrenza. "Intese" di questo genere possono riguardare imprese e consorzi di imprese, loro "associazioni" o "altri organismi similari". E molto ampio è lo scenario dei possibili oggetti dell'accordo, che di volta in volta riguarderà "fonti di approvvigionamento", "sbocchi" o "accessi al mercato", investimenti e tecnologie produttive, "prezzi" e "condizioni contrattuali" o ancora diversa tecnica operativa di restrizione della concorrenza. Ma quale che sia la tecnica o la materia delle intese "restrittive della libertà di concorrenza" sarà necessario agire in prevenzione e a sanzione dei comportamenti devianti. Possono tuttavia darsi situazioni che consentono un regime di deroga al divieto dovendosi considerare quanto stabilisce il primo comma dell'art. 4.
È infatti previsto che l'Autorità garante "per un periodo limitato" autorizzi intese altrimenti vietate in considerazione del possibile "beneficio per i consumatori" o della "necessaria concorrenzialità" delle imprese "sul piano internazionale". E opera un regime particolare in caso di intese "comunicate all'Autorità garante" seguendo la previsione dell'art. 13. Ma invariabilmente la funzione di pubblica vigilanza presenterà tutti caratteri di rigore già segnalati. Anche in presenza di "intese" o comunque di "accordi" del genere prefigurato dall'art. 2 della legge, si svolgerà attività istruttoria secondo il regime dell'art. 12 (una volta di più non essendo escluso l'impiego degli strumenti di vigilanza ispettiva). E anche quando si tratti della fattispecie di "intese" provatamente "restrittive" della libertà di concorrenza vale l'indicato regime di reazione alle infrazioni che si fossero accertate.
Rilevano infine le operazioni di concentrazione imprenditoriale. E naturalmente il fenomeno si presenta in forme tanto varie quanto lo sono le opportunità che si offrono ai protagonisti dell'economia finanziaria. Possono perciò configurarsi fattispecie assai diverse tra loro, così come sono diverse le modalità di organizzazione di un insieme unitario di risorse e di attività. Talvolta si tratterà di fusione di imprese, altra volta di controllo di imprese acquisito mediante partecipazioni al loro capitale (o "mediante contratto" oppure "con qualsiasi altro mezzo"), altra volta ancora del caso di "due o più imprese" che costituiscono una impresa comune. Se si configurano fattispecie del genere e della grandezza indicate dall'art. 16 della legge, le operazioni di concentrazione imprenditoriale devono comunque essere preventivamente comunicate alla Autorità garante per le necessarie valutazioni.
Occorrerà valutare se le operazioni progettate comportano "la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante" tale da "eliminare o ridurre" le possibilità di concorrenza "in modo sostanziale e durevole". Quando sia necessario sarà perciò avviata una istruttoria secondo le previsioni degli artt. 16 a 18 della legge. All'Autorità garante anche in questa materia competono poteri di sospensione e di divieto così come i rilevanti poteri di sanzione dell'art. 19, che consente di infliggere "sanzioni amministrative pecuniarie" ancora una volta particolarmente onerose. E anche su questo fronte garantire libertà di concorrenza significa fare quanto è indispensabile per consentire una competizione tra imprese che in punto di qualità e di prezzi assicuri migliori opportunità ai consumatori dei beni e dei servizi che sul mercato si offrono. In ogni caso una "economia di mercato aperta e in libera concorrenza" è quanto già il Trattato di Maastricht indicava come modello obbligato per ogni paese dell'Unione Europea .Ma la dimensione mondiale dei fenomeni di e-commerce rende ormai urgente la progettazione di normative senza confini di territorio .



2 . La nozione e lo statuto giuridico di "imprenditore". Regole di sistema e fenomeni devianti. Imprenditori occulti. Illecito di impresa, imprese illecite

Lo scenario di insieme che si è in via breve disegnato ha caratteri di complessità che comprensibilmente disorientano. E per orientare nella giusta direzione l'analisi dei singoli fenomeni e delle fattispecie particolari che si svolgerà più avanti occorre chiarezza di riferimenti di genere elementare a quanto è regime giuridico di imprenditori e attività di impresa. Più precisamente occorre una attenta lettura delle disposizioni del quinto libro del codice civile che ne stabiliscono la disciplina dovendosi invece lasciare sullo sfondo ( e per intanto ignorare ) i grandi temi di quadro generale e gli interrogativi di politica del diritto che in assenza di una prima ricognizione dei materiali normativi rischiano di essere soltanto divagazione sociologica o peggio ancora discorsi senza alcun serio contenuto. Anche in materia di disciplina normativa di imprenditori e imprese (ma questo è vero sempre ) per apprendere in modo utile serve perciò il repertorio delle nozioni costitutive del sistema , che sarà tanto più istruttivo quanto più sarà esposizione lineare e di stretto diritto positivo.
Per l'art. 2082 del codice civile è imprenditore chiunque eserciti professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Professionalmente e perciò in modo sistematico e non occasionale dovendosi tuttavia considerare che il requisito della professionalità esiste anche se l'attività d'impresa si aggiunge ad altre e non si svolge con carattere di continuità. Deve comunque trattarsi di una attività economica organizzata "al fine della produzione e dello scambio". In assenza di una organizzazione che operi con finalità di produzione e scambio si tratterà di attività di altro genere. Comunque non di impresa perché l'attività di impresa si identifica con l'organizzazione di risorse finanziarie, di attrezzature e di lavoro per un mercato dove offrire beni e servizi. Non è invece requisito necessario dell'imprenditorialità lo scopo di lucro che infatti l'art. 2082 non richiama. Naturalmente nel gran numero dei casi si è imprenditori per scopo di lucro. Ma le imprese esercitate da enti pubblici dell'art. 2093 non perseguono finalità di profitto .Anche quando non sia a mutualità prevalente l'impresa cooperativa dell'art. 2511 non ha mai scopo esclusivamente lucrativo. Svolgono attività che sono sicuramente attività di impresa anche associazioni o fondazioni sul modello del primo libro del codice civile che tuttavia non sono in alcun senso organizzazioni costituite a scopo di profitto.
Perciò non il fine di lucro ma la natura della attività identifica l'imprenditore. Lo identifica infine la spendita del nome. L'attività di impresa si svolge nel nome dell'imprenditore. E gli atti giuridici che riguardano l'impresa sono imputati al soggetto che "spende" il suo nome come imprenditore se del caso avvalendosi di altri che agiscano in sua rappresentanza. Con l'avvio delle attività di organizzazione (ritengono alcuni) o con l'avvio delle attività operative (ritengono altri) si ha inizio dell'impresa. Quanto ai requisiti di capacità dei soggetti privati può essere imprenditore chiunque sia capace di agire. L'esercizio dell'impresa nell'interesse di un soggetto incapace trova disciplina nel codice civile agli artt. 320 c. 5, 371 c. 2, 424, 425 (ma per il minore emancipato valgono le disposizioni dell'art. 397). E con l'avvio dell'impresa entrano in gioco norme che disegnano lo statuto giuridico dell'imprenditore a cominciare da una serie di disposizioni a carattere generale. Disposizioni che tuttavia non presentano i caratteri di una organica costruzione di sistema.
Operano infatti norme del codice civile a veder bene lontane dalla coerenza di un disegno di insieme. E tuttavia pur sempre motivate dal particolare carattere delle attività che configurano "impresa". Per fare chiarezza occorre guardare in più direzioni e a diversi ambiti di materia. Talvolta si tratta di norme che (come ad esempio gli artt. 1330, 1368, 1722 e 1824) riguardano i contratti dell'imprenditore, altra volta di norme che (come l'art. 2598) stabiliscono regole di correttezza professionale, altra volta ancora di disposizioni che disciplinano il complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa (e sono le norme degli artt. 2555 a 2562). Si tratta comunque di un diritto speciale e di prescrizioni che (come ad esempio gli artt. o infine l'art.) in linea principio valgono per ogni e qualsiasi imprenditore. Le norme di statuto giuridico condivise dalla generalità degli imprenditori tuttavia costituiscono soltanto una prima approssimazione alla disciplina che li regola.
Distinzioni si impongono occorrendo distinguere tra impresa e impresa a seconda del soggetto imprenditore, della dimensione e della posizione di mercato dell'impresa, della sua organizzazione su base individuale o collettiva e dell'oggetto della attività esercitata. Occorre quindi seguire una lunga linea di percorso che deve riguardare sia la complessa trama delle norme sia i problemi che ne restano insoluti. Problemi numerosi e talvolta di grande rilievo dovendosi poi considerare in che misura possono darsi fenomeni devianti e gravi punti di caduta del sistema. Ne è significativo esempio l'intera serie delle situazioni che si determinano quando l'esercizio dell'impresa si sottrae alle regole che valgono in materia di rischio finanziario e responsabilità patrimoniale dell'imprenditore .E a tutto questo sia pure in via breve sarà bene guardare già in apertura di discorso.
Si è osservato che a identificare l'imprenditore provvede la spendita del nome. E gli atti giuridici che riguardano l'impresa sono imputati al soggetto che per l'appunto "spende" e impegna il suo nome come imprenditore, quale che sia la realtà delle cose riguardo a provvista di mezzi, organizzazione dell'impresa, operazioni di mercato, guadagni di capitale o altro ancora. Sia pure in assenza di una norma che così stabilisca, questo è quanto deriva da un principio che per orientamento fortemente consolidato si deve a tutt'oggi considerare regola costitutiva del sistema. Ma si tratta di regola messa a dura prova da fattispecie di abuso tradizionalmente consegnate all'immagine dell'imprenditore occulto che opera senza spendere il suo nome. Provvede ai mezzi necessari per lo svolgimento della attività, assume le decisioni imprenditoriali e ne acquisisce i risultati economici. Esercita l'attività di impresa ma all'esterno non compare.
È un imprenditore "occulto" che per gli atti giuridicamente impegnativi si avvale di un "prestanome" oppure di una società "di comodo", egualmente utile allo scopo di sottrarsi a personali obbligazioni nei confronti dei "terzi" entrati in rapporto di affari con l'impresa o suoi prestatori di lavoro. E se così accade senza che la posizione dell'imprenditore occulto giuridicamente rilevi sarà chiaro che cosa ne deriva in punto di allocazione del rischio finanziario e di tutela giuridica dei suoi creditori. Opera un imprenditore che allontana da sé ogni forma di responsabilità patrimoniale. In questo modo l'imprenditore irresponsabile naturalmente agisce in danno dei terzi, che a garanzia del loro credito trovano soltanto un prestanome, verosimilmente sprovvisto delle risorse finanziarie che occorrono per fare fronte agli impegni assunti. Ma la situazione non è diversa nel caso della società di comodo.
Società costituita con capitale irrisorio di modo che anche in tal caso l'imprenditore occulto trasferisce il rischio di impresa e delle sue inadempienze sui terzi creditori per il lavoro prestato o altro ancora. Da ciò ulteriori situazioni con caratteri di criticità e l'argomentare di quanti ritengono che numerose norme del codice civile consentano di affermare un principio di necessaria continuità tra esercizio di poteri e assunzioni di responsabilità. Si elaborano complesse teorie e si richiamano le norme degli artt. 2267, 2291 e 2318 (e ancora gli artt. 2320 e 2362). Dal loro insieme si deriva l'assunto che anche un imprenditore occulto dovrebbe perciò rispondere delle obbligazioni conseguenti alle attività di impresa. Richiamando l'art. 147 della legge fallimentare altri ritengono che in caso di insolvenza anche l'imprenditore occulto dovrebbe essere assoggettato al fallimento. Ma i riferimenti normativi lasciano residuare forti perplessità e comunque a tutt'oggi prevale il diverso orientamento che si è già segnalato.
Inderogabile regola di sistema sembra essere che per decidere "chi" è imprenditore (e ne deriva tutte le responsabilità) vale il criterio formale della spendita del nome, e non invece il criterio sostanziale dell'esercizio dell'impresa in senso economico, del potere di direzione o altro ancora. L'opinione prevalente ha consistenti motivazioni che non sono soltanto di genere normativo e formale. Si osserva infatti che entrando in rapporto con l'impresa i terzi non potevano mettere in conto la responsabilità patrimoniale di un "imprenditore" rimasto "occulto", perciò non esistendo in allora affidamenti che possano poi essere presi in considerazione. Ma è pur vero che l'imprenditore occulto si avvale di "prestanome" e "società di comodo" per esercitare attività di impresa con modalità gravemente devianti. Per parte sua la giurisprudenza si sforza di elaborare strumenti di reazione agli abusi. Si configura come attività di una impresa a sé l'attività dell'imprenditore "occulto" che movimenta risorse finanziarie, appresta mezzi e gestisce l'impresa "palese". E per quanto possibile se ne derivano le conseguenti responsabilità.
In seguito saranno considerate anche altre fattispecie di genere deviante ma non i complessi problemi che si devono al caso della attività di impresa che in sé configuri un illecito per essere contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Il caso della impresa illecita appartiene infatti a materia diversa da quella considerata in queste pagine. Si deve tuttavia almeno avvertire che attività di impresa di tal genere non sono fenomeno di carattere marginale. E l'esperienza degli anni recenti insegna che anche alla scala sovranazionale la criminalità economica attrezzata nella forma delle attività di impresa ha crescenti grandezze e attraversa numerosi settori dell'economia reale così come i diversi comparti dell'economia finanziaria. Da ciò la comprensibile e forte domanda di nuove normative capaci di operare in prevenzione dell'illecito, essendo comunque escluso che le norme di statuto dell'imprenditore possano in qualche modo andare a beneficio di una impresa illecita.
Si avverte con urgenza sempre maggiore l'esigenza delle normative necessarie per identificare usi perversi della forma giuridica "impresa" messi in atto da soggetti che spesso si avvalgono di una tecnica giuridica molto sofisticata. E occorre elaborare nuovi strumenti di prevenzione dell'illecito così come strumenti di reazione punitiva, essendo poi necessario garantire efficace operatività alla sanzione delle violazioni di norme volta a volta accertate. Al tempo stesso si rendono indispensabili normative anche in altro senso ben congegnate perché sarà tuttavia pur sempre da considerare la posizione dei terzi entrati in rapporto con l'impresa senza per questo essere parte dell'illecito, che perciò meritano tutela e certamente non invece un qualche pregiudizio. A veder bene impresa illecita in ogni caso è soltanto una formula di prima approssimazione ad un argomento che non consente discorsi di superficie.
La materia ha forti caratteri di specialità a tutt'oggi non ancora interamente esplorati. Una volta di più si deve comunque distinguere tra fattispecie quanto mai lontane tra loro. Una cosa è infatti l'illecito costituito dalla violazione di norme che non consentono di svolgere una attività di impresa (e per esempio la attività bancaria) in assenza di particolari autorizzazioni. Altra cosa è la sistematica violazione delle norme che regolano nei contenuti lo svolgimento della attività di impresa (e per esempio le norme sulle modalità di sollecitazione del pubblico risparmio). Infine tutt'altra cosa ancora è organizzare in forma di impresa le attività che si sono indicate come possibili forme di criminalità economica (e per esempio il <riciclaggio>di <denaro sporco>oggi così spesso movimentato per via informatica).

3. Imprenditori commerciali . Le dimensioni dell' impresa e i "piccoli imprenditori". Le grandi linee del sistema.

Al complesso universo dei soggetti che esercitano attività di impresa, così come ai possibili oggetti della loro attività per una prima ricognizione di campo si deve guardare nella prospettiva delineata da norme del codice civile che per l'appunto definiscono e classificano imprenditori e imprese. Ma si tratta di norme che soltanto in parte corrispondono all'attesa di una disciplina nel segno della necessaria chiarezza. Sono comunque disposizioni in più di un caso pensate a misura di assetti imprenditoriali e mercati che nel corso del tempo sono irreversibilmente diventati altra cosa da quanto poteva immaginare il legislatore di allora. Ne deriva una intera serie di difficoltà interpretative che sarà bene considerare intanto che si precisano le grandi linee del sistema. In posizione dominante il sistema delle norme colloca disposizioni che riguardano l'imprenditore commerciale secondo una logica di insieme che assegna poi separato regime all'impresa agricola dell' art. 2135 ..
Altri imprenditori e altri generi di impresa il codice civile non conosce. Cosa che come si preciserà è all'origine di complessi problemi, considerato il (crescente) numero delle attività che in senso economico sembrano configurare imprese di un genere diverso da quante sono "commerciali" o "agricole" per la natura stessa del loro oggetto. Sempre più spesso si avverte perciò la distanza che talvolta ormai separa configurazione giuridica e realtà di mercato. Ma le norme del codice civile per questa parte della disciplina non consentono alternative e il loro disegno di insieme è assolutamente univoco. In questo senso non servono (e non fanno chiarezza) complessi discorsi di genere astratto. Nei modi che si preciseranno l'art. 2135 stabilisce chi è "imprenditore agricolo". E ogni imprenditore che non lo sia (per le norme del codice civile) sarà imprenditore commerciale. O comunque imprenditore assoggettato alle disposizioni di regime dell'imprenditore commerciale.
Figura di imprenditore che trova la sua rappresentazione in ciò che si legge all'art. 2195 dove in senso letterale semplicemente si enumerano le categorie degli imprenditori "soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese". Ma considerato che l'obbligo di registrazione riguarda per l'appunto le imprese commerciali, l'art. 2195 è al tempo stesso norma che stabilisce quali attività nel sistema del codice civile appartengono all'ambito delle attività in senso giuridico commerciali. In via di prima approssimazione sono le attività che nel linguaggio dell'economia costituiscono "industria", e perciò "produzione" per il mercato di "beni" e "servizi" oppure invece "attività intermediaria nella circolazione dei beni", e perciò "commercio" in senso tecnico e attività del settore distributivo o comunque "intermediazione" del più vario genere.
Né si rendono necessarie particolari precisazioni. La norma dell'art. 2195 contiene un più circostanziato elenco di attività da considerare impresa commerciale in considerazione del loro particolare oggetto. A veder bene si tratta tuttavia pur sempre di attività di "produzione", e più precisamente di produzione di "servizi" come nel caso delle imprese di trasporto oppure di attività intermediaria come nel caso di imprese bancarie e imprese assicurative. E poi ci sono le attività "ausiliarie delle precedenti" anch'esse assoggettate al regime dell'art. 2195 senza ulteriori indicazioni che provvedano a circoscrivere l'ambito delle attività da considerare per l'appunto ausiliarie. A questo la normativa del codice civile altro non aggiunge. E in presenza di disposizioni di genere classificatorio che impiegano formule di estrema sintesi, la loro organizzazione in sistema doveva inevitabilmente offrire materia ad una tormentata elaborazione di teorie (non sempre utili) e comunque a molte discussioni.
Si è ampiamente discusso se la norma dell'art. 2195 presenti carattere tassativo o se invece anche altre attività si possano considerare attività di impresa commerciale. La questione tuttavia non presenta motivi di speciale interesse perché la formulazione della norma è così estensiva da comprendere in sé ogni e qualsiasi attività di impresa del genere indicato. E per fare l'esempio di una significativa innovazione di sistema,si pensi all'impresa configurata come <società per la cartolarizzazione dei crediti> secondo il regime dell'art. 3 della legge 130 dell'aprile 1999. Quanto all'attività delle imprese che per essere ausiliarie sono anch'esse imprese " commerciali ", e quindi per l'art. 2195 assoggettate al regime condiviso dalla generalità delle imprese commerciali, sarà semplicemente il caso di indicare come ausiliarie le attività di imprese che svolgono nelle forme più varie una funzione servente, si tratti dell'"agenzia immobiliare" che opera in posizione ausiliare di altre imprese, dell'imprenditore che offre consulenza aziendale, delle imprese che provvedono a servizi di deposito o di spedizione oppure altre ancora. Se interrogativi di statuto giuridico si pongono sono interrogativi che riguardano diverso oggetto.
In modo particolare va considerato il complesso e problematico insieme delle imprese che non operano in posizione ausiliare, svolgono attività che non presentano i caratteri distintivi dell'art. 2195 e finiscono quindi per configurare fattispecie con notevoli caratteri di atipicità. Si è perciò spesso impiegata la definizione di imprese civili per indicare appunto imprese che al mercato offrono "beni" e "servizi" di incerta qualificazione ma comunque lontani dall'essere attività di produzione industriale o di intermediazione commerciale in senso tecnico. Si pensi alle imprese che come le imprese minerarie producono senza trasformare materie prime. E agli imprenditori che comunque offrono servizi non commerciali come nel caso delle imprese che offrono un servizio scolastico, di altre che organizzano pubblici spettacoli o altre ancora che operano da agenzia investigativa.
Attività di questo genere sono sempre più numerose in diversi settori dell'economia del "terziario" e sono sicuramente in fase espansiva. L'argomento merita perciò molta attenzione quanto alle norme da applicare. Talvolta è sembrato di poter sostenere che ci si trova in presenza di attività da considerare come oggetto di imprese appartenenti ad un tipo a sé. E si è proposto di applicare ad esse soltanto le norme di statuto generale dell'imprenditore con esclusione di quante valgono per le imprese commerciali. Se così fosse per interi comparti di impresa risultato tuttavia ne sarebbe una scarsa regolazione di imprenditori e attività. Risultato tutt'altro che opportuno e del tutto ingiustificato perché si tratta pur sempre dell'operare di imprese che "producono" per il mercato secondo la ratio legis dell'art. 2195 essendo perciò ragionevole applicare ad esse la disciplina che vale per l'imprenditore commerciale.
All'universo normativo delle imprese commerciali appartiene poi con ogni evidenza anche l'impresa artigiana. Si deve ricordare che molti non sono di questo avviso. Ma se è vero che chi è artigiano non svolge attività "industriale" nell'accezione dell'art. 2195, sarà chiaro che l'impresa artigiana svolge pur sempre una attività "diretta alla produzione di beni e servizi". E già si diceva che il sistema del codice civile non conosce imprese diverse dall'impresa commerciale se non nel caso dell'impresa agricola che naturalmente è tutt'altra cosa. Semmai si deve avvertire che il discorso da fare sull'impresa artigiana è molto complesso già guardando alle grandi linee del sistema. Va considerato il disegno delle norme costituzionali, e perciò il secondo comma dell'art. 45 Cost. dove si prefigurano interventi con finalità di "tutela" e di "sviluppo" dell'artigianato (così come lo spazio a suo tempo già aperto dalla norma dell'art. 117 a possibili interventi del legislatore regionale). Occorre poi considerare la disposizione del codice civile che (all'art. 2083) guarda all'artigiano come figura di "piccolo imprenditore". Occorre infine valutare il particolare rilievo delle norme della "legge quadro" per l'artigianato, le norme della legge 443 dell'8 agosto 1985 che stabiliscono misure di incentivazione e sostegno di questo importante comparto dell'economia.
Al tempo stesso l'intervento legislativo che si è operato con la legge "quadro" del 1985 ha provveduto a significative disposizioni di principio. Per indicazione delle norme della legge dell'agosto 1985 è possibile oggetto dell'impresa artigiana qualsiasi "produzione di beni" o qualsiasi "produzione di servizi". Sono esclusi soltanto taluni settori di attività enumerati dal primo comma dell'art. 3 (e tra questi comunque quanti appartengono all'ambito di operatività dell'impresa agricola). Imprenditore artigiano è chi "esercita personalmente" e "professionalmente" in qualità di "titolare" la attività di impresa. Ne deriva "piena responsabilità" per "oneri" e "rischi" conseguenti alla "direzione e gestione" della attività. Ma al tempo stesso chi è "artigiano" alla attività assicura il suo contributo svolgendo "in misura prevalente" il "proprio lavoro, anche manuale" nel "processo produttivo" che caratterizza l'impresa. Non è invece stabilito un principio di prevalenza del lavoro suo (e di membri della famiglia) sul lavoro altrui e sul capitale investito nell'impresa, essendo stabiliti soltanto limiti di soglia al numero dei dipendenti "estranei alla famiglia dell'imprenditore".
Norma del codice civile e norme di legge speciale offrono ampia materia a contrastanti orientamenti. Secondo una opinione molto autorevolmente sostenuta le diverse norme coesistono dovendosi provvedere ad una loro (non facile) organizzazione in sistema unitario. Secondo altra opinione (che sembra di dover condividere) , le norme di legge speciale sono invece ormai la nuova disciplina di statuto dell'imprenditore artigiano, operando in sostituzione di quanto si possa derivare dall'art. 2083 del codice civile, che per altri invece si deve ancora ritenere norma costitutiva della nozione di impresa artigiana per ciò che non sia legislazione di "incentivazione" e "sostegno" del settore. Comunque è certo che l'artigiano appartiene al numero degli imprenditori commerciali ma non necessariamente al numero dei "piccoli imprenditori". In caso di insolvenza sarà quindi soggetto al regime delle procedure concorsuali ogni volta che non si tratti di piccola impresa artigiana. E non è "piccola impresa" l'impresa artigiana che si costituisca in forma di società, volta a volta società in nome collettivo, in accomandita semplice o ancora società a responsabilità limitata "unipersonale" non essendo da escludere il ricorso alla forma giuridica della società cooperativa.
Va adesso segnalata la innovazione disposta dalle norme della legge delche amplia il numero delle possibili fattispecie di configurazione dell'impresa artigiana come società di capitali secondo il tipo della società a responsabilità limitata. A integrazione del regime già stabilito per l'impresa "unipersonale", le norme della nuova legge consentono anche alla società artigiana di costituirsi come "società a responsabilità limitata" se "nel processo produttivo" più di un socio "in prevalenza" svolge "lavoro personale", e se la maggioranza dei soci "attivi" nel "processo produttivo" detiene la maggioranza del capitale sociale. Anche a non considerare i possibili benefici di carattere fiscale, una normativa che costituisce porta aperta all'ingresso di un grande numero di imprese artigiane nel comparto delle società a responsabilità limitata è innovazione di consistente rilievo. Permette infatti alle imprese di acquisire le maggiori risorse finanziarie così necessarie per l'innovazione tecnologica e per una presenza di mercato davvero competitiva.
Merita infine attenta considerazione la problematica dell'impresa agricola. L'art. 2135 del codice civile definisce l'impresa agricola e più precisamente l'imprenditore agricolo, intendendosi come tale "chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame" e "attività connesse ". Ancora l'art. 2135 avverte poi che "si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli" ma soltanto se e in quanto si tratti di attività "che rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura". Sono perciò certamente attività connessa all'esercizio dell'impresa agricola tutta una serie di trasformazioni del prodotto della attività (e per esempio la trasformazione dell'uva in vino), così come l'offerta dei prodotti della coltivazione del fondo (e per esempio esposti al pubblico per una diretta vendita a chi passa). Ma non sono più esercizio normale dell'agricoltura una attività industriale di trasformazione dei prodotti o l'organizzazione di una rete di vendita sul modello del grande commercio.
Fino a che l'attività svolta dall'impresa appartiene all'ambito delle attività che per la norma del codice civile sono fare impresa "agricola", il suo regime si caratterizza per una speciale disciplina che in estrema sintesi significa esclusione delle prescrizioni che valgono per l'imprenditore commerciale. Ne deriva uno statuto giuridico di impresa di genere molto lineare che in via breve può essere così rappresentato. La iscrizione dell'impresa agricola nella sezione speciale del registro delle imprese ha soltanto effetto che si è già segnalato. Non operano le disposizioni intese a regolare l'agire negoziale dei dipendenti che agiscono in rappresentanza dell'imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni che per l'imprenditore commerciale stabiliscono stringenti vincoli in materia contabile. E in caso di insolvenza l'imprenditore agricolo non è assoggettato alle procedure concorsuali.
Ne consegue uno statuto giuridico dell'imprenditore agricolo che costituisce oggetto di motivate perplessità. E già in linea di principio è ormai molto discutibile la stessa distinzione di regime tra impresa agricola e impresa commerciale. Si tratti di "coltivazione del fondo" o di quant'altro è attività indicata dall'art. 2135, anche in agricoltura sono ormai assolutamente prevalenti modalità d'uso delle risorse e tecnologie produttive davvero lontane da ciò che un tempo segnava la loro distanza dalle imprese di genere industriale. Va poi rilevato che per un mondo di agricoltura "industrializzata" il ricorso al credito e al mercato dei capitali è fenomeno a grandi dimensioni. Con frequenza sempre maggiore mancano perciò le ragioni costitutive di una speciale disciplina. Anche in questo senso le norme del codice civile delineano uno statuto giuridico dell'impresa agricola che guarda al passato (e in ampia misura da ripensare).
A completare lo scenario delle disposizioni che definiscono e regolano imprenditori e attività di impresa provvedono le norme che assegnano identità e regime alla "piccola" impresa. Per l'art. 2083 del codice civile sono piccoli imprenditori sia i coltivatori diretti del fondo, sia gli artigiani sia "i piccoli commercianti" e comunque "coloro i quali esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia". La prevalenza del fattore "lavoro" e del lavoro familiare è perciò l'elemento distintivo dell'art. 2083. Non si ritrova quindi impresa del "piccolo imprenditore" là dove sull'impiego di forza lavoro prevalga l'impiego di risorse finanziarie o là dove invece dell'organizzazione familiare delle attività opera il più complesso assetto organizzativo delle imprese di genere societario. E per stretta conseguenza la specialità della figura imprenditoriale trova riscontro nella particolarità del suo statuto normativo.
Per il piccolo imprenditore non la vale la generale disciplina di pubblicità, domandandosi soltanto iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese. Anche quando sia imprenditore commerciale il piccolo imprenditore non è obbligato alla tenuta di scritture contabili secondo il regime dell'art. 2214. E nell'eventualità di una situazione di insolvenza non è assoggettato al regime delle procedure concorsuali. Non è necessariamente piccolo imprenditore chi esercita l'impresa in forma di impresa familiare seguendo il regime dell'art. 230 bis, che è norma di tutela per quanti in famiglia offrono appunto prestazioni di lavoro al coniuge o al parente "imprenditore", da ciò derivando diritti al mantenimento, partecipazione agli utili e agli acquisti "nonché agli incrementi dell'azienda". 
Ai membri della famiglia che in modo continuato paretcipano alle attività di impresa si riconoscono sia diritti patrimoniali che diritti amministrativi. L'impresa familiare non è necessariamente piccolo imprenditore e le disposizioni dell'art. 230 bis meritano la più attenta lettura. In passato ( e fino alla riforma della disciplina del diritto di famiglia del 1975 ), il lavoro prestato in famiglia si considerava infatti prestazione <a titolo gratuito>con tutte le evidenti possibilità di abuso. Sarà precisato più avanti in che senso alla dimensione della impresa comprensibilmente guardano norme di legislazione speciale a misura dei fenomeni di crisi di imprese a grande dimensione. E per il caso dell'impresa coniugale si legga che regola come oggetto di comunione il caso delle "aziende" costituite "dopo il matrimonio" e "gestite da entrambi i coniugi".


4. Lo statuto giuridico dell'imprenditore commerciale. Il registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali.

Lo statuto giuridico dell'imprenditore commerciale consiste di norme che presentano caratteri di particolare rilievo. Norme che non si applicano all'imprenditore agricolo e stabiliscono invece per l'imprenditore commerciale che non sia piccolo imprenditore una disciplina quanto mai rigorosa. Se non è piccolo imprenditore lo obbligano infatti alla iscrizione nel registro delle imprese con i rilevanti effetti che si preciseranno Allo stesso modo lo obbligano alla tenuta delle scritture contabili secondo la impegnativa disciplina degli artt. 2188 a 2202. E se non è piccolo imprenditore in caso di crisi dell'impresa e di insolvenza lo assoggettano al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Ma al riguardo sarà necessario un separato discorso che distinguendo tra fallimento, amministrazione controllata dell'impresa, forme di concordato e altre procedure concorsuali consenta di valutare in che misura imprenditori e società commerciali sono oggetto di una speciale disciplina di settore, espressamente intesa a garantire tutela dei creditori e generali interessi di ogni economia di mercato anche mediante gli strumenti del diritto penale.
Gli artt. 2203 a 2213 regolano la posizione di quanti come institori, procuratori o commessi operano in rappresentanza dell'imprenditore commerciale. Con la frequenza e la estensione di campo che è facile immaginare(da sempre e sempre più spesso) per fare contratti è attività di impresa l'imprenditore si avvale di altri che agiscono in suo nome e per suo conto. E una volta di più si riscontrano precise distinzioni di regime. Se si tratta di collaborazioni prestate da quanti non sono dipendenti dell'impresa operano le norme di disciplina generale della rappresentanza. Quando invece l'imprenditore sia commerciale e si avvalga di dipendenti dell'impresa si applica la particolare disciplina stabilita per "institori", "procuratori" e "commessi" appunto dalle norme degli artt. 2203 a 2213. Sempre che l'imprenditore non decida di limitare le attribuzioni dei suoi dipendenti, lo svolgimento di mansioni professionali porta con sé i poteri di rappresentanza normalmente commisurati alla mansioni svolte, cosa che naturalmente tutela i terzi entrati in rapporto con l'impresa ben sicuri di trattare con qualcuno che ha legittimazione a contrarre.
Institori sono i dipendenti al vertice dell'impresa o di una sua "sede secondaria" o ancora di un suo singolo "ramo", che sia pure entro i limiti segnati dall'art. 2204 possono "compiere tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa" e per quanto sia materia di "preposizione institoria" possono "stare in giudizio in nome" dell'imprenditore che li ha designati. Sono procuratori, e per essi vale la norma dell'art. 2209 i dipendenti che svolgono attività in posizione dirigente anche se non al vertice dell'organizzazione, non essendo "preposti" all'esercizio dell'impresa (come ad esempio nel caso di un direttore del personale). E i commessi svolgono mansioni esecutive (come nel caso del cameriere al ristorante), con riguardo alla loro attività essendo stabilita la circostanziata disciplina degli artt. 2210 a 2213. Per tutti è regola che delle obbligazioni contratte operando per l'impresa risponderà l'imprenditore "rappresentato". Ma quanto alle possibili limitazioni dei poteri di institori e procuratori si leggano con attenzione gli artt. 2204 a 2207 (e si legga che cosa l'art. 2208 dispone in punto di loro personale responsabilità).
Già ne risulta un insieme di norme dovute ad una precisa necessità di stabilire garanzie per il mercato e comunque per chi intrattenga rapporti con l'impresa. E in modo particolare è forte l'esigenza di apprestare garanzie di tutela dei creditori dell'imprenditore integrate da più generali garanzie di certezza e di trasparenza delle sue attività. Risultati che in ampia misura si conseguono mediante documentazioni e atti di certificazione. Anche in questo senso quanto più efficiente è il loro sistema di garanzie tanto più economia e mercati accrescono la loro soglia di razionale operatività. Sarà perciò di immediata evidenza il grande rilievo della prevista istituzione di un registro delle imprese configurandosi un obbligo di iscrizione nel registro con tutta la estensione di campo indicata dall'art. 2195. Per una economia di mercato l'informazione su soggetti e attività è valore primario. Deficit di trasparenza e asimmetrie informative si considerano (intollerabili e sono) una anomalia da rimuovere, informazione e trasparenza essendo dovunque indicate come un bene pubblico assolutamente irrinunciabile.
Si provvede perciò con disposizioni di obbligo che hanno inderogabile carattere di imperatività. Obbligo in materia societaria dall'art. 2200 del codice civile esteso alle società cooperative, e comunque alla generalità delle imprese che pur non esercitando attività commerciale scelgano la forma giuridica delle società commerciali. In taluni casi l'iscrizione nel registro svolge funzioni di pubblicità costitutiva nel senso che soltanto l'adempimento pubblicitario "costituisce" e fa esistere l'effetto giuridico. Operano norme che riguardano società di capitali, società cooperative così come le operazioni di fusione e scissione di società e altro ancora. Appunto in tema di pubblicità costitutiva tra le tante sarà bene segnalare fino da adesso la disposizione dell'art. 2331. La società per azioni acquista la personalità giuridica soltanto con la iscrizione nel registro, per le operazioni compiute "in nome della società" prima di allora essendo "illimitatamente e solidalmente responsabili" verso i terzi "coloro che hanno agito".
Medesimo regime vale per le altre società di capitali e per le imprese cooperative. Ma ha efficacia costitutiva anche l'iscrizione nel registro di importanti operazioni di assetto imprenditoriale e finanziario . E se è vero che esistono ed operano anche in assenza dei dovuti adempimenti, in caso di mancata iscrizione nel registro società in nome collettivo e società in accomandita semplice sono società irregolari, per disposizione degli artt. 2297 e 2317 dà ciò derivando le rilevanti variazioni di regime che saranno precisate più avanti. In un grande numero di casi l'iscrizione svolge invece funzioni di pubblicità dichiarativa. Regola perciò le condizioni di opponibilità ai terzi degli atti registrati secondo il regime stabilito dall'art. 2193. E se si guarda all'intera serie delle norme che prescrivono iscrizioni (ma già se si guarda alla disposizione dell'art. 2196) si rileva con chiarezza in che misura l'operare del registro è struttura portante del sistema e necessaria garanzia di documentazione di ciò che al mercato occorre conoscere .
Più precisamente finalità del registro è documentare sia gli elementi distintivi dell'impresa variamente costituiti dall'identità dell'imprenditore, dalla sua sede, dall'oggetto dell'attività (e altro ancora) sia le vicende, gli atti e i fatti che nello svolgimento della attività di impresa configurano la complessa trama dei suoi rapporti con il mercato e con i creditori. L'art. 2193 stabilisce il regime dei "fatti" da iscrivere nel registro mediante disposizioni che sono naturalmente di primaria importanza per l'intera serie dei possibili rapporti tra impresa e terzi entrati con essa in relazioni d'affari. Una volta iscritti i "fatti" si considerano a conoscenza dei terzi che perciò non possono invocare una loro "ignoranza". Ma "se non sono stati iscritti" non possono essere "opposti ai terzi" da "chi" era obbligato all'iscrizione "a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza".
Così prefigurata nei suoi effetti già dalle norme del codice civile la istituzione di un registro delle imprese doveva costituire per decenni un progetto incompiuto. In mancanza del necessario decreto di sua esecuzione, per cinquant'anni si è infatti operato nel regime transitorio stabilito da talune disposizioni di attuazione del codice civile. E alla attivazione del registro delle imprese si è pervenuti soltanto con l'art. 8 della legge 580 del dicembre 1993. Le sue regole hanno variato in consistente misura l'originario progetto del codice, delineando la disciplina poi completata dal d.p.r. 581 del 7 dicembre 1995 e successivamente modificata con le prescrizioni del d.p.r. 559 del 16 settembre 1997. Appunto l'art. 7 del decreto del dicembre 1995 provvede ad elencare le imprese destinatarie della iscrizione nel registro adesso organizzato con tecnologia informatica finalmente evoluta presso la Camera di commercio .
Nella sua attuale configurazione il registro delle imprese si presenta nelle forme di un apparato documentale a carattere complesso. Accoglie nella sua sezione ordinaria e con effetti di pubblicità legale le informazioni relative agli imprenditori commerciali ( che non siano piccoli imprenditori ) e alle società comunque costituite in forma di società commerciale(anche se non svolgono attività commerciale ). Alla medesima sezione si iscrivono consorzi e società consortili, "gruppi europei di interesse economico" con sede nel nostro paese , le imprese "ente pubblico" che hanno per oggetto l'attività commerciale e società estere (se nel nostro paese hanno sede amministrativa o l'oggetto primario della loro attività). E per le "sedi secondarie" si deve domandare iscrizione all'ufficio del registro delle imprese "dove è la sede principale dell'impresa". 
Sezioni speciali del registro accolgono le informazioni che riguardano piccoli imprenditori, imprese artigiane, imprenditori agricoli e società semplici. Ancora una volta si opera con finalità di trasparenza ma su scala minore. Dalla iscrizione in queste speciali sezioni del registro di regola deriva infatti soltanto l'effetto di pubblicità notizia che consegue alla conoscibilità di quanto ne risulta.Ma di regola l'iscrizione dell'atto o del fatto di per sé non ha l'effetto di renderlo opponibile ai terzi essendo materia di prova la loro conoscenza di atti o fatti rilevanti. Un regime particolare vale per la società semplice che esercita l'impresa agricola e comunque per la generalità degli imprenditori agricoli , considerato che secondo la disposizione dell'art. 2 del decreto legislativo 228 del con riguardo ad essi l'iscrizione nel registro produce invece effetti di pubblicità legale.
Grande rilievo ha poi la documentazione contabile delle attività di impresa. Per il piccolo imprenditore anche se imprenditore commerciale vale la disposizione di esonero del terzo comma dell'art. 2214. Ma per ogni altro imprenditore commerciale esiste un obbligo di tenere scritture contabili. E ( con esclusione della società semplice )obbligo di tenuta di scritture contabili esiste per le società costituite in forma di società commerciale anche quando la attività svolta non sia attività commerciale .Si tratta di adempimenti che contestualmente svolgono diverse ma egualmente importanti funzioni. Una corretta tenuta della contabilità è indispensabile già all'imprenditore per le necessarie valutazioni degli andamenti di impresa secondo criteri di loro razionale apprezzamento. Occorre ai terzi per derivarne le informazioni che servono a quanti entrano con l'impresa in rapporti di affari. E nell'eventualità di una situazione di insolvenza dell'imprenditore saranno appunto le scritture contabili a consentire di accertare e misurare la sua esposizione debitoria.
Il libro giornale deve indicare "giorno per giorno" le operazioni relative all'esercizio dell'impresa. Il libro degli inventari deve contenere "indicazione" e "valutazione" delle attività e delle passività relative all'impresa secondo le modalità e con le finalità stabilite dall'art. 2217. L'inventario deve redigersi "all'inizio dell'esercizio dell'impresa" e successivamente ogni anno. Deve contenere indicazione e valutazione delle attività e delle passività relative all'impresa "nonché delle attività e delle passività dell'imprenditore estranee alla medesima". E si deve chiudere con il bilancio e il conto dei profitti e delle perdite "il quale deve" dimostrare "con evidenza e verità" gli utili conseguiti o le perdite subite (ma per i documenti di bilancio a suo tempo sarà necessario più ampio e separato discorso con particolare riguardo al diritto contabile delle società di capitali).
Sono infine obbligatorie le ulteriori scritture contabili richieste "dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa", che saranno volta a volta il libro mastro, il libro magazzino o altri ancora. Occorre al tempo stesso "conservare ordinatamente" le documentazioni enumerate dal secondo comma dell'art. 2214. Le prescrizioni da osservare per la regolarità delle scritture contabili sono indicate dagli artt. 2215, 2216, 2217 e 2219. Ne risultano stabilite le modalità di "tenuta" e di "conservazione" di una "ordinata contabilità" con puntuale determinazione di tempi e configurazione degli adempimenti dovuti. E va ricordato che una omessa o irregolare tenuta delle scritture espone anche al rischio di sanzioni disposte dalla legislazione fiscale (e al rischio di sanzioni penali quando ne risulti configurata la fattispecie del reato di bancarotta documentale).
Sarà bene avvertire che la materia è complessa e multiforme. Per taluni settori di impresa (e ad esempio nel caso delle imprese bancarie o assicurative e delle imprese di <cartolarizzazione>dei crediti) valgono infatti speciali regole di scritturazione e contabilità che ne qualificano in misura determinante il regime normativo. E si preciserà in seguito quanto riguarda la disciplina delle imprese comunque costituite in forma di società di capitali. A determinare il valore delle scritture contabili come mezzo di prova a favore dell'imprenditore o contro l'imprenditore (e l'argomento è importante) provvedono comunque gli artt. 2709 e 2710. Operano disposizioni nel segno della necessaria chiarezza. I libri e le altre scritture contabili delle imprese "soggette a registrazione" per la norma dell'art. 2709 "fanno prova contro l'imprenditore". Ma va considerato che "chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto". E ha particolare rilievo la norma dell'art. 2710.
Questa disposizione stabilisce infatti che "quando sono regolarmente tenuti" i libri contabili possono comunque fare prova "tra imprenditori" per "i rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa". Si tratti poi di loro "comunicazione integrale" o di una singola "esibizione" di documenti, a regolare l'impiego processuale di libri, scritture contabili e corrispondenza di impresa servono le disposizioni dell'art. 2711. Dal giudice la comunicazione integrale può essere ordinata soltanto in materia di controversie che riguardano scioglimento di società, comunione di beni e successioni per causa di morte. In casi diversi da questi "anche d'ufficio" il giudice tuttavia può pur sempre ordinare che i libri si esibiscano "per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso" (e può anche ordinare l'esibizione di "singole scritture contabili", fatture e ancora altre documentazioni se "concernenti la controversia" in atto).



5. L'azienda. Il valore di avviamento. Opere dell'ingegno e invenzioni. I segni distintivi. Ditta, insegna, marchio.


L'art. 2555 indica come azienda "il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa". Possono essere beni materiali o invece beni immateriali, mobili o immobili e del più vario genere, proprietà dell'imprenditore o di terzi. Costituiscono "azienda" e ne deriva uno speciale regime semplicemente per l'essere un complesso unitario di beni organizzati in funzione della attività imprenditoriale. E appunto al fattore organizzativo occorre guardare per comprendere davvero che cosa è "azienda" e che cosa il suo valore di avviamento. I singoli beni presi a sé sono semplicemente un certo numero di beni. Organizzati per l'esercizio dell'impresa e diventati così complesso unitario il rendimento di ognuno è maggiore, ognuno ha per così dire un plusvalore dovuto all'organizzazione del loro insieme in congegno produttivo. Ne derivano la particolare attitudine dell'impresa ad essere competitiva, una sua capacità di risultati economicamente utili e un "avviamento" che si devono appunto alle modalità organizzative del complesso aziendale. 
Perciò si spiega la specialità delle norme che regolano i trasferimenti di azienda e la sua concessione in usufrutto o in affitto. E l'avviamento ha un prezzo che sarà calcolato. In ogni caso una cosa è il singolo bene aziendale, altra cosa il complesso organizzato di beni che consente l'esercizio dell'impresa. E là dove indicano requisiti di forma dei contratti che hanno per contenuto "il trasferimento della proprietà" o "il godimento" dell'azienda, le norme la considera come un insieme unitario di modo che non sarà necessaria una specifica enumerazione dei beni che sono oggetto del contratto. A determinare l'oggetto del contratto (come prescrive l'art. 1346) provvede l'appartenza dei singoli beni all'insieme aziendale, essendo semmai necessario precisare quali beni si intende escludere dal trasferimento o dalla concessione in usufrutto o in affitto. 
Per la forma del contratto e relativamente alla sua eventuale iscrizione nel registro delle imprese dispone la norma dell'art. 2556. Con riguardo alle "imprese soggette a registrazione" è stabilito che i contratti devono essere "provati per iscritto", essendo tuttavia contestualmente richiesta la osservanza degli ulteriori requisiti di forma che fossero prescritti in ragione del regime dei singoli beni "o per la particolare natura del contratto". In ogni caso "chi aliena la azienda" deve "astenersi" dall'"iniziare una nuova impresa" che per l'oggetto, la ubicazione o "altre circostanze" possa "sviare la clientela dell'azienda ceduta", secondo una disposizione di divieto della concorrenza che presenta i caratteri di contenuto e la durata di tempo stabiliti dall'art. 2557. Il divieto vale "per il periodo di cinque anni dal trasferimento" dell'azienda. E (se la durata del vincolo è materia indisponibile) all'autonomia dei contraenti è consentito di assegnare al "patto di astenersi" contenuto più ampio.
Ogni cessione di azienda comporta poi obbligate variazioni di regime per un gran numero di rapporti negoziali e di rapporti obbligatori che la riguardano. Se non si stabilisce diversamente il trasferimento dell'azienda comporta successione nei contratti "stipulati per l'esercizio dell'azienda", cessione dei crediti all'acquirente e responsabilità per i debiti con le particolarità di regime indicate dagli artt. 2559, 2560 e 2558. Se altro non si è concordato, chi acquista l'azienda "subentra" nei contratti conclusi per il suo esercizio. Ma il contraente ceduto ha pur sempre facoltà di recesso per "giusta causa". Dal momento della iscrizione del trasferimento dell'azienda nel registro delle imprese, la cessione dei crediti "ha effetto" nei confronti dei terzi. Ma si tutela il debitore che ha in buona fede "pagato all'alienante". E l'alienante non è liberato dai debiti "inerenti all'esercizio" dell'azienda ceduta se non risulta che i creditori "vi hanno consentito".
Guardando all'insieme dei beni impiegati per l'esercizio dell'impresa molto altro ancora occorre tuttavia attentamente considerare. E la maggior attenzione si deve al particolare genere di "beni" che costituiscono o consentono innovazioni di processo o innovazioni di prodotto capaci di accrescere la capacità competitiva dell'imprenditore e il pregio della sua offerta di mercato. Se la intera storia della imprenditorialità è storia di innovazioni, tanto più oggi questo fattore è determinante si tratti del settore delle telecomunicazioni, delle tradizionali produzioni industriali, di agricoltura e mercati finanziari o altro ancora. Brain power o se si preferisce potere dominante del sapere intellettuale come si sa sono davvero sempre più il punto di forza della nuova economia di fine secolo. Sempre più i "beni" che massimamente contano sono perciò beni "immateriali". E in questo senso sarà chiaro quanto rilevano la proprietà o comunque la titolarità d'uso di opere dell'ingegno e di invenzioni applicate al fare impresa.
Si definiscono "opere dell'ingegno" le idee di carattere creativo che l'art. 2576 del codice indica come "particolare espressione del lavoro intellettuale". In un contesto legislativo che assegna importante rilievo a disposizioni di legge speciale, la loro disciplina e le norme di regime delle posizioni di diritto "morale" e "patrimoniale" del loro autore sono in primo luogo consegnate al quinto libro del codice civile. In particolari fattispecie di violazione del diritto di autore tuttavia operano anche norme incriminatrici che applicano le sanzioni del diritto penale. E sarà appena il caso di ricordare in che ampia misura interessano imprenditori e attività di impresa le creazioni intellettuali che hanno di per sé mercato (sia mercato della letteratura, della cinematografia o altro ancora) oppure costituiscono fattore di utile impiego nella configurazione di altri "beni" o di servizi da offrire comunque al mercato.
Si pensi ai progetti di ingegneria e alle "soluzioni originali di problemi tecnici" dell'art. 2578. O alle creazioni intellettuali del design industriale. O per fare un esempio che segna la storia del nostro tempo si pensi al computer e al mondo del software, in questa particolare materia operando ormai garanzie disposte anche con norma di diritto penale. Già si diceva che a fare chiarezza sulla disciplina del diritto d'autore e su quanto riguarda la utilizzazione economica delle opere dell'ingegno insieme con le norme del codice civile provvedono "leggi speciali". Dovendosi indicare un primo e fondamentale riferimento è d'obbligo richiamare le disposizioni della legge 633 del 22 aprile 1941 ma anche il decreto legislativo 154 del 26 maggio 1997 ed infine la legge 248 del 18 agosto 2000.Occorre tuttavia avvertire che la disciplina della materia ormai non si conosce senza conoscere un ampio insieme di normative sovranazionali . O quanto meno le disposizioni delle direttive comunitarie del 19 novembre 1992 ,del 29 ottobre 1993 e del 13 ottobre 1998 ma più ancora della direttiva 22 maggio 2001 che in materia di diritto d'autore prefigura ampia armonizzazione delle legislazioni nazionali
Non è diverso lo scenario delle normative regolatrici delle invenzioni industriali. Operano norme degli artt. 2584 a 2594 del codice civile che se stabiliscono che cosa sono le invenzioni capaci di "avere un'applicazione industriale", e quali sono i diritti dell'inventore una volta di più rinviano poi "alle leggi speciali", dovendosi segnalare in modo particolare le disposizioni del regio decreto 1127 del 29 giugno 1939 da allora ampiamente riformate. Ma al tempo stesso si deve segnalare tutto il rilievo delle regolazioni internazionali con speciale riguardo alle discipline di "brevetto" che sono il punto forte del sistema normativo. Conseguire il brevetto per una invenzione industriale significa infatti acquisto del diritto esclusivo "di attuare l'invenzione e di disporne". L'art. 2585 avverte che oggetto di brevetto possono essere nuove elaborazioni intellettuali, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una "macchina" o uno "strumento" o un "dispositivo meccanico" o altro ancora, non esclusa "l'applicazione tecnica di un principio scientifico" sempre che essa consenta "immediati risultati industriali".
Attività inventiva, novità e industrialità sono perciò i caratteri distintivi della fattispecie costitutiva del diritto "morale" al riconoscimento della paternità della invenzione, così come del diritto alla sua utilizzazione economica per un periodo di venti anni. Messa a disposizione di una impresa l'invenzione consentirà la soluzione di un problema tecnico, la ideazione di un nuovo "prodotto" o di un diverso modo di produzione di beni già esistenti o altre utilità. E presenta rilievo sempre maggiore il caso della invenzione che si realizza in azienda per iniziativa di un dipendente dell'impresa. È perciò importante il riconoscimento di diritti stabilito dalla norma dell'art. 2590 a favore dell'autore dell'invenzione "fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro". Va infine ricordato che anche in materia di invenzioni e di diritti di brevetto si ritrovano disposizioni che assicurano tutela con gli strumenti della norma penale.
Ancora in riferimento a beni immateriali che servono a fare impresa si devono infine ricordare modelli e disegni ornamentali così come modelli di utilità. Sono ornamentali quanti riguardano l'estetica del prodotto, e perciò sua forma, linea e colore (come ad esempio nella bella estetica di un computer da tavolo). E l'art. 2592 si riferisce ad ogni "nuovo disegno o modello" capace di "dare a determinate categorie di prodotti industriali uno speciale ornamento", che sempre più spesso è quanto occorre per assicurare fortuna ad una impresa. Sono invece di utilità i "modelli" che come precisa l'art. 2593 assicurano "particolare efficacia" o "comodità di applicazione" a strumenti ed oggetti. E migliorare l'impiego o come si usa dire la "funzionalità" del "prodotto" offerto al mercato naturalmente per le imprese è cosa del maggior rilievo. Anche in questa materia valgono principi di novità e disciplina di brevetto, dovendosi considerare la disposizione di rinvio dell'art. 2594 alle norme degli artt. 2588, 2589 e 2590 oltre che alla serie delle leggi speciali.E adesso le disposizioni stabilite in recepimento di direttiva comunitaria dal decreto legislativo 95 del 2 febbraio 2001.
Operando per il mercato l'imprenditore deve necessariamente segnalare al pubblico il nome e la identità dell'impresa, segnalare il luogo dove si esercita l'attività, segnalare per differenziazione i beni e i servizi che si offrono. Occorrono perciò segni distintivi del più vario genere che saranno volta a volta un catalogo che illustra l'impresa o documenta le qualità dell'azienda, una denominazione di origine, una indicazioni di provenienza o altro ancora. Alcuni segni distintivi presentano tuttavia caratteri di particolare rilievo, trovano circostanziata disciplina normativa, costituiscono oggetto di posizioni di diritto particolarmente tutelate. Sono la ditta, l'insegna e il marchio. La "ditta" è il nome che l'imprenditore impiega nello svolgimento della attività di impresa. L'"insegna" è l'espressione linguistica o grafica che evidenzia l'azienda e il luogo di attività dell'impresa. Il "marchio" è l'emblema o la parola o la configurazione di oggetti o altro indicatore che comunque valga da segno distintivo di "prodotti" o "servizi".
Regolata dagli artt. 2653 a 2566 la ditta deve contenere "almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore". È materia di un diritto che si acquista mediante la priorità dell'impiego di una particolare denominazione. E il diritto che si acquista è diritto ad un suo uso esclusivo. Ma la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda. Gli imprenditori "società" hanno per ditta una "ragione sociale" o una "denominazione sociale" che saranno considerate più avanti. All'insegna si applica la disposizione del primo comma dell'art. 2564 che esige le diversificazioni dei segni distintivi eventualmente necessarie per rimuovere possibili effetti di confusione. E sembra di dover applicare anche il principio che non consente trasferimenti di insegna se non insieme a trasferimenti di azienda.
La complessità della disciplina del marchio è commisurata alla particolare forza del suo valore segnaletico che sarà sufficiente evocare in via breve. Impiegato come strumento che presenta al mercato beni o servizi, il marchio usa "parole", "figure" o comunque "segni" che con le modalità consentite differenziano "beni" e "servizi" dell'impresa da altri che pure appartengano ad una medesima categoria commerciale di riferimento. Suoi obbligati requisiti di validità sono quindi il carattere di novità, la necessaria capacità distintiva, la liceità e infine la veridicità del messaggio, essendo espressamente stabilito il divieto di usare come marchio indicazioni "non veritiere" sulla "origine" o sulla "qualità" di "prodotti" e "merci". O di usare comunque "parole, figure o segni" tali da "trarre in inganno nella scelta" quanti si rivolgono con fiducia al mercato. Ma anche le nozioni di <novità> , <originalità> o capacità distintiva, <liceità> del marchio esigono circostanziate precisazioni. Da ciò tutta una serie di problemi di regime del marchio al centro di una continua evoluzione di orientamenti . A veder bene si tratta di problemi che se da sempre presentano caratteri di evidente rilievo tanto più rilevano nelle economie di mercato di inizio secolo.
Si pensi ai numerosi comparti di industria dove è così lieve ( se non inesistente ) la diversificazione di beni e servizi , di modo che la competizione imprenditoriale assegna un valore assolutamente strategico alla capacità distintiva ed evocativa del marchio per la sua forza di suggestione ormai tanto spesso diventato il fattore di prevalente incidenza nella determinazione delle motivazioni all'acquisto. Da ciò la sua valenza di advertising commerciale che pubblicizza il prodotto e assolutamente dominante se si pensa a quante volte il marchio <nome famoso> esercita un potere di cattura della domanda che non ha relazione con una qualsiasi connotazione informativa sulle componenti e sulla qualità del <prodotto>. Per il regime di trasferimento e concessione dell'art. 2573 del codice civile come si ricorderà il marchio e la legittimazione al suo uso possono circolare separatamente dall'azienda di origine di modo che il segno distintivo non ha più alcuna funzione di indicazione di provenienza. Ma questo è soltanto il più emblematico punto di emersione delle specialità di regime di questo segno distintivo dell'impresa che sono numerose. E numerose sono le questioni da discutere già se si considera in qual misura novità,capacità distintiva e liceità del marchio soltanto in apparenza sono nozioni di contenuto univoco.
La disciplina di materia in ogni caso presenta tutti i caratteri di una complessa normativa di settore che davvero non si presta ai discorsi di estrema sintesi Al marchio si applicano in primo luogo gli artt. 2569 a 2574 del codice civile e speciali discipline del regio decreto 929 del 21 giugno 1942 , da allora più volte modificato e significativamente modificato dal decreto legislativo 480 del 4 dicembre 1992 ma poi ancora dai decreti 198 del 19 marzo 1996 e 447 dell'8 ottobre 1999. E anche a non considerare il marchio comunitario che ( osservandosi le disposizioni della disciplina del regolamento del dicembre 1993) consente di operare in ogni ambito dell'Unione europea , l'analisi da svolgere sarà in ampia misura ricognizione di normative nazionali che si sono codificate in recepimento di direttive comunitarie o correlate ad accordi transnazionali. Normative di diritto interno e di diritto privato europeo o comunque sovranazionale chiamate a regolare un vasto repertorio di fattispecie che qui semplicemente e soltanto in parte riferisco ma che l'ulteriore svolgimento del seminario dovrà passare in circostanziata rassegna.
Occorrerà distinguere tra il marchio che svolge la sua funzione di identificazione con le parole del marchio <denominativo> e il marchio che invece si avvale di una rappresentazione grafica ,essendo perciò marchio <figurativo> così come possono darsi fattispecie di marchio <misto> che aggregano parole e rappresentazione grafica .E come si sa può svolgere funzione di marchio anche la forma del prodotto . Occorrerà poi distinguere tra il marchio speciale che riguarda singoli oggetti e marchio generale che ne contrassegna una intera serie. Allo stesso modo occorrerà acora distinguere a seconda che si tratti della singola impresa o di marchio di un insieme di imprese, di marchio di fabbrica dell'impresa di produzione, del marchio di servizio dell'impresa di servizi o del marchio di commercio delle imprese di distribuzione.Ma si devono considerare anche ulteriori distinzioni e fattispecie. L'art. 2570 regola la materia dei marchi collettivi che garantiscono "l'origine, la natura la qualità" dei "prodotti e servizi" offerti da intere categorie di "produttori o commercianti".Va poi adesso tenuto presente il particolare rilievo dei contratti di merchandising del marchio che in numerosi comparti di mercato ne accrescono il valore e grandemente ne incrementano le modalità di uso.
Dovendo valere da segno distintivo di "prodotti" e "servizi" offerti al mercato il marchio istituzionalmente conferisce un diritto all'uso esclusivo che si acquista mediante registrazione presso l'Ufficio centrale dei brevetti e dei marchi. E' vero che l'art. 2571 assicura (limitata ) protezione anche al marchio non registrato ma soltanto la registrazione garantisce la pienezza del diritto . E naturalmente la materia presenta caratteri di particolare rilievo. Si avvia un procedimento inteso ad accertare la compresenza dei diversi requisiti di validità del marchio, in caso di esito positivo del giudizio provvedendosi alla registrazione che come si diceva di per sé comporta "acquisto del diritto di esclusiva all'uso del segno distintivo". A protezione del marchio registrato si danno azioni cautelari così come azioni di cognizione del diritto e di sua ulteriore tutela. La registrazione ha comunque efficacia preclusiva dell'uso o della successiva "registrazione (...) di un marchio eguale o simile". Ma va pur sempre considerato il regime che l'art. 2571 prefigura in ragione della priorità di impiego del segno distintivo. 
Chi "ha fatto uso" di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare "ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta" nei limiti in cui anteriormente se ne era avvalso. Nella prospettiva della policy di trasferibilità che si è indicata per rinvio all'art. 2573 , il trasferimento del marchio a terzi è regolato da norme dove si stabilisce che il marchio può essere trasferito per "la totalità" o "per una parte" dei "prodotti" o "servizi per i quali è stato registrato". Ma ancora una volta operano norme di protezione dei destinatari del messaggio. Il trasferimento del marchio è consentito soltanto quando sia provato che non ne deriva "inganno" in "quei caratteri" dei prodotti o servizi che sono "essenziali nell'apprezzamento del pubblico". A queste condizioni è possibile anche la sua già ricordata concessione in licenza d'uso. Il caso della cessione di azienda è disciplinato dal secondo comma dell'art. 2573. E si ricordi che impiegando il modello e la strumentazione dei reati di falso alla tutela del marchio si è provveduto anche mediante la sanzione di abusi che configurano fattispecie a rilevanza penale.
In materia di segni distintivi dell'impresa la rivoluzione telematica di inizio secolo origina poi i fenomeni che inevitabilmente impegnano i law makers alla elaborazione di nuovo diritto . Va in modo particolare considerato il crescente rilievo del domain name , il nome del sito Internet che mediante segnalazione alle autorità di regolazione della rete informatica naming authority e registration authority si acquisisce appunto come un nuovo <segno distintivo> secondo il criterio di preferenza indicato dal principio first came,first served. Nel corso del seminario dovrano essere specialmente valutati i problemi che insorgono quando la parola impiegata dall'imprenditore come domain name corrisponde all'altrui denominazione di impresa o ad un altrui marchio già registrato E in caso di un uso perverso della regola che <chi arriva per primo> alla rete cattura per sé il domain name sarà chiaro che occorre regire ad operazioni di illecito cybergrabbing con una applicazione in senso forte delle normative che ad ogni impresa assicurano protezione ed impiego esclusivo del marchio e degli altri segni distintivi della sua attività . Da ciò l' intero ordine di problemi che ha trovato riscontro in una significativa elaborazione di soft law alla scala sovranazionale e in un contenzioso all'origine di un diritto giurisprudenziale sicuramente orientato nella giusta direzione.

5. L'imprenditore commerciale.Organizzazione dell'impresa, discipline di contratto e regole di svolgimento delle attività di mercato 

Il <fare impresa>porta naturalmente con sé la configurazione di assetti organizzativi ,comporta la osservanza di ua speciale disciplina dei contratti e uno svolgimento multiforme di att


6.1. Stato di insolvenza e par condicio dei creditori dell'impresa. La dichiarazione di fallimento e gli organi della procedura. Liquidazione dell'attivo e chiusura del fallimento. Il caso del concordato fallimentare.


Situazioni di crisi dell'impresa e stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale sono eventi del massimo rilievo e della maggior gravità. L'imprenditore si trova in stato di insolvenza quando non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Il loro inadempimento ne è un possibile segnale ma stato di insolvenza esiste anche se alle obbligazioni assunte si provvede con anomale modalità che tendono a dissimulare il dissesto dell'impresa. E se si tratta di una impresa commerciale che non sia piccolo imprenditore né ente pubblico a tutela dei suoi creditori opera la disciplina del fallimento stabilita con le norme della fallimentare 267 del. marzo 1942 che si segnalano anche per la configurazione di tutta una serie di fattispecie di reato.
Ne risulta un regime della materia fallimentare sempre più esposta a motivate obiezioni di assoluta inadeguatezza nel senso che sarà precisato più avanti, essendo ormai verosimilmente non lontani i tempi di approvazione della normativa riformatrice già ampiamente discussa nelle sedi parlamentari (e si consideri fino da ora quanto in caso di fallimento <internazionale>stabilisce il regolamento comunitario del maggio 2000 adesso finalmente operante). Esigenza principale è garantire il soddisfacimento dei creditori dell'impresa secondo principio di parità di trattamento. Come si legge nell'art. 52 della legge fallimentare, la dichiarazione di fallimento "apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito". I creditori diventano creditori concorsuali e non sono più consentite azioni esecutive individuali, al loro soddisfacimento dovendosi provvedere mediante la procedura che si avvia con la dichiarazione di fallimento.
Dichiarazione pronunciata dal tribunale del luogo dove è la sede principale dell'impresa su ricorso di uno o più creditori o su richiesta dello stesso imprenditore o su istanza del pubblico ministero non essendo escluso il caso che il tribunale dichiari d'ufficio il fallimento dell'imprenditore. La cessazione dell'attività di impresa e la stessa morte dell'imprenditore non escludono che entro un anno ne segua la dichiarazione di fallimento. E va considerato che se falliscono società commerciali in conseguenza del fallimento della società per disposizione dell'art. 147 falliscono anche i suoi soci a responsabilità illimitata. Opera allora il coordinamento delle procedure concorsuali stabilito dall'art. 148 mentre per disposizione dell'art. 149 "il fallimento di uno o più soci illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società". Negli artt. 18 a 22 si leggono le norme di regime delle opposizioni e della possibile revoca della sentenza dichiarativa del fallimento.
Quanto alla disciplina di procedimento l'art. 16 della legge stabilisce che la sentenza sarà "pronunciata in camera di consiglio", a seguito di una attività istruttoria di genere sommario. L'imprenditore andrà sentito ma vale il principio inquisitorio che al tribunale consente di svolgere senza contradddittorio tutte le indagini ritenute utili. Se dichiara il fallimento con la sua sentenza il tribunale ordina al fallito il deposito di bilancio e scritture contabili dell'impresa e nomina un giudice delegato che "dirige" le operazioni del fallimento, svolge funzioni indicate dall'art. 25 e comunque "vigila l'opera del curatore". E il curatore del fallimento è la persona che in osservanza delle disposizioni dell'art. 28 la sentenza nomina con l'incarico di curare "l'amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato". Gli artt. 42 e 46 avvertono infatti che "dalla sua data" la sentenza dichiarativa di fallimento "priva" il fallito "dell'amministrazione e della disponibilità dei suo beni" diversi da quelli di natura strettamente personale.
Pur sempre proprietario ma spossessato dei beni assoggettati al fallimento, l'imprenditore dichiarato fallito perciò non è più legittimato ad atti di disposizione che se compiuti "sono inefficaci rispetto ai creditori". Si forma quindi un "patrimonio separato", che sarà comprensivo di beni, crediti ed altre voci patrimonialmente attive così come della massa dei debiti dell'impresa. Sarà compito del curatore amministrare questo patrimonio svolgendo una serie complessa di operazioni. In casi di eccezione non è esclusa una continuazione della attività di impresa secondo le disposizioni dell'art. 90. Le attribuzioni del curatore sono efficacemente esemplificate dalle norme della legge fallimentare che disciplinano i rapporti contrattuali pendenti o ancora le azioni revocatorie ordinarie e fallimentari eventualmente esercitate dal curatore nell'interesse della massa creditoria. La disciplina della revocatoria fallimentare ne agevola il compito. Presupposti dell'azione sono infatti lo stato di insolvenza dell'imprenditore e la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo. E al riguardo operano presunzioni che favoriscono l'esercizio dell'azione. 
Svolgendo un ruolo utile anche il comitato dei creditori prefigurato dalla norma dell'art. 40, le operazioni di gestione della procedura troveranno infine un punto di sintesi nell'accertamento del passivo e nella liquidazione dell'attivo. All'accertamento dello stato passivo che quantifica la entità dei crediti da soddisfare si perviene mediante le fasi della presentazione delle domande di ammissione al passivo fallimentare, della verifica delle posizioni creditorie e della finale dichiarazione di esecutività dello "stato passivo". Alla liquidazione dell'attivo si provvede (provvederà il curatore) mediante la vendita dei beni del fallito, applicando norme della legge fallimentare che comprensibilmente tendono ad agevolare il conseguimento del maggior risultato utile. 
Dalla liquidazione dell'attivo si ricava quanto sarà poi diviso tra i creditori secondo l'ordine delle cause di prelazione e in osservanza delle regole di ripartizione stabilite dagli artt. 110 a 117 in ragione delle diverse tipologie di crediti e creditori. Si dovrà in primo luogo provvedere al pagamento delle spese operate per l'amministrazione del fallimento. Seguirà il pagamento dei crediti ammessi con prelazione. Seguirà infine il pagamento dei crediti chirografari "in proporzione dell'ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso". Esaurita la fase di liquidazione dell'attivo occorre che il giudice delegato approvi il rendiconto di gestione predisposto dal curatore fallimentare. Avrà allora corso la chiusura del fallimento dichiarata dal tribunale con un suo decreto, che se comporta cessazione degli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito al tempo stesso restituisce ai creditori "il libero esercizio delle azioni" per "la parte non soddisfatta dei loro crediti" (e va considerato che nei casi e nei tempi indicati dall'art. 121 possono darsi riaperture del fallimento).
Il concordato fallimentare è una particolare modalità di chiusura del fallimento che si verifica quando per accordo con i creditori il fallito provvede al pagamento integrale dei creditori privilegiati e in una certa misura al pagamento dei creditori chirografari, in questo modo conseguendo la liberazione dei beni assoggettati alla procedura fallimentare. Regolata dagli artt. 124 a 159 della legge fallimentare, la vicenda configura una complessa fattispecie a formazione progressiva che comporta una proposta del fallito, la sua approvazione da parte della maggioranza dei creditori e un provvedimento di omologazione del tribunale fallimentare. Per la approvazione della proposta occorre voto favorevole di una "maggioranza numerica dei creditori aventi diritto al voto", la quale "rappresenti almeno i due terzi della somma dei loro crediti". 
In sede di omologazione il tribunale "accerta l'osservanza delle prescrizioni di legge" ed esamina "il merito delle proposte" valutando anche "la serietà delle garanzie offerte". E una volta intervenuta la omologazione si provvederà alla liquidazione dei beni e al pagamento dei creditori, dovendosi considerare il possibile intervento di un terzo assuntore del concordato secondo la previsione dell'art. 124. Ma va considerata anche la eventualità di una risoluzione del concordato per inadempimento nei casi indicati dall'art. 137 o di un suo annullamento nei casi indicati dall'art. 138. Con la sentenza che risolve o annulla il concordato fallimentare il tribunale dichiara il fallimento. Tutt'altra vicenda è regolata dalle norme degli artt. 160 a 186 che disciplinano il concordato preventivo.

6.2. Le altre procedure concorsuali. Concordato preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa. L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Il concordato preventivo è procedura concorsuale che opera in funzione per così dire sostitutiva del fallimento, qualora un imprenditore che pure versa in stato di insolvenza raggiunga in via giudiziale un accordo con la massa dei creditori. Si tratterà di concordato con garanzia se l'imprenditore offre serie garanzie di pagamento della totalità dei crediti privilegiati e di una percentuale dei crediti chirografari non inferiore al quaranta per cento. Si tratterà di concordato con cessione se per conseguire quel risultato l'imprenditore ai creditori offre tutti i suoi beni assoggettabili al fallimento. Se questi presupposti esistono, e se per l'imprenditore esistono i presupposti di meritevolezza del beneficio indicati dal primo comma dell'art. 160, il tribunale che in caso contrario dichiara di ufficio il fallimento ai sensi dell'art. 162 provvede a dichiarare aperta la procedura di concordato preventivo nominando come organi della procedura un giudice delegato e un commissario giudiziale. L'imprenditore continuerà l'esercizio dell'impresa. E gli organi della procedura provvederanno a quanto occorra per condurla ai previsti risultati di soddisfacimento dei creditori. Anche nel caso del concordato preventivo possono darsi risoluzione e annullamento con conseguenti dichiarazioni di fallimento.
Altra procedura in funzione sostitutiva del fallimento è la amministrazione controllata, che secondo la previsione dell'art. 187 della legge fallimentare riguarda il caso dell'imprenditore in una situazione di <temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni", esistendo tuttavia comprovate possibilità di risanare l'impresa. In situazioni di questo genere "a tutela dei creditori" e "per un periodo non superiore a due anni" può darsi corso alla procedura che sia avvia con una domanda di ammissione dall'imprenditore rivolta al tribunale, chiamato così a stabilire se ne esistono i presupposti e "se il debitore" è "meritevole del beneficio" in tal caso provvedendosi alla nomina di un giudice delegato e di un commissario giudiziale. E sarà ancora il tribunale a convocare i creditori per le valutazioni che a loro competono. Si applicano le norme degli artt. 188 a 190 della legge fallimentare. Se "la proposta del debitore" non è "approvata" il tribunale potrà dichiarare il fallimento qualora consideri il dissesto definito e irreversibile. Se invece i creditori approvano la proposta seguirà la nomina di un comitato di tre o cinque creditori che "assiste il commissario giudiziale". 
Qualora il tribunale non ritenga di dover sostituire ad esso il commissario giudiziale, l'imprenditore ammesso alla procedura di amministrazione controllata conserva gestione dell'impresa e disponibilità del patrimonio, operando tuttavia i nececessari controlli del commissario e del giudice delegato. E per gli atti eccedenti la ordinaria amministrazione occorreranno autorizzazioni. I creditori dovranno astenersi dall'avvio e della prosecuzione di azioni esecutive. Alla scadenza del termine dei due anni (o ancor prima) se l'imprenditore dimostra che superata la situazione di temporanea difficoltà è ormai "in grado di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni", con decreto del tribunale ai sensi dell'art. 193 della legge fallimentare sarà dichiarata la cessazione della procedura. In caso contrario il tribunale dichiarerà il fallimento dell'imprenditore, non essendo tuttavia esclusa una sua proposta di concordato preventivo. 
La liquidazione coatta amministrativa più che una procedura è un insieme di procedure concorsuali, regolate in parte da norme della legge fallimentare e in parte da leggi speciali di settore, tutte comunque riferite a particolari categorie di soggetti e di imprese assoggettate a forme di vigilanza pubblica. Si pensi all'impresa bancaria, all'impresa assicurativa, all'impresa cooperativa o ancora alle società di gestione del risparmio, alle società di intermediazione finanziaria e alle associazioni "fondo pensione". Presupposto della liquidazione può essere lo stato di insolvenza dell'imprenditore ma anche la violazione di disposizioni di legge o regolamentari e infine uno svolgimento delle attività difforme da un generale interesse che deve invece essere perseguito. Finalità della procedura è la eliminazione dell'impresa, la cessazione delle sue attività con contestuale liquidazione dell'azienda. Ci sarà riparto del ricavato tra i creditori dell'impresa ma non è questo lo scopo primario.
La procedura di liquidazione è procedimento amministrativo e non giurisdizionale. Non provvedono giudici ma organi della pubblica amministrazione essendo tuttavia competenza esclusiva dell'autorità giudiziaria l'accertamento dell'eventuale stato di insolvenza. Il soggetto pubblico che ha vigilanza sull'impresa dispone con decreto l'avvio della procedura e nomina un commissario liquidatore (ma anche un comitato di sorveglianza del suo operare). L'imprenditore è spossessato e se l'impresa è una società gli organi sociali non svolgono più le loro funzioni. Sarà il commissario liquidatore che è "pubblico ufficiale" ad attivarsi per quanto occorre alle finalità della procedura. 
Da ciò l'accertamento dello stato passivo. Seguirà la liquidazione dell'attivo dovendosi considerare che per la vendita di immobili e per altre particolari operazioni al commissario liquidatore occorrono autorizzazione dell'autorità di vigilanza e parere del comitato di sorveglianza. Seguirà infine la ripartizione dell'attivo secondo criteri simili a quanti operano in caso di fallimento. E il commissario liquidatore presenterà all'autorità amministrativa il bilancio finale di liquidazione con il conto della gestione, ove occorra provvedendosi alla cancellazione della società dal registro delle imprese. Ma non sono escluse varianti della fattispecie. Sono infatti possibili fasi contenziose per iniziativa di creditori così come proposte di concordato avanzate dall'imprenditore. 
Organizzata sul modello della liquidazione coatta amministrativa, una nuova procedura concorsuale si deve alla legge 95 dell'. aprile 1979 che disciplina la amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Successivamente e più volte modificata (in particolare dalle disposizioni del decreto legislativo 270 del luglio 1999) questa legge ricerca un difficile punto di equilibrio tra tutela dei creditori dell'imprenditore insolvente, conservazione dell'apparato produttivo "impresa" e difesa dei posti di lavoro. Presupposti dell'amministrazione straordinaria sono una elevato numero di lavoratori occupati, particolari soglie di esposizione debitoria e la possibilità di "risanamento" dell'impresa. Competente ad accertare l'esistenza dei presupposti della procedura è il tribunale del luogo dove l'impresa ha la sua sede principale. Il suo avvio compete al Ministro dell'industria di concerto con il Ministro del tesoro. Sono nominati commissari che provvedono all'amministrazione straordinaria e un comitato di sorveglianza del loro operare.
La continuazione delle attività di impresa si compie in funzione attuativa di un piano di politica industriale "a termine". E se l'impresa appartiene ad un gruppo di imprese possibili estensioni della procedura tendono a consentire una gestione unitaria. Possono darsi cessioni a terzi di complessi aziendali o ristrutturazioni delle imprese, così come provvedimenti di chiusura delle procedure se queste non possono essere utilmente proseguite, non essendo perciò escluso che in tal caso alla amministrazione straordinaria segua il fallimento. Con la legge 274 del luglio 1998 il governo ha ricevuto delega per una riforma della disciplina in vigore, che non ha dato buona prova perché il suo impiego molto spesso non ha consentito risanamenti di impresa ma soltanto risultati di sostegno dell'occupazione puramente congiunturali (e a prezzo di una intollerabile caduta delle garanzie di tutela dei creditori dell'impresa).
Come già si è avvertito è in ogni caso attesa e ormai urgente una organica riforma dell'intera materia delle insolvenze di impresa. In presenza di normative del diritto europeo che privilegiano policies assai diverse tra loro ma talvolta esposte al rischio di determinare <liquidazioni> di imprese ancora <risanabili> per un eccesso di tutela dei creditori, e altra volta invece al contrario esposte al rischio di favorire una <conservazione> di imprese non più capaci di una gestione utile, gli specialisti di materia indicano con chiarezza in qual direzione orientare una evoluta politica del diritto essendo comunque ben visibile e grave la carenza delle normative che nel caso italiano non consentono di affrontare in modo adeguato problemi che sono con ogni evidenza del maggior rilievo.Cosa che da più parti (e ancora di recente in sedi istituzionali assai accreditate)si è segnalata quale <passività sociale>del <sistema paese> rilevante anche alla scala macroeconomica.
Anche a non considerare (come invece si deve) i costi delle procedure e la loro durata che è anch'essa pesante fattore di costo , le normative in vigore non consentono infatti di identificare un giusto punto di equilibrio tra difesa dei valori di impresa e tutela dei creditori .E guardando allo scenario internazionale gli esperti di materia spesso indicano come modello di razionale policy il Bankruptcy Act nord-americano del 1978 che ha provatamente agevolato una razionale e più efficiente amministrazione delle crisi di impresa. Una volta stabilito che in linea di principio occorre assicurare tutela all'<interesse dei creditori> al tempo stesso le norme del Bankruptcy Act utilmente distinguono tra procedure di liquidazione e procedure di <riorganizzazione> dell'impresa,privilegiando le opportune modalità di reorganization quando esista modo di attivarne una new financial structure in funzione di un possibile e naturalmente desiderabile <rilancio> dell'iniziativa imprenditoriale.
Da ciò la motivata insistenza per interventi legislativi anche nel caso italiano davvero capaci di distinguere tra situazioni di temporaneo deficit di liquidità e stato di insolvenza che invece già prefigura crisi di impresa senza ritorno dovendosi apprestare discipline diversificate a seconda delle particolarità della singola fattispecie .Occorrono comunque norme di diritto sostanziale e disposizioni di procedura che come già si diceva pervengano ad un giusto punto di equilibrio , così da regolare la singola fattispecie nel modo che occorre per <massimizzare> e non distruggere <il valore dell'impresa> contestualmente assicurando alla massa dei creditori insieme con una corretta valutazione delle <priorità> creditorie una <soddisfazione> patrimoniale che per quanto possibile sia la più elevata .
Sarà allora chiaro in qual misura si rende necessaria una politica legislativa da praticare con il metodo dell'analisi economica del diritto .E perciò una politica legislativa che guardi alla crisi di insolvenza dell'impresa come ad un caso di market failure da valutare in termini di costi e benefici delle possibili normative .Quanto poi alla preferenza per procedure di reorganization ( da organizzare sul modello nord americano del Bankruptcy Act )non sarà necessario aggiungere ulteriori considerazioni, essendo di immediata evidenza che in punto di law and economics l'impresa è un valore sempre maggiore del valore dei singoli bene che ne sono parte , di modo che (se talvolta sono obbligate per l'assenza di alternative praticabili ) le misure diverse dal <risanamento> e dalla <riorganizzazione> dell'impresa per un suo <rilancio> imprenditoriale inevitabilmente portano con sé una grave perdita di valore .In tempi di crescente espansione delle attività di impresa alla scala sovranazionale particolare attenzione si deve poi riservare ai fenomeni di crisi da insolvenza dell'impresa che possano manifestarsi appunto in quel più ampio ambito.
E al riguardo va segnalata la integrazione di regime delle procedure concorsuali che in conformità delle indicazioni del <progetto> di <convenzione europea> sul fallimento <internazionale>, e per forza del regolamento comunitario del maggio 2000 si è già operata mediante disposizioni che in vigore dal maggio 2002 rimuovono numerosi fattori di incertezza del diritto e di possibili violazioni del principio di parità di trattamento dei creditori. In punto di armonizzazione degli ordinamenti nazionali si deve distinguere tra procedura per così dire <principale> assegnata in competenza al giudice <dello Stato nel cui territorio è situato il centro dei principali interessi del soggetto debitore> e procedura invece <secondaria> , che con riguardo al luogo dove si eserciti in modo non transitorio consente l'iniziativa del giudice di altro Stato membro sia pure con effetti limitati ai beni del debitore situati nel territorio di <sede secondaria>. E si legga quanto le segnalate disposizioni stabiliscono in tema di poteri del curatore fallimentare <legittimato> all'esercizio delle <prerogative>attribuite <dalla legge del paese di origine> e poi in tema di iscrizione al passivo dei creditori <indipendentemente> dal luogo di loro residenza.

7. Diritto penale dell'impresa. Le disposizioni di costituzione economica e le garanzie del controllo di legalità . Norme in bianco e grandi linee del sistema.La responsabilità sociale dell'impresa.

In tutt'altra e più generale prospettiva di analisi ,sia pure in estrema sintesi è poi necessario considerare il sistema delle disposizioni che assoggettano le imprese ad un controllo di legalità con lo strumento forte della norma penale perché davvero non si conosce il diritto di imprese e società senza conoscere ciò che è loro disciplina di questo genere..Anche se soltanto in via di prima approssimazione sarà perciò il caso di segnalare i caratteri distintivi di un insieme normativo di genere molto particolare. Prevalgono infatti le disposizioni di legge speciale che si sono succedute senza una sufficiente organicità di complessivo disegno del diritto penale dell'impresa che in consistente misura è ormai anche disciplina di prevenzione e di sanzione del delitto informatico.In linea di principio si possono comunque indicare come interessi protetti dalla norma incriminatrice i valori sociali che negli artt. 41 e 47 o in altre disposizioni costituzionali segnano limiti alla iniziativa economica.
Ogni singola norma incriminatrice ha una sua particolare ratio legis che occorrerà di volta in volta precisare. Ancor prima occorre tuttavia distinguere tra le diverse norme incriminatrici in considerazione del loro diverso ambito di operatività.E va considerato quanto è difficile congegnare disposizioni a misura dei fenomeni di <delitto> consumato mediante strumenti di tecnologia informatica (in materia di cyber crime meritando grande attenzione il progetto di trattato internazionale che per la criminalità informatica è in corso di elaborazione presso l' European Committee on Crime Problems del Consiglio d'Europa ). Parte del sistema sono comunque fattispecie di reato che possono configurarsi per qualsiasi attività di impresa e per qualsiasi società "soggetta a registrazione". Altre disposizioni dove si prefigurano fattispecie di reato sono invece norme incriminatrici che si riferiscono in via esclusiva alle società di capitali. Altre ancora stabiliscono infine speciale disciplina delle società azionarie con azioni quotate e del mercato finanziario. 
L'universo delle fattispecie che costituiscono "delitto" o "contravvenzione", e che perciò comportano sanzioni penali di comportamenti devianti ha quindi la ulteriore e crescente complessità che si può bene immaginare. Normative a sé valgono per singole categorie di soggetti (e ad esempio per le società di revisione contabile), così come per singoli settori di industria (e ad esempio per il settore bancario) e per i fenomeni di insolvenza delle imprese con caratteri di rilevanza penale (configurandosi allora le diverse ipotesi di reati fallimentari). A tutto questo si aggiunga la nuova disciplina penale delle attività imprenditoriali di intermediazione in valori mobiliari. Ne risulterà con chiarezza la estensione di campo di normative di prevenzione e sanzione dell'illecito di impresa che in queste pagine si segnaleranno soltanto per i possibili approfondimenti. Sarà bene tuttavia quanto meno rilevare fino da ora un elemento distintivo dell'intera disciplina che al tempo stesso ne costituisce grave punto di caduta. 
Configurando il regime penale di imprese e società molto spesso si è infatti privilegiata una tecnica legislativa che definisce la fattispecie criminosa mediante rinvio ad altre disposizioni. E si tratta di tecnica legislativa che naturalmente non si sottrae ad una motivata critica. La norma penale stabilisce la sanzione ma gli elementi costitutivi della fattispecie di reato si devono derivare da altre norme. E molto spesso si tratta di norme di diritto privato o di diritto amministrativo, di per sé incapaci di una descrizione di comportamenti così puntuale quanto richiede il principio di stretta legalità che è invece per tutti garanzia costituzionalmente stabilita. Da ciò una serie di norme penali in bianco che comportano un elevato rischio di discutibili applicazioni.
Ragionando in termini di politica del diritto sarà infine chiaro che l'impiego della norma penale esige misura. È pur sempre necessario quando occorre agire in prevenzione e a sanzione di comportamenti con caratteri di particolare gravità. Anche in materia di imprese e società (ma a veder bene sempre) il ricorso allo strumento forte della norma penale si giustifica tuttavia soltanto nella misura resa indispensabile dalla provata mancanza di altri e meno afflittivi mezzi di reazione all'illecito. In ogni caso occorrono discipline capaci di scongiurare tutti i pericoli delle norme penali a contenuto indeterminato. E in questo senso sono del maggior rilievo( meritano ampio consenso) le innovazioni di sistema operate dal decreto legislativo che a marzo del 2002 ha riformato il regime degli <illeciti penali> di <società e consorzi>, sia sostituendo interamente l'undicesimo titolo del quinto libro del codice civile sia prefigurando nuove fattispecie di reato con una tecnica normativa finalmente lontana dal modello delle norme penali <in bianco>.
A quanto insegnano le analisi di stretto diritto positivo sia pure in via breve altro poi occorre aggiungere dovendosi considerare che se massimamente rilevano il sistema delle norme con carattere di imperatività e il loro regime sanzionatorio tuttavia non esauriscono l'universo delle regole che devono governare lo svolgimento delle attività di impresa .Si pensi al tema della responsabilità sociale dell 'impresa ,e perciò a quanto sempre più spesso si discute con riguardo al non financial report costituito dal bilancio <sociale> dell'impresa oggi sempre più al centro di numerose iniziative e di così ampio dibattito.Si teorizza (e talvolta si comincia a praticare) la responsabilità sociale dell'impresa quale <rendicontazione>del suo operare agli stakeholders e alla generalità dei soggetti interessati <alla vita dell'azienda>. E precisando i contenuti del bilancio <sociale>dell'impresa rappresentativo della sua corporate social responsability, si avverte che non deve trattarsi semplicemente di un documento in più da allegare ai documenti di bilancio prescritti dal diritto contabile di imprese e società. Rilevano <grandezze di natura sociale e ambientale>e gli altri<valori collettivi> variamente indicati nella parte propositiva del modello a suo tempo elaborato dall'Istituto europeo per il bilancio sociale .
Pensato in puntuale correlazione con il bilancio di esercizio dell'impresa secondo precisa logica di sistema , il non financial report elaborato dall'Istituto europeo è modello condiviso dal Social and Ethical Auditing and Accounting Network . Muove da una <premessa metodologica>e consiste di più parti che variamente riguardano <identità aziendale>, <rendiconto> di impresa ,criteri di selezione e di di rilevazione dei fattori significativi, <attestazioni> procedurali e altro ancora,trattandosi comunque di documentare il punto di incontro e il grado di compatibilità tra <quantità economiche> e <qualità di relazione> tra agire con scopo di profitto ,decisioni imprenditoriali, ,posizioni di interesse collettivo e <valori> della collettività sociale di riferimento. Da ciò i termini fondamentali delle discussioni in tema di responsabilità sociale dell'impresa così ricorrenti nel mondo anglosassone ma finalmente avviate anche nel caso italiano.
Nel mondo anglosassone è da tempo consolidato l'assunto (talvolta espressamente condiviso anche da posizioni ufficiali delle autorità di governo) che <va respinta> e non corrisponde a realtà l' <idea erronea secondo la quale> agire di impresa e <obiettivi sociali> inevitabilmente <si trovano> in obbligato <conflitto>, aggiungendosi che comunque le imprese <devono essere <socialmente responsabili> con un forte impegno nelle <comunità> di loro appartenenza. In estrema sintesi si domanda di coniugare <il bene dell'impresa> con <il bene della più ampia comunità sociale>, e si domanda di considerare in qual (rilevante) misura le iniziative orientate in questa direzione <socialmente utile> al tempo stesso portano con sé rilevanti <benefici> di impresa, perché dell'impresa accrescono la <reputazione> sociale , valorizzano segni distintivi e <marchio> societario, incrementano i processi di <fidelizzazione della clientela> essendo ormai diffuso un sentire collettivo che privilegia appunto le imprese socialmente responsabili.
Il problema di politica del diritto oggi dominante rinvia poi all'interrogativo se <la virtù> imprenditoriale possa <essere imposta>,e perciò se in materia di attività di impresa <socialmente responsabili> occorra codificare regole giuridicamente vincolanti o se occorra invece riconoscere <natura volontaria> a quanto su questo fronte è possibile conquistare . E la posizione preferibile sembra rappresentata da quanti avvertono che sono impensabili (e comunque non utili) normative con carattere di imperatività là dove occorre lasciare spazio alla autonomia e alle libertà di impresa. .Ma se è vero che in questa materia deve considerarsi esclusa una inimmaginabile policy di segno dirigista sarà chiaro che possono pur sempre utilmente congegnarsi normative di incentivo in una prospettiva di analisi economica del diritto da valutare con il metodo di analisi già variamente elaborato da numerosi studiosi esperti di law and economics .
E se a tutt'oggi prevalgono le valutazioni e le dichiarazioni di intenti nelle forme della moral suasion ,con ogni evidenza acquistano campo anche le progettazioni di puntuali disposizioni e di basic rules pensate come regole del genere soft law ma pur sempre costitutive di un impegno di imprenditori e imprese a <tener conto dell'impatto economico,sociale e ambientale> che il loro operare ha <sulle comunità> che ne sono <interessate>. Un <impatto> e un <impegno> di responsabilità sociale talvolta indicati come fattore da considerare necessariamente <condizionante >le strategie di impresa.Anche nel caso italiano le più evolute strategie di governo del welfare state comunque ormai sempre più spesso guardano appunto ai temi di responsabilità sociale dell'impresa,secondo un orientamento di governo adesso ulteriormente precisato dal riferimento ad una politica di Social Commitment.
Perciò una politica di welfare state intesa ad incentivare con sistemi premiali (di genere fiscale o ancora diverso) le imprese che al di là della loro social responsibility provvedano ad avviare iniziative socialmente meritevoli (e per esempio , iniziative di attenzione ai problemi delle famiglie disagiate ,degli anziani o altre ancora). Ma da parte sindacale si osserva che <la responsabilità sociale dell'impresa> va misurata <prima di tutto al suo interno (…) nelle relazioni con i lavoratori>. In ogni caso ,i problemi di social responsibility e social commitment sono sempre più spesso rappresentati come fattore <strategico> nel contesto dei <rapporti tra economia e collettività>,essendo adesso significativamente indicati come una delle <priorità del semestre di presidenza italiana> del (segue ).

(*) Queste pagine sono esposizione elementare della disciplina di materia che sarà compresa in un capitolo della quarta edizione del volume collettaneo A.A.VV., Lineamenti di diritto privato in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli