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Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. del 7 maggio 2002, n. 2441.

 

 

REPUBBLICAITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

 

D E C I S I O N E

 

sul ricorso in appello n. 1853/1993, proposto dalla SPA Acciaierie di Cornigliano, in persona dell’Amministratore unico p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Sergio Pandolfi e Paolo Vaiano, presso lo studio del quale domicilia in Roma Lungotevere Marzio n. 3

contro

la Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Lucio Florino e domiciliata in Roma via S. Caterina da Siena (studio D’Alessio)

nonché contro

il Comune di Genova, in persona del Commissario straordinario pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. ti Pasquale Germani ed Enrico Romanelli, presso il quale domicilia in Roma via Cosseria n. 5

e nei confronti

della Provincia di Genova, non costituita in giudizio

nonché

dell’Associazione in difesa dell’occupazione, non costituita in giudizio
per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale  per la Liguria, I Sez., 27 gennaio 1992 n. 32;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione della Regione Liguria e del comune di Genova;

Viste le memorie prodotte dalle parti;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 22 gennaio 2002 il Consigliere  Antonino Anastasi; udito per l’appellante l'avvocato Resta su delega dell'avvocato Vaiano e l’avv. Romanelli per il comune di Genova;    

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

 

FATTO

 

Con  14 separati ricorsi al TAR Liguria la SPA Acciaierie di Cornigliano (già Cogea) ha impugnato diversi provvedimenti adottati dalla Regione Liguria tra il 1986 ed il 1990 ed aventi in generale ad oggetto determinazioni circa le emissioni atmosferiche dello stabilimento siderurgico gestito dalla Società in località Cornigliano.

Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR ha respinto i ricorsi nn. 1143/89, 539/90 (in parte qua) e 2051/90, dichiarando invece inammissibili o improcedibili gli altri.

Avverso tale sentenza, e limitatamente alla parte relativa al rigetto dei  ricorsi ora richiamati, propone appello la SPA Acciaierie di Cornigliano deducendo i motivi di cui appresso.

In riferimento alla decisione sul  ric. n. 1143/89 ( volto ad impugnare la deliberazione della GR n. 3109 del 1989 recante diffida ed ordine di sospensione dell’attività produttiva nello stabilimento) è dedotta in appello la violazione dell’art. 10 lett. b) DPR n. 203 del 1988, sotto il profilo del difetto dei presupposti, della carenza di istruttoria e dello sviamento.

Sostiene in sostanza l’appellante che la situazione di grave pericolo – sulla scorta della quale la Regione ha adottato il provvedimento de quo – non è stata accertata mediante adeguata istruttoria ed era in realtà insussistente, dovendosi invece ritenere che la Amministrazione sia stata mossa dall’intento di costringere la Società ad adottare misure di contenimento delle emissioni non previste dalla legge.

Con riferimento alla decisione sul  ric. n. 539/90 ( volto ad impugnare la delibera GR n. 62/90 recante fissazione dei limiti massimi di emissione consentiti e dei termini per l’adeguamento degli impianti, con divieto di riattivazione di alcuni altiforni) l’appellante osserva che il Tribunale, ritenuto che il contenuto puntualmente prescrittivo della deliberazione fosse stato superato dalla sopravvenuta emanazione di altre delibere, ha esaminato soltanto i motivi di ricorso relativi alla sussistenza del potere autorizzatorio esercitato dalla Regione, dichiarando improcedibili tutti i motivi volti a contestare nello specifico le prescrizioni regionali.

Di tale statuizione l’appellante deduce l’erroneità, osservando da un lato che la persistenza dell’interesse alla decisione va valutata globalmente in relazione alla posizione giuridica del ricorrente e non in rapporto ai singoli motivi, e dall’altro che le prescrizioni – poi sostituite – hanno comunque spiegato effetto sia pure per un limitato periodo di tempo: di qui la riproposizione dei motivi ritenuti improcedibili in primo grado.

Con riferimento alla decisione sul ric. n. 2051/90 ( volto ad impugnare le delibere GR nn. 4303 e 4754 del 1990 recanti nuove prescrizioni per l’adeguamento degli impianti) l’appellante contesta innanzi tutto la sussistenza dei presupposti legali abilitanti all’ adozione delle misure in controversia, in realtà varate dalla Regione – con relativo sviamento – per fini di diversa natura.

Dopo aver ribadito i vizi di natura procedimentale e di incompetenza dedotti in primo grado, l’appellante contesta poi da un lato che la Regione potesse imporre studi di fattibilità su tecnologie non disponibili ai sensi dell’art. 13 DPR n. 203 del 1988 e dall’altro la ritenuta inapplicabilità agli altiforni nn. 3 e 4  delle norme di salvaguardia transitoria dettate per gli impianti esistenti.

Infine l’appellante,  rilevato che i termini di adeguamento prescritti dalla Regione sono in realtà illegittimamente inferiori a quelli fissati dall’art. 5 DM 12.7.1990, ricorda come per questa parte l’efficacia del provvedimento regionale fu cautelarmente sospesa dalla Sezione con ord. 475/1991.

Si sono costituiti la Regione Liguria, che insiste con articolata memoria per il rigetto dell’appello, ed il Comune di Genova il quale, con memoria depositata in prossimità dell’Udienza, eccepisce tra l’altro l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse.

All’udienza del  22 gennaio 2002 il ricorso è stato posto in decisione.

 

DIRITTO

 

L’eccezione di improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse, sollevata dal resistente Comune di Genova, va disattesa.

Al riguardo è da riconoscere che in pendenza del giudizio sono entrate in vigore varie disposizioni ( art. 4 commi 8, 9 e 10 L. 9.12.1998 n. 426 nonché soprattutto da ultimo art. 53 L. 28.12.2001 n. 448 ) aventi ad oggetto il risanamento dell’area ove insiste l’impianto siderurgico di Cornigliano, nell’ambito del quale è ormai prevista la definitiva chiusura di tutte le lavorazioni a  caldo.

Tali sopravvenienze, anche se tolgono il sapore dell’attualità alle problematiche in controversia, non sembrano però elidere l’interesse dell’appellante ad una decisione di merito: in proposito continua infatti a rilevare, oltre all’eventuale profilo risarcitorio, l’interesse morale  della Società ad ottenere una pronuncia di merito sulla legittimità di provvedimenti per la violazione dei quali sarebbe tra l’altro – stando alle deduzioni di parte - aperto processo in sede penale.

Dovendosi in conclusione escludere che si sia verificata una situazione tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza ( cfr. Sez. IV 30 gennaio 2001 n. 334) l’eccezione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse va quindi disattesa.

Nel merito, l’appello è infondato.

Con il primo gruppo di motivi l’appellante censura il capo di sentenza relativo al rigetto del ricorso n. 1143/89, col quale era stata impugnata la delibera della Giunta Regionale 22.6.1989 n. 3109 recante diffida per l’esecuzione di interventi di contenimento delle emissioni inquinanti nello stabilimento di Cornigliano e, nelle more, ordine di sospensione dell’attività produttiva.

Come sopra diffusamente riferito, l’appellante contesta – sia sotto il profilo sostanziale sia per quanto attiene alla completezza dell’istruttoria – la sussistenza di una situazione di pericolo tale da giustificare l’ordine di sospensione.

Le censure in rassegna, che possono essere unitariamente considerate, non hanno il benchè minimo fondamento.

Il D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 ( recante Attuazione delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di qualità dell'aria, relativamente a specifici agenti inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali) così recita all’art. 10:

“In caso di inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie, l'autorità regionale competente procede secondo la gravità delle infrazioni:

alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere eliminate le irregolarità;

alla diffida e contestuale sospensione della attività autorizzata per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute e/o per l'ambiente;

alla revoca dell'autorizzazione e alla chiusura dell'impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazioni di pericolo e di danno per la salute e/o per l'ambiente, ai sensi dell'art. 15 della legge 16 aprile 1987 n. 183”.

Come sembra evidente dal tenore delle disposizioni ora trascritte, il manifestarsi della situazione di pericolo rilevante ai fini della temporanea sospensione dell’attività inquinante non postula il concreto verificarsi di eventi dannosi quanto il profilarsi di una ragionevole possibilità di verificazione degli eventi stessi.

In altri termini, presupposto per la sospensione dell’attività ai sensi dell’art. 10 lett. b) non è il concreto ed irrimediabile verificarsi di un danno alla salute dei cittadini o  all’ambiente, ma il manifestarsi di una situazione di pericolo, la cui gravità e concretezza va dunque apprezzata in termini anche, seppur non esclusivamente, prognostici.

Tanto chiarito dal punto di vista metodologico, va ricordato in fatto che in data 28.4.1989 la Usl n. 9 aveva segnalato alla Regione la gravità della situazione igienico sanitaria derivante dall’inquinamento atmosferico nella zona di Cornigliano.

Lungi dall’esprimersi in termini generali e dunque non significativi – come pretenderebbe l’appellante – nella nota in questione la USL dava atto del peggioramento delle emissioni provenienti dall’impianto ed evocava precisamente la possibilità di addivenire alla sospensione dell’attività produttiva.

Detti rilievi erano confermati dalla stessa USL con fonogramma del 12.6.1989, di talché erra l’appellante quando sostiene la scarsa attualità del parere espresso dall’Amministrazione sanitaria.

Inoltre, con pareri del 6.6.1989 e del 21.6.1989 il Comitato tecnico per l’ambiente- CTA, all’esito di ispezioni, confermava sostanzialmente il giudizio già in precedenza espresso circa i pericoli per la salute e per l’ambiente derivanti dalle attività in essere presso lo stabilimento di Cornigliano, sottolineando in particolare il grave accumulo di polveri inquinanti non rimosse nonché la mancata protezione dei nastri trasportatori.

Infine, in data 22.6.1989 la USL rappresentava alla Regione che l’abitato di Cornigliano risultava interessato dalla notevole presenza di fumi grigiastri e  che l’aria presentava odore di acido solfidrico e anidride solforosa, fenomeni questi con ogni probabilità dovuti ( come del resto sembra riconosciuto dall’Impresa) alla rottura di uno dei tre elettrofiltri asserviti all’emissione dei fumi.

A fronte di tale contesto fattuale, appare evidente da un lato che il provvedimento adottato dalla Regione trovava supporto in acquisizioni istruttorie articolate e concludenti e dall’altro che la situazione dell’area circostante l’impianto di Cornigliano , già grave a causa delle ripetute inadempienze della Società rispetto a precedenti prescrizioni contro l’inquinamento, era effettivamente precipitata proprio nei giorni antecedenti l’ordine di sospensione.

Effettivamente, dunque, sussistevano  presupposti idonei a legittimare, in fatto ed in diritto, l’adozione del provvedimento regionale di diffida e contestuale sospensione dell’attività produttiva.

In proposito l’appellante, deducendo in sostanza lo sviamento di potere, osserva che l’accordo tra la Regione e l’Azienda per la ripresa dell’attività produttiva, intervenuto a pochi giorni dall’ordine di sospensione, dimostrerebbe da un lato la insussistenza di una vera situazione di pericolo e dall’altro svelerebbe il reale intento perseguito dall’Amministrazione, che era quello di imporre all’impresa limitazioni eccedenti il regime legale.

Anche tale censura appare infondata.

In disparte il rilievo di fatto circa gli effetti positivi in prospettiva derivanti dall’intervenuta riparazione dell’elettrofiltro, si è infatti sopra chiarito che nella fattispecie in rassegna l’apprezzamento della gravità e concretezza del pericolo per la salute e per l’ambiente costituisce oggetto di un giudizio a valenza essenzialmente prognostica, nell’ambito del quale  formano naturale oggetto di valutazione anche gli impegni o accordi stipulati per l’eliminazione dei fattori inquinanti.

Con il secondo gruppo di motivi l’appellante censura il capo di sentenza col quale il Tribunale ha dichiarato improcedibile il ricorso n. 539/1990, volto ad impugnare la delibera della Giunta regionale n. 62 del 15.1.1990, nella parte in cui fissa, ai fini dell’autorizzazione provvisoria, limiti alle emissioni e relativi termini di adeguamento e nega l’autorizzazione a riattivare gli altiforni nn. 3 e 4.

In proposito, si ricorda che il Tribunale ha espressamente respinto le censure con le quali la ricorrente contestava in radice la sussistenza del potere autorizzatorio esercitato dalla Regione e che detta statuizione di merito, in quanto non gravata, è dunque passata in giudicato.

Il TAR ha invece ritenuto improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse i mezzi dedotti avverso il contenuto puntualmente prescrittivo della delibera de qua, ritenendolo sostituito dalle prescrizioni impartite con le successive delibere nn. 4303 del 26.9.1990 e  4754 del 30.10.1990.

Sul punto, oppone la appellante che il mero decorso del periodo di tempo nell’ambito del quale l’atto ha comunque spiegato effetto non fa venire meno sul piano processuale l’interesse alla decisione, se non altro al fine risarcitorio.

La tesi dell’appellante non può, con riferimento alla specifica vicenda in esame, essere condivisa.

Al riguardo deve partirsi dal ricordare che, dopo la approvazione della delibera regionale n. 62/90, è stato emanato il Decreto del Ministro dell’ambiente 12.7.1990 n. 51 il quale ( art. 6) ha decretato la cessazione dell’ efficacia di tutti i provvedimenti regionali recanti prescrizioni anti inquinamento difformi da quelle previste nel decreto stesso, consentendo peraltro alle Regioni di riapprovare – ricorrendone i presupposti e sulla scorta di specifica motivazione – misure più restrittive.

Esercitando detta facoltà, la Regione Liguria ha fatto rinnovato uso del proprio potere autorizzatorio, appunto approvando con le delibere nn. 4303 e 4754 prescrizioni sostitutive di quelle in precedenza adottate con la delibera n. 62.

Come correttamente precisato dal TAR, la circostanza che la Corte costituzionale – adita in conflitto di attribuzioni – abbia successivamente annullato l’art. 6 del citato DM con sentenza 6.2.1991 n. 53, dichiarando che non spettava al Ministro disporre la cessazione dell’efficacia di provvedimenti regionali, risulta non rilevante ai fini in controversia, atteso che la naturale retroattività dell’annullamento disposto dalla Corte non poteva spiegare effetto caducante nei confronti di provvedimenti – pacificamente non di mera conferma – medio tempore approvati dalla Regione.

In conclusione, l’autorizzazione provvisoria in base alla quale la appellante ha operato in quel torno di tempo consegue sotto il profilo costitutivo dalla originaria delibera n. 62 ( sulla cui legittimità in parte qua si è come detto formato il giudicato)  e sotto il profilo puntualmente prescrittivo dalle successive delibere nn. 4303 e 4754.

In un contesto che effettivamente dunque depone per l’improcedibilità delle censure rivolte avverso le prescrizioni originarie, in quanto poi divenute inefficaci e quindi ulteriormente sostituite, deve osservarsi da un lato che comunque le Acciaierie non hanno chiarito in quale modo o misura la loro posizione sia stata   effettivamente incisa da prescrizioni rispetto alle quali l’obbligo di adeguamento è ben presto venuto meno e dall’altro che l’impugnativa separatamente proposta avverso le delibere integrative è stata conosciuta nel merito in primo grado.

Il che induce a confermare quanto statuito dal Tribunale in punto di parziale, sopravvenuto   difetto di interesse alla decisione del ricorso n. 539/90.

Con il terzo gruppo di motivi l’appellante censura il capo di sentenza relativo al rigetto del ricorso n. 2051/90, col quale erano state impugnate le ridette delibere della Giunta Regionale nn 4303 e 4754 del 1990, aventi ad oggetto l’imposizione alle Acciaierie di una serie di obblighi e prescrizioni in funzione anti inquinamento nonché la delimitazione dell’area soggetta a Piano di risanamento ex art. 6 DM 12.7.1990 n. 51.

Con il primo motivo l’appellante ripropone la censura relativa alla violazione dell’art. 4 lettera e) del  DPR 24.5.1988 n. 203, il quale stabilisce che la Regione può fissare valori limite più restrittivi per zone particolarmente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale, e dunque in base a presupposti che nella fattispecie non ricorrevano, come sarebbe stato acclarato dal monitoraggio dell’aria espletato dalla Provincia di Genova nella zona di Cornigliano per il periodo aprile 1989 – ottobre 1990.

La doglianza non ha fondamento.

In disparte il rilievo ( già adeguatamente valorizzato dal TAR) che la stessa Società aveva riconosciuto, nell’accordo del luglio 1989, la gravità della situazione ambientale di Cornigliano, è comunque da osservare che la violazione dei limiti di qualità dell’aria non costituisce presupposto della funzione autorizzatoria in concreto esercitata dall’Amministrazione regionale.

In effetti, l’autorizzazione prevista dall’art. 12 DPR n. 203 del 1988  e le prescrizioni di cui all’art. 13, in quanto finalizzate al contrasto preventivo di una situazione di pericolo ambientale dovuta alla presenza di molteplici fonti inquinanti, non sono – diversamente da come ritiene l’appellante – condizionate dall’accertamento di concrete violazioni dei livelli di qualità dell’aria normativamente definiti.

In altri termini, come esattamente precisato dal TAR, le prescrizioni da impartirsi in sede di rilascio dell’autorizzazione provvisoria risultano unitariamente funzionali ad evitare il peggioramento della situazione ambientale e ad avviarne il progressivo miglioramento, laddove invece le sanzioni apprestate per l’ipotesi di violazione dei limiti di accettabilità del livello di inquinamento mirano, più semplicemente, al mantenimento dello status quo.

Con il secondo motivo, rubricato all’eccesso di potere per sviamento, la appellante ripropone la tesi secondo la quale il vero scopo delle deliberazioni impugnate sarebbe stato quello di imporre all’Azienda prescrizioni così gravose da costringere alla chiusura dello stabilimento, così favorendo un diverso utilizzo urbanistico dell’area.

Il mezzo, formulato in modo generico, è comunque da respingere.

Premesso che le delibere si limitano in realtà a richiamare in premessa le indicazioni rivenienti dal Piano Territoriale di Coordinamento, strumento destinato a disciplinare organicamente l’intero territorio regionale,  è infatti da osservare che l’appellante si limita ad affermare l’esistenza del dedotto vizio sintomatico in modo del tutto apodittico, limitandosi cioè a contestare in generale la fattibilità tecnica ( o addirittura la pratica utilità) delle prescrizioni imposte dalla Regione e dunque non fornendo alcun serio indizio alla stregua del quale possa nemmeno lontanamente inferirsi uno sviamento causale degli atti impugnati.

Del tutto inconsistenti sono poi il terzo motivo, col quale si deduce il contrasto fra le due delibere in ordine ai tempi di adeguamento alla prescrizione n. 10, nonché il quarto motivo, col quale si deducono vizi formali relativi alla indicazione dei membri di Giunta partecipanti alla deliberazione n. 4303.

Al riguardo è sufficiente osservare da un lato che la successiva prefissione in sede amministrativa di un diverso termine di adeguamento comporta per implicito la revoca della prescrizione originaria e dall’altro che la delibera Giuntale – emendata dell’errore materiale originariamente contenuto – dà preciso conto degli assessori presenti alla deliberazione.

Infondato è poi il quinto motivo, mediante il quale si contestano gli atti impugnati nella misura in cui impongono alla Società di predisporre progetti esecutivi ed onerosi studi di fattibilità in vari settori dell’attività industriale.

In proposito è infatti da rilevare che ai sensi degli artt. 12 e 13 DPR 203/88 l’Impresa, ove intenda conseguire l’autorizzazione definitiva, è tenuta a progettare e ad adottare le misure adeguate in vista del progressivo adattamento degli impianti esistenti alla migliore tecnologia disponibile: trattasi, con evidenza, di un obbligo conformativo speciale imposto alle imprese “inquinanti” ( elencate nell’All. 1 al Decreto) e sostanzialmente volto a contemperare, in piena coerenza con le indicazioni derivanti dall’art. 41 Cost., lo svolgimento dell’iniziativa economica privata con le ragioni dell’utilità sociale.

Infondata è anche la doglianza relativa all’obbligo di fermata degli impianti in caso di disservizio dei sistemi di abbattimento dei fumi, in quanto l’art. 3 del DM 12.7.1990 – del quale erroneamente si deduce la violazione – prevede al comma 14 che l’Autorità competente, in sede di autorizzazione, possa stabilire specifiche prescrizioni ( tra l’altro) per il caso di guasti tali da non permettere il rispetto dei valori limite di emissione.

In ogni caso, dal punto di vista strettamente formale, la censura in rassegna è in realtà inammissibile, avendo il primo Giudice chiarito – con statuizione non gravata in appello e quindi coperta da giudicato -  che la normativa regionale ( cfr. art. 23 legge reg. Liguria 12.3.1985 n. 11) consentiva espressamente alla Regione di imporre l’obbligo di fermata in caso di guasti ai depuratori.

Con il settimo motivo si contesta il diniego di riattivazione degli altiforni nn. 3 e 4, che a giudizio dell’appellante dovevano essere considerati come “ esistenti” a norma del paragrafo 9 del DPCM 21.7.1989 in quanto autorizzati dal comune di Genova ai sensi della legge n. 615 del 1966.

Il mezzo è privo di attendibilità, in quanto,  come esaurientemente evidenziato dalla sentenza qui appellata,  l’autorizzazione già rilasciata per l’esercizio degli impianti in questione deve ritenersi venuta meno a seguito dello smantellamento degli stessi, circostanza questa pacifica in fatto e rispetto all’accertamento della quale si è comunque formato il giudicato.

Con l’ottavo motivo si deduce la violazione del DM 12.7.1990, osservando che le delibere regionali hanno imposto limiti di emissione irrazionali, in quanto assai più restrittivi di quelli previsti dalle Linee guida definite in sede nazionale ed in definitiva di impossibile attuazione pratica.

Il motivo non ha consistenza.

L’art. 6 del DM 12.7.1990 così recita ai commi 1 e 2:

“1. Con l'entrata in vigore del presente decreto cessano di avere efficacia i provvedimenti regionali difformi da quanto stabilito dal presente decreto per il contenimento delle emissioni inquinanti nell'atmosfera.

2. Le Regioni, presso cui erano in corso di applicazione i provvedimenti di cui al comma 1, sono autorizzate a riapprovare, in tutto o in parte, i provvedimenti concernenti valori limite più restrittivi, con proprie deliberazioni specificatamente motivate, in relazione a determinate aree.”

 Dal tenore delle disposizioni ora trascritte risulta intanto con tutta evidenza che l’eventuale discordanza tra i valori individuati nelle Linee guida e quelli prescritti in sede regionale non è di per sé sintomo di eccesso di potere, in quanto la stessa norma di riferimento facoltizza l’Amministrazione ad imporre limiti più restrittivi appunto in relazione ad aree particolari: e che l’area di Cornigliano ( unica in Europa, secondo quanto emerge dagli atti, a registrare una immediata contiguità dell’abitato rispetto alla cokeria) presenti caratteristiche del tutto peculiari è incontestato.

Una volta accertata la ricorrenza dei presupposti in fatto ed in diritto per l’adozione da parte della Regione di prescrizioni più restrittive, rispetto a quelle enunciate in sede nazionale, il discorso deve arrestarsi: è evidente infatti che le determinazioni regionali impingono in un ambito di merito tecnico, come tale insindacabile nell’intrinseco,  e che d’altra parte le asserzioni con le quali l’appellante ne contesta la logicità e fattibilità non valgono – in quanto apodittiche – ad evidenziare alcun serio profilo estrinseco di irrazionalità.

Infondato è il nono motivo, col quale si deduce l’incompetenza della Giunta regionale a delimitare l’area soggetta al Piano di risanamento, in quanto con la deliberazione n. 4754 la Giunta ha soltanto individuato – come del resto previsto dalla sopra citata legge reg. n. 11 del 1985 – la zona da sottoporre al Piano di risanamento, che doveva essere poi approvato dal Consiglio regionale ai sensi dell’art. 4 DPR n. 203 del 1990 nonché dell’art. 17 dello Statuto regionale.

Con il decimo motivo si deduce il travisamento in cui sarebbe incorsa la Regione, confondendo – nella delibera n. 4754 – le emissioni nell’atmosfera provenienti dallo stabilimento con il carico inquinante effettivamente gravante sull’area di Cornigliano.

Il motivo è infondato, in quanto il carico inquinante evidenziato nel provvedimento - e costituito dalla sommatoria delle emissioni per specifico inquinante ( polveri o CO) provenienti dallo stabilimento – vale soltanto ad evidenziare in termini aritmetici la preoccupante situazione ambientale della zona di Cornigliano: d’altro canto, anche a voler ammettere con l’appellante che non tutte le sostanze inquinanti ricadano a terra e che, in presenza di particolari venti, parte di esse sia dispersa in mare, non può negarsi che obiettivamente tale rilevante quantità di  inquinanti graviti comunque sulla contigua zona abitata, con tutte le ovvie e drammatiche conseguenze in caso di ristagno atmosferico o di venti provenienti dal mare.

Con l’ultimo motivo l’appellante lamenta come la Regione abbia fissato termini temporali di adeguamento degli impianti difformi ( e più restrittivi) rispetto a quelli generalmente previsti dall’art. 5 del DM 12.7.1990.

Il motivo, come si è evidenziato nelle premesse in fatto, è stato positivamente valutato in sede cautelare dalla Sezione la quale, con ord. 23.4.1991 n. 475, ebbe appunto a sospendere l’efficacia dei provvedimenti impugnati  limitatamente alla prefissione di termini di adeguamento più stringenti di quelli definiti in sede ministeriale.

In questa sede di merito, il mezzo appare però non fondato.

Al riguardo deve intanto premettersi in fatto che, secondo quanto risulta dal testo dell’Accordo stipulato tra la Regione e le Acciaierie il 7.7.1989, essendo stata consensualmente evidenziata la dimostrata realizzabilità anche in tempi brevi di significativi interventi a tutela dell’ambiente, la Società si era in qualche modo impegnata ad anticipare le scadenze per l’approvazione e l’esecuzione del programma di risanamento.

 Indipendentemente da tale rilievo sembra comunque al Collegio che – come evidenziato dal primo Giudice – la facoltà di definire valori limite delle emissioni più restrittivi, concessa alle Regioni ai sensi del comma 2 dell’art. 6 del Decreto, concerne oggettivamente anche la definizione di termini di adeguamento più stringenti di quelli enunciati in generale dal precedente art. 5.

L’opposta interpretazione, secondo la quale la Regione avrebbe potuto discrezionalmente stabilire varianti alla disciplina nazionale dal punto di vista quantitativo ma non sotto il profilo temporale, risulta infatti irrazionale e tale, in definitiva, da vanificare la congruità e l’efficacia dell’intervento differenziato in relazione a particolari zone.

In conclusione, come precisato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 51 del 1991, il  principio di gradualità nell'attuazione della tutela ambientale in ragione del complesso bilanciamento dei numerosi e contrastanti interessi in gioco, coinvolgente, da un lato, l'utilizzabilità di conoscenze scientifiche certe e di tecnologie efficaci e, dall'altro, il calcolo dei costi umani e sociali legati agli oneri economici comportati e, in particolare, alle riduzioni e alle rilocalizzazioni delle attività produttive, alle possibilità di sfruttamento degli impianti da tempo operanti, alle riconversioni della produzione e cosi via, trova composizione in un sistema nell’ambito del quale da un lato era demandato al Ministro dell’ambiente di procedere ad una  prima definizione dei valori minimi e massimi di emissione delle sostanze inquinanti di fronte alle quali le conoscenze scientifiche e le tecnologie applicabili garantivano un'effettiva e sicura tutela e, per altro verso, era lasciata alle Regioni “ la libertà di scelta, da esercitarsi caso per caso in sede di autorizzazione, sui mezzi più opportuni e sulle tecnologie più adeguate per raggiungere in tempi realistici gli obiettivi posti.”

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello risulta complessivamente infondato e va come tale respinto.

Sussistono motivi per compensare fra le parti anche le spese di questo grado del giudizio.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, respinge l’appello.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2002    dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con l'intervento dei Signori:

 

Giovanni PALEOLOGO                                       Presidente

Domenico La MEDICA                                        Consigliere

Marcello BORIONI                                              Consigliere

Antonino ANASTASI  estensore                           Consigliere

Giuseppe CARINCI                                             Consigliere

 

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