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Le fonti normative degli OGM

 

Daniele Di Carlantonio



Le fonti 

 

 Districarsi tra le fonti degli OGM non è cosa facile. C’è una convenzione internazionale: il Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza. Ci sono regolamenti e direttive comunitarie più volte modificati; sempre a livello comunitario tra il 1992 e il 2002 c’è stata una pioggia di decisioni concernenti l’immissione in commercio di quel prodotto o di quell’altro[1], di un singolo gene piuttosto di un altro; così, per fare un esempio, il granturco GM (Zea mays, per i tecnici) è stato oggetto di quattro decisioni concernenti la sue varianti genetiche (Linea Monsanto 809 e 810, T25 e Linea Bt-11) create dalle tre industrie di pesticidi che queste piante hanno il compito di tollerare. Vi sono inoltre decisioni che attuano parti di direttive sugli OGM; altre invece che le integrano[2]; altre ancora che, pur non avendo ad oggetto gli OGM, richiamano tale materia (come le decisioni riguardanti l’encefalopatia spongiforme bovina)[3]. Ad ogni direttiva o sua modifica fa eco in Italia un decreto legislativo che permette la sua attuazione nel nostro territorio; le uniche volte in cui il Parlamento si è occupato della materia è stato per attribuire deleghe al Governo per mezzo di leggi comunitarie[4]; gli altri atti del Legislatore italiano sono perlopiù dovuti allo stesso ministero, quello della Salute (prima chiamato Ministero della Sanità). In ogni caso la regolamentazione del mercato degli OGM sull’intero territorio italiano avviene attraverso atti che promanano dal governo, mentre le uniche volte in cui compare la scritta “legge” nel titolo di una norma italiana (eccezion fatta per le leggi Lapergola appena citate) sono rappresentate da leggi regionali; dal 2000 ad oggi sono sette le regioni che hanno voluto colorare il mercato degli OGM di tenui tinte autonome; sono l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, il Friuli-Venezia Giulia, le Marche, la  Toscana e l’Umbria. Anche le province autonome di Trento e Bolzano trattano la materia degli OGM per mezzo di rispettive leggi provinciali[5].

 Ad accrescere lo stato di confusione di tale contesto normativo interviene la nuova Costituzione europea, in fase di approvazione al momento in cui si scrive; questa porterà una rivoluzione nominale nell’ambito delle fonti europee ben definita dall’art. I-32 del progetto di trattato istitutivo della costituzione europea; scomparirà il termine giuridico di direttiva, rimpiazzato da quello più familiare al nostro ordinamento di “legge quadro europea”, gli attuali regolamenti verranno in futuro emanati col nome comune di “legge europea”, mentre la stessa denominazione “regolamento europeo” verrà ripescata per identificare una categoria di «atti non legislativi di portata generale volti all’attuazione degli atti legislativi e di talune disposizioni specifiche della costituzione»[6]; decisioni, raccomandazioni e pareri non hanno fortunatamente subito modifiche, né sostanziali né formali.

 Fare ordine non è quindi facile e s’impone una classificazione. Questa si baserà sul criterio di applicazione della norma in funzione della sua diffusione territoriale. Vale a dire che le norme verranno poste su livelli differenti in base alla loro “estensione geografica”; si avranno allora norme di livello internazionale, comunitario, nazionale e regionale.

 

   Fonti internazionali

 

   Il diritto internazionale (quello extra-europeo) prende coscienza delle problematiche inerenti gli OGM nel 1992 quando, in occasione del summit di Rio de Janeiro, venne istituita la Convenzione per la diversità biologica; questa prevedeva che i paesi firmatari si accordassero su un protocollo per il trasferimento e l’uso di organismi modificati geneticamente (art. 19.3 della Convenzione). L’esigenza di avvalersi di un insieme di regole di condotta comuni e vincolanti venne avvertita nella prima Conferenza delle Parti della Convenzione nel 1994 e già nella seconda Conferenza (del 1995) vennero poste le basi per i negoziati: gli stati firmatari della Convenzione istituirono un apposito Gruppo di lavoro a partecipazione intergovernativa con il compito di predisporre il testo del Protocollo entro il 1998. Nei cinque anni di gestazione le Parti della convenzione si unirono in grandi schieramenti (portatrice ognuno di un proprio interesse), che possono essere schematicamente ricondotti a due fronti contrapposti[7]: il Gruppo di Miami[8] e il gruppo di paesi “like-minded”, i primi più attenti agli interessi commerciali mentre i secondi privilegiano la sicurezza ambientale. L’attuale testo del Protocollo è stato concordato tra gli Stati membri dell’UE e la maggior parte dei PVS, ma non ha avuto l’approvazione dei paesi appartenenti al Gruppo di Miami[9]; cinque anni di negoziati non sono bastati per raggiungere l’accordo e così il Protocollo di Cartagena venne approvato a Montreal il 29 febbraio 2000 da circa centotrenta paesi tra quelli che hanno sottoscritto la Convenzione sulla Biodiversità. Stati Uniti e Canada non vi hanno aderito. Perché esso entri in vigore è però necessaria la ratifica di almeno 50 nazioni[10], perciò la sua entrata in vigore risale a settembre 2003, novanta giorni dopo la ratifica di Palau. Il Protocollo fa salve alcune importanti regole di sicurezza, quali la trasparenza nel commercio di OGM (gli esportatori di prodotti agricoli dovranno indicare con la dizione “può contenere organismi geneticamente modificati” le spedizioni contenenti cibi transgenici)[11], e la possibilità di ogni stato di rifiutare l’importazione di OGM da parte di un altro paese, anche in assenza di prove scientifiche[12]; non vale inoltre la regola del silenzio assenso, per cui la mancata comunicazione da parte del paese importatore entro il termine massimo stabilito non comporta l’autorizzazione all’importazione. Tuttavia il Protocollo deriva da un compromesso e salvaguarda anche interessi commerciali; ad esempio gli OGM che costituiscono prodotti farmaceutici godono di un “trattamento privilegiato” riflettendo così un interesse comune ai paesi firmatari industrializzati, quelli europei. Per riassumere il contenuto del Protocollo si possono mutuare le parole del Consiglio europeo secondo il quale esso «stabilisce un insieme di regole basate sul principio di precauzione per il trasferimento, il trattamento e l’uso sicuro di organismi viventi modificati … che possono avere effetti negativi sulla conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica, tenendo conto dei rischi per la salute umana e prestando particolare attenzione ai movimenti transfrontalieri»[13]. Proprio quest’ultimo inciso ci rivela un’annosa problematica connessa al mercato degli OGM, quella del commercio internazionale. Spetta al WTO controllare e giudicare le regole del commercio internazionale imponendo sentenze ai paesi membri che violano il regime mondiale di libero commercio. Le sentenze emanate da questo tribunale sono vincolanti e inappellabili, e contribuiscono quindi a formare il diritto internazionale. Sulla materia degli OGM il WTO è stato chiamato a pronunciarsi una sola volta, in occasione del ricorso presentato dagli Stati Unti (appoggiati dai fedeli partner del Gruppo di Miami) contro la moratoria[14] dell’UE sull’importazione di OGM del 1998. In questo caso il tribunale di Ginevra ha dato ragione all’UE riconoscendo la legittimità del ricorso al principio precauzionale. Tra le organizzazioni internazionali va inoltre citata la FAO[15], ma è doveroso rimarcare che le sue funzioni si limitano alla consulenza e all’assistenza.

 

   Fonti comunitarie

 

   Al contrario, il panorama europeo delle fonti risulta assai più vario. Originariamente il quadro normativo era fondato su un approccio di tipo orizzontale, che prevedeva la protezione della salute umana e dell’ambiente in tutti i settori interessati. Si comincia con le direttive n. 219 e n. 220[16] del 23 aprile 1990; la prima riguarda le attività lavorative che prevedono l’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati[17] (MOGM); la seconda (oggi abrogata) ha un contenuto più ampio: disciplina l’emissione nell’ambiente di OGM e la commercializzazione di prodotti contenenti o composti da OGM utilizzati come alimenti, mangimi, sementi o prodotti farmaceutici. La progressiva espansione dei singoli settori ha determinato una graduale transizione verso un approccio più settoriale, con particolare attenzione alla commercializzazione dei prodotti. Così le applicazioni in campo farmaceutico sono disciplinate in gran parte dal regolamento CEE 2309/93, gli alimenti dal regolamento CE 258/97[18] (detto “novel food”) e le sementi dalle varie direttive e decisioni di settore[19].

  Soffermandosi sul settore alimentare, il reg. 258/97 esige che l’autorizzazione al commercio dei nuovi prodotti (tra cui quelli GM) sia rilasciata a seguito di una valutazione che ruota attorno al principio di equivalenza sostanziale[20];  certamente il “novel food” rappresenta un importante passo avanti nella tutela del consumatore poiché stabilisce l’obbligo di etichettatura sui nuovi prodotti ed i nuovi ingredienti alimentari, ma anche qui rispunta beffardo il famigerato principio: per quanto concerne l'etichettatura infatti il regolamento distingue  fra alimenti che contengono OGM e alimenti che derivano da OGM; mentre nel primo caso l'etichetta è obbligatoria, nel secondo lo è solo se tali alimenti sono dichiarati non equivalenti ai prodotti alimentari già esistenti. Un caso a parte è costituito da soia GM e mais GM la cui immissione sul mercato è stata autorizzata prima dell'entrata in vigore del Regolamento Novel Food, e per cui ne rimangono esclusi; per evitare discrepanze il Consiglio ha adottato un regolamento ad hoc, il reg. 1139/98[21] CE, che obbliga alla dichiarazione in etichetta tutti i prodotti di soia o mais che contengono DNA o proteine ingegnerizzate[22]. Successivamente, con il Regolamento della Commissione n.49 del gennaio 2000 (tenendo conto che non è possibile escludere una contaminazione accidentale degli alimenti naturali) viene stabilita una soglia di tolleranza, pari all'1% di contenuto involontario di OGM, al di sotto della quale non occorre obbligo di etichetta; infine con il regolamento n.50 (sempre della Commissione) vengono considerati gli additivi e gli aromi derivati da OGM. Anche questi,­ qualora non siano ritenuti equivalenti a quelli convenzionali, debbono riportare in etichetta  "derivato da … geneticamente modificato". 

  Tra tutte queste norme solo gli aspetti ambientali avevano un corpus unico, essendo trattati dalla dir. 90/220; gli altri problemi (in particolare quello del rischio) venivano affrontati specificamente nell’ambito delle norme di settore, limitatamente al loro campo di applicazione. La coerenza e la razionalità dell’approccio normativo erano andate a farsi benedire perché il legislatore comunitario aveva trascurato l’interazione tra legislazione orizzontale e settoriale. Tutte queste norme hanno inoltre in comune il ricorso al principio dell’equivalenza sostanziale, ma già dal 1997 comincia a farsi strada il principio precauzionale. L’inversione di rotta avviene gradualmente: sotto la spinta dell’opinione pubblica e degli Stati membri è il Parlamento europeo ad accogliere subito il principio di precauzione mentre la Commissione appare meno propensa a recepirlo[23]. Dell’aprile 1998 è la moratoria di sette paesi europei che de facto impedisce il via libera alla produzione e alla commercializzazione di nuovi OGM[24]. Nel libro bianco del 2000 la Commissione nomina il principio precauzionale nel capitolo dedicato alla sicurezza alimentare, condendolo tuttavia di incisi ben poco incoraggianti[25]. Bisogna attendere il 2001 per avere una norma sugli OGM improntata al principio di precauzione. È la dir. CE 2001/18 del 12 marzo 2001 del Parlamento europeo e del Consiglio che espressamente abroga e sostituisce la dir. 90/220. Se chiaro appare il suo intento assai poco intelligibile è il suo contenuto, ermeneuticamente custodito in una ragnatela di deroghe e norme degne di un virtuoso analista. Essa stabilisce le condizioni per l’emissione deliberata (cioè nell’ambiente) di OGM e per la loro immissione in commercio, e la sua importanza risiede anche nel fatto che disciplina molteplici aspetti, quali la tutela dalla salute umana, l’azione preventiva, il rispetto dei principi etici riconosciuti in uno stato membro, le notifiche, i criteri e le procedure per la valutazione e il monitoraggio sui rischi ambientali. Sembra essere un vero tentativo di riorganizzare la materia degli OGM! Per il momento basti solo anticipare che la dir. 2001/18 funge da vero e proprio spartiacque legislativo poiché simboleggia il cambiamento dell’impostazione comunitaria nella codificazione degli OGM. Da allora l’Europa sta aspettando una norma sull’etichettatura e la tracciabilità che da un lato dia piena attuazione alla dir. 2001/18, dall’altro conceda ai singoli governi di revocare la moratoria.

   Un cenno infine alla norma sulla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, la dir. 98/44 CE del Parlamento europeo e del Consiglio (che sancisce i limiti alla protezione giuridica della proprietà intellettuale su dette invenzioni)[26], già in vigore in tutti gli Stati membri[27]. Questa statuisce che le varietà vegetali e le razze animali (nonché i processi essenzialmente biologici di ottenimento di piante ed animali), come tali, non possono essere oggetto do brevetto (art. 4). Come tali, quindi solamente se prive del requisito dell’industrialità.[28]  

   Se ricco appare il sistema normativo di riferimento niente o quasi ci dice il giudice comunitario. La Corte di Giustizia è stata spesso interpellata dalla Commissione affinché gli Stati dessero attuazione alle sue direttive, senza peraltro aggiungere niente di nuovo. Le uniche due sentenze che vengono in rilievo sotto il profilo del contenuto sono quelle del 21 marzo 2000 e del 9 settembre 2003 in relazione alle cause rispettivamente C-6/99 e C-236/01 Corte giust[29]. La prima vedeva contrapposta l’associazione Greenpeace Francia al Ministero dell’agricoltura francese, la seconda ci interessa più da vicino perché vedeva protagonisti la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiana e la Monsanto Agricoltura Italia SpA. In queste due sentenze gli organi istituzionali nazionali figurano come convenuti in due situazioni opposte, l’uno perché ha immesso in commercio sementi OGM (e quindi denunciato dall’associazione ambientalista francese), l’altro perché ne sospendeva la commercializzazione (e quindi chiamato in causa dalla principale produttrice di OGM, la Monsanto). La Corte di Strasburgo ha concluso con il sancire e il legittimare la sospensione all’immissione in commercio degli OGM, ancorando le proprie motivazioni al principio di precauzione e anticipando ancora una volta le scelte legislative degli altri organi comunitari. In particolare, nella sentenza del 21 marzo 2001, in causa C-6/99, la Corte di Giustizia ha individuato una duplice portata del principio precauzionale, nel senso che lo stesso si traduce, da un lato, «nell’obbligo imposto al notificante dall’art. 11, n. 6 della direttiva 90/220, di comunicare immediatamente all’autorità competente ogni nuova informazione in merito ai rischi che il prodotto comporta per la salute e l’ambiente» e, dall’altro, «nell’obbligo, imposto all’autorità competente dall’art. 12, n. 4, d’informare immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri». La Corte pertanto riconosceva la «facoltà attribuita dall’art. 16 della direttiva, di limitare o vietare provvisoriamente l’uso e/o la vendita sul proprio territorio» del prodotto rischioso, e ciò benché sia stato oggetto di un consenso già espresso dall’autorità competente al rilascio; naturalmente ed in ogni caso devono sussistere «valide ragioni per ritenere che presenti un rischio per la salute e l’ambiente». La causa C-236/01 riguarda invece gli alimenti GM e verrà trattata unitamente al regolamento “novel food”.

  

   Normativa nazionale

  

   In Italia. In Italia lo scenario normativo inerente gli OGM è costituito quasi esclusivamente da decreti. Gli interventi del Legislatore italiano riflettono, col ritardo che geneticamente si porta dietro, la normativa comunitaria. Così i decreti legislativi n. 91 e n. 92 del 3 marzo 1993 recepiscono rispettivamente le direttive 219/90 e 220/90. Entrambi stanno alle prescrizioni contenute nelle direttive, il primo trattando il settore dei microrganismi GM (da attuare in condizioni di confinamento/isolamento), il secondo, ora abrogato, regolamentando l’emissione nell’ambiente di OGM per fini sperimentali o commerciali. L’ultimo però conteneva qualcosa in più: designava nel Ministero della Salute (allora Ministero della Sanità) l’organo istituzionale di riferimento per la materia degli OGM[30]; questo costituiva l’Autorità Nazionale preposta al coordinamento della attività amministrative e tecnico-scientifiche, e pertanto coordinava le procedure di autorizzazione dei rilasci. Adesso che la dir 90/220 è stata abrogata dalla dir 2001/18, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo di attuazione di questa seconda direttiva, il d.lgs. 8 luglio 2003 n.224. Questo decreto abroga il d.lgs. 92/93 e sancisce un (per la verità atteso) cambio di vertice; ora il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, coadiuvato da una Commissione ad hoc, sarà l'Autorità Nazionale competente per attuare la nuova normativa. Il cambiamento istituzionale di fatto rispecchia la crescente sensibilizzazione verso le problematiche ambientaliste connesse  all’emissione di OGM[31]. Tra questi decreti si colloca l’intero panorama normativo italiano trattato in questo lavoro.

  Nel recepire la normativa comunitaria il Legislatore italiano ne accoglieva fatalmente la progressiva suddivisione in settori. Tralasciando i decreti di attuazione delle modifiche della dir. 90/220 ora abrogati[32], per quanto riguarda i MOGM vanno citati i decreti modificativi del d.lgs.91/93, ossia il decreto del Ministero della Sanità del primo marzo 1995, il d.lgs. 206/2001[33] ed il d.m. del 25 settembre 2001; quest’ultimi attuano rispettivamente la dir. 94/51 (recante il “primo adeguamento al progresso tecnico” della dir. 90/219), la dir. 98/81 e la decisione 2000/608 della Commissione (sulle note orientative circa la valutazione del rischio trattata nell’allegato III della dir 90/219).

  Per il settore alimentare, invece, il quadro normativo di riferimento è dato dalle norme europee prima enunciate: il cd “novel food” (reg. 258/97), il reg. 49/2000 ed il reg. 50/2000 che, in quanto regolamenti comunitari, non richiedono atti di recepimento per spiegare i propri effetti all’interno dello Stato membro (come si suole dire sono “self executing”, cioè direttamente applicabili). A queste vanno aggiunte ulteriori determinazioni proprie del nostro ordinamento, di cui la fattispecie più importante è costituita dagli alimenti per lattanti e bambini; mentre il DPR n.128 del 1999[34] statuisce categoricamente che detti alimenti non «devono contenere prodotti geneticamente modificati» (art.3 c.2), il d.m. 371/2001[35] del Ministero della Sanità precisa che « è escluso, in ogni caso, l’uso di materiale derivato da organismi geneticamente modificati salvi la tolleranza prevista dal reg. 49/2000 CE» (art.4 c.1 del d.m. 500/94 così modificato dall’art.1 c.1 lett. b) del d.m.371/2001); chiarificando: la regola è che gli alimenti per lattanti e bambini non devono contenere OGM (“in ogni caso”), l’eccezione è costituita dal rinvio al reg. 49/2000 secondo il quale è tollerabile la presenza di materiale derivato da OGM non superiore all’1%, purché tale presenza sia accidentale. Categoria alimentare disciplinata a parte è inoltre quella degli alimenti destinati ad animali; qui il DPR 10 febbraio 1998 n. 127[36] stabilisce gli adempimenti da svolgere nel caso in cui un additivo sia costituito o contenga OGM.

  Senza ombra di dubbio però il settore che riveste maggior interesse è quello sementiero. In questo campo l’Italia ha emanato norme in aperto contrasto con le decisioni della Commissione. Con ordinanza del 4 marzo 1997 il Ministero della Sanità sospendeva temporaneamente l’attuazione della decisione della Commissione del 27 gennaio 1997 (concernente l’immissione in commercio di una varietà GM di granturco)[37]; con la moratoria dichiarata al Consiglio dei Ministri dell’ambiente il 24-25 giugno 1999 (presentata d’accordo con altri quattro paesi europei) si impediva l’autorizzazione al commercio di nuovi OGM[38]; infine e nonostante i richiami della Commissione[39], con il DPCM del 4 agosto 2000 (cosiddetto Decreto Amato) si sospendeva a tempo indeterminato la commercializzazione e l’utilizzo di quattro varietà di mais transgenico già in commercio; in quest’ultimo caso il governo italiano si avvalse della clausola di salvaguardia prevista dall’art. 12 del reg. 258/97, adducendo a motivo dell’errore l’erronea adozione di una procedura semplificata ai fini dell’immissione in commercio[40]. Il contrasto con la Commissione verteva principalmente sui seguenti punti[41]: la mancanza di un’impostazione orientata al principio di precauzione, la vetustà e l’inadeguatezza della dir. 90/220, la mancanza di una norma sull’etichettatura e la tracciabilità. Se da un lato la condotta italiana (comune a quella degli altri paesi ribelli) pone la Commissione in una situazione imbarazzante[42], dall’altro affretta le istituzioni comunitarie a redigere un nuovo quadro normativo tecnicamente più adeguato e socialmente più soddisfacente; la dir. 2001/18 sembra esserne la conferma e, dal momento che la normativa europea sull’etichettatura e la tracciabilità è appena entrata in vigore[43], sarà indicativo verificare la sopravvivenza della moratoria. Bisogna ribadire che tale disputa è circoscritta alle decisioni della Commissione, segnatamente quelle che permettono l’immissione in commercio di singole varietà di OGM, non toccando gli altri organi dell’UE e nulla ostando all’attuazione di altri atti comunitari. Non deve quindi sorprendere che nello stesso tempo il Governo italiano abbia dato attuazione a due direttive del Consiglio concernenti la messa in coltura e la commercializzazione dei prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate: le direttive 98/95 e 98/96 CE del Consiglio (concernenti «la commercializzazione dei prodotti sementieri, il catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole e relativi controlli»[44]) attuate attraverso il d.lgs. n. 212 del 24 aprile 2001[45]. Il decreto, anche qui nell’esplicito segno del principio precauzionale (art.1 c.1), mira a garantire che le colture derivanti da prodotti sementieri di varietà GM non entrino in contatto con le colture derivanti da prodotti sementieri tradizionali e che non rechino danno all’ambiente circostante. Da evidenziare l’impostazione quasi iperprecauzionale del decreto che si evince sia dagli articoli concernenti la pubblicità[46] che da un permesso alla messa in coltura particolarmente gravoso (dovendo esso discendere da un provvedimento autorizzativo del Ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con il Ministro dell’ambiente ed il Ministro della sanità, emanato previo parere di una Commissione ad hoc). 

  Infine, per compiutezza della rassegna italiana delle fonti, si accenna ad un numero imprecisabile di decreti di minore importanza, vuoi per l’aspetto trattato, vuoi perché trattano gli OGM in via incidentale. Sono i decreti finalizzati al monitoraggio ed al controllo[47], alla organizzazione dei ministeri competenti in materia di OGM[48], i decreti contenenti la determinazione delle tariffe per le procedure di autorizzazione[49], quelli sulla sperimentazione di medicinali[50] ed uno sulla presentazione e la vendita dei prodotti del  tabacco[51].

  Manca la legge di ratifica del Protocollo di Cartagena che è comunque in fase di preparazione.

 

   Leggi regionali: i tre aspetti principali

 

   Non tutte le regioni trattano il “problema degli OGM” e, tra quelle che lo trattano, non tutte lo trattano alla stessa maniera. Alcune regioni si limitano a vietarne la somministrazione nelle mense pubbliche (Marche e Campania), altre accompagnano tale proibizione ad un generale divieto di coltivazione e di produzione (Abruzzo e Toscana), altre infine mirano alla conservazione e alla valorizzazione dei prodotti agroalimentari tipici (tradizionali, non GM). La Regione Umbria e la Regione Basilicata hanno inteso disciplinare con una sola legge[52] tutti e tre gli aspetti, mentre il Friuli-Venezia Giulia sostiene la promozione dei propri prodotti agricoli attraverso la disciplina di un apposito contrassegno; questo garantisce l’assenza di OGM dal prodotto. Anche se non tutte le leggi regionali esprimono un esplicito riferimento al principio precauzionale[53], appartiene a tutte l’ottica con la quale guardano gli OGM: questi sono percepiti esclusivamente come minaccia e pertanto vengono trattati come problema dal legislatore regionale.

   Partendo dai casi più semplici, Campania e Marche sono dotate di una legge pressoché identica: stesso titolo, stessi riferimenti normativi, identici articoli. L’unica differenza risiede nell’anno di emanazione. Le leggi regionali 23 febbraio 2000 n. 9 (della Regione Marche) e 24 novembre 2001 n. 15 (della Regione Campania) si intitolano «Norme in materia di consumo di prodotti geneticamente modificati nelle mense scolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura». Gli articoli 3 c. 1 delle suddette leggi dispongono che  i prodotti contenenti organismi geneticamente modificati non devono essere somministrati «nelle attività di ristorazione collettiva riguardanti le forme scolastiche e prescolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura della Regione» appartenenti alle Aziende Sanitarie Locali e alle Aziende Ospedaliere, ai Comuni, alle Province, alla Regione, agli altri enti pubblici ed ai soggetti privati convenzionati. Questi soggetti sono destinatari di due obblighi: «l’obbligo di verificare attraverso la richiesta di apposita certificazione – del fornitore – l’assenza di organismi geneticamente modificati» (art 3.2), e «l’obbligo di comunicare agli utenti, attraverso mezzi idonei ed adeguati, la provenienza degli alimenti somministrati» (art.4). Il contenuto delle due leggi si esaurisce in questo.

   Lo stesso divieto di ristorazione collettiva ed i relativi obblighi[54] sono espressi  nelle leggi della Regione Abruzzo e della Regione Toscana. Tuttavia la legge regionale 16 marzo 2001 n. 6 (per l’Abruzzo) – intitolata «Norme in materia di coltivazione, allevamento, sperimentazione e commercializzazione di organismi geneticamente modificati e prodotti da loro derivati» ­– e la l. regionale 6 aprile  2000 n. 53 (per la Toscana)[55] – recante  la «Disciplina regionale in materia di organismi geneticamente modificati» – rivolgono particolare attenzione ad un secondo aspetto, quello della coltivazione e della produzione di OGM. Entrambe pongono un divieto in tal senso, essendo però generale quello Toscano e specificato (territorialmente) quello abruzzese. Il primo infatti è espresso semplicemente con la formula seguente: «la Regione Toscana vieta la coltivazione e la produzione di specie che contengono la presenza di organismi geneticamente modificati» (art.2 della legge regionale toscana). Il secondo fa invece riferimento ad un «divieto di coltivazione e allevamento, sui terreni di proprietà pubblica, collettiva e nelle aree, a qualunque titolo, protette» (così recita il titolo dell’art.2 della legge regionale abruzzese)[56]; al di fuori di queste zone gli OGM possono essere coltivati mentre all’interno non possono neanche per fini sperimentali.

   Anche la Regione Umbria e la Ragione Basilicata disciplinano il divieto di ristorazione collettiva ed il divieto di coltivazione; il primo senza particolarità, il secondo invece con qualche ulteriore determinazione, soprattutto nell’ordinamento lucano. Ambedue statuiscono il generale divieto di coltivazione «in pieno campo» di piante transgeniche; tuttavia, mentre la legge n.21 del 20 agosto 2001 della Regione Umbria[57] si ferma qui, il legislatore lucano pone ulteriori precisazioni per mezzo dell’art. 2 della l. n.18 del 20 maggio 2002[58]. Questo articolo, da un lato, accomuna la disciplina del divieto di coltivazione a quella abruzzese (separando un divieto di coltivazione da un divieto d’uso)[59], dall’altro, presenta due peculiarità. Primo: ovunque il divieto di coltivazione e di allevamento sussiste, detto divieto si estende anche alle aree limitrofe per un raggio di due chilometri. Secondo: viene riconosciuto agli agricoltori ed ai proprietari terrieri un diritto “a non far usare OGM” nelle vicinanze dei loro terreni (ricadenti in una fascia di rispetto di almeno due chilometri)[60]. In questo modo la Regione Basilicata intende non solo tutelare gli interessi di questi soggetti ma cerca altresì di prevenire la contaminazione dei propri prodotti “naturali”, prendendo coscienza dell’inadeguatezza delle leggi nazionali e comunitarie in tal senso. Non a caso l’art. 2 prevede anche la creazione di una «rete regionale di protezione della biodiversità», nell’ambito del quale vengono predisposti appositi elenchi dei siti sottoposti al divieto di coltivazione e allevamento di OGM.

   Ad ogni modo, l’elemento che differenzia queste ultime due leggi –della Regione Basilicata e della Regione Umbria– dalle altre leggi regionali fin qui trattate è costituito dal terzo aspetto in queste disciplinato: la promozione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali che, per contro, si traduce in una discriminazione dei prodotti GM. Anche in questo caso la trattazione dell’argomento non è uniforme. Nella Basilicata la promozione dei prodotti biologici, tradizionali e tipici si esaurisce in una promozione nel consumo di questi prodotti nelle attività di ristorazione. Dunque, dal complesso della l. n.18 del 20 maggio 2002 si evince che nella Basilicata 1) che le attività di ristorazione collettiva (le mense pubbliche, in sostanza) non possono fornire pasti contenenti OGM (art. 6), 2) che tutte le «mense» sono incentivate, per mezzo dei contributi erogati dalla Regione Basilicata[61], ad utilizzare prodotti biologici, tradizionali e tipici (art.10). Anche la l. n. 21 del 2001 della Regione Umbria prevede la promozione dei prodotti biologici e tipici per mezzo della ristorazione collettiva[62], ma non è questa l’area di promozione più importante. Secondo il combinato disposto degli articoli 11 e 13, la Regione Umbria eroga contributi agli organismi di filiera al fine di cofinanziare progetti volti a valorizzare le produzioni agroalimentari di qualità e tipiche con diretta ricaduta sui produttori agricoli[63]. Più precisamente, i progetti di promozione dei prodotti agroalimentari oggetto del cofinanziamento devono avere una delle seguenti finalità: o «diffondere la conoscenza dei prodotti di qualità e tipici» (con particolare riguardo ai caratteri legati alla tradizione e alla sicurezza alimentare), oppure favorire le «attività di consulenza, studio e progettazione, volte alla conoscenza dei mercati ed alla qualificazione dei servizi di accompagnamento del prodotto». Come si può notare, la disciplina della promozione dei prodotti tipici emanata dalla Regione Umbria risulta essere estremamente acuta, a tal punto che lo stesso legislatore umbro ha inteso richiamare l’attenzione sul fatto che i progetti cofinanziati  devono essere «conformi agli orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo».

   Un discorso a parte merita la promozione dei prodotti agroalimentari tradizionali disciplinata dalla Regione Friuli-Venezia Giulia attraverso la legge regionale 20 novembre 2000 n. 21. Questa legge mira espressamente ad orientare i consumatori all’utilizzo di prodotti alimentari geneticamente non modificati (art.1), e a tal fine istituisce un apposito contrassegno contenente la seguente dicitura: «dal Friuli-Venezia Giulia – prodotto non geneticamente modificato». Il contrassegno può essere utilizzato «anche congiuntamente ad altri marchi o contrassegni di prodotti locali, tipici e di qualità» (art 3.1). Venendo alla disciplina del rilascio, la legge in questione prevede tre categorie di attori: i soggetti interessati al rilascio, i soggetti autorizzati alla concessione dell’autorizzazione e la Regione. Il contrassegno viene rilasciato su richiesta dell’interessato da soggetti autorizzati dalla regione; l’interessato –cioè il soggetto che vuole contrassegnare il proprio prodotto– deve allegare alla richiesta una documentazione contenente: i dati utili sulle componenti essenziali del prodotto e sulle sue modalità di produzione, una prima dichiarazione che il prodotto è stato realizzato senza l’impiego dell’ingegneria genetica, una seconda dichiarazione che il prodotto è stato realizzato in Friuli-Venezia Giulia[64]. Le dichiarazioni sono sotto la responsabilità del produttore, giacché spetta ai soggetti autorizzati alle concessione del contrassegno il controllo sui prodotti, al fine di verificare che gli stessi corrispondano alle dichiarazioni[65]. Se il controllo ha esito positivo i soggetti competenti provvedono al rilascio del contrassegno. Così come viene concesso il contrassegno può essere revocato. Innanzitutto il richiedente deve immediatamente dare comunicazione all’organismo autorizzato alla concessione e sospendere la contrassegnazione del prodotto «qualora subentrino delle variazioni dei requisiti in base ai quali è stato concesso il contrassegno e qualora il prodotto non corrisponda più a detti requisiti» (art. 7 c. 2); in quest’ultimo caso, quindi, il soggetto autorizzato alla concessione è tenuto a revocare il diritto a contrassegnare il prodotto. Tali soggetti competenti al rilascio (e alla revoca) sono scelti dalla Regione tra gli «enti, organizzazioni, associazioni e unioni nel settore agroalimentare, che ne facciano richiesta e siano in grado di garantire il controllo dei prodotti e la certificazione dei prodotti geneticamente non modificati» (art.4 c.1). In tutto questo contesto la Regione svolge un ruolo da supervisore. Infatti questa, oltre ad individuare gli organismi competenti il rilascio, controlla sia costoro «che coloro cui è stato concesso l’utilizzo del contrassegno, nonché i prodotti contrassegnati per quanto riguarda l’osservanza delle norme della presente legge e dei relativi regolamenti di esecuzione» (art.4 c.2); inoltre la Regione deve sostituirsi al soggetto autorizzato alla concessione del contrassegno in caso di revoca dell’autorizzazione[66] (a meno che un altro soggetto che sia stato autorizzato alla concessione del contrassegno non se ne faccia carico), e determina «le modalità, le tipologie e la frequenza dei controlli dei prodotti» (art. 6 c.2). La disciplina del contrassegno statuita dalla legge del Friuli-Venezia Giulia si chiude col trattamento delle infrazioni. Il sistema sanzionatorio è abbastanza pesante: da dieci a cinquanta milioni delle vecchie lire per i richiedenti “indisciplinati”[67], da cinquanta a cento milioni per i soggetti autorizzati alla concessione che concedono il diritto a contrassegnare senza aver effettuato i relativi controlli, o che non revocano il diritto a contrassegnare in seguito ad una sopravvenuta mancanza dei requisiti per l’attribuzione.

   Il problema di distinguere i prodotti contenenti OGM da quelli definiti tradizionali per mezzo di una disciplina di etichettatura è stato affrontato anche da altri legislatori regionali, in particolare dalla Regione Basilicata, dalla Regione Umbria, dalla Regione Abruzzo e dalla Regione Toscana. Queste pongono pressoché uguali specificazioni alla normativa comunitaria in materia. L’ultima impone che l’etichetta deve mostrare l’eventuale presenza di OGM o di prodotti derivati. Dal canto loro le regioni attribuiscono ai gestori degli esercizi commerciali che operano sul territorio regionale l’obbligo «di verificare che i prodotti messi in vendita siano dotati di adeguata etichettatura indicante l’eventuale presenza di organismi geneticamente modificati o di prodotti da essi derivati»[68]. Inoltre, la legge abruzzese, quella umbra e quella lucana dispongono che i prodotti contenenti OGM vanno comunque esposti al pubblico in appositi e separati («esclusivi») contenitori e/o scaffali in modo da essere «chiaramente e inequivocabilmente identificabili».

   Coerentemente al regime di sfavore posto dai legislatori regionali vi sono altri aspetti meritevoli di menzione; sono quelli riguardanti le esclusioni dai finanziamenti regionali. Sempre in riferimento alla “visibilità” del prodotto, in Abruzzo e in Basilicata le aziende agricole che utilizzano OGM sono escluse dalla possibilità di accedere ai marchi di qualità. Le stesse aziende, in Abruzzo, sono escluse anche dai finanziamenti erogati dalla Regione. In Umbria invece, l’esclusione dai finanziamenti opera nei confronti delle sole  «industrie e aziende agroalimentari», e delle «aziende che utilizzano mangimi in cui sono contenute materie prime derivate da piante geneticamente modificate»[69]. L’ultima parola va spesa per la ricerca. Dalla lettura delle leggi sin qui esposte si evince che la ricerca nel settore degli OGM non è cosa regionale. Una lode alla Regione Basilicata, che riconosce titolo preferenziale alle ricerche finalizzate alla verifica dei rischi connessi alla coltivazione degli OGM; tuttavia la stessa Regione Basilicata, insieme alla Regione Abruzzo, non si trattiene dall’escludere «dalla erogazione di finanziamenti regionali le ricerche che utilizzano tecniche di manipolazione genetica finalizzate alla creazione varietale e/o alla selezione animale». La maglia nera spetta alla Regione Umbria, che esclude dalla concessione dei finanziamenti regionali praticamente tutte le ricerche che utilizzano tecniche di manipolazione genetica. Queste ultime tre Regioni riconoscono infine «titolo preferenziale alle ricerche finalizzate alla diversificazione dei sistemi agrari e a quelle volte all’individuazione, valorizzazione e tutela delle risorse genetiche autoctone e alla relativa creazione varietale basata su genotipi locali, tradizionali o antichi di interesse agrario». Un ulteriore schiaffo alla ricerca “innovativa”.

   Da quanto detto si possono trarre alcune osservazioni di carattere generale. Sicuramente i legislatori regionali che hanno trattato la materia degli OGM sono caduti nell’errore comune di essersi limitati a respingere il fenomeno; senza preoccuparsi di approfondirne la conoscenza, essi si sono fatti carico dei timori delle collettività rappresentate approntando delle cd “leggi di sbarramento”. Non che questo sia un errore, ma certamente appartiene ad un modo di normare se non carente, almeno incompleto. Esce dal coro la l. n. 21 del 20 novembre 2000 emanata dal Friuli-Venezia Giulia. Attraverso la disciplina del contrassegno questa regione ha disciplinato la materia degli OGM cercando di avvantaggiare direttamente i propri prodotti tradizionali e tipici nel mercato globale; una etichetta come opportunità di marketing.                                             

 


[1] In ordine cronologico: decisione CEE 93/572 concernente un vaccino antirabbico per volpi, decisione CE 94/385 sui semi di tabacco maschio sterile, decisione CE del 94/505/CE che estende l’autorizzazione di un medicinale antirabbico per uso intradermico (laddove l’uso intramuscolare tale medicinale era già stato autorizzato da una decisione del 18-12-1992), decisione CE  3-4-96 che autorizza l’immissione sul mercato dei semi di soia Monsanto Europa modificati per essere resistenti al glifosate (sono consentiti l’importazione, l’immagazzinamento e la trasformazione in prodotti non vitali), decisione CE 96/158 concernente l’immissione sul mercato i semi di colza ibrido tollerante erbicidi, decisione CE 96/281 relativa all’immissione sul mercato di semi di soia Glicine max L. (anche questi resistenti agli erbicidi), decisione CE 96/424 concernente l’immissione in commercio di cicoria maschio sterile (Cichorium intybus L.) modificata con tolleranza parziale all’erbicida glufosinate-ammonio, decisione CE 23-1-97 riguardante l’immissione in commercio di granturco geneticamente modificato (Zea mays L.) sottoposto ad una modificazione combinata che garantisce da un lato proprietà insetticide (conferite dal gene Bt), dall’altro resistenza all’erbicida, decisione CE 97/392 concernente l’immissione sul mercato di colza geneticamente modificata (Brassica napus L. oleifera Metzg. MS1, RF1), decisione CE 97/393 concernente l’immissione sul mercato di un altro tipo di colza geneticamente modificata (Brassica napus L. oleifera Metzg. MS1, RF2), decisione CE 97/549 relativa all’immissione in commercio del T 102-test (granturco), poi ci sono le quattro decisioni CE del 22-4-98, una riguardante l’ immissione in commercio della colza primaverile (Brassica napus L.ssp. oleifera), le altre tre riguardano invece l’immissione in commercio di tre varietà di granturco modificato Zea mays L. (linea Bt-11, T25, Mon 810) brevettato da tre case farmaceutiche diverse per resistere ai pesticidi che queste commercializzano; infine la decisione del Parlamento europeo CE 24-10-2000 (primo si al vino transgenico).

[2] Di queste ultime due categorie di decisioni si riportano anzitutto quelle legate alla dir. CE 90/220: decisione CEE 91/274, decisione CEE 91/596 (modificata dalla decisione CE 94/211), decisione CEE 92/146, decisioni CEE del 22-10-93 e del 4/11/94, decisione 93/572 CEE, decisione CEE 93/574, decisione CEE 93/584, decisione CE 94/730. Ci sono in oltre due decisioni che integrano la dir. CEE 90/219: decisione CE del 27/9/2000 e decisione CE dell’8/3/2001 n.204. Infine si riportano le decisioni  integrative della dir. CE 2001/18: decisione CE del 24-7-2002, decisione CE 2002/812 e decisione CE 2002/813.

[3] Si tratta della decisione CE 94/381 e della decisione CE 94/474 ora abrogate, e della decisione CE 96/239. Per approfondimenti si rinvia a http://www.ambientediritto.it/Legislazione/OGM/ogm.htm. 

[4] Trattasi della l. 24 aprile 1998 n. 128, legge comunitaria 1995-1997, e della l. 29 dicembre 2000 n. 422, legge comunitaria 2000.

[5] Sono la legge provinciale n.1 del 22 gennaio 2001 e la legge provinciale n.4 del 28 marzo 2003 per quanto concerne le province rispettivamente di Bolzano e di Trento. Si ricorda che, per potestà legislativa, queste province sono in tutto comparabili alle regioni.

[6] L’art. I-32 prosegue spiegando che il regolamento europeo “può essere obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, oppure vincolare lo Stato membro destinatario per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi”.

[7] Per la precisione gli schieramenti erano cinque: il cd Compromise Group (costituito da America centrale, Carabi, Svizzera, Norvegia, Giappone, Corea del Sud e Singapore), Europa centrale e orientale, Gruppo di Miami, Unione Europea e gruppo dei paesi like-minded (che comprendeva i paesi del terzo mondo non esportatori più la Cina).

[8] Composto dai paesi esportatori di OGM: Stati Uniti, Canada, Australia, Cile, Argentina, Uruguay.

[9] Il contrasto tra Stati Uniti ed Europa verteva soprattutto sul ruolo che avrebbe dovuto rivestire il Protocollo; i primi sostenevano l'esigenza di istituire un Gruppo di lavoro del WTO per definire i rapporti tra commercio, sviluppo sostenibile, salute e ambiente in materia di biotecnologie; mentre l'UE (soprattutto Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Svezia) e la maggior parte dei paesi in via di sviluppo hanno osteggiato la creazione di tale organismo nella convinzione che avrebbe reso del tutto vano il Protocollo sulla biosicurezza, giunto ormai alla fase conclusiva, e avrebbe finito con l’affidare l'intera materia al controllo dell' WTO.

[10] L’art. 37 c.1 del protocollo così recita: «Il presente Protocollo entra in vigore il novantesimo giorno successivo alla data del deposito del cinquantesimo strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione da parte di Stati o organizzazioni regionali di integrazione economica che sono Parti contraenti della convenzione».

[11] L’art 18.2 lett. a) afferma che la documentazione di accompagnamento «degli organismi viventi modificati destinati all’uso diretto nell’alimentazione, umana o animale, o alla lavorazione, indichi chiaramente che essi “possono contenere” organismi viventi modificati e non sono destinati all’immissione deliberata nell’ambiente …».

[12] Vige in questo caso una applicazione fin troppo rigida del principio precauzionale. 

[13] Quinto considerando della decisione del Consiglio relativa alla conclusione, a nome della Comunità europea, del Protocollo di Cartagena del 25 giugno 2002.

[14] Come si vedrà in seguito, dal 1998 il Consiglio dei ministri europeo non concede autorizzazioni per nuovi prodotti transgenici destinati alla coltivazione.

[15] Il numero delle organizzazioni intergovernative responsabili dei diversi problemi riguardanti le biotecnologie è in rapido aumento e comprende, oltre agli organismi citati precedentemente, l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’OMS (Organizzazione mondiale per la sanità),  l’UNEP (programma ambientale per le Nazioni Unite), l’ICGEB (Centro internazionale per l’ingegneria genetica e la biotecnologia, l’UNIDO (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale), l’UIE (Ufficio internazionale delle espoozie ).

[16] Modificata da due direttive (la dir. CE 94/15 e la dir. CE 97/35) che rappresentano due adeguamenti al progresso tecnico.

[17] Nella legislazione nazionale di quasi tutti gli Stati membri l’impiego di condizioni di confinamento è stato successivamente esteso a tutti gli OGM. Anche la dir 90/219 è stata più volte modificata: dalla dir 94/51 CE (che rappresenta il primo «adeguamento al progresso tecnico»), dalla dir 98/81 CE del Consiglio (che apporta le modifiche più rilevanti), dalla decisione 2000/608 CE del 27 settembre 2000 della Commissione (sulle note orientative per la valutazione del rischio di cui all’allegato III della dir 90/219) e dalla decisione dell’8 marzo 2001 del Consiglio (che integra la dir 90/219 relativamente ai criteri per stabilire la sicurezza per la salute umana e per l’ambiente di alcuni tipi di MOGM).

[18] Il reg. 258/97 sui nuovi prodotti e i nuovi ingredienti alimentari è stato integrato dalla raccomandazione 97/618 CE della Commissione concernente gli aspetti scientifici delle informazioni che le domande di autorizzazione devono contenere.

[19] Per quanto concerne le direttive bisogna far riferimento alla dir. 98/95 CE del Consiglio del 14 dicembre 1998 che tratta del consolidamento del mercato interno, delle varietà GM e delle risorse genetiche delle piante. Tale direttiva modifica sette precedenti direttive (la dir. 66/400 CEE, la dir. 66/401CEE, la dir. 66/402 CEE, la dir. 66/403 CEE, la dir. 60/208 CEE, la dir. 70/457 CEE e la dir. 70/458 CEE) riguardanti la commercializzazione delle sementi di barbabietole, di piante foraggiere, di cereali, dei tuberi-seme di patate, di piante oleaginose e da fibra, delle sementi di ortaggi. Per quanto concerne le decisioni invece vedere le decisioni elencate nella nota 1.

[20] Il reg. 258/97 verrà trattato in seguito, per il momento è sufficiente citare il secondo considerando dove è scritto: «Nel caso di nuovi prodotti o nuovi ingredienti alimentari sostanzialmente equivalenti a prodotti o ingredienti esistenti è opportuno prevedere una procedura semplificata», il che si traduce nel testo del regolamento in una immissione in commercio senza autorizzazione.

[21] Il reg. 1139/98 abroga espressamente il reg. CE 1813/97 della Commissione concernente l’obbligo di etichettatura di alcuni prodotti alimentari derivati da OGM. Successivamente il reg. 1139/98 è stato modificato dal reg. 49/2000.

[22] Anche in questo caso il regolamento, all’art.3 c.2, stabilisce che «per i prodotti alimentari in oggetto, nei quali non risultano essere presenti proteine o DNA derivanti da modificazioni genetiche non valgono tali requisiti speciali supplementari di etichettatura». Come accennato nel paragrafo i due principi negli oli di mais GM e di soia GM non vi è traccia della manipolazione, quindi sono sottratti all’obbligo di etichettatura.

[23] Il Parlamento europeo, nella risoluzione 519 del 1997 sul mais GM autorizzato dalla Commissione, «deplora … che la Commissione non abbia tenuto adeguatamente conto del principio precauzionale per quanto riguarda la salute dei consumatori, la tutela dell’ambiente e le preoccupazioni dei produttori”. Nella stessa si trova anche un pesante monito del Parlamento alla Commissione circa l’incidenza degli interessi commerciali nelle decisioni di quest’ultima. 

[24] I sette paesi sono Italia, Francia, Grecia, Lussemburgo, Danimarca, Belgio, Austria. Ufficialmente la moratoria venne dichiarata nella riunione del Consiglio dei Ministri dell’Ambiente del 24-25 giugno 1999 dai primi cinque paesi elencati.

[25] Nella parte introduttiva al capitolo sulla «legislazione in materia di sicurezza alimentare» è scritto che «l’uso di pareri scientifici corroborerà la politica di sicurezza alimentare e si farà ricorso, se del caso, al principio di precauzione». Tra i principi sulla sicurezza alimentare la Commissione se ne libera così: «Ove appropriato, si applicherà il principio di precauzione nelle decisioni di gestione del rischio. La Commissione intende presentare una Comunicazione sull'argomento». Infine nelle linee di condotta dell’UE con l’estero si assicurano sforzi per mantenere e promuovere elevati standard sanitari per quanto concerne la sicurezza alimentare; in tale contesto, «la Comunità ha l'obiettivo di chiarire e rafforzare l'esistente quadro nell'ambito dell'OMC per l'uso del principio di precauzione in relazione alla sicurezza alimentare, in particolare al fine di trovare una metodologia concordata quanto al raggio di azione in virtù di tale principio».

[26] La Commissione, già con la comunicazione (COM (94) 219), aveva posto in evidenza alcune possibili linee operative per il settore biotecnologico, contenute nel “Libro bianco 1993 sulla crescita, la competitività e l’occupazione”, sottolineando le esigenze di rimediare ai deficit rilevati nelle attività di ricerca e sviluppo. Risale inoltre al 1988 la prima proposta di direttiva sulle invenzioni biotecnologiche elaborata dalla Commissione, bocciata peraltro dal Parlamento europeo nel 1995. Per approfondimenti si consiglia la visione del sito  http://biodiv.iao.florence.it.

[27] Poiché, qualora lo Stato membro non fosse pervenuto alla definizione di una normativa nazionale di attuazione, a luglio 2000 la direttiva sarebbe comunque entrata in attuazione.

[28] Il carattere dell’industrialità è condicio sine qua non di tutte le invenzioni brevettabili; esso richiede che le invenzioni possano essere impiegate industrialmente, soddisfacendo le esigenze e i bisogni di un determinato mercato.

[29] Ambedue le cause hanno ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale, proposte dal Conseil d’Etat francese e dal Tar (Tribunale amministrativo regionale) del Lazio.

[30] Nel libro “Problematiche connesse all’impiego di Organismi Geneticamente Modificati e proposte di interventi”  edito dal Ministero dell’Ambiente si legge che il Ministero della Sanità opera «d’intesa, per quanto di rispettiva competenza, con Ministero dell’Ambiente, Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale, Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, Ministero dell’Industria, Ministero del Commercio ed Artigianato, Ministero dell’Università e Ricerca Scientifica».

[31] Ci si riferisce in particolare alla salvaguardia della biodiversità. L’argomento, con importanti implicazioni commerciali per i prodotti agricoli  “tipici”.

[32] Per dovere di precisione si ricordano i decreti del Ministero della Sanità del 28 febbraio 1995, del 28 luglio 1997; si ricorda inoltre il comunicato dello stesso ministero contenente la lista delle decisioni adottate dal Consiglio e dalla Commissione europea in applicazione della dir 90/220 (Gazz. Uff., 16 maggio 1995, n. 112).

[33] Questo decreto interviene quattro mesi dopo il d.lgs. del 15 dicembre 2000 concernente la stessa materia (vale a dire l’attuazione della dir. 98/81) e viene modificato già nove mensi dopo attraverso il d.m. del 6 dicembre 2001.

[34] Il DPR 128/99 è un regolamento recante norme per l’attuazione delle direttive 96/5 CE e 98/36 CE sugli alimenti a base di cereali e altri alimenti destinati a lattanti e a bambini. Per lattanti si intendono «i soggetti di meno di dodici mesi d’età» mentre sono considerati bambini  «i soggetti di età compresa tra uno e tre anni» (art.1 c.3). Da notare che le direttive oggetto di recepimento non fanno menzione di OGM. 

[35] Il d.m. 371/2001 attua la dir. 99/50 CE della Commissione che modifica la dir. 91/321 CEE sugli alimenti per lattanti e alimenti di proseguimento.

[36] Il DPR 127/1998  reca modifiche al DPR 1° marzo 1992 n. 228 ed attua la dir. 93/114 CEE sugli additivi  nella alimentazione degli animali.

[37] Con questa ordinanza si vietava per tre mesi la coltivazione del granturco Ciba Geigy Ltd in attesa che venisse elaborato un piano di monitoraggio per il controllo dell’eventuale insorgenza negli insetti  di resistenza alle tossine Bt (che fungono da anticrittogamico naturale, in quanto prodotto dalla stessa pianta GM).

[38] I Ministri dell’Ambiente di Italia, Francia, Danimarca, Lussemburgo ed Austria decisero di astenersi da ogni votazione di autorizzazione al commercio di  nuovi OGM. L’astensione di questi paesi non permette di raggiungere la maggioranza qualificata necessaria alla pubblicazione della decisione della Commissione sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE, ecco perché si parla di “moratoria di fatto”. Successivamente si unirono al blocco dei “ribelli” anche Grecia e Belgio mentre la Spagna seguiva una via del tutto opposta.

[39] In particolare del commissario al commercio (P. Lamy) e della commissaria all’ambiente (M. Wallstroem). Quest’ultima considerava la moratoria «illegale».

[40] In sostanza. Il reg. 258/97 prevede una procedura semplificata per i prodotti nuovi o i nuovi ingredienti alimentari sostanzialmente equivalenti a quelli esistenti. Successive analisi effettuate dall’Istituto  superiore della sanità sulle quattro varietà di mais transgenico autorizzate ne attestarono la sostanziale equivalenza solamente sotto il profilo nutrizionale ma non da un punto di vista della composizione del prodotto (permanenza di proteine ingegnerizzate, cioè derivanti dalle modificazioni genetiche, compresi tra 0,04 e 30 parti per milione). Invece la cd clausola di salvaguardia espressa nell’art. 12 c.1 del regolamento “novel food” dice: «Qualora a seguito di nuove informazioni o di una nuova valutazione di informazioni già esistenti, uno Stato membro abbia motivi fondati per ritenere che l'utilizzazione di un prodotto o ingrediente alimentare conforme al presente regolamento presenti rischi per la salute umana o per l'ambiente, tale Stato membro può limitare temporaneamente o sospendere la commercializzazione e l'utilizzazione sul proprio territorio del prodotto o ingrediente alimentare in questione». Il governo italiano  reputò il ricorso alla procedura semplificata «asseritamente illegittimo per l'assenza del presupposto della "sostanziale equivalenza" rispetto agli omologhi esistenti, richiesto dall'art. 3, paragrafo 4, del citato regolamento CE 258/1997». L’istituto superiore della sanità reputò inoltre ancora «più lesivo del principio di precauzione … la carenza di notizie derivanti dalla precedente fase di accertamento istruttorio di detto rilascio ambientale ai fini dell'autorizzazione semplificata».

[41] Per approfondimenti si rimanda alla pagina del sito ufficiale dell’UE contenente le dichiarazioni dei cinque Stati fautori della moratoria: http://ue.eu.int/newsroom/LoadDoc.asp?MAX=1&DOC=!!!&BID=89&DID=58340&finoGRP=1857&LANG=1.

[42]Richard Mills, portavoce del dipartimento Usa sul commercio, ha bollato come “'ambigua” e “poco chiara” la condotta dell’UE.  La Commissione aveva due alternative: o sanzionare, oppure appoggiare. Anche se formalmente non ha mai sostenuto i paesi autori della moratoria non li ha neppure sanzionati, andando consapevolmente incontro ai reclami dei paesi produttori/esportatori di OGM ed alla citazione dinanzi al WTO.

[43] Al momento in cui si scrive è appena entrato in vigore il reg. 1830/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la tracciabilità e l’etichettatura di OGM, nonché  la tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da OGM.

[44] Così  recita il titolo del decreto.

[45] Questo decreto modifica le norme quadro in campo sementiero, vale a dire la l. 1096/71 e la l. 195/76.

[46] Per quanto concerne l’etichettatura l’art.5 c.8 così dispone: «Nel caso di prodotti sementieri di varietà geneticamente modificata le indicazioni riportate sui cartellini o etichette e su ogni documento che li accompagna devono includere chiaramente che la varietà e' stata geneticamente modificata. L'obbligo si applica ai miscugli anche quando uno solo dei componenti e' costituito da una varietà geneticamente modificata. Sui cartellini o etichette e su ogni documento che accompagna i prodotti sementieri, l'indicazione relativa alla presenza di varietà geneticamente modificate può essere omessa esclusivamente nel caso in cui il prodotto risulti all'analisi totalmente esente da varietà geneticamente modificate. In tutti gli altri casi deve essere specificata la percentuale di sementi derivanti da varietà geneticamente modificate eccetto che per le frazioni inferiori all'1 per cento, per le quali e', comunque, obbligatoria la dicitura: "Contiene sementi derivate da varietà geneticamente modificate in misura inferiore all'1 per cento”». Ma è nell’enunciare i requisiti che la varietà di semi GM deve rispettare per poter essere iscritta nel registro nazionale che il Legislatore supera se stesso: «Una varietà geneticamente modificata …  può essere iscritta nel registro nazionale solo se sono state adottate tutte le misure appropriate atte ad evitare effetti nocivi sulla salute umana e sull'ambiente, previste dal medesimo decreto legislativo, nonché dal principio di precauzione, dalla Convenzione sulla diversità biologica e dal protocollo sulla biosicurezza di Carthagena» (art.7 c.1). Si ricorda che il Protocollo di Cartagena non è stato ancora ratificato in Italia.

[47] D.m. 28 dicembre 2001  sul  monitoraggio di  mercato finalizzato a determinare le quantità di sementi di mais e di soia “tradizionali”, con soglia di tolleranza zero di presenza di OGM e d.lgs. 228/2001 concernente l’orientamento e la modernizzazione del settore agricolo che pone gli OGM sotto una «sorveglianza rinforzata» (art.22).

[48] Ad esempio il DPR 178/2001 contenente il regolamento di organizzazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.

[49] L’ultimo è il d.m. del 21 novembre 2001, questo fissa i prezzi per gli esami delle notifiche di immissione sul mercato (€ 3.098,74), di emissione deliberata per ricerca e sviluppo (€ 1.549,37), per gli esami della comunicazione (e relativa documentazione) di ogni significativa variazione successiva (€ 1.032,91) e per il rilascio di certificazioni di conformità (€ 51,65).

[50] D.lgs. 211/2003 in attuazione della dir. 2001/20 CE relativa «all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico».

[51] D.lgs. 184/2003 che attua la dir. 2001/37 CE in materia di lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco. Il decreto dispone l’identità assoluta di trattamento tra tabacco “tradizionale” e tabacco GM per tutto ciò che dallo stesso è disposto.

[52] Legge della regione Basilicata n. 18 del 20-05-2002 recante “Disposizioni per la precauzione in materia alimentare e per la coltivazione, l’allevamento, la sperimentazione e la commercializzazione di organismi modificati e di prodotti da essi derivati. Norme per la produzione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche”.

[53] Questo è contenuto solo nella legge della Regione Abruzzo, della Regione Umbria e della Regione Basilicata.

[54] Ad onor del vero la l. regionale 6 aprile 2000, n. 53 della Regione Toscana non menziona l’obbligo di comunicazione all’utente; lo stesso è però rimpiazzato da una più generale «campagna di informazione e di educazione del cittadino» attraverso programmi (della Giunta regionale) sull'educazione alimentare. Tale campagna è prevista anche per la Regione Abruzzo.

[55] La Regione Toscana, infine, ha inteso trattare la disciplina sul controllo del divieto di coltivazione con un regolamento ad hoc, il decreto del Presidente della Giunta Regionale n. 24/R del 17 maggio 2001.

[56] L’art. 2 pone quindi una sorta di elenco delle aree su cui insiste il divieto e distingue il divieto di coltivare ed allevare dal divieto d’uso. Il primo riguarda terreni di proprietà del demanio regionale, i terreni di proprietà collettiva ricadenti nel territorio regionale ed i siti inseriti negli elenchi predisposti dall’ARSA nell’ambito della rete regionale di protezione della biodiversità. Il divieto d’uso, invece, investe i territori di interesse comunitario, nazionale e regionale, le aree protette regionali, e le aree in cui si realizzano prodotti garantiti da un marchio di qualità riconosciuto dall’UE. 

[57] Così recita l’art 3: «Nelle more della messa a punto di protocolli idonei e specifici per la valutazione dei rischi di impatto sui sistemi agrari regionali, e fatte salve le emissioni autorizzate ai sensi della direttiva comunitaria in materia –cioè, per il passato, quelle autorizzate ai sensi sella dir. 220/90 –, è vietata la coltivazione in pieno campo, anche a fini sperimentali, su tutto il territorio regionale, di piante geneticamente modificate». L’art. 4 della legge della Regione Basilicata si differenzia da questo perché fa salva la sperimentazione autorizzata dal Ministero della Salute ai sensi del d.lgs. 206/2001 e non menziona direttive.

[58] Tale legge si intitola: «Disposizioni per la precauzione in materia alimentare e per la coltivazione, l’allevamento, la sperimentazione e la commercializzazione di organismi modificati e di prodotti da essi derivati. Norme per la produzione dei prodotti biologici, tipici e tradizionali nelle mense pubbliche».

[59] Con l’avvertenza che i divieti di coltivazione e di uso si applicano ad una più numerosa serie di aree. Il divieto di uso, ad esempio, riguarda le aree protette regionali, i territori di interesse collettivo regionale individuati ai sensi della legislazione vigente in materia, e le aree in cui si realizzano prodotti garantiti da un marchio o da una qualunque denominazione o specificazione di qualità riconosciuta dall’Unione Europea. Da rilevare inoltre che il divieto di coltivazione interessa, tra la altre zone, anche  i «terreni ricadenti in una fascia di rispetto di almeno due chilometri da qualunque azienda che segue i metodi dell’agricoltura biologica o che a qualunque titolo riceva sostegno per l’applicazione di misure agroambientali…».

[60] Così recita l’art. 2 c. 6: «Gli agricoltori — singoli o associati — e i proprietari di terreni, al fine di tutelare la qualità

delle loro produzioni e il valore ambientale dei loro beni, possono fare richiesta alla Regione di dichiarare i terreni di loro pertinenza privi della presenza di organismi geneticamente modificati. Nella zona di rispetto di almeno due chilometri da tali siti è fatto divieto di usare organismi geneticamente modificati, anche a soli fini sperimentali».

[61] Perché i gestori delle attività di ristorazione possano usufruire dei contributi citati è necessario che i pasti forniti dalle proprie mense siano costituiti per almeno il 30% da prodotti biologici, tradizionali e tipici (art. 11). L’entità del contributo è «nella misura massima del 30% calcolato sull’importo totale della spesa sostenuta nell’anno precedente dai soggetti indicati ...» (art. 12). In verità tale limite può arrivare al 50% se prodotti biologici, tradizionali e tipici sono ottenuti da aziende (locali) iscritte nell’elenco regionale degli operatori biologici (comprendente principalmente aziende agricole biologiche, aziende in conversione all’agricoltura biologica ed aziende i cui terreni siano stati dichiarati privi della presenza di organismi geneticamente modificati) e nell’elenco regionale delle aziende di produzione integrata. Vengono in tal modo privilegiate, seppur in maniera indiretta, le aziende agricole regionali non produttrici di OGM. L’amministrazione regionale può inoltre erogare contributi massimi del 50% «per iniziative di educazione alimentare degli utenti, di aggiornamento professionale del personale scolastico e addetto ai servizi di mensa».

[62] Difatti il divieto di somministrazione di prodotti OGM è trattato nel titolo concernente la «promozione, comunicazione e educazione alimentare» e non in quello concernente il consumo.

[63] Per dovere di precisione si riporta l’esatta formulazione dell’art.11 c.2: «I progetti di cui al comma 1 per essere ammessi al cofinanziamento devono prevedere la realizzazione di un insieme di azioni coordinate in grado di valorizzare le produzioni agroalimentari di qualità e tipiche e con diretta ricaduta sui produttori agricoli ed essere conformi agli orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo».

[64] Per i prodotti preliminari e intermedi è prevista una terza dichiarazione, sempre sotto la responsabilità dei produttori, che quei prodotti sono stati realizzati senza l’impiego dell’ingegneria genetica.

[65] Nell’effettuare questi controlli, gli organismi competenti al rilascio possono avvalersi di strutture di controllo qualificate individuate in un apposito regolamento.

[66] «Qualora il soggetto autorizzato alla concessione del contrassegno non dovesse assolvere regolarmente i compiti  assegnatigli dalla presente legge, tale autorizzazione viene revocata» (art.4 c.3).

[67] A norma dell’art. 9 c. 2 della citata legge del Friuli-Venezia Giulia, questi sono: a) chi contrassegna un prodotto senza essere autorizzato; b) chi abbia fornito dichiarazioni false, o, in violazione dell’articolo 7, comma 2, non comunichi eventuali variazioni dei requisiti per la richiesta al soggetto autorizzato alla concessione; c) chi contrassegna prodotti dopo che sono venuti meno i requisiti indicati nella richiesta.

[68] Le norme non si curano della dimensione dell’esercizio , giacché l’obbligo di verifica grava sia sulle grandi catene di distribuzione che sui commercianti al dettaglio.

[69] Art. 4 della l. n. 21 del 20-08-2001 della Regione Umbria..