AmbienteDiritto.it 

Sito giuridico ambientale                                                         Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


 

Consiglio Stato Sez. IV, 06 febbraio 2002, n. 664.

 

 

REPUBBLICA  ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

 

D E C I S I O N E

 

sul ricorso in appello iscritto al NRG 550 dell’anno 1995 proposto dal COMUNE DI ROMA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Mauro Martis, con il quale è elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’avvocatura municipale in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;

contro

SOCIETA’ PROGETTO SALARIA S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Federico Manucci, con il quale è elettivamente domiciliata in Roma, via G.D. Romagnosi n. 20;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I, n. 1354 del 17 settembre 1994;

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Società Progetto Salaria  s.r.l.;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive tesi difensive;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 30 ottobre 2001 il consigliere Carlo Saltelli;

Uditi l’avvocato Martis M. per la parte appellante e l’avvocato Mannucci F. per l’appellata;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue

 

F A T T O

 

  La S.r.l. Progetto Salaria, proprietaria nel Comune di Roma di un’area ubicata lungo la via Salaria, in catasto terreni al foglio n. 132, particella 388, estesa mq. 5130, 08, che, secondo le previsioni del piano regolatore generale approvato con D.P.R. del 16 dicembre 1965 (confermate dalla successiva variante approvata con delibera regionale del Lazio n. 689 del 1979) ricadeva in zona N (verde pubblico), con istanza del 22 marzo 1990, protocollata al n. 25428, chiedeva al Sindaco di Roma il rilascio di una concessione edilizia per la realizzazione di un complesso produttivo nei limiti di edificabilità previsti dall’articolo 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977 n 10, adducendo che il vincolo imposto su detta area era ormai scaduto ai sensi dell’art. 2 della legge 19 novembre 1968 n. 1187.

 

Con ordinanza n. 1731 del 30 novembre 1990 il Comune di Roma, sul presupposto che le opere per la cui realizzazione era stato chiesto il rilascio della concessione edilizia erano in contrasto con le previsioni della delibera della Giunta municipale n. 3622 del 4 giugno 1990 (riguardante l’adozione di una variante generale al piano regolatore per il reperimento di aree per servizi e verde pubblici e contenente la di riproposizione dei vincoli urbanistici decaduti), sospendeva ogni determinazione sull’istanza avanzata dalla S.r.l. Progetto Salaria.

 

Quest’ultima, con ricorso notificato il 29 gennaio 1991, chiedeva al Tribunale amministrativo regionale del Lazio l’annullamento della richiamata ordinanza soprassessoria  e della delibera della Giunta municipale n. 3622 del 4 giugno 1990, quale atto presupposto, articolando sette motivi di doglianza.

 

Dopo aver rilevato che sull’area in esame l’amministrazione comunale aveva meramente reiterato il vincolo scaduto, originariamente imposto per la costruzione di uno svincolo stradale ormai realizzato su altra area vicina (così che non sussisteva alcuna giustificazione della reiterazione del vincolo), la società ricorrente negava che la variante adottata dal Comune di Roma fosse effettivamente alla pianificazione urbanistica, evidenziandone la reale natura di mera misura di congelamento della situazione di fatto esistente, volta unicamente ad impedire il rilascio delle dovute concessioni edilizie: ciò trovava conferma nella stessa relazione di accompagnamento alla variante, che non solo era priva di qualsiasi giustificazione circa la necessità e l’attualità della reiterazione dei vincoli scaduti, per quanto rinviava inammissibilmente ad altri strumenti atipici la effettiva individuazione dell’uso delle aree nuovamente vincolate.

 

Ad avviso della società ricorrente, poi, la reiterazione dei vincoli scaduti era illegittima anche per la mancata previsione di un indennizzo in favore dei proprietari delle aree; ciò senza contare che erano stati anche erroneamente ed illegittimamente calcolati gli standards urbanistici e non erano state previste le necessarie aree per parcheggi privati, di cui alla legge n. 122 del 1989.

 

Il Comune di Roma resisteva al ricorso, chiedendone il rigetto.

 

 L’adito Tribunale, con la sentenza segnata in epigrafe 1994, accoglieva il ricorso e annullava gli atti impugnati, ritenendo sostanzialmente fondati i primi cinque motivi di ricorsi, respingendo invece il sesto motivo e considerando assorbito il settimo.

 

  In particolare, respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dal Comune di Roma sotto differenti profili, e rilevato che, come provato dalla società ricorrente con apposita documentazione, non specificamente ed adeguatamente contestata, era stato effettivamente realizzato lo svincolo stradale che aveva originariamente giustificato l’imposizione del vincolo, i primi giudici affermavano che la riproposizione di un vincolo urbanistico scaduto per inutile decorso del quinquennio di cui all’articolo 2 della legge 19 novembre 1968 n. 1187 da parte dell’amministrazione comunale può considerarsi legittima soltanto se basata, per un verso, su di una specifica e puntuale motivazione circa la persistente attualità dell’interesse pubblico da perseguire e, per altro verso, sulla serietà della previsione di realizzazione nel quinquennio successivo delle opere per le quali il vincolo stesso viene nuovamente imposto, da apprezzarsi sulla base delle concrete previe verifiche effettuate e delle risorse economiche destinate al pagamento delle indennità di espropriazione.

 

Pertanto, a loro avviso, era immotivata ed ingiustificata la reiterazione del vincolo sull’area di proprietà della società ricorrente, atteso che non solo era venuta meno la ragione che l’aveva originariamente giustificato, per quanto non vi era alcuna giustificazione, neppure nella relazione di accompagnamento, atta a giustificare la necessità ed attualità dei vincoli che venivano nuovamente imposti e non vi era alcuna previsione di indennizzo a favore dei proprietari delle aree vincolate.

 

Il Comune di Roma con atto notificato l’8 novembre 1994  ha chiesto l’annullamento di tale statuizione, articolando un unico motivo di censura rubricato “Violazione dei principi affermati con riferimento alla stessa variante con decisione TAR Lazio, sez. I n. 1985 del 1991 e n. 413 del 1992 e con decisione del Consiglio di Stato, sezione IV, 22.4.1994 n. 159. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 l. 1187/1968 e dell’art. 10 l. 1150/1942 e dei principi in materia di variante di P.R.G.”.

 

Lamentando che senza alcuna particolare motivazione i giudici di prime cure si erano discostati da un consolidato indirizzo giurisprudenziale, alla stregua del quale il ricorso della società Progetto Salaria S.r.l. avrebbe dovuto essere respinto, il comune di Roma: a) contestava la necessità di una motivazione specifica e puntuale in sede di adozione di una variante generale al piano regolatore, richiesta esclusivamente per le varianti specifiche; b) sottolineava che era specifico dovere della pubblica amministrazione evitare un incontrollato sfruttamento edificatorio delle aree e che, sotto tale profilo, in considerazione della specifica situazione urbanistica in cui versava la città di Roma, la delibera impugnata rispondeva all’esigenza di consentire, attraverso il ripristino di zonizzazioni pubblicistiche decadute, la realizzazione delle necessarie opere pubbliche, altrimenti precluse per il mancato supporto delle destinazioni di piani; c) rappresentava che i piani d’uso, la cui atipicità ai fini dell’ordinata gestione urbanistica del territorio era stata considerata sintomatica dei vizi denunciati dalla società ricorrente, erano in realtà strumenti operativi già previsti dal vigente piano regolatore generale, necessari per adeguare continuamente il piano regolatore generale alle esigenze urbanistiche che di volta in volta si prospettavano e per distribuire nel tempo le necessarie risorse finanziarie; d) rilevava che erroneamente era stata accolta anche la censura relativa alla mancata previsione dell’indennizzo, laddove un tale obbligo non era previsto dalla legge e osservava, aggiungendo inoltre che il relativo motivo, prospettato soltanto sotto il profilo della violazione di legge, era stato invece inammissibilmente accolto sotto il profilo dell’eccesso di potere per carenza di motivazione; e) quanto alla censura specifica di cui al primo motivo del ricorso di primo grado, contestava decisamente che il vincolo sull’area della società ricorrente era stato imposto originariamente per la sola realizzazione dello svincolo stradale, evidenziando che l’area in esame ricadeva in una zona sottoposta ad una pluralità di vincoli che non ne consentivano l’edificazione e chiedendo, in via del tutto subordinata, di disporre sul punto apposita attività istruttoria.

 

  La Soc. Progetto Salaria S.r.l. si è ritualmente costituita nel giudizio d’appello deducendo l’inammissibilità ed infondatezza del gravame.

 

  Le parti hanno poi illustrato le proprie difese con apposita memoria depositata in prossimità dell’udienza di discussione.

 

D I R I T T O

 

  I. La controversia all’esame della Sezione concerne la legittimità della delibera della Giunta municipale del Comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990, avente ad oggetto “Variante generale al P.R.G. per il reperimento di aree per servizi e verde pubblico” (atto presupposto), e dell’ordinanza sindacale prot. 1731 del 30 novembre 1990, con la quale è stata sospesa ogni determinazione in ordine all’istanza avanzata dalla Soc. Progetto Salaria S.r.l. in data 22 marzo 1990 per ottenere il rilascio di una concessione edilizia sull’area di sua proprietà, ubicata in Roma, lungo la via Salaria (in catasto terreni al foglio n. 132, particella 388, estesa mq. 5130, 08) per la realizzazione di un complesso produttivo.

 

  Il Comune di Roma rivendica la piena legittimità di tali provvedimenti che ritiene essere stati erroneamente annullati dalla sentenza n. 1354 del 17 settembre 1994 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sez. I), rilevando l’insussistenza dei riscontrati vizi di eccesso di potere per difetto di istruttoria e per motivazione generica, non pertinente e contraddittoria, nonché l’infondatezza della censura relativa alla mancata previsione dell’indennizzo da corrispondere per la reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti.

 

  La Soc. Progetto Salaria S.r.l. ha resistito al gravame, chiedendone il rigetto, in quanto inammissibile, oltre che l’infondato.

 

II. Al riguardo la Sezione osserva quanto segue.

 

  II.1. Devono essere esaminate in via preliminare le eccezioni di inammissibilità dell’appello sollevate dalla Società Progetta Salaria s.r.l. sia nella memoria di costituzione in giudizio, sia in quella depositata il 19 ottobre 2001.

II.1.1. Quanto alla prima, relativa alla mancata indicazione degli specifici motivi di appello, genericamente individuati con riferimento ad un determinato indirizzo giurisprudenziale favorevole alle tesi dell’amministrazione comunale, occorre rammentare che nella individuazione dei motivi di gravame deve aversi riguardo non solo alle censure espressamente enunciate dalla parte appellante, ma anche a quelle che, pur se non formalmente esposte in un titolo, possono essere desunte agevolmente dall’esposizione dei fatti e dal contesto del ricorso.

 

Una siffatta attività interpretativa rientra propriamente nella potestas iudicandi del giudice amministrativo cui spetta il compito di apprezzare le censure anche malamente o imprecisamente o impropriamente formulate, secondo un criterio sostanziale volto a privilegiare la volontà dell’appellante, così come desunta dall’esposizione del libello, con l’unico limite del divieto di introdurre censure non formulate e sempreché sia rispettato il fondamentale principio del contraddittorio (C.d.S., sez. IV, 14 novembre 1997 n. 1279; 20 ottobre 1992 n. 910; sez. V, 22 marzo 1999 n. 319: sez. VI, 22 marzo 1993 n. 107).

 

  Pertanto non è di ostacolo alla ammissibilità del gravame in esame la circostanza che l’amministrazione appellante abbia richiamato, quale censura alla impugnata sentenza, il più risalente indirizzo giurisprudenziale seguito dai primi giudici in altri casi analoghi e quello a cui si impronterebbe questo Consiglio Stato: dall’esame dell’atto di appello emerge infatti ictu oculi la volontà di ottenere la riforma della sentenza di primo grado contestando i motivi di censura appuntati avverso i provvedimenti impugnati in primo grado e ritenuti, invece, fondati dai giudici di primo grado.

 

II.1.2. La società appellata ha dedotto altresì che sarebbe venuto meno ogni interesse alla decisione dell’appello da parte del comune di Roma, atteso che il provvedimento soprassessorio impugnato avrebbe ormai esaurito definitivamente i suoi effetti, essendo decorsi oltre cinque anni dall’adozione della variante generale al piano regolatore generale senza che sia intervenuta la relativa approvazione regionale, e che la delibera n. 3622 del 4 giugno 1990, recante proprio l’adozione della variante generale al piano regolatore generale, sarebbe stata non solo travolta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 0 maggio 1999, ma addirittura annullata, con efficacia erga omnes, dalla decisione n. 24 del 22 dicembre 1999 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

 

Pur a voler prescindere dalla circostanza che l’amministrazione appellante nella memoria di discussione depositata il 19 ottobre 2001 ha rappresentato di aver adottato altri atti di pianificazioni urbanistica sul presupposto della variante generale della cui legittimità di discute, la Sezione osserva che l'invocata decisione n. 24 del 22 dicembre 1999 dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato ha annullato la delibera della Giunta municipale del Comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990 soltanto in parte qua ed esattamente soltanto per la questione relativa alla omessa previsione dell’indennizzo in favore dei proprietari delle aree nuovamente vincolate: pertanto dalla predetta decisione non deriva alcun effetto preclusivo di giudicato, non essendo intervenuto un annullamento con effetto erga omnes.

 

La ordinanza soprassessoria n. 1731 del 30 novembre 1990 è stata impugnata non per vizi propri, bensì per vizi di legittimità derivati dalla ricordata delibera della Giunta municipale n. 3622 del 4 giugno 1990, quale atto presupposto: in tal senso, sussiste in ogni caso l’interesse dell’amministrazione alla decisione dell’appello di cui si discute.

 

 II.1.3.  Alla stregua delle precedenti osservazioni l’appello, ritualmente notificato alla controparte, che ha svolto regolarmente le proprie difese, deve ritenersi sicuramente ammissibile.

 

II.2. Passando all’esame del merito dell’appello, si osserva che le questioni di diritto controverse afferiscono tutte alla esatta delimitazione dei poteri di pianificazione urbanistica del comune in sede di adozione di variante al piano regolatore generale: ciò ne consente un esame congiunto, alla luce dei principi enunciati da questo Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale in fattispecie analoghe (ex pluribus C.d.S., sez. IV, 16 marzo 2001, n. 1567; sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2934; sez. IV, 8 maggio 2000, n. 2639; A. P., 22 dicembre 1999, n. 24; Corte cost., 20 maggio 1999, n. 179), cui si rinvia a mente dell'art. 9, l. 21 luglio 2000, n. 205.

 

II.2.1. Giova innanzitutto rilevare che le varianti ai piani regolatori generali, possono essere distinte, in relazione alla loro funzione ed estensione, in varianti specifiche, varianti normative e varianti generali.

 

A parte le varianti normative, che concernono soltanto le norme di attuazione del piano regolatore generale (e non anche le planimetrie e quindi l’assetto urbanistico del territorio), la differenza tra le varianti specifiche e quelle generali si fonda su di un criterio spaziale di delimitazione del concreto potere esercitato di pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di rispondere a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le seconde consistono, in sostanza, in una nuova disciplina generale dell'assetto del territorio, resasi necessaria perché il piano regolatore generale ha durata indeterminata e quindi deve essere soggetto a revisioni periodiche.

 

La diversa consistenza spaziale e territoriale dell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica si riflette non solo sull’obbligo della motivazione e dell’istruttoria, che incombe all’autorità amministrativa (specie in considerazione di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, la dove esclude dall’obbligo di motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale, nel cui novero rientra lo strumento urbanistico generale, cfr. Cons. St., sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2934 cit.), ma anche in ordine al sindacato di legittimità esigibile dal giudice amministrativo.

 

E’ stato così affermato, per un verso, che le scelte effettuate dall'amministrazione all’atto dell'adozione del piano costituiscono apprezzamenti di merito sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, e per altro verso, che occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico discrezionale - seguiti nell’impostazione del piano stesso (cfr. C.d.S., Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24; sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 245; sez. IV, 24 dicembre 1999, n. 1943; sez. IV, 2 novembre 1995, n. 887, sez. IV, 25 febbraio 1988, n. 99), essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.

 

Tali evenienze sono state ravvisate nel superamento degli standards minimi di cui al D.M. 2 aprile 1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore deve essere riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; nella lesione dell'affidamento qualificato del privato, in ragione dell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio - rifiuto su una domanda di concessione (Ad. Plen. n. 24 del 1999, cit.; 8 gennaio 1986, n. 1) ovvero nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (C.d.S., sez. IV, 9 aprile 1999, n. 594).

 

  II.2.2. Ai fini della legittimità di una variante è perciò sufficiente, sotto il profilo della motivazione e dell’istruttoria, l’accertata esistenza di problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita dell’intera cittadinanza (quali ad esempio quelle dei parcheggi, della viabilità, del verde pubblico, etc.), problematiche che medio tempore si siano aggravate, non essendo per contro necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche (C.d.S., sez. IV, 1° aprile 1996 n. 407; 12 marzo 1996 n. 305; 15 luglio 1995 n. 541; 8 maggio 1995 n. 317).

 

Del resto, la stessa Corte Costituzionale con la ricordata sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, seguendo un’impostazione già tracciata dalla propria precedente decisione n. 575 del 1989, ha mostrato di ritenere legittima la reiterazione di vincoli scaduti qualora sia corredata da congrua e specifica motivazione sull’attualità della previsione, con l’avvertenza che quest’ultima è riferita all’attualità delle esigenze urbanistiche e non deve essere confusa con la scelta delle singole aree (sul punto, specificamente, A.P., 22 dicembre 1999 n. 24).

 

II.2.3. In ordine al problema dell’indennizzo in favore dei proprietari incisi da vincoli di inedificabilità assoluta propedeutici alla realizzazione di opere pubbliche, reiterati con la variante generale di cui si discute, deve ricordarsi che la Corte Costituzionale, con la più volte ricordata sentenza 20 maggio 1999, n. 179, ha dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli articoli 7, nn. 2, 3 e 4, l. 17 agosto 1942 n. 1150 e dell'art. 2, 1° comma, l. 19 novembre 1968, n. 1187, nella parte in cui consente all'amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino inedificabilità, senza previsione di indennizzo.

 

E’ stato precisato che restano fuori dall'area dell'indennizzabilità: i vincoli incidenti con carattere di generalità ed obiettività su intere categorie di beni, ivi compresi i vincoli  ambientali paesistici; i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile.

 

 L'adunanza plenaria di questo Consiglio (con la decisione 22 dicembre 1999 n. 24, pur essa già più volte citata) ha coerentemente statuito che l'amministrazione nel reiterare vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione dovrebbe prevedere il relativo indennizzo, con la conseguenza che sono illegittimi i provvedimenti urbanistici nella parta in cui omettono tale previsione (C.d.S., sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2934; 27 novembre 2000 n. 6309).

 

II.3. Ciò posto, l’appello proposto dal comune di Roma è in parte fondato e va quindi accolto, nei limiti qui appresso indicati.

 

II.3.1. Non sussiste, invero, il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza istruttoria, così come dedotto dalla società ricorrente in primo grado ed accolto dai primi giudici.

 

Dalla serena lettura della motivazione della delibera n. 3622 del 4 giugno 1990 della Giunta municipale del comune di Roma emerge che l’adozione della variante generale al piano regolatore generale si era resa indispensabile per il reperimento di aree da destinare a verde e a servizi, cercando in questo modo di ripristinare la dotazione di servizi e verde secondo i valori degli standards di cui al D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968; inoltre la riproposizione delle originarie aree costituiva l’unica soluzione possibile per carenza di valide alternative, sia nelle parti centrali della città, sia nelle parti periferiche.

 

Nella relazione di accompagnamento tale motivazione appare suffragata, anche a mezzo di apposite tabelle, da precisi riferimenti alle singole zone della città, tenendosi conto dei dati della popolazione aggiornata proprio al 1990.

 

L’adozione della variante generale peraltro non costituisce il frutto di una repentina ed estemporanea iniziativa dell’amministrazione comunale (quasi che la stessa si fosse resa improvvisamente contro della necessità di reperire aree per servizi e verde pubblico), ma appare inserirsi in una tormentata vicenda urbanistica che ha preso avvio dall’avvenuta approvazione da parte della Regione (delibera della giunta regionale n. 689 del 6 marzo 1979) di una precedente delibera di variante estesa a tutto il territorio comunale, in conseguenza della quale furono adottate una serie di varianti relative a settori territoriali di competenza delle circoscrizioni cittadini, volte soprattutto alla verifica della dotazione degli spazi pubblici ed alla tutela di territori dotati di valori ambientali, varianti non esaminate dalla Regione e annullati dal giudice amministrativo sul presupposto dell’inadeguatezza del sistema prescelto per procedere alla revisione dello strumento urbanistico: tutto ciò si ricava espressamente e puntualmente proprio dalla motivazione della ricordata delibera della giunta municipale n. 3622 del 1990.

 

E’ evidente dunque l’infondatezza dei rilievi di difetto di motivazione e di istruttoria appuntati nei confronti della delibera in esame, anche con riferimento alla presunta violazione degli standard urbanistici, non potendo non evidenziarsi come essi, come pure si rileva dalla motivazione e dalla relazione, sono complessivamente inferiori ai valori minimi stabiliti con decreto ministeriale.

 

Deve aggiungersi, peraltro, che proprio la tormentata vicenda in cui si colloca (e che giustifica) la adozione della variante generale al piano regolatore esclude l’esistenza di qualsiasi affidamento da parte della società ricorrente sulla destinazione urbanistica dell’area di sua proprietà al fine di una sua edificabilità e ciò anche a prescindere dal fatto, comunque rilevante ed assorbente, che non sussistono nel caso di specie gli estremi per la configurabilità di una di quelle situazioni, sopra ricordate, elaborate dalla giurisprudenza, sintomatiche di un affidamento.

 

II.3.2. L’acclarata esistenza di obiettive situazioni urbanistiche in presenza delle quali si è radicato e legittimato il potere di adottare una variante generale al piano regolatore generale esclude per converso la rilevanza del primo motivo di censura specifico prospettato dalla società ricorrente.

 

A parte la considerazione che il rapporto di conseguenzialità profilato dalla società ricorrente tra la previsione a verde pubblica dell’area di sua proprietà e la realizzazione del vincolo stradale non è stato punto dimostrato (e non può essere considerata provata una tale rilevante circostanza sulla base di una presunta mancata contestazione da parte della amministrazione resistente, così come sostenuto dai primi giudici), deve rilevarsi che, in ogni caso, come si ricava dalla lettura della documentazione in atti ed in particolare dall’attività istruttoria propedeutica all’emanazione dell’ordinanza n. 1731 del 30 novembre 1990, pure oggetto di impugnazione, l’area in argomento era assoggettata a vincoli ambientali e paesistici imposti dalla legge n. 431 dell’8 agosto 1985, ricadendo per la maggior parte entro i centocinquanta metri dal fiume Tevere (rapporto 25428 della XV Ripartizione del comune di Roma).

 

Sotto tale profilo la destinazione (confermata) a verde pubblico non è assolutamente irragionevole o illogica, per quanto essa sembra del tutto coerente con la stessa specifica situazione di fatto in cui versa l’area stessa.

 

Pertanto, sulla base delle considerazioni svolte, deve essere accolto l’appello proposto dal comune di Roma con conseguente rigetto dei corrispondenti motivi di ricorso in primo grado svolti dalla società ricorrente, ivi compresi quelli dichiarati assorbiti dai primi giudici e che non sono stati espressamente riproposti.

 

II.3.3. Deve tuttavia ritenersi fondato il motivo di censura proposto col ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, nella parte in cui la delibera della giunta municipale del comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990 è stata ritenuta illegittima per omessa  previsione dell’indennizzo delle aree nuovamente assoggettate a vincolo.

 

E’ stato infatti già ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, ha affermato che la reiterazione amministrativa di vincoli urbanistici di tipo espropriativo implicanti inedificabilità assume carattere patologico per la semplice assenza di previsione di indennizzo quando, anche se giustificata sul piano della programmazione, sia indefinita o quando il limite temporale sia indeterminato e quindi irragionevole, con la precisazione che l’obbligo di indennizzo opera soltanto una volta trascorso il tollerabile primo periodo di franchigia fissato dalla legge.

 

Nel caso di specie è pacifico che tale previsione sia stato omessa, tant’è che l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, chiamata a decidere su questioni del tutto simili a quelle in esame, ha già avuto modo di dichiarare l’illegittimità proprio della delibera della Giunta municipale del comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990, in parte qua, proprio per la mancata previsione dell’indennizzo in favore dei proprietari le cui aree sono state nuovamente sottoposto a vincolo (già scaduto).    

 

Sotto tale profilo l’appello va respinto e deve essere quindi confermato l’accoglimento del relativo motivo di censura svolto in primo grado, con conseguenziale annullamento in parte qua della delibera di adozione della variante generale al piano regolatore (n. 3622 del 4 giugno 1990).  

 

III. In conclusione l’appello spiegato dal comune di Roma deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione e conseguentemente la delibera n. 3622 del 4 giugno 1990 della Giunta municipale del comune di Roma resta annullata in parte qua, ovverosia limitatamente alla mancata previsione dell’indennizzo in favore della società proprietaria dell’area sottoposta nuovamente a vincolo.

 

Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate le spese di giudizio.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta) accoglie l’appello spiegato dal comune di Roma, nei sensi di cui in motivazione.

 

Dichiara compensate le spese di giudizio.

 

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 30 ottobre 2001, con la partecipazione dei signori:

VENTURINI       LUCIO               - Presidente

LA MEDICA      DOMENICO       - Consigliere

LAMBERTI        CESARE            - Consigliere

SCOLA              ALDO                - Consigliere

SALTELLI          CARLO             - Consigliere est.

L'estensore                                            Il Presidente

                

                 Il Segretario

Pubblicato il 6.2.2002

 

 

 

MASSIMA

Ai fini dell’ammissibilità dell’appello deve aversi riguardo non solo alle censure espressamente enunciate nel relativo atto, ma anche a quelle che, pur se non formalmente esposte in un titolo, possono essere desunte agevolmente dall’esposizione dei fatti e dal contesto del ricorso. Rientra propriamente nella potestas iudicandi del giudice amministrativo il compito di apprezzare le censure anche malamente o imprecisamente o impropriamente formulate, secondo un criterio sostanziale volto a privilegiare la volontà dell’appellante, così come desunta dall’esposizione del libello, con l’unico limite del divieto di introdurre censure non formulate e sempreché sia rispettato il fondamentale principio del contraddittorio.

La differenza tra le varianti specifiche e quelle generali (al piano regolatore generale) si fonda su di un criterio spaziale di delimitazione del concreto potere esercitato di pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di rispondere a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le seconde consistono, in sostanza, in una nuova disciplina generale dell'assetto del territorio, connesso alla stessa durata indeterminata dello strumento urbanistico ed alla necessità di assoggettarlo a revisioni periodiche. Le scelte effettuate dall'amministrazione all’atto dell'adozione del piano regolatore costituiscono apprezzamenti di merito sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità; dette scelte non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico discrezionale - seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni. Ai fini della legittimità di una variante è perciò sufficiente, sotto il profilo della motivazione e dell’istruttoria, l’accertata esistenza di problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita dell’intera cittadinanza (quali ad esempio quelle dei parcheggi, della viabilità, del verde pubblico, etc.), problematiche che medio tempore si siano aggravate, non essendo per contro necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche. Alla luce della sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, è  illegittima la delibera di adozione di una variante generale al piano regolatore che non contenga la previsione di indennizzo in favore dei proprietari incisi da vincoli di inedificabilità assoluta propedeutici alla realizzazione di opere pubbliche, reiterati con la stessa variante generale.