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Consiglio Stato Sez. IV, 06 febbraio 2002, n. 664.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
sul ricorso in appello iscritto al NRG 550 dell’anno 1995 proposto dal COMUNE DI ROMA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Mauro Martis, con il quale è elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’avvocatura municipale in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;
contro
SOCIETA’ PROGETTO SALARIA S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Federico Manucci, con il quale è elettivamente domiciliata in Roma, via G.D. Romagnosi n. 20;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I, n. 1354 del 17 settembre 1994;
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Società Progetto Salaria s.r.l.;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive tesi difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 30 ottobre 2001 il consigliere Carlo Saltelli;
Uditi l’avvocato Martis M. per la parte appellante e l’avvocato Mannucci F. per l’appellata;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue
La S.r.l. Progetto Salaria, proprietaria nel Comune di Roma di
un’area ubicata lungo la via Salaria, in catasto terreni al foglio n. 132,
particella 388, estesa mq. 5130, 08, che, secondo le previsioni del piano
regolatore generale approvato con D.P.R. del 16 dicembre 1965 (confermate dalla
successiva variante approvata con delibera regionale del Lazio n. 689 del 1979)
ricadeva in zona N (verde pubblico), con istanza del 22 marzo 1990,
protocollata al n. 25428, chiedeva al Sindaco di Roma il rilascio di una
concessione edilizia per la realizzazione di un complesso produttivo nei limiti
di edificabilità previsti dall’articolo 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio
1977 n 10, adducendo che il vincolo imposto su detta area era ormai scaduto ai
sensi dell’art. 2 della legge 19 novembre 1968 n. 1187.
Con ordinanza n. 1731 del 30 novembre 1990
il Comune di Roma, sul presupposto che le opere per la cui realizzazione era
stato chiesto il rilascio della concessione edilizia erano in contrasto con le
previsioni della delibera della Giunta municipale n. 3622 del 4 giugno 1990
(riguardante l’adozione di una variante generale al piano regolatore per il
reperimento di aree per servizi e verde pubblici e contenente la di
riproposizione dei vincoli urbanistici decaduti), sospendeva ogni
determinazione sull’istanza avanzata dalla S.r.l. Progetto Salaria.
Quest’ultima, con ricorso notificato il 29
gennaio 1991, chiedeva al Tribunale amministrativo regionale del Lazio
l’annullamento della richiamata ordinanza soprassessoria e della delibera della Giunta municipale n.
3622 del 4 giugno 1990, quale atto presupposto, articolando sette motivi di
doglianza.
Dopo aver rilevato che sull’area in esame
l’amministrazione comunale aveva meramente reiterato il vincolo scaduto,
originariamente imposto per la costruzione di uno svincolo stradale ormai
realizzato su altra area vicina (così che non sussisteva alcuna giustificazione
della reiterazione del vincolo), la società ricorrente negava che la variante
adottata dal Comune di Roma fosse effettivamente alla pianificazione
urbanistica, evidenziandone la reale natura di mera misura di congelamento
della situazione di fatto esistente, volta unicamente ad impedire il rilascio
delle dovute concessioni edilizie: ciò trovava conferma nella stessa relazione
di accompagnamento alla variante, che non solo era priva di qualsiasi
giustificazione circa la necessità e l’attualità della reiterazione dei vincoli
scaduti, per quanto rinviava inammissibilmente ad altri strumenti atipici la
effettiva individuazione dell’uso delle aree nuovamente vincolate.
Ad avviso della società ricorrente, poi,
la reiterazione dei vincoli scaduti era illegittima anche per la mancata
previsione di un indennizzo in favore dei proprietari delle aree; ciò senza
contare che erano stati anche erroneamente ed illegittimamente calcolati gli
standards urbanistici e non erano state previste le necessarie aree per
parcheggi privati, di cui alla legge n. 122 del 1989.
Il Comune di Roma resisteva al ricorso,
chiedendone il rigetto.
L’adito Tribunale, con la sentenza segnata in epigrafe 1994,
accoglieva il ricorso e annullava gli atti impugnati, ritenendo sostanzialmente
fondati i primi cinque motivi di ricorsi, respingendo invece il sesto motivo e
considerando assorbito il settimo.
In
particolare, respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate
dal Comune di Roma sotto differenti profili, e rilevato che, come provato dalla
società ricorrente con apposita documentazione, non specificamente ed adeguatamente
contestata, era stato effettivamente realizzato lo svincolo stradale che aveva
originariamente giustificato l’imposizione del vincolo, i primi giudici
affermavano che la riproposizione di un vincolo urbanistico scaduto per inutile
decorso del quinquennio di cui all’articolo 2 della legge 19 novembre 1968 n.
1187 da parte dell’amministrazione comunale può considerarsi legittima soltanto
se basata, per un verso, su di una specifica e puntuale motivazione circa la
persistente attualità dell’interesse pubblico da perseguire e, per altro verso,
sulla serietà della previsione di realizzazione nel quinquennio successivo
delle opere per le quali il vincolo stesso viene nuovamente imposto, da
apprezzarsi sulla base delle concrete previe verifiche effettuate e delle
risorse economiche destinate al pagamento delle indennità di espropriazione.
Pertanto, a loro avviso, era immotivata ed
ingiustificata la reiterazione del vincolo sull’area di proprietà della società
ricorrente, atteso che non solo era venuta meno la ragione che l’aveva
originariamente giustificato, per quanto non vi era alcuna giustificazione,
neppure nella relazione di accompagnamento, atta a giustificare la necessità ed
attualità dei vincoli che venivano nuovamente imposti e non vi era alcuna
previsione di indennizzo a favore dei proprietari delle aree vincolate.
Il Comune di Roma con atto notificato l’8
novembre 1994 ha chiesto l’annullamento
di tale statuizione, articolando un unico motivo di censura rubricato
“Violazione dei principi affermati con riferimento alla stessa variante con
decisione TAR Lazio, sez. I n. 1985 del 1991 e n. 413 del 1992 e con decisione
del Consiglio di Stato, sezione IV, 22.4.1994 n. 159. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 2 l. 1187/1968 e dell’art. 10 l. 1150/1942 e dei
principi in materia di variante di P.R.G.”.
Lamentando che senza alcuna particolare
motivazione i giudici di prime cure si erano discostati da un consolidato
indirizzo giurisprudenziale, alla stregua del quale il ricorso della società
Progetto Salaria S.r.l. avrebbe dovuto essere respinto, il comune di Roma: a)
contestava la necessità di una motivazione specifica e puntuale in sede di
adozione di una variante generale al piano regolatore, richiesta esclusivamente
per le varianti specifiche; b) sottolineava che era specifico dovere della
pubblica amministrazione evitare un incontrollato sfruttamento edificatorio
delle aree e che, sotto tale profilo, in considerazione della specifica
situazione urbanistica in cui versava la città di Roma, la delibera impugnata
rispondeva all’esigenza di consentire, attraverso il ripristino di zonizzazioni
pubblicistiche decadute, la realizzazione delle necessarie opere pubbliche,
altrimenti precluse per il mancato supporto delle destinazioni di piani; c)
rappresentava che i piani d’uso, la cui atipicità ai fini dell’ordinata
gestione urbanistica del territorio era stata considerata sintomatica dei vizi
denunciati dalla società ricorrente, erano in realtà strumenti operativi già
previsti dal vigente piano regolatore generale, necessari per adeguare
continuamente il piano regolatore generale alle esigenze urbanistiche che di
volta in volta si prospettavano e per distribuire nel tempo le necessarie
risorse finanziarie; d) rilevava che erroneamente era stata accolta anche la
censura relativa alla mancata previsione dell’indennizzo, laddove un tale
obbligo non era previsto dalla legge e osservava, aggiungendo inoltre che il
relativo motivo, prospettato soltanto sotto il profilo della violazione di
legge, era stato invece inammissibilmente accolto sotto il profilo dell’eccesso
di potere per carenza di motivazione; e) quanto alla censura specifica di cui
al primo motivo del ricorso di primo grado, contestava decisamente che il
vincolo sull’area della società ricorrente era stato imposto originariamente
per la sola realizzazione dello svincolo stradale, evidenziando che l’area in
esame ricadeva in una zona sottoposta ad una pluralità di vincoli che non ne
consentivano l’edificazione e chiedendo, in via del tutto subordinata, di
disporre sul punto apposita attività istruttoria.
La
Soc. Progetto Salaria S.r.l. si è ritualmente costituita nel giudizio d’appello
deducendo l’inammissibilità ed infondatezza del gravame.
Le
parti hanno poi illustrato le proprie difese con apposita memoria depositata in
prossimità dell’udienza di discussione.
I. La
controversia all’esame della Sezione concerne la legittimità della delibera
della Giunta municipale del Comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990, avente ad
oggetto “Variante generale al P.R.G. per il reperimento di aree per servizi e
verde pubblico” (atto presupposto), e dell’ordinanza sindacale prot. 1731 del
30 novembre 1990, con la quale è stata sospesa ogni determinazione in ordine
all’istanza avanzata dalla Soc. Progetto Salaria S.r.l. in data 22 marzo 1990
per ottenere il rilascio di una concessione edilizia sull’area di sua
proprietà, ubicata in Roma, lungo la via Salaria (in catasto terreni al foglio
n. 132, particella 388, estesa mq. 5130, 08) per la realizzazione di un
complesso produttivo.
Il
Comune di Roma rivendica la piena legittimità di tali provvedimenti che ritiene
essere stati erroneamente annullati dalla sentenza n. 1354 del 17 settembre
1994 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sez. I), rilevando
l’insussistenza dei riscontrati vizi di eccesso di potere per difetto di
istruttoria e per motivazione generica, non pertinente e contraddittoria,
nonché l’infondatezza della censura relativa alla mancata previsione
dell’indennizzo da corrispondere per la reiterazione dei vincoli urbanistici
scaduti.
La Soc. Progetto Salaria S.r.l. ha resistito al
gravame, chiedendone il rigetto, in quanto inammissibile, oltre che
l’infondato.
II. Al riguardo la Sezione osserva quanto
segue.
II.1. Devono essere esaminate in via preliminare le eccezioni di inammissibilità dell’appello sollevate dalla Società Progetta Salaria s.r.l. sia nella memoria di costituzione in giudizio, sia in quella depositata il 19 ottobre 2001.
II.1.1. Quanto alla prima, relativa alla
mancata indicazione degli specifici motivi di appello, genericamente
individuati con riferimento ad un determinato indirizzo giurisprudenziale
favorevole alle tesi dell’amministrazione comunale, occorre rammentare che
nella individuazione dei motivi di gravame deve aversi riguardo non solo alle
censure espressamente enunciate dalla parte appellante, ma anche a quelle che,
pur se non formalmente esposte in un titolo, possono essere desunte agevolmente
dall’esposizione dei fatti e dal contesto del ricorso.
Una siffatta attività interpretativa
rientra propriamente nella potestas
iudicandi del giudice amministrativo cui spetta il compito di apprezzare
le censure anche malamente o imprecisamente o impropriamente formulate, secondo
un criterio sostanziale volto a privilegiare la volontà dell’appellante, così
come desunta dall’esposizione del libello, con l’unico limite del divieto di
introdurre censure non formulate e sempreché sia rispettato il fondamentale principio
del contraddittorio (C.d.S., sez. IV, 14 novembre 1997 n. 1279; 20 ottobre 1992
n. 910; sez. V, 22 marzo 1999 n. 319: sez. VI, 22 marzo 1993 n. 107).
Pertanto
non è di ostacolo alla ammissibilità del gravame in esame la circostanza che
l’amministrazione appellante abbia richiamato, quale censura alla impugnata
sentenza, il più risalente indirizzo giurisprudenziale seguito dai primi
giudici in altri casi analoghi e quello a cui si impronterebbe questo Consiglio
Stato: dall’esame dell’atto di appello emerge infatti ictu oculi la volontà di ottenere la riforma della sentenza di
primo grado contestando i motivi di censura appuntati avverso i provvedimenti
impugnati in primo grado e ritenuti, invece, fondati dai giudici di primo
grado.
II.1.2. La società appellata ha dedotto
altresì che sarebbe venuto meno ogni interesse alla decisione dell’appello da
parte del comune di Roma, atteso che il provvedimento soprassessorio impugnato
avrebbe ormai esaurito definitivamente i suoi effetti, essendo decorsi oltre cinque
anni dall’adozione della variante generale al piano regolatore generale senza
che sia intervenuta la relativa approvazione regionale, e che la delibera n.
3622 del 4 giugno 1990, recante proprio l’adozione della variante generale al
piano regolatore generale, sarebbe stata non solo travolta dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 179 del 0 maggio 1999, ma addirittura annullata, con
efficacia erga omnes, dalla
decisione n. 24 del 22 dicembre 1999 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato.
Pur a voler prescindere dalla circostanza
che l’amministrazione appellante nella memoria di discussione depositata il 19
ottobre 2001 ha rappresentato di aver adottato altri atti di pianificazioni
urbanistica sul presupposto della variante generale della cui legittimità di
discute, la Sezione osserva che l'invocata decisione n. 24 del 22 dicembre 1999
dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato ha annullato la delibera
della Giunta municipale del Comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990 soltanto in
parte qua ed esattamente
soltanto per la questione relativa alla omessa previsione dell’indennizzo in
favore dei proprietari delle aree nuovamente vincolate: pertanto dalla predetta
decisione non deriva alcun effetto preclusivo di giudicato, non essendo intervenuto
un annullamento con effetto erga
omnes.
La ordinanza soprassessoria n. 1731 del 30
novembre 1990 è stata impugnata non per vizi propri, bensì per vizi di
legittimità derivati dalla ricordata delibera della Giunta municipale n. 3622
del 4 giugno 1990, quale atto presupposto: in tal senso, sussiste in ogni caso
l’interesse dell’amministrazione alla decisione dell’appello di cui si discute.
II.1.3. Alla stregua delle
precedenti osservazioni l’appello, ritualmente notificato alla controparte, che
ha svolto regolarmente le proprie difese, deve ritenersi sicuramente
ammissibile.
II.2. Passando all’esame del merito
dell’appello, si osserva che le questioni di diritto controverse afferiscono
tutte alla esatta delimitazione dei poteri di pianificazione urbanistica del
comune in sede di adozione di variante al piano regolatore generale: ciò ne
consente un esame congiunto, alla luce dei principi enunciati da questo
Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale in fattispecie analoghe (ex
pluribus C.d.S., sez. IV, 16 marzo 2001, n. 1567; sez. IV, 22 maggio 2000, n.
2934; sez. IV, 8 maggio 2000, n. 2639; A. P., 22 dicembre 1999, n. 24; Corte
cost., 20 maggio 1999, n. 179), cui si rinvia a mente dell'art. 9, l. 21 luglio
2000, n. 205.
II.2.1. Giova innanzitutto rilevare che le
varianti ai piani regolatori generali, possono essere distinte, in relazione
alla loro funzione ed estensione, in varianti specifiche, varianti normative e
varianti generali.
A parte le varianti normative, che
concernono soltanto le norme di attuazione del piano regolatore generale (e non
anche le planimetrie e quindi l’assetto urbanistico del territorio), la
differenza tra le varianti specifiche e quelle generali si fonda su di un
criterio spaziale di delimitazione del concreto potere esercitato di
pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto
una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di
rispondere a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le
seconde consistono, in sostanza, in una nuova disciplina generale dell'assetto
del territorio, resasi necessaria perché il piano regolatore generale ha durata
indeterminata e quindi deve essere soggetto a revisioni periodiche.
La diversa consistenza spaziale e territoriale
dell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica si riflette non solo
sull’obbligo della motivazione e dell’istruttoria, che incombe all’autorità
amministrativa (specie in considerazione di quanto previsto dal secondo comma
dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, la dove esclude dall’obbligo di motivazione
gli atti normativi e quelli a contenuto generale, nel cui novero rientra lo
strumento urbanistico generale, cfr. Cons. St., sez. IV, 22 maggio 2000, n.
2934 cit.), ma anche in ordine al sindacato di legittimità esigibile dal
giudice amministrativo.
E’ stato così affermato, per un verso, che
le scelte effettuate dall'amministrazione all’atto dell'adozione del piano
costituiscono apprezzamenti di merito sottratte al sindacato di legittimità,
salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, e per
altro verso, che occasione della formazione di uno strumento urbanistico
generale, le scelte discrezionali dell’amministrazione riguardo alla
destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico
discrezionale - seguiti nell’impostazione del piano stesso (cfr. C.d.S., Ad.
Plen., 22 dicembre 1999, n. 24; sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 245; sez. IV, 24 dicembre
1999, n. 1943; sez. IV, 2 novembre 1995, n. 887, sez. IV, 25 febbraio 1988, n.
99), essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di
accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale,
salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti
in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni.
Tali evenienze sono state ravvisate nel
superamento degli standards
minimi di cui al D.M. 2 aprile 1968, con l'avvertenza che la motivazione
ulteriore deve essere riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree; nella lesione dell'affidamento qualificato
del privato, in ragione dell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, accordi
di diritto privato intercorsi tra il comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio - rifiuto su una domanda di concessione (Ad. Plen. n. 24
del 1999, cit.; 8 gennaio 1986, n. 1) ovvero nella modificazione in zona
agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati
in modo non abusivo (C.d.S., sez. IV, 9 aprile 1999, n. 594).
II.2.2.
Ai fini della legittimità di una variante è perciò sufficiente, sotto il
profilo della motivazione e dell’istruttoria, l’accertata esistenza di
problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non
arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita
dell’intera cittadinanza (quali ad esempio quelle dei parcheggi, della
viabilità, del verde pubblico, etc.), problematiche che medio tempore si siano aggravate, non essendo per contro necessaria
una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua
specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche (C.d.S., sez. IV, 1° aprile
1996 n. 407; 12 marzo 1996 n. 305; 15 luglio 1995 n. 541; 8 maggio 1995 n.
317).
Del resto, la stessa Corte Costituzionale
con la ricordata sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, seguendo un’impostazione
già tracciata dalla propria precedente decisione n. 575 del 1989, ha mostrato
di ritenere legittima la reiterazione di vincoli scaduti qualora sia corredata
da congrua e specifica motivazione sull’attualità della previsione, con
l’avvertenza che quest’ultima è riferita all’attualità delle esigenze
urbanistiche e non deve essere confusa con la scelta delle singole aree (sul
punto, specificamente, A.P., 22 dicembre 1999 n. 24).
II.2.3. In ordine al problema
dell’indennizzo in favore dei proprietari incisi da vincoli di inedificabilità
assoluta propedeutici alla realizzazione di opere pubbliche, reiterati con la
variante generale di cui si discute, deve ricordarsi che la Corte
Costituzionale, con la più volte ricordata sentenza 20 maggio 1999, n. 179, ha
dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli articoli 7, nn. 2, 3 e
4, l. 17 agosto 1942 n. 1150 e dell'art. 2, 1° comma, l. 19 novembre 1968, n.
1187, nella parte in cui consente all'amministrazione di reiterare i vincoli
urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino
inedificabilità, senza previsione di indennizzo.
E’ stato precisato che restano fuori
dall'area dell'indennizzabilità: i vincoli incidenti con carattere di
generalità ed obiettività su intere categorie di beni, ivi compresi i
vincoli ambientali paesistici; i
vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione
urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili
anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i
vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità
e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta
ragionevolmente sopportabile.
L'adunanza plenaria di questo Consiglio (con la decisione 22
dicembre 1999 n. 24, pur essa già più volte citata) ha coerentemente statuito
che l'amministrazione nel reiterare vincoli urbanistici preordinati
all'espropriazione dovrebbe prevedere il relativo indennizzo, con la
conseguenza che sono illegittimi i provvedimenti urbanistici nella parta in cui
omettono tale previsione (C.d.S., sez. IV, 22 maggio 2000, n. 2934; 27 novembre
2000 n. 6309).
II.3. Ciò posto, l’appello proposto dal
comune di Roma è in parte fondato e va quindi accolto, nei limiti qui appresso
indicati.
II.3.1. Non sussiste, invero, il vizio di
eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza istruttoria, così come
dedotto dalla società ricorrente in primo grado ed accolto dai primi giudici.
Dalla serena lettura della motivazione
della delibera n. 3622 del 4 giugno 1990 della Giunta municipale del comune di
Roma emerge che l’adozione della variante generale al piano regolatore generale
si era resa indispensabile per il reperimento di aree da destinare a verde e a
servizi, cercando in questo modo di ripristinare la dotazione di servizi e
verde secondo i valori degli standards di cui al D.M. n. 1444 del 2 aprile
1968; inoltre la riproposizione delle originarie aree costituiva l’unica
soluzione possibile per carenza di valide alternative, sia nelle parti centrali
della città, sia nelle parti periferiche.
Nella relazione di accompagnamento tale
motivazione appare suffragata, anche a mezzo di apposite tabelle, da precisi
riferimenti alle singole zone della città, tenendosi conto dei dati della
popolazione aggiornata proprio al 1990.
L’adozione della variante generale
peraltro non costituisce il frutto di una repentina ed estemporanea iniziativa
dell’amministrazione comunale (quasi che la stessa si fosse resa
improvvisamente contro della necessità di reperire aree per servizi e verde
pubblico), ma appare inserirsi in una tormentata vicenda urbanistica che ha
preso avvio dall’avvenuta approvazione da parte della Regione (delibera della
giunta regionale n. 689 del 6 marzo 1979) di una precedente delibera di
variante estesa a tutto il territorio comunale, in conseguenza della quale
furono adottate una serie di varianti relative a settori territoriali di
competenza delle circoscrizioni cittadini, volte soprattutto alla verifica
della dotazione degli spazi pubblici ed alla tutela di territori dotati di
valori ambientali, varianti non esaminate dalla Regione e annullati dal giudice
amministrativo sul presupposto dell’inadeguatezza del sistema prescelto per
procedere alla revisione dello strumento urbanistico: tutto ciò si ricava
espressamente e puntualmente proprio dalla motivazione della ricordata delibera
della giunta municipale n. 3622 del 1990.
E’ evidente dunque l’infondatezza dei
rilievi di difetto di motivazione e di istruttoria appuntati nei confronti
della delibera in esame, anche con riferimento alla presunta violazione degli
standard urbanistici, non potendo non evidenziarsi come essi, come pure si
rileva dalla motivazione e dalla relazione, sono complessivamente inferiori ai
valori minimi stabiliti con decreto ministeriale.
Deve aggiungersi, peraltro, che proprio la
tormentata vicenda in cui si colloca (e che giustifica) la adozione della
variante generale al piano regolatore esclude l’esistenza di qualsiasi
affidamento da parte della società ricorrente sulla destinazione urbanistica
dell’area di sua proprietà al fine di una sua edificabilità e ciò anche a
prescindere dal fatto, comunque rilevante ed assorbente, che non sussistono nel
caso di specie gli estremi per la configurabilità di una di quelle situazioni,
sopra ricordate, elaborate dalla giurisprudenza, sintomatiche di un
affidamento.
II.3.2. L’acclarata esistenza di obiettive
situazioni urbanistiche in presenza delle quali si è radicato e legittimato il
potere di adottare una variante generale al piano regolatore generale esclude
per converso la rilevanza del primo motivo di censura specifico prospettato
dalla società ricorrente.
A parte la considerazione che il rapporto
di conseguenzialità profilato dalla società ricorrente tra la previsione a
verde pubblica dell’area di sua proprietà e la realizzazione del vincolo
stradale non è stato punto dimostrato (e non può essere considerata provata una
tale rilevante circostanza sulla base di una presunta mancata contestazione da
parte della amministrazione resistente, così come sostenuto dai primi giudici),
deve rilevarsi che, in ogni caso, come si ricava dalla lettura della documentazione
in atti ed in particolare dall’attività istruttoria propedeutica all’emanazione
dell’ordinanza n. 1731 del 30 novembre 1990, pure oggetto di impugnazione,
l’area in argomento era assoggettata a vincoli ambientali e paesistici imposti
dalla legge n. 431 dell’8 agosto 1985, ricadendo per la maggior parte entro i
centocinquanta metri dal fiume Tevere (rapporto 25428 della XV Ripartizione del
comune di Roma).
Sotto tale profilo la destinazione
(confermata) a verde pubblico non è assolutamente irragionevole o illogica, per
quanto essa sembra del tutto coerente con la stessa specifica situazione di
fatto in cui versa l’area stessa.
Pertanto, sulla base delle considerazioni
svolte, deve essere accolto l’appello proposto dal comune di Roma con
conseguente rigetto dei corrispondenti motivi di ricorso in primo grado svolti
dalla società ricorrente, ivi compresi quelli dichiarati assorbiti dai primi
giudici e che non sono stati espressamente riproposti.
II.3.3. Deve tuttavia ritenersi fondato il
motivo di censura proposto col ricorso introduttivo del giudizio di primo
grado, nella parte in cui la delibera della giunta municipale del comune di
Roma n. 3622 del 4 giugno 1990 è stata ritenuta illegittima per omessa previsione dell’indennizzo delle aree
nuovamente assoggettate a vincolo.
E’ stato infatti già ricordato che la
Corte Costituzionale, con la sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, ha affermato
che la reiterazione amministrativa di vincoli urbanistici di tipo espropriativo
implicanti inedificabilità assume carattere patologico per la semplice assenza
di previsione di indennizzo quando, anche se giustificata sul piano della
programmazione, sia indefinita o quando il limite temporale sia indeterminato e
quindi irragionevole, con la precisazione che l’obbligo di indennizzo opera
soltanto una volta trascorso il tollerabile primo periodo di franchigia fissato
dalla legge.
Nel caso di specie è pacifico che tale
previsione sia stato omessa, tant’è che l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio
di Stato, chiamata a decidere su questioni del tutto simili a quelle in esame,
ha già avuto modo di dichiarare l’illegittimità proprio della delibera della
Giunta municipale del comune di Roma n. 3622 del 4 giugno 1990, in parte qua, proprio per la mancata
previsione dell’indennizzo in favore dei proprietari le cui aree sono state
nuovamente sottoposto a vincolo (già scaduto).
Sotto tale profilo l’appello va respinto e
deve essere quindi confermato l’accoglimento del relativo motivo di censura
svolto in primo grado, con conseguenziale annullamento in parte qua della delibera di adozione
della variante generale al piano regolatore (n. 3622 del 4 giugno 1990).
III. In conclusione l’appello spiegato dal
comune di Roma deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione e
conseguentemente la delibera n. 3622 del 4 giugno 1990 della Giunta municipale
del comune di Roma resta annullata in parte
qua, ovverosia limitatamente alla mancata previsione dell’indennizzo in
favore della società proprietaria dell’area sottoposta nuovamente a vincolo.
Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(sezione quarta) accoglie l’appello spiegato dal comune di Roma, nei sensi di
cui in motivazione.
Dichiara compensate le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia
eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 30 ottobre 2001, con la partecipazione dei signori:
VENTURINI LUCIO - Presidente
LA MEDICA DOMENICO - Consigliere
LAMBERTI CESARE - Consigliere
SCOLA ALDO - Consigliere
SALTELLI CARLO - Consigliere est.
L'estensore Il Presidente
Il Segretario
Pubblicato il 6.2.2002
Ai fini dell’ammissibilità dell’appello deve aversi riguardo non solo alle censure espressamente enunciate nel relativo atto, ma anche a quelle che, pur se non formalmente esposte in un titolo, possono essere desunte agevolmente dall’esposizione dei fatti e dal contesto del ricorso. Rientra propriamente nella potestas iudicandi del giudice amministrativo il compito di apprezzare le censure anche malamente o imprecisamente o impropriamente formulate, secondo un criterio sostanziale volto a privilegiare la volontà dell’appellante, così come desunta dall’esposizione del libello, con l’unico limite del divieto di introdurre censure non formulate e sempreché sia rispettato il fondamentale principio del contraddittorio.
La differenza tra le varianti specifiche e quelle generali (al piano regolatore generale) si fonda su di un criterio spaziale di delimitazione del concreto potere esercitato di pianificazione urbanistica, nel senso che mentre le prime interessano soltanto una parte del territorio comunale (e rispondono quindi all’esigenza di rispondere a sopravvenute necessità urbanistiche parziali e localizzate), le seconde consistono, in sostanza, in una nuova disciplina generale dell'assetto del territorio, connesso alla stessa durata indeterminata dello strumento urbanistico ed alla necessità di assoggettarlo a revisioni periodiche. Le scelte effettuate dall'amministrazione all’atto dell'adozione del piano regolatore costituiscono apprezzamenti di merito sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità; dette scelte non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali – di ordine tecnico discrezionale - seguiti nell’impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni. Ai fini della legittimità di una variante è perciò sufficiente, sotto il profilo della motivazione e dell’istruttoria, l’accertata esistenza di problematiche, anche di ordine generale, purché concrete ed attuali, non arbitrarie o illogiche, che incidono in senso negativo sulle condizioni di vita dell’intera cittadinanza (quali ad esempio quelle dei parcheggi, della viabilità, del verde pubblico, etc.), problematiche che medio tempore si siano aggravate, non essendo per contro necessaria una rinnovata indagine su ogni singola area al fine di giustificarne la sua specifica idoneità a soddisfare esigenze pubbliche. Alla luce della sentenza n. 179 del 20 maggio 1999, è illegittima la delibera di adozione di una variante generale al piano regolatore che non contenga la previsione di indennizzo in favore dei proprietari incisi da vincoli di inedificabilità assoluta propedeutici alla realizzazione di opere pubbliche, reiterati con la stessa variante generale.