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L'interpretazione delle norme giuridiche (*)

 

Paolo Comanducci


Introduzione
Nella teoria del diritto contemporanea il tema dell'interpretazione è senza dubbio un tema centrale. Non è sempre stato così. Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi sull'interpretazione in ambito giuridico , all'interno di un moltiplicarsi dei lavori sull'interpretazione in generale. Direi che la teoria del diritto degli ultimi decenni si caratterizza, rispetto alla grande stagione rappresentata dalle opere di Kelsen, di Hart, di Ross, per un interesse specifico per il ragionamento giuridico , e per l'assunzione del modello del ragionamento giudiziale quale paradigma del ragionamento in ambito giuridico. E all'interno degli studi sul ragionamento il tema dell'interpretazione è stato certamente il più trattato. Cercherò, in questo lavoro, di delineare una sorta di mappa, chiamarla tipologia sarebbe troppo ambizioso, delle teorie oggi circolanti in tema di interpretazione giuridica, e di tracciare, nella seconda parte, sulla scorta dei risultati che a me paiono più interessanti raggiunti da queste teorie, un quadro di quali sono, o potrebbero o dovrebbero essere, i compiti del giudice rispetto all'interpretazione del diritto.


1. Elementi per una mappa metateorica
Per costruire una mappa delle teorie dell'interpretazione oggi circolanti in ambito giuridico è necessario individuare gli elementi caratterizzanti delle diverse teorie. Quello che segue è un tentativo in tal senso.

1.1. In primo luogo possiamo distinguere fra tre diverse accezioni della parola "interpretazione" : tale elemento, ossia il diverso significato attribuito a "interpretazione", caratterizza, come vedremo, differenti teorie dell'interpretazione.
Nella prima, e più ampia accezione, quella ermeneutica, "interpretazione" designa l'attribuzione di senso a oggetti, fenomeni, processi, da parte del soggetto che conosce. Secondo molte correnti filosofiche contemporanee la conoscenza, qualunque tipo di conoscenza - non solo quella degli oggetti culturali, come alcuni ritengono, ma anche quella degli oggetti naturali - costituisce interpretazione. È il soggetto che, attraverso le proprie categorie concettuali, i propri strumenti di indagine, le proprie ipotesi, i propri "occhiali" epistemologici, attribuisce senso agli oggetti che osserva.
Facciamo un esempio banale. Un identico oggetto può essere interpretato, a seconda di chi sia il soggetto che osserva, come (a) una tavola di legno con sopra delle macchie di colore, (b) un dipinto su legno, (c) una pala votiva del Trecento senese, (d) un abile falso, che imita una pala votiva del Trecento senese, confezionato in una certa bottega di Leyden alla fine dell'Ottocento. La stessa "realtà" viene interpretata in quattro modi differenti, perché differiscono gli occhiali usati per osservarla. E, d'altra parte, è dubbio che senza qualcuno che la interpreti, che le attribuisca senso, la "realtà" abbia un senso suo proprio.
Anzi, alcune correnti radicali dell'epistemologia contemporanea (etichettabili come costruttiviste) negano addirittura che sia ammissibile parlare di oggetti, fenomeni, processi, come di cose distinte e indipendenti dal soggetto che le conosce: l'esistenza della cosiddetta "realtà" è un'ipotesi metafisica indimostrabile e addirittura dannosa dal punto di vista scientifico. Non è tanto, come sostengono le tradizionali correnti ermeneutiche , che ogni oggetto venga di necessità interpretato, per essere conosciuto: ogni oggetto è l'interpretazione che di esso qualcuno fornisce, e nient'altro che questo .
In una seconda accezione, quella semantica, "interpretazione" designa l'attribuzione di significato a entità linguistiche di forma verbale o scritta. In ambito giuridico, "interpretazione" designa principalmente l'attribuzione di significato a documenti normativi (leggi, decreti, regolamenti, atti amministrativi, sentenze, contratti, ecc.).
Un documento è un oggetto, costituito di segni grafici, confezionato da un soggetto (emittente) per trasmettere informazioni, direttive, valutazioni, ecc., ad altri soggetti (fruitori). Il documento, per l'emittente, ha un certo contenuto di significato, trasmette certe informazioni, direttive, valutazioni, ecc.: è appunto per trasmetterle che l'emittente ha confezionato un documento di quel tipo. L'emittente, per avere una ragionevole probabilità che i fruitori ricevano proprio il messaggio che, con quel testo, vuole loro comunicare, deve confezionare il documento seguendo varie regole linguistiche, socialmente diffuse (e, in ambito giuridico, anche le regole proprie del linguaggio parzialmente tecnicizzato del diritto). I fruitori, facendo uso di solito delle medesime regole, interpretano il documento, e cioè riattribuiscono ad esso significato: senza interpretazione, in questa accezione, non è possibile per i fruitori fruire appunto del documento (non lo si può, ad esempio, applicare, eseguire, valutare, ecc.). La principale garanzia che emittente e fruitori attribuiscano ad un documento lo stesso significato dipende dal fatto che entrambi impieghino le stesse regole linguistiche, e che tali regole siano sufficientemente determinate ed univoche. Poiché ciò talvolta non avviene, accade che i fruitori attribuiscano ad un documento un significato diverso da quello che l'emittente voleva che il documento stesso veicolasse. Non è inoltre infrequente (e capita anzi spesso in ambito giuridico) che diversi fruitori attribuiscano ad uno stesso documento significati differenti.
L'ultima, e più ristretta, accezione, quella giuridica, di "interpretazione" designa l'attribuzione di significato a entità linguistiche di forma verbale o scritta in situazioni in cui sussiste dubbio su quale sia il significato da attribuire loro. In ambito giuridico, "interpretazione" designa principalmente l'attribuzione di significato a documenti normativi (leggi, decreti, regolamenti, atti amministrativi, sentenze, contratti, ecc.), nei casi in cui sussiste dubbio su quale sia il significato da attribuire a tali documenti.
Le due ultime nozioni di interpretazione ruotano attorno al concetto di significato, la cui determinazione costituisce uno dei problemi filosofici più ardui ed affascinanti. Per i fini limitati del mio lavoro mi sembra sufficiente riprendere la definizione impiegata da Tarello, secondo cui "si intende per "significato" di un segmento di linguaggio il quantum di comunicazione che in esso si esprime, si realizza, si trasmette" .
Semplificando molto, e col rischio di banalizzare, possiamo individuare due problemi principali attinenti al concetto di significato. Possiamo infatti configurare il significato come un quid che dice qualcosa del mondo e lo dice a qualcuno mediante il linguaggio. I problemi attinenti alla natura del significato hanno quindi a che fare, il primo, con i rapporti tra linguaggio e mondo, il secondo, con i rapporti tra coloro che del linguaggio fanno uso.
a) In ambito giuridico, il primo problema consiste soprattutto nel determinare se vi sia, e quale eventualmente sia, il riferimento degli enunciati prescrittivi. Gli enunciati conoscitivi si riferiscono a fatti, eventi, stati di cose , e sono passibili di essere giudicati veri o falsi. Sono giudicati veri quegli enunciati conoscitivi che asseriscono il sussistere di un fatto, di un evento, di uno stato di cose, se e solo se quel fatto, quell'evento, quello stato di cose sussiste; sono viceversa giudicati falsi quegli enunciati conoscitivi che asseriscono il sussistere di un fatto, di un evento, di uno stato di cose, se e solo se quel fatto, quell'evento, quello stato di cose non sussiste. Gli enunciati prescrittivi, di cui non è predicabile la verità o la falsità , che riferimento hanno?
In polemica sia con chi nega la specificità degli enunciati prescrittivi (cognitivismo etico), sia con chi nega che gli enunciati prescrittivi abbiano riferimento alcuno (primo positivismo logico), la filosofia analitica del diritto - in Italia soprattutto ad opera di Scarpelli , e seguendo la strada prefigurata da Frege , e poi tracciata da Jørgensen e Hare - ha sostenuto che gli enunciati prescrittivi hanno lo stesso riferimento degli enunciati conoscitivi, ma diversa funzione. Si è distinto infatti tra una parte referenziale di un enunciato prescrittivo, che si riferisce ad un fatto, un evento, uno stato di cose ("frastico") - che è neutro, e può essere comune anche ad enunciati conoscitivi -, ed una parte non-referenziale, modale ("neustico"), che determina la funzione dell'enunciato. Il neustico indica se il fatto, l'evento, lo stato di cose è pensato come esistente (neustico conoscitivo) o come dovuto (neustico prescrittivo).
b) Il secondo problema, quello del significato in quanto oggetto della comunicazione tra l'emittente e il fruitore, ha anch'esso una sua specificità in ambito etico, e particolarmente in ambito giuridico. Il linguaggio giuridico, pur presentandosi quale settore parzialmente tecnicizzato di una lingua naturale, ha una struttura aperta , è caratterizzato cioè da ambiguità e vaghezza . Ciò determina spesso la necessità di interpretazione (nel terzo senso), ed anche la possibilità per l'interprete-fruitore di non essere fedele al significato attribuito all'enunciato dall'emittente. Va inoltre ricordato che in ambito giuridico la comunicazione non avviene sempre in condizioni cooperative tra emittente e fruitore: spesso avviene infatti in condizioni di conflitto, nelle quali il fruitore cerca consapevolmente di attribuire agli enunciati un significato diverso da quello loro attribuito dall'emittente. Non vanno poi trascurati i contrasti di interesse che oppongono differenti fruitori quanto all'interpretazione da ascrivere alle disposizioni legislative: si pensi soltanto alle diverse interpretazioni solitamente proposte dall'attore e dal convenuto nel processo civile, dalla accusa e dalla difesa in quello penale.
 
1.2. Prendendo spunto da un'impostazione ricorrente nelle opere di Wróblewski, possiamo distinguere tra tre differenti approcci all'interpretazione: quello descrittivo, quello prescrittivo e quello teorico . Quella che segue è più una tipologia ideale che una classificazione di approcci concretamente praticati nei lavori in argomento. In tali lavori infatti, o perlomeno nella maggioranza di essi, si assiste alla compresenza di finalità descrittive e prescrittive, e a volte anche teoriche, senza che l'autore sia consapevole, né menomamente preoccupato, di tale mescolanza.
Chiamo approccio descrittivo quello consistente appunto nel presentare una descrizione delle interpretazioni (e delle argomentazioni delle interpretazioni) effettive (farò d'ora in poi riferimento diretto alle sole interpretazioni giudiziali). A seconda di ciò che si intenda per "interpretazione", a seconda cioè di che cosa sia ciò che si descrive, avremo due distinti approcci descrittivi, e, rispettivamente, due distinti sensi di "descrizione", vale a dire due diverse metodologie di indagine.
Oggetto di descrizione possono essere, nel nostro caso, o attività mentali dei giudici o entità linguistiche (prodotte dai giudici o da altri operatori del diritto). Avremo quindi una dicotomia di oggetti di indagine designabili come "interpretazione" e passibili di descrizione. Si tratta di una semplice conseguenza della nota ambiguità processo-prodotto che caratterizza i vocaboli come "interpretazione".
Il primo oggetto di descrizione è costituito dalle attività mentali dei giudici concernenti l'interpretazione di una disposizione applicabile ad un caso. Si tratta qui di descrivere il ragionamento che ha condotto a elaborare e/o che ha giustificato le varie decisioni interpretative che sono ritenute rilevanti nel caso in questione. La metodologia di indagine è quindi di tipo psicologico e/o sociologico. Potremmo ipotizzare l'impiego di interviste e questionari, mediante i quali si chieda direttamente ai giudici di descrivere i loro ragionamenti-attività, con la concomitante effettuazione di prove incrociate al fine di determinare il grado di attendibilità delle risposte fornite; si potrebbe provare a ricostruire il tipo di conoscenze dogmatiche e scientifiche possedute dai giudici, sulla base delle fonti da cui le hanno apprese (studi seguiti, letture, ecc.); si potrebbero compiere ricerche sulla mentalità, i pregiudizi, le ideologie, dei giudici, indagando poi in quale modo e in quale misura tali fattori influenzino il ragionamento-attività; e così via.
Questo tipo di approccio descrittivo è assai poco praticato dai teorici del diritto. Ciò dipende, in parte, dalla estraneità degli strumenti di indagine che andrebbero impiegati rispetto a quelli abitualmente posseduti dal giurista; in parte dalla credenza che ricerche di questo tipo siano comunque difficilmente effettuabili e che siano dotate di un basso grado di attendibilità; dipende infine dalla diffusa opinione che esse abbiano una scarsa ricaduta pratica, quantomeno entro le professioni forensi.
Il secondo oggetto di descrizione è costituito dai documenti prodotti dai giudici come motivazioni in diritto della sentenza. Si tratta qui, solitamente, di descrivere quello che a volte è chiamato lo "stile" delle sentenze. Le metodologie impiegate sono quella dell'analisi lessicale, per individuare i modi di esprimersi, di argomentare, ecc., dei giudici, e quella dell'analisi logica, per individuare la (eventuale) struttura profonda della motivazione, cioè uno schema costante di ragionamento-documento che ricorra in un insieme, apparentemente eterogeneo, di motivazioni. L'atteggiamento che presiede a questo approccio può essere definito in senso generico come "realista", giacché chi configura in tal modo il proprio oggetto di indagine mostra di solito più interesse per cosa "effettivamente" fanno i giudici che non per quello che prescrive loro di fare il legislatore.
Entro questo secondo tipo di approccio descrittivo, più correttamente forse che entro il primo, si collocano anche quelle indagini che considerano l'interpretazione-documento quale indizio significante per ricostruire l'interpretazione-attività.
Le descrizioni, qualunque sia il loro oggetto, si collocano a gradi diversi di generalità e astrattezza. Descrizioni estremamente rarefatte, quali sono di solito quelle dei teorici del diritto, potrebbero confondersi con dei modelli esplicativi. La diversità è però questa: tutte le descrizioni prendono l'avvio dai dati empirici, e attraverso procedure di astrazione e generalizzazione cercano di pervenire a delle formulazioni che diano conto del maggior numero possibile di fenomeni; invece il modello che deriva dall'approccio teorico è un anàlogon dei fenomeni empirici, ma non è tratto induttivamente da essi né pretende di darne conto in modo diretto.
E veniamo ora, brevemente, agli approcci prescrittivo e teorico.
Chiamo approccio prescrittivo quello consistente nel presentare o delle valutazioni del modo di interpretare dei giudici o delle direttive su come i giudici dovrebbero interpretare. Potremmo anche in questo caso utilizzare la dicotomia sopra delineata, e distinguere un approccio prescrittivo che ha come oggetto l'interpretazione-attività dei giudici, ed uno che ha come oggetto l'interpretazione-documento dei giudici.
Chiamo approccio teorico quello consistente nel presentare un modello dell'interpretazione (specie giudiziale). I modelli, costruiti con approccio teorico, possono avere, congiuntamente o disgiuntamente, due differenti finalità: esplicativa e/o assiologica. La costruzione di un modello esplicativo è cosa diversa dalla, e non necessariamente relata alla, descrizione di un insieme di fenomeni, così come la costruzione di modelli assiologici - quali quello del "bene" interpretare o del "buon" interprete - è cosa diversa dalla, e non necessariamente relata alla, prescrizione ed alla valutazione di comportamenti: il verbo "dovere" nel modello assiologico ha un significato anankastico e non deontico. Mentre gli approcci prescrittivi suggeriscono direttamente quali siano le migliori tecniche interpretative e quali siano gli argomenti interpretativi che debbano essere preferibilmente usati (hanno cioè come prodotto quei "metodi di interpretazione" criticati da Kelsen ne La dottrina pura del diritto , i modelli assiologici, costruiti con un approccio teorico, sono dei modelli ideali: costituiscono una meta cui tendere, all'interno di uno scenario che è solo un anàlogon della realtà.

1.3. Adottando la distinzione fra la seconda e la terza accezione di "interpretazione", possiamo cercare di capire anche, credo, la contrapposizione, che non è di oggi, ma che oggi ha assunto nuove forme, tra varie teorie dell'interpretazione. Le chiamerei, adottando parzialmente un altrui suggerimento : teoria neoscettica (giacché di scetticismo interpretativo si è già parlato, tra le due guerre mondiali, con riferimento alle posizioni del realismo americano); teoria neoformalista (giacché di formalismo interpretativo si parla dal secolo scorso, con riferimento al proto-positivismo giuridico); e, in mancanza di un nome migliore e più neutro, teoria eclettica, intermedia tra le prime due.
La contrapposizione di cui dicevo può essere riassuntivamente espressa dalle due tesi seguenti:
a) Tesi neoscettica: l'interpretazione è un'attività volitiva; l'interprete sceglie, sempre e necessariamente, il significato da attribuire al documento, egli crea e non scopre il significato; è un mistificatore chi sostiene che vi siano significati precostituiti all'interpretazione e testi il cui significato è chiaro indipendentemente dall'interpretazione .
b) Tesi neoformalista: vi sono documenti normativi il cui senso è palese, e che quindi non vanno interpretati; vi sono casi chiari, nei quali alla fattispecie concreta si applicano le conseguenze giuridiche previste dalla norma del caso, senza che quest'ultima debba essere interpretata; la previa interpretazione di un documento normativo non sempre, quindi, è condizione necessaria per la sua applicazione .
Orbene, se assumiamo che "interpretazione" abbia nella tesi (a) il secondo e nella tesi (b) il terzo dei significati sopra elencati, allora le due tesi non sono contraddittorie, nonostante le apparenze. Le due tesi sono contraddittorie solo se assumiamo che in entrambe "interpretazione" abbia il medesimo significato, qualunque esso sia.
L'affermazione che le due tesi non sono contraddittorie può essere illustrata sintetizzando arbitrariamente le posizioni neoscettiche e quelle neoformaliste rispettivamente nei due enunciati seguenti: "in tutti i casi il giudice opera un'interpretazione" e "in alcuni casi il giudice non opera un'interpretazione". I due enunciati sono contraddittori, cioè non possono essere né entrambi veri né entrambi falsi, se noi attribuiamo alla parola "interpretazione" lo stesso significato in tutti e due gli enunciati. E ciò indipendentemente da quale significato attribuiamo loro: quello neoscettico o quello neoformalista. Ma se attribuiamo alla parola "interpretazione" un significato diverso nei due enunciati (in un caso, ad esempio, quello neoscettico, nell'altro quello neoformalista) allora i due enunciati cessano di essere contraddittori, ossia potrebbero essere entrambi veri, entrambi falsi, o l'uno vero e l'altro falso.
Fin qui quanto ci può dire qualunque trattato di logica elementare: dire, quindi, che "le due tesi non sono contraddittorie" non vuol necessariamente dire che siano entrambe vere. Questa è una questione empirica, o meglio: è una questione teorica.
Quanto ora affermato non ha affatto dissolto il contrasto tra neoformalisti e neoscettici: si tratta piuttosto di un tentativo di superarlo, sulla scia di quella teoria che ho chiamato eclettica . La posizione eclettica, infatti, afferma che le due tesi sopra esposte, se si attribuisce ad "interpretazione" nella prima il significato ad essa attribuita dai neoscettici, e nella seconda quello attribuito dai neoformalisti, sono entrambe vere. Si tratta di una posizione che né i neoscettici né i neoformalisti sarebbero disposti ad accettare. Ma, secondo la posizione eclettica, a cui mi sentirei personalmente di aderire, si sbagliano entrambi. Non si vede infatti perché:
a) I neoscettici si ostinino a negare che in talune circostanze, di fatto, si possano dare casi contestualmente chiari, nei quali il giudice attribuisce senza problemi quell'unico significato che alla comunità dei giuristi appare, semanticamente e giuridicamente, accettabile. E che tali casi "chiari" siano distinguibili dai casi "difficili" in cui sussiste dubbio o contrasto interpretativo nella comunità dei giuristi, talché il giudice diviene cosciente di svolgere anche un'attività di scelta e volitiva.
b) I neoformalisti si ostinino a negare che, dato il senso lato di interpretazione, sempre il giudice operi un'interpretazione, anche nei casi "chiari". È questa, talvolta, una sorta di interpretazione previa, che il giudice può svolgere anche inconsapevolmente, e che consiste nell'attribuire un senso, guidati dalla nostra conoscenza della lingua e da direttive interpretative, semantiche e/o tipicamente giuridiche. Tanto è vero che, ad esempio, un giudice italiano non sarebbe in grado di interpretare una legge in cirillico, o espressa in ideogrammi, ancorché essa possa risultare "chiara" per un giudice russo o per uno cinese.

Per la teoria eclettica, dunque, si ha interpretazione, nella terza accezione, non tutte le volte in cui si debba ascrivere significato ad un documento, ma solo quando sussistano dei dubbi su quale sia il significato da ascrivere ad esso. In ambito giuridico, solitamente, tale situazione si verifica quando non vi è universale consenso su quale sia il significato "corretto" da attribuire ad un documento normativo. Allorché, ad esempio, due giudici interpretano (seconda accezione) diversamente una stessa disposizione di legge, allora si dice che tale disposizione necessita di interpretazione (terza accezione). Una disposizione può essere ritenuta chiara, e non bisognosa di interpretazione (terza accezione), finché qualcuno non la interpreti (seconda accezione) diversamente da come si è fatto fino ad allora. Ancora, una disposizione può apparire chiara ad una prima lettura, ma, una volta messa in rapporto, ad esempio, con il caso concreto da risolvere, si può ritenere che essa debba essere interpretata (terza accezione).
Ritengo, in conclusione, che in ambito giuridico sia opportuno impiegare "interpretazione" sia in senso semantico sia in senso giuridico, congiuntamente ma tenendoli distinti sul piano concettuale. L'uso di "interpretazione" nella seconda accezione consente, sul piano teorico, di porre in risalto gli elementi di scelta presenti nell'attività di attribuzione di significato a documenti e di confutare così le teorie iperformaliste del significato, che ritengono che ogni parola ed ogni enunciato abbiano uno ed un solo significato "proprio" o "corretto". L'uso di "interpretazione" nella terza accezione consente, sul piano teorico, di rimanere vicini agli usi linguistici propri della dottrina giuridica, per la quale, secondo l'antico brocardo, "in claris non fit interpretatio"; consente, in altre parole, di distinguere tra situazioni in cui l'attribuzione di significato ad un documento normativo è problematica e situazioni in cui non lo è.

1.4. Ciò che di più interessante vi è nella teoria contemporanea credo non stia in quanto ho riferito finora, ma in quanto sto per dire a proposito delle teorie della giustificazione dell'interpretazione. I contributi più importanti della teoria del diritto contemporanea non sono infatti quelli che vertono sulle tecniche di interpretazione, quanto quelli che vertono sulle tecniche di giustificazione dell'interpretazione. Qui, di nuovo, per amore di simmetria, presenterò tre gruppi di teorie, che chiamerei rispettivamente logiciste, retoriche, e etiche.
Per le teorie logiciste la giustificazione può avere solo natura logica. Non c'è nessun altro tipo di giustificazione che sia accettabile se non quello logico. E, coerentemente con un approccio giuspositivista, la giustificazione deve partire da delle premesse che sono, e possono solo essere, norme giuridiche.
Le teorie retoriche mi sembrano che si dividano grosso modo in due: a) vi sono delle teorie che sostengono che, di fatto, i giuristi usano argomenti retorici e non logici per giustificare le loro interpretazioni ; b) teorie che sostengono che i giuristi devono usare argomenti retorici, e non logici, per giustificare le loro interpretazioni . Ovviamente ulteriori distinzioni potrebbero essere tracciate a seconda di quale argomento, tra quelli usati dai giuristi, debba ritenersi privilegiato .
Il terzo gruppo di teorie della giustificazione dell'interpretazione è quello che ho chiamato etiche. È il più recente, e quello che sta avendo più successo . Queste teorie sostengono che, in ultima analisi, una giustificazione completa di qualunque decisione, e specificamente di una decisione giuridica, e quindi anche di una decisione interpretativa, è una giustificazione (politico)-morale, e non può che essere tale. Di conseguenza il ragionamento giuridico non è che una parte, un settore, del ragionamento pratico. Ed in effetti sono state costruite delle teorie del ragionamento pratico, a partire da modelli tratti dal diritto, ma in cui il ragionamento giuridico non è che un sotto-settore del ragionamento pratico. Ciò sembra costituire un attacco al giuspositivismo, la corrente egemone ormai da due secoli almeno nell'Europa continentale entro la cultura giuridica. Per il giuspositivismo, infatti, una giustificazione completa di una decisione interpretativa termina con l'enunciazione della norma giuridica applicabile al caso.
Un'unica notazione al riguardo. Data l'impostazione di queste teorie, quanto esse sostengono è tautologico, è vero per definizione. Esse danno infatti una definizione di "giustificazione" in base alla quale tutte le giustificazioni, in ultima analisi sono morali: quindi anche quelle giuridiche lo sono.
C'è almeno un tentativo, che a me sembra molto utile ed interessante, di dar conto delle diverse teorie dell'interpretazione. Questo tentativo è opera di Wróblewski , che ha presentato un modello teorico integrato dell'attività interpretativa, che mi pare fare tesoro di quanto di buono c'è sia nell'approccio logicista, sia nell'approccio retorico, sia in quello etico. La conclusione di Wróblewski è che nel processo che va dalle fonti alle norme noi possiamo riscontrare sempre sia dei passaggi sottoponibili a controllo logico, sia l'uso di argomenti retorici, sia il richiamo a valori politico-morali. Wróblewski in particolare ha suddiviso, da un punto di vista concettuale, la giustificazione di una decisione in giustificazione interna e esterna, e questo stesso modello può essere adottato anche rispetto alla giustificazione dell'interpretazione. La giustificazione interna non può che essere di tipo sillogistico, come affermano le teorie logiciste, per cui l'unica giustificazione stringente, cogente per tutti è una giustificazione di tipo logico, in cui la conclusione dipende dalle premesse. Il modello di Wróblewski fa salva quindi quell'intuizione di Beccaria, dei nostri padri illuministi e liberali, secondo cui la decisione giudiziale deve avere come giustificazione una norma, una descrizione della fattispecie, e nient'altro. Secondo Wróblewski entrambe queste premesse devono essere a loro volta giustificate: la giustificazione di come si sia passati dal testo normativo, attraverso l'interpretazione, alla formulazione della norma, e di come si sia passati dalle prove alla descrizione del fatto di specie, non necessariamente fanno uso della logica classica, della logica aletica, ma possono usare anche argomenti retorici, come affermano le teorie retoriche. Questo processo di giustificazione, inoltre, ha sempre alcuni passaggi che comportano delle valutazioni, delle scelte di valore, che, se devono essere a loro volta giustificate, non possono che basarsi su alcuni valori o principi politico-morali, così come affermano le teorie etiche.

1.5. Per completare questa mappa delle teorie dell'interpretazione, possiamo infine prendere in considerazione il fatto che le teorie dell'interpretazione, e in generale le teorie del diritto, contemporanee si sono rese conto di un difetto che affliggeva le teorie precedenti. Se ne sono rese conto, anche se probabilmente ancora non lo hanno superato. Il difetto è quello della unilateralità delle teorie del diritto elaborate in tempi passati. Tali teorie hanno molto spesso assunto solo uno dei punti di vista possibili nel guardare il fenomeno giuridico. O hanno assunto quello del giudice, o quello del cittadino, o quello del legislatore, ma non hanno mai provato a dar conto del fenomeno giuridico nel suo complesso, e dell'interpretazione in particolare, dai vari punti di vista possibili. Siccome tali punti di vista sono radicalmente diversi, l'oggetto diritto non è ben descritto nella sua totalità, se si assume una prospettiva unilaterale.
Sulla diversità dei punti di vista rilevanti nell'analizzare l'interpretazione dirò solo due parole. A me pare che sia differente considerare il problema dell'interpretazione dal punto di vista del "buon" cittadino o del "cattivo" cittadino, dell'avvocato nella sua duplice veste di consulente o invece in quella di difensore, del legislatore oppure dello scienziato sociale. Questi punti di vista sono differenti sotto vari aspetti, ma su di un aspetto vorrei richiamare l'attenzione. Se si assumono certi punti di vista (quelli del "buon" cittadino e del "buon" giudice), l'interpretazione può essere inserita in un modello del diritto fondamentalmente cooperativo: in tal caso possiamo usare, per studiare l'interpretazione, gli schemi che la linguistica ha elaborato per studiare la conversazione. Quando il legislatore emana una legge e il cittadino vuole obbedirla o il giudice fedele vuole applicarla, quello che si realizza è un modello cooperativo (il gioco dell'intendersi e comprendersi, caro agli ermeneutici): il legislatore prescrive qualche cosa e il buon cittadino vuol sapere che cosa il legislatore gli richiede, per obbedirgli, il buon giudice vuole capire ciò che il legislatore ha prescritto, per essere fedele alla legge nella decisione applicativa. Il modello cooperativo, quello conversazionale, che dà conto cioè dell'interazione linguistica tra due persone che vogliono capirsi, serve a spiegare l'interpretazione giuridica in situazioni di questo tipo. Ma sicuramente non serve a spiegare l'interpretazione dell'uomo "cattivo". L'uomo "cattivo" non è interessato a conoscere ciò che il legislatore vuole da lui; è interessato invece a evitare la sanzione, a perseguire i propri fini, e vede il diritto come una motivazione, tra le tante, per l'azione. Vede, ad esempio, la sanzione come uno dei costi di un corso di azioni possibile e valuterà i vantaggi e gli svantaggi sulla base della probabilità che la sanzione gli venga o no inflitta se compirà una certa azione. È ovvio che il modello cooperativo, conversazionale, non riesce a dar conto di questa interazione interpretativa, e quindi non darà conto neppure del punto di vista dell'avvocato difensore che, se segue la sua deontologia professionale, deve assumere il punto di vista del "cattivo" cittadino (potrà forse assumere quello del "buon" cittadino quando fa il consulente, ma non quando fa il difensore).
La necessità che mi sembra derivare, anche solo da queste brevi notazioni, è quella di una teoria integrata dell'interpretazione, una teoria che forse oggi non è ancora del tutto disponibile.

2. Il ruolo del giudice nell'interpretazione del diritto
Proverò ora a delineare, in estrema sintesi, quelli che a me sembrano i risultati più interessanti a cui sono pervenuti i moderni studi di teoria dell'interpretazione, esaminandoli dapprima secondo un approccio teorico e, poi, secondo un approccio prescrittivo.

2.1. La prima constatazione, da un punto di vista teorico, è che la familiare contrapposizione tra due diversi modelli per prendere decisioni pubbliche, quello dell'Europa continentale, il rule decision making, e quello dei paesi anglosassoni, il case decision making, ossia tra un modello che assicuri la certezza del diritto ed un modello che assicuri la giustizia del caso concreto, è una contrapposizione che oggi, pur rimanendo interessante a livello concettuale, ha perso ogni capacità di dar conto della concreta realtà del diritto. In effetti entrambi i modelli combinano decisioni "prese all'ingrosso" dal legislatore per una quantità di casi, e decisioni "prese al dettaglio" dai giudici . Si assiste in altre parole ad un'integrazione profonda tra questi due modelli . La strada scelta da tutti i sistemi giuridici contemporanei è quella di un mix tra i tentativi di implementazione dei due valori della certezza e dell'equità, che insieme non possono essere mai pienamente realizzati. Bisogna sacrificare un po' di certezza per ottenere l'equità e viceversa. I sistemi continentali, come quelli anglosassoni, perseguono questa strada.
Dal punto di vista teorico, quindi, direi che la constatazione, ormai diffusa, è che la discrezionalità nell'interpretazione da parte dei giudici è, in certa misura, inevitabile, e che ciò dipende sia da fattori oggettivi sia da fattori soggettivi. Fattori che sono estranei alla possibilità di intervento del giudice, e fattori che potrebbero essere modificati dal giudice stesso. I fattori oggettivi sono quelli ben noti di tipo semantico, che dipendono cioè dall'open texture, dalla struttura aperta del linguaggio naturale, che non consente al legislatore di formulare delle norme così precise da essere sempre interpretate in un modo ed in uno soltanto. I fattori soggettivi sono altrettanto noti: sono costituiti dall'interazione di ideologie e interessi nella decisione.
È compatibile questa constatazione, che a livello teorico è ormai abbastanza diffusa e condivisa, ossia che i giudici producono norme giuridiche, con quel valore, che tutti sembrano stimare tanto, che è la separazione dei poteri? Direi di sì, se solo ci rendiamo conto che quel concetto della separazione dei poteri, per cui il giudice si limita ad applicare ed il legislatore è l'unico produttore di norme, è un portato delle ideologie giuridiche degli inizi dell'Ottocento, che non hanno nulla a che vedere, o poco hanno a che vedere, ad esempio, con l'ideologia della separazione dei poteri di Montsquieu, che sta alla base, quella sì, dell'idea liberale di Stato limitato. La separazione dei poteri, in Montesquieu, significa semplicemente che i poteri non devono stare tutti nelle mani di uno solo , devono essere frazionati, ma non che necessariamente un potere debba essere esclusivo di un organo, ed un altro potere esclusivo di un altro organo. La constatazione che a livello teorico si può fare è che il potere normativo, di produrre norme vincolanti per la collettività, il potere più importante e "pericoloso", nei paesi moderni è diviso, frazionato: non lo esercita solo il legislatore, lo esercitano anche altri organi, la Corte costituzionale (ove esista), i giudici in una certa misura, in parte il governo e la pubblica amministrazione. Si tratta, credo, di cose abbastanza note. Più interessante è invece determinare quale tipo di norme si producano attraverso l'interpretazione. Abitualmente, sempre secondo le teorie tradizionali, al giudice veniva assegnata la funzione di produrre norme individuali e concrete. Che ciò accada è indubbio, ma non è questo l'aspetto più interessante. 
L'aspetto più interessante, come alcune teorie hanno evidenziato , è che i giudici creano anche norme generali (oltre che definizioni concettuali). E le creano nelle motivazioni delle sentenze: i giudici, in altre parole, creano, attraverso l'interpretazione, quelle norme generali che sono il fondamento della decisione del caso. Appartengono al diritto tali norme generali? La risposta a questo interrogativo non è semplice. In questo caso, credo che non sia lecito dare una risposta in termini di validità, essendo la validità un predicato delle norme che è strutturato secondo una logica binaria: una norma o è valida o non lo è, o appartiene al sistema giuridico o non vi appartiene. La nozione di validità è pressoché inutilizzabile quando esaminiamo le norme generali che sono il prodotto dell'attività interpretativa dei giudici. Dobbiamo usare in questo caso strumenti, da una parte, più sfumati, e, dall'altra, più deboli. Potremmo usare, alcuni autori l'hanno fatto, il concetto di vigenza. Ci sono norme generali più vigenti e norme generali meno vigenti, ci sono norme generali che non sono vigenti affatto. 
Il concetto di vigenza fa riferimento ad una previsione: alla prevedibilità che in successive decisioni la norma generale elaborata attraverso l'interpretazione possa fondare nuove decisioni. Se è prevedibile, come succede ad esempio nel caso di alcune norme generali create dalla giurisprudenza consolidata dei massimi organi giurisdizionali di uno Stato, che quelle norme saranno il fondamento di future decisioni, allora possiamo dire che sono molto vigenti, o abbastanza vigenti. Se invece, come succede a volte della norma generale creata da un giudice di merito di una giurisdizione inferiore, è scarsamente probabile che verrano utilizzate in future decisioni, diremo allora che la norma è poco o niente affatto vigente. Mentre di solito le norme prodotte dal legislatore sono non solo valide ma anche vigenti, nella generalità dei casi quelle prodotte dai giudici non lo sono.
Ma una teoria di questo tipo, che è una teoria piuttosto realista, neoscettica, non dà, non vuole dare, nessuna risposta all'altra domanda, che qualunque giudice si fa: "come devo interpretare?". Una teoria di questo tipo cerca un risposta alla domanda: "come interpretano i giudici?", ma non è uno strumento che serva come guida per l'interpretazione. È questa una critica che è stata mossa al realismo, o neoscetticismo, interpretativo. Dire che per conoscere quali norme sono vigenti entro un dato sistema giuridico è necessario (anche) prevedere quale sarà l'interpretazione dei testi normativi che daranno in futuro i giudici, i funzionari, il legislatore, ecc., è forse accettabile dal punto di vista del teorico del diritto, ma non lo è per chi deve prendere le decisioni interpretativ. Un giudice non può dire: adesso prevedo come interpreterò, e quindi deciderò di conseguenza. Dal punto di vista del giudice, e degli altri operatori istituzionali dell'interpretazione, occorre una diversa risposta, perché diversa è la domanda che si pongono.
 
2.2. E allora la teoria del diritto contemporanea ha elaborato delle teorie prescrittive, o ha costruito dei modelli assiologici relativi all'interpretazione, e soprattutto alla giustificazione dell'interpretazione.
Scontando che discrezionalità c'è , soprattutto che discrezionalità c'è nell'interpretazione se il legislatore emana dei testi normativi che sono in massimo grado vaghi ed ambigui, che contengono riferimenti a standards valutativi, e così via, se si vuole, come sembra che tutti vogliano, assicurare il valore della certezza del diritto, si devono giustificare in un certo modo le decisioni interpretative.
Direi che tutte le teorie del diritto contemporanee sono alla ricerca di quella che si potrebbe chiamare una giustificazione razionale dell'interpretazione. "Razionale" in che senso? Direi in tre sensi, che sono via via più forti.
Nel primo e più debole senso, caro a Michele Taruffo , una giustificazione, per essere razionale, ci deve essere, deve essere esplicita: le giustificazioni delle decisioni interpretative devono essere manifestate, perché solo così sono controllabili, solo così si sconta quel deficit di legittimazione che il giudice ha perché non ha un'investitura democratica per prendere decisioni pubbliche. Solo se espone chiaramente quali sono i motivi per cui ha preso una decisione interpretativa, il pubblico in generale potrà esercitare un controllo sull'interpretazione.
Salendo di grado, un'interpretazione, per essere razionale, deve essere coerente . Coerente in due sensi, su cui hanno insistito differenti teorie. Deve essere coerente da un punto di vista sincronico, deve essere internamente coerente, coerente con se stessa. La coerenza con se stessa è la prerogativa delle giustificazioni su cui insistono gli approcci logicistici alla giustificazione dell'interpretazione. Alchourrón e Bulygin, ad esempio, hanno a più riprese sostenuto che ciò che importa in una giustificazione è che il ragionamento, attraverso cui si giunge a prendere una decisione interpretativa, sia coerente . L'altro senso di coerenza, quello diacronico, è molto più problematico, perché assicurare la coerenza nel tempo delle interpretazioni non è un compito che possa svolgere un giudice da solo. Il giudice può essere coerente nelle sue decisioni, ma in fondo questo non è molto importante per il pubblico. Per il pubblico, ai fini della certezza, è importante che i giudici siano diacronicamente coerenti. Passiamo così da una dimensione individuale della decisione interpretativa, alla prassi di un gruppo, di un ceto, che, se prende coscienza interamente di avere una responsabilità quale produttore di norme, e di non avere responsabilità politiche come ha invece il legislatore (che può non essere rieletto), deve rendersi conto che non ha soltanto responsabilità rispetto al perseguimento del valore dell'equità, ma anche rispetto al perseguimento dell'altro valore, quello della certezza. Si tratta allora di trovare dei modi per assicurare coerenza nel tempo alle decisioni interpretative dei giudici, perché solo così esse saranno in qualche modo prevedibili, e risulterà anche in qualche grado prevedibile la decisione finale del caso.
Come ottenere questa coerenza nel tempo? Le proposte più forti, più interessanti, da questo punto di vista, vengono da Dworkin, e, in Italia, da Zagrebelsky e Ferrajoli . Si tratta del richiamo ai principi , ai valori costituzionali, intesi come criteri-guida nell'interpretazione dei testi normativi infra-costituzionali. Personalmente nutro dei dubbi sulla possibilità che questa proposta possa produrre coerenza sincronica nelle decisioni interpretative dei giudici. E ciò fondamentalmente per due motivi.
In primo luogo, tale proposta, per come viene teorizzata in letteratura, ed ancora di più per come viene messa in pratica da alcune corti costituzionali europee (ad es. quelle tedesca e italiana , comporta che, caso per caso, venga prescelto, attraverso un'operazione di "bilanciamento" dei valori costituzionali coinvolti (e, indirettamente, degli interessi di cui tali valori sarebbero il riflesso giuridico), il principio da applicare come criterio-guida nell'interpretazione. Ma se il bilanciamento tra i valori costituzionali viene praticato "alla luce del caso", ossia in maniera che volta a volta può essere diversa, senza che vengano elaborati dei metacriteri che guidino in modo costante nel tempo tale attività, a me pare ovvio che il risultato non sarà quello di incrementare la certezza del diritto, ma, al contrario, di incrementarne l'incertezza. Il conflitto tra valori e tra principi costituzionali, in assenza di criteri stabili per la loro soluzione, genera, per ragioni puramente logiche, l'indeterminatezza del sistema giuridico cui tali principi e valori appartengono.
In secondo luogo, l'inconveniente ora segnalato potrebbe forse essere superato ove i metacriteri sulla base dei quali effettuare caso per caso il bilanciamento fossero determinati (così come proposto da Dworkin da una filosofia politica di sfondo, che fornisse un quadro di riferimento comune a tutti gli operatori giuridici, ed in particolare ai giudici costituzionali. Tale filosofia politica, ancorché ipotizzata e auspicata in letteratura, non sembra di fatto essere a tutt'oggi disponibile nelle società contemporanee, segnate in genere da divisioni e contrasti politico-ideologici. Ed allora, in mancanza di tale comune quadro di riferimento, il bilanciamento tra i valori costituzionali resta affidato al gioco mutevole delle maggioranze all'interno delle corti costituzionali, con il risultato di accrescere, e non di diminuire, l'incertezza del diritto.
Un ultimo, e più forte, senso nel quale si può parlare di giustificazione razionale dell'interpretazione è quello che è stato presentato da Aarnio con il concetto di accettabilità razionale . Avere criticato tale concetto in altra sede mi esime, credo, dal doverlo discutere qui. Ma non mi esime dal dovere di riconoscere che si tratta del tentativo filosoficamente più profondo e teoricamente più stimolante di fondare su basi ragionevoli la giustificazione dell'interpretazione giuridica. Qualunque teoria del diritto che oggi voglia affrontare questi temi potrà forse dissentire dal concetto di accettabilità razionale della tesi interpretativa (interpretative standpoint) elaborato da Aarnio, ma non potrà prescindere da esso.


(* ) Già comparse anche altrove, le pagine che qui si pubblicano con omissione delle note sono parte di un volume antologico ( AA.VV., Interpretazione e diritto giurisprudenziale.Regole,modelli,metodi,Casa editrice Giappichelli) che ha i contenuti documentati dall'indice dell'opera



Indice

I. L'interpretazione delle norme giuridiche.La problematica attuale
di Paolo Comanducci

0. Introduzione
1. Elementi per una mappa metateorica
2. Il ruolo del giudice nell'interpretazione del diritto


II. L'interpretazione dei documenti legislativi: nozioni introduttive
di Pierluigi Chiassoni

1. "Disposizioni" e "norme"
2. Concezioni dell'interpretazione-attività
3. Interpretazione-attività e giochi interpretativi
4. Alcuni tipi di interpretazione
5. Disciplina dell'interpretazione della legge
6. Disciplina dell'integrazione della legge
6.1. "Princìpi generali dell'ordinamento giuridico"
6.2. Tre modi di colmare le lacune
6.2.1. Analogia a partire da una singola disposizione sulla stessa materia
6.2.2. Analogia a partire dalle disposisizioni su materie analoghe
6.2.3. Ricorso ai princìpi generali (analogia juris)
7. Divieti di "applicazione analogica": leggi penali e leggi eccezionali
7.1. "Leggi eccezionali"
7.2. Applicazioni di "leggi eccezionali"


III. Il ragionamento giudiziale: lineamenti di un modello
di Paolo Comanducci

1. Giustificazione interna
2. Giustificazione esterna
3. Motivazione in diritto: la giustificazione razionale
4. Motivazione in fatto: la giustificazione garantista
Riferimenti bibliografici


IV. Principi di diritto e discrezionalità giudiziale
di Riccardo Guastini

1. Identificazione dei principi
2. Interpretazione delle disposizioni esprimenti principi
3. Concretizzazione dei principi
4. La costruzione dei principi inespressi
5. Il bilanciamento dei principi costituzionali
6. L'interpretazione orientata ai principi
7. I principi costituzionali supremi


V. Lacune nel diritto.Progetto di voce per un vademecum giuridico
di Pierluigi Chiassoni

1. Storia di uno straordinario fallimentare
2. Origini dottrinali del "problema delle lacune"
3. Il "problema delle lacune" nella riflessione teorica
3.1. Tipologie delle lacune
3.2. Ontologie delle lacune
3.3. Fenomenologia delle lacune
3.3.1. "Constatazione", "creazione", "prevenzione" di lacune: alcune 
osservazioni
4. Le lacune (della legge civile) nella pratica forense
5. Lacune nel diritto e scienza della legislazione 5.1. Quale completezza?
5.2. Completezza casistica relativa: natura o artificio?
5.3. Completezza casistica relativa: elementi di tecnica della normazione


VI. Antinomie e sistemazione del diritto
di Riccardo Guastini

I. Antinomie
1. Antinomie e coerenza
2. Antinomie e regime delle fonti
3. Antinomie assolute, unilaterali, eventuali
4. Antinomie in astratto e antinomie in concreto

II. Tecniche di prevenzione delle antinomie
5. Antinomie e interpretazione
6. Creazione e prevenzione di antinomie mediante interpretazione
7. L'interpretazione sistematica
8. L'interpretazione adeguatrice
9. L'interpretazione restrittiva
10. L'argomento della dissociazione
11. Il criterio di specialità
12. La tecnica del bilanciamento

III. Tecniche di soluzione delle antinomie
13. Osservazioni preliminari
14. Cinque tipi di antinomie e relative tecniche di soluzione
15. Il principio gerarchico
16. Il principio di competenza
17. Il principio cronologico
18. Ancora sul criterio di specialità
19. Criterio di specialità e principio gerarchico
20. Criterio di specialità e principio cronologico
21. Interferenze tra il principio gerarchico e il principio cronologico

VII. L'argomentazione orientata alle conseguenze
di Luigi Mengoni

1. Il referente tradizionale dell'argomento consequenzialista
2. La nuova dimensione determinata dal riferimento alle presumibili 
conseguenze (mediate) della decisione nell'ambiente sociale.Cause della 
crescente diffusione di questo schema argomentativo
3. La critica di Luhmann
4.1. Regole metodiche
4.2. Vincoli giuridici: la legge e il precedente giudiziario
4.3. Il vincolo della dogmatica giuridica: funzione euristica 
dell'argomento consequenzialista, i cui risultati devono essere 
giustificati mediante verifica della congruenza sistematica
5. Il controllo dell'argomentazione pratica sull'argomentazione dogmatica


VIII. Sovranità popolare, legge, giurisdizione
di Riccardo Guastini

1. Giurisdizione e sovranità popolare
2. Tre tipi di connessione tra giurisdizione e sovranità popolare
3. I giudici
4. La legge
5. Legge formale e altre fonti del diritto
6. Atti con forza di legge
7. Giudici non soggetti alla legge
8. Soggezione dei giudici alla legge
9. Soggezione "soltanto" alla legge


IX. Magistratura e diritti: virtù passive e stato attivo

di Maria Rosaria Ferrarese

1. Nota introduttiva
2. Le corti americane: virtù passive e società attiva
3. Magistratura e democrazia in Europa
4. Magistratura e processo penale in Italia


X. Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria
di Michele Taruffo

1. Introduzione
2. L'efficacia del precedente
3. Precedente ed esempio
4. Caratteri dell'esempio
5. Osservazioni conclusive


XI. Dovere di conoscere la giurisprudenza

di Federico Roselli

1. Fonti del diritto quali parti di un insieme coerente
2. Fonti del diritto formali e fonti storiche
3. La giurisprudenza
4. La disposizione e la norma prodotta dal giudice-interprete
5. Prima obiezione contro l'inclusione della giurisprudenza tra le fonti 
del diritto: indebolimento della distinzione tra potere legislativo e 
potere giudiziario
6. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.L'argomentazione 
giuridica
7. Gli argomenti eterointegrativi dell'ordinamento
8. Seconda obiezione contro l'inclusione della giurisprudenza tra le fonti 
del diritto: l'instabilità delle norme
9. La dottrina del diritto vivente
10. Terza obiezione contro l'inclusione della giurisprudenza tra le fonti 
del diritto: la retroattività delle sentenze
11. Cenno sulle fonti di conoscenza della giurisprudenza


XII. Idee per una teoria della decisione giusta
di Michele Taruffo

1. Introduzione
2. Il problema della decisione giusta
3. Criteri di giustizia della decisione
4. Natura dei criteri di giustizia della decisione
5. Applicazione dei criteri di giustizia