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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali Sentenza 8 maggio 2002 n. 17178

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Pres. Vessia, Est. Sirena - (annulla Corte di appello di Catanzaro, sentenza 5 ottobre 2000).

Omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 16 dicembre 1998, il Pretore di Crotone, sezione distaccata di Strongoli, dichiarò C. B. responsabile dei reati di cui agli artt.20 lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, 18 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, per avere edificato, in zona sismica, un immobile per civile abitazione, composto da tre piani fuori terra, in assenza di concessione edilizia e senza la preventiva licenza del genio civile, e, ritenuta la continuazione tra le due contravvenzioni, lo condannò alla pena di due mesi di arresto e di £ 4.500.000 di ammenda, ordinando al contempo la demolizione del manufatto abusivo; con lo stesso provvedimento il suddetto Pretore dichiarò non doversi procedere nei confronti del C. in ordine al reato di cui agli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione, per avere, senza la prescritta autorizzazione, edificato quell’immobile nella fascia di rispetto del demanio marittimo, perché estinto tale reato per prescrizione.

Avverso tale provvedimento del Pretore proposero impugnazione sia l’imputato che il Procuratore generale della Repubblica, e la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 5 ottobre 2000, in accoglimento del gravame del pubblico ministero.

Dichiarò il C. colpevole anche della contravvenzione di cui ai citati artt. 55 e 1161 del codice della navigazione, affermando che il reato in questione ha natura permanente, e che la prescrizione dello stesso decorre dalla data della sentenza penale di condanna.

Contro tale decisione propose ricorso per cassazione personalmente l’imputato deducendo, con un unico motivo di impugnazione, la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale relativamente alla mancata declaratoria di estinzione dei reati contestati per intervenuta prescrizione (art. 606, comma 1°, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 157, 158 c.p., 55, 116 codice della navigazione, 18 e 20 della legge n. 64 del 1974, 20 legge n. 47 del 1985); in particolare, secondo il C., la prescrizione del reato previsto dal codice della navigazione a lui attribuito decorrerebbe dalla data di ultimazione della costruzione.

Il ricorso venne assegnato alla terza sezione penale di questa Corte, la quale, con ordinanza del 3 luglio 2002, lo rimise alle Sezioni Unite, evidenziando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione di diritto concernente il momento di cessazione della permanenza della contravvenzione in esame.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è fondato.

Come si è prima cennato, la questione di diritto che ha dato luogo a un contrasto giurisprudenziale, e che perciò è stata portata all’esame di queste Sezioni Unite riguarda il momento di cessazione della permanenza del reato previsto dall’art. 55 del codice della navigazione; secondo alcune decisioni, infatti, tale momento coincide con la fine dell’esecuzione delle opere intraprese nelle zone di rispetto del demanio marittimo senza l’autorizzazione del capo del compartimento; mentre secondo altre solo con la rimozione delle opere stesse ovvero con il rilascio dell’autorizzazione.

Dunque, la giurisprudenza di questa Corte relativa a tale questione si è divisa in due indirizzi, uno favorevole alla prima tesi e l’altro alla seconda (per il primo indirizzo cfr.; Cass. pen., sez. III, 16 aprile 1997, P.M. in proc. Sciarrino, RV 208053; Cass. pen., sez III, 31 maggio 1997, P.M. in proc. Lantieri; Cass. pen., sez III 6 aprile 1998, P.M. in proc. Randazzo; per il secondo indirizzo cfr.: Cass. pen., sez. III, 10 dicembre 1997, La Rosa; Cass. pen., Sez. III, 7 marzo 1998, P.M. in proc. Arcara, Rv 209915; Cass. pen., sez. III, 26 aprile 2000, Musso e altra; Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 2000, P.M. in proc. Martorana; Cass. pen. sez. III, 17 febbraio 2000, Morici e altra; Cass. pena. Sez. III, 16 febbraio 2001, Arrostuto).

Ebbene, tra i due indirizzi giurisprudenziali su indicati, si ritiene che sia corretto il primo per le ragioni che seguono.

L’argomento di maggior peso a favore della tesi accolta deriva dalla corretta interpretazione delle norme giuridiche che regolamentano la fattispecie concreta; di conseguenza, devono essere esaminati gli artt. 54, 55, commi 1° e 5°, e 1161, comma 1, del codice della navigazione.

Del resto, come è stato opportunamente osservato, tale esame è indispensabile perché per stabilire la natura istantanea o permanente di una certa ipotesi delittuosa è assolutamente necessario rifarsi alla al dato primario di ogni esperienza giuridica: la disposizione che comanda o vieta determinati comportamenti.

L’art. 55 citato stabilisce testualmente che l’esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio di terreni elevati dal mare è sottoposta all’autorizzazione del capo del compartimento; e al comma 5 aggiunge che quando siano abusivamente eseguite nuove opere entro la zona indicata nei primi due commi del presente articolo, l’autorità marittima provvede ai sensi dell’articolo precedente; quest’ultimo, e cioè l’art. 54, a sua volta recita che qualora siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate, il capo del compartimento ingiunge al contravventore di rimettere la cose in pristino entro il termine a tale fine stabilito e, in caso di mancata esecuzione dell’ordine, provvede d’ufficio, a spese dell’interessato; infine, l’art. 1161, comma 1, prevede le sanzioni perla violazione delle norme su riferite e statuisce perciò che chiunque arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo o aeronautico o delle zone portuali della navigazione interna, ne impedisce l’uso pubblico o vi fa innovazioni non autorizzate, ovvero non osserva le disposizioni degli artt. 55, 714 e 716, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a £ 1.000.0000, sempre che il fatto non costituisca un più grave reato.

Procedendo all’analisi delle norme su citate, risalta con tutta evidenza che il legislatore ha dichiaratamente distinto, anzitutto sul piano terminologico, tra l’abusiva occupazione (anche mediante esecuzione di innovazioni non autorizzate) del demanio marittimo (art. 54), e la esecuzione non autorizzata di operare nella zona di rispetto dello stesso demanio (art. 55).

La distinzione, resa maggiormente evidente dal fatto che i due diversi comportamenti sono previsti da norme distinte, è dovuta anche all’ovvia ragione che nell’ipotesi dell’occupazione del demanio marittimo il soggetto attivo invade in maniera permanente un bene di proprietà dello Stato; mentre nell’ipotesi di costruzione nella zona di rispetto, il bene utilizzato per l’esecuzione dell’opera è normalmente di proprietà, dello stesso privato che l’ha effettuata, e quindi non si verifica alcun tipo di invasione di un immobile altrui.

Ciò posto, sembra opportuno evidenziare che il termine occupazione, nella nostra lingua designa una presa di possesso stabile o temporanea, di un bene, mentre il termine esecuzione indica l’attuazione sul piano pratico o materiale di un’opera.

Dunque, è agevole rilevare che, secondo l’interpretazione più coerente al significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e all’intenzione del legislatore (art. 12 delle preleggi), la occupazione di un bene demaniale costituisce un reato permanente, dal momento che la condotta illecita si compie con il fatto della presa di possesso del bene e si protrae per tutto il tempo in cui questa persiste; e che, invece, nel caso di esecuzione di un’opera, l’azione vietata si perfezione ed esaurisce con la materiale attuazione dell’opera stessa, la quale va dall’inizio alla ultimazione dei lavori, con la conseguente configurabilità di una permanenza circoscritta nell’ambito di questi due momenti.

Ne è condivisibile l’argomento, all’apparenza suggestivo, utilizzato in qualche decisione favorevole alla tesi giuridica qui respinta; si è sostenuto, infatti, da parte dei fautori di quest’ultima che sarebbe errato adottare una scelta basandosi sul significato letterale della parola esecuzione; e ciò in quanto, tale termine sarebbe utilizzato dal legislatore anche in senso dinamico e funzionale, e spetterebbe, quindi, all’interprete ricavare dal contesto normativo in cui lo stesso è inserito, l’accezione di volta in volta recepita.

È la tesi della permanenza della contravvenzione fino alla rimozione dell’opera eseguita in difetto di autorizzazione si fonderebbe, perciò, sulla circostanza che il termine esecuzione viene sostanzialmente adoperato anche dall’art. 54 del codice della navigazione, il quale ravvisa l’unico reato di abusiva occupazione di spazio demaniale (art. 1161 del codice della navigazione) in due possibili condotte (occupazioni o innovazioni abusive); l’ultima delle quali consiste proprio nel fatto di eseguire innovazioni non autorizzate (cfr. Cass. pen, sez. III, 15 gennaio 1998, P.M. in proc. Cusimano).

Tuttavia, è fin troppo agevole obiettare a tale argomento che le innovazioni non autorizzate effettuate nel demanio comportano comunque una stabile occupazione della superficie pubblica e che solo per tale ragione integrano gli estremi di un reato la cui permanenza cessa con la rimozione dell’opera.

Ne, d’altro canto, è possibile trarre argomenti a favore della tesi che si contesta, partendo dall’osservazione secondo cui dal mantenimento dell’opera abusivamente eseguita nella zona di rispetto del demanio potrebbero derivare effetti dannosi o pericolosi per la navigazione, che il giudice sarebbe tenuto a eliminare.

Tale ragionamento riporta, infatti, alla teoria così detta della giurisprudenza degli interessi (o metodo teleologico), secondo la quale l’interprete dovrebbe avere di mira esclusivamente i bisogni pratici che la norma è destinata ad appagare, senza tenere conto della volontà del legislatore.

Ma come è stato correttamente osservato, non può in alcun caso essere adottato un metodo interpretativo che superi il confine invalicabile costituito dalla parola della legge, giacchè esso finirebbe con l’affidare l’applicazione della norma giuridica alle vedute soggettive e quindi all’arbitrio del giudice (cfr.: Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 1998, P.M. in proc. Bernardini, RV 210332).

Peraltro, nel caso concreto, si deve rilevare che i legislatore, al fine di evitare gli effetti nocivi per la navigazione o per la fruizione del demanio conseguenti all’esecuzione di opere nella relativa zona di rispetto, ha previsto un rimedio diverso da quello di assegnare alla contravvenzione di cui all’art. 55 del codice della navigazione le caratteristiche di un reato permanente; e, infatti, la legge stabilisce espressamente che la pubblica amministrazione è tenuta all’autotutela, mediante rimessione in pristino dello stato dei luoghi (cfr.; art. 55, comma 5, e 54, comma 1).

Ed è, anzi, il caso di osservare che se tali doverosi interventi di ripristino del territorio e di conseguente ristabilimento della legalità fossero tempestivamente eseguiti dalle autorità marittime, il problema relativo alla permanenza del reato di che trattasi non si sarebbe neppure posto.

Invece, probabilmente per supplire all’inerzia della pubblica amministrazione, alcune decisioni giudiziarie hanno estrapolato dal contesto legislativo l’indubbio interesse al ristabilimento della situazione anteriore alla illegittima esecuzione dei lavori nelle zone di rispetto del demanio; e hanno distorto il limpido dettato della norma di cui all’art. 55 del codice della navigazione al fine di conseguire tale obiettivo, per il quale il legislatore aveva previsto una tutela diversa.

Ma così facendo dette pronunce hanno trascurato di considerare quanto è stato segnalato, e cioè che la chiara parola della legge costituisce un limite invalicabile all’interpretazione e che non sono perciò condivisibili quelle operazioni con le quali la lettera di una norma giuridica viene piegata per perseguire obbiettivi finalistici diversi.

Ma vi sono ulteriori ragioni a favore della tesi qui accolta.

Non può, infatti, trascurarsi che la struttura della contravvenzione in esame è del tutto identica a quella di altri reati, per i quali è pacificamente esclusa la permanenza dopo che l’opera è stata ultimata.

L’esempio tipico di reati siffatti è costituito dalla contravvenzione di costruzione in assenza di concessione edilizia, che, a detta dei sostenitori di entrambe le tesi, presenta elementi strutturali del tutto simili al reato di esecuzione di opere nella zona di rispetto del demanio marittimo senza l’autorizzazione dell’autorità.

Ebbene, per giungere alla conclusione che le distinte fattispecie non possono ricevere, dall’angolo visuale della permanenza del reato, lo stesso trattamento, i fautori della tesi qui respinta hanno sostenuto che le due contravvenzioni si differenziano per la diversità della ratio normativa; essi affermano, infatti, che il divieto di edificazione in assenza di concessione è posto a tutela dell’ordinato e armonico sviluppo dell’assetto urbanistico e territoriale, sicché una volta che quel divieto sia violato il bene giuridico protetto risulta leso in maniera definitiva; mentre il divieto di esecuzione di opere nella zona di rispetto demaniale è formulato per ragioni di sicurezza e, pertanto, l’inosservanza di esso comporta il realizzarsi di una situazione antigiuridica che si rinnova continuamente perché in contrasto con l’interesse del demanio pubblico a vedere osservate le distanze (Cass. pen., sez. III, 5 luglio 1985, Paesano, RV 171015).

Sennonché, tale ragionamento non sembra corretto; infatti, è agevole rilevare che nessuna differenza concettuale sussiste tra i beni giuridici protetti dalle due diverse norme, giacché anche il bene rappresentato dall’ordinato e armonico sviluppo dell’assetto urbanistico e territoriale, leso da una costruzione in assenza di concessione, sarebbe puntualmente ripristinato con la demolizione delle opere abusive.

Inoltre, va messo in evidenza che l’argomento in questione finisce con il riproporre una tesi giuridica assolutamente non condivisibile, sostenuta nelle decisioni che hanno cercato di estendere il concetto di permanenza a fasi temporali che il legislatore sicuramente non aveva preso in considerazione.

Tale tesi giuridica, enunciata puntualmente nell’ordinanza di remissione a queste Sezioni Unite, è la seguente: il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione ha una struttura a condotta mista, consistente non soltanto nella esecuzione delle opere, ma anche mantenimento delle stesse in assenza della prescritta autorizzazione dell’autorità marittima, sicchè, in considerazione dell’interesse pubblico tutelato a che, nella proprietà privata attigua al demanio marittimo, non vengano realizzate opere idonee a pregiudicare la sicurezza della navigazione e la fruizione del demanio, e della natura del reato di pericolo astratto, l’offesa giuridico perdura finché le opere non vengano autorizzate o rimosse.

La teoria appena esposta si rifà, peraltro, alla così detta concezione bifasica del reato permanente, ormai superata dalla dottrina, ma soprattutto ripudiata dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite con sentenza 14 luglio 1999, Lauriola e altri, RV 213932, la quale ha stabilito che il reato previsto dagli artt. 3 e 20 della legge 2 febbraio 1974, numero 64, consistente nell’esecuzione di costruzioni in difformità dalle norme tecniche sull’edilizia in zone sismiche (altra fattispecie strutturalmente identica a quella di cui al presente processo, peraltro contestata al ricorrente al capo della rubrica), ha natura di reato permanente, ma che tale permanenza ha termine con la cessazione dei lavori di costruzione del manufatto, a qualsiasi causa dovuta.

A tale sentenza, del tutto trascurata dai sostenitori della tesi oggi respinta, si potrebbe puramente e semplicemente rinviare, concordando questo Collegio con quanto in essa affermato, e non essendo state prospettate valide ragioni per discostarsi dalla regola in essa stabilita, e così testualmente enunciata: il reato permanente trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con l’offesa all’interesse protetto; cioè la durata dell’offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente; ma sempre sulla base della precisa descrizione che di entrambe fa la norma.

Tuttavia, in adesione al principio di diritto contenuto in quella decisione, si reputa opportuno evidenziare compiutamente le ragioni per cui queste Sezioni Unite ritengono che la concezione bifasica del reato permanente non possa trovare accoglimento nel nostro diritto positivo.

Secondo tale concezione, il reato permanente implicherebbe la violazione in due fasi di un duplice obbligo e si proporrebbe nella prima di esse come azione e nella seconda come omissione; quindi, in un momento iniziale l’agente violerebbe, con un comportamento positivo, l’obbligo di non realizzare uno stato antigiuridico (l’esempio di scuola è quello di non privare una persona della sua libertà personale); nella seconda fase lo stesso soggetto attivo violerebbe l’obbligo di fare cessare tale stato omettendo di porre termine alla situazione antigiuridica (così, nell’esempio di scuola, omettendo di liberare la vittima).

Sennonché, tale concezione non ha retto al peso delle critiche che le sono state mosse.

La prima di queste è che la divisione del reato permanente nelle due fasi è contraddetta dalla realtà; e ciò in quanto anche nella seconda fase, cosi detta di mantenimento, l’agente può tenere un comportamento positivo per assicurare la protrazione dello stato antigiuridico; mentre, d’altro canto, la prima fase può essere realizzata anche con una omissione.

Un’ulteriore critica è che nei reati omissivi non è possibile cogliere la duplicità degli obblighi e la successione delle due fasi; in tali illeciti, infatti, il secondo obbligo ha un contenuto del tutto uguale al primo perché la rimozione dello stato antigiuridico può essere attuata solo compiendo l’azione che costituiva l’oggetto dell’obbligo primario.

Ma la più decisiva tra le critiche mosse alla concezione bifasica è quella secondo cui nell’ordinamento giuridico e nelle singole norme che configurano reati permanenti non v’è segno alcuno del secondo obbligo, il quale costituisce il caposaldo della dottrina in argomento; ed è anzi stato sostenuto ad autorevole commentatore che tale obbligo è un puro prodotto dottrinale, un vuoto fantasma assolutamente inutile per la comprensione dell’istituto in esame.

Inoltre, è stato acutamente osservato che se fosse concepibile un obbligo secondario di rimozione e se il suo contenuto fosse quello di ripristinare l’assetto degli interessi offesi con l’azione o di attuare gli scopi negletti con l’omissione, no si comprenderebbe perché tale obbligo non dovrebbe operare rispetto ad ogni fattispecie che non contempli la distruzione del bene protetto, qualificando come permanente il relativo reato ( in tal modo, il furto o la ricettazione, universalmente riconosciuti come reati istantanei, dovrebbero essere considerati reati permanenti fino alla restituzione al proprietario del bene sottratto).

E ancora, è stato evidenziato come il ritenere incriminata anche la successiva omissione di una contro- condotta, costituisca una violazione del principio di tipicità e, precisamente una violazione del principio di tassatività, inteso come divieto di analogia (cfr. la sentenza delle Sezioni Unite, Lauriola, citata).

Ne va trascurato, infine, che la concezione bifasica, valutata alla luce di modelli indiscussi di reato permanente, conferma immediatamente la sua artificiosità: e infatti, l’autore di un sequestro di persona è punito non perché omette di liberare la vittima, ma perché, dopo al soggetto passivo la sua libertà, esercita nel tempo una condotta idonea a perpetuare la compressione di tale bene.

Esclusa, dunque, l’applicabilità della teoria in esame, le conclusioni di questo Collegio, in materia di reato permanente, non possono che coincidere con quelle già espresse dalle Sezioni Unite con la sentenza Lauriola.

Concludendo, si ritiene di dovere affermare che il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione ha natura permanente, ma che tale permanenza cessa al termine dell’esecuzione delle opere abusive.

Analoga affermazione deve, poi, essere fatta per il reato di cui agli artt. 18 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64 (costruzione in zona sismica senza il visto del genio civile), sul qual peraltro si erano già pronunciate le Sezioni Unite, e per quello di cui agli artt. 20 lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (costruzione in assenza di concessione edilizia).

E poiché è certo che l’immobile costruito dal C. venne ultimato in data anteriore al 24 agosto 1995, giorno dell’accertamento del fatto, ne consegue che la sentenza impugnata deve esse annullata senza rinvio perché i reati attribuiti all’imputato sono estinti per prescrizione, verificatasi prima del 24 febbraio 2000:

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata perché i reati sono estinti per prescrizione.

Così deciso alla c.c. del 27 febbraio 2002.

Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2002.


 

M A S S I M E

1) La natura del reato previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione - la permanenza cessa al termine dell’esecuzione delle opere abusive. Il reato previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione ha natura permanente, ma che tale permanenza cessa al termine dell’esecuzione delle opere abusive. Analoga affermazione deve, poi, essere fatta per il reato di cui agli artt. 18 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64 (costruzione in zona sismica senza il visto del genio civile), sul qual peraltro si erano già pronunciate le Sezioni Unite, e per quello di cui agli artt. 20 lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (costruzione in assenza di concessione edilizia). Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali Sentenza 8 maggio 2002 n. 17178

2) Opere edilizie abusive intraprese nelle zone di rispetto del demanio marittimo - il momento di cessazione della permanenza del reato previsto dall’art. 55 del codice della navigazione. E’ stata portata all’esame di queste Sezioni Unite riguarda il momento di cessazione della permanenza del reato previsto dall’art. 55 del codice della navigazione; secondo alcune decisioni, infatti, tale momento coincide con la fine dell’esecuzione delle opere intraprese nelle zone di rispetto del demanio marittimo senza l’autorizzazione del capo del compartimento; mentre secondo altre solo con la rimozione delle opere stesse ovvero con il rilascio dell’autorizzazione. Dunque, la giurisprudenza di questa Corte relativa a tale questione si è divisa in due indirizzi, uno favorevole alla prima tesi e l’altro alla seconda (per il primo indirizzo cfr.; Cass. pen., sez. III, 16 aprile 1997, P.M. in proc. Sciarrino, RV 208053; Cass. pen., sez III, 31 maggio 1997, P.M. in proc. Lantieri; Cass. pen., sez III 6 aprile 1998, P.M. in proc. Randazzo; per il secondo indirizzo cfr.: Cass. pen., sez. III, 10 dicembre 1997, La Rosa; Cass. pen., Sez. III, 7 marzo 1998, P.M. in proc. Arcara, Rv 209915; Cass. pen., sez. III, 26 aprile 2000, Musso e altra; Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 2000, P.M. in proc. Martorana; Cass. pen. sez. III, 17 febbraio 2000, Morici e altra; Cass. pena. Sez. III, 16 febbraio 2001, Arrostuto). Ebbene, tra i due indirizzi giurisprudenziali su indicati, si ritiene che sia corretto il primo. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali Sentenza 8 maggio 2002 n. 17178

 

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