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Consiglio Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3931.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

 

sui ricorsi in appello:

1) n.9975/01 R.G. proposto dalla S.I.VE.C.I.S.S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Renzo Gambato e prof. Paolo Vitucci ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via Mascagni n.154;

 

CONTRO

 

i sigg.ri DIMITRI FRANCO, CASADEI MARCO E VISENTINI FRANCESCA, rappresentati e difesi dagli avv.ti Ivone Cacciavillani e Luigi Manzi ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via Confalonieri n.5;

E NEI CONFRONTI DI

il Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giulio Gidoni, Maria Maddalena Morino e Nicolò Paoletti ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via B. Tortolini n.34;

la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta Regionale, non costituita;

2) n.10417/01 R.G. proposto dal Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giulio Gidoni, Maria Maddalena Morino e Nicolò Paoletti ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via B. Tortolini n.34;

CONTRO

i sigg.ri DIMITRI FRANCO, CASADEI MARCO e VISENTINI FRANCESCA, rappresentati e difesi dagli avv.ti Ivone Cacciavillani e Luigi Manzi ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via Confalonieri n.5;

E NEI CONFRONTI DI

la Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore della Giunta Regionale, non costituita;

la S.I.VE.C.I.S.S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;

PER L’ANNULLAMENTO

(ricc. nn. 9975/01 e 10417/01) della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Sezione Seconda, n.2291/2001 del 26 luglio 2001, depositata il 30 luglio 2001;

Visti i ricorsi in appello con i relativi allegati;

            Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti intimate;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

            Visti gli atti tutti della causa;

            Relatore alla pubblica udienza del 26 febbraio 2002 il cons. Nicola Russo ed uditi per le parti gli avv.ti Vitucci Paolo e Gidoni Giulio, Cacciavillani Ivone, Manzi Luigi;

            Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

In data 9 novembre 2000 il Comune di Venezia rilasciava concessione edilizia n.2000/1452 alla S.r.l. S.i.ve.c.i.s.s. per la demolizione di un edificio preesistente e la costruzione di un edificio destinato ad abitazioni sul mappale 489 del foglio 14 in Venezia Mestre, via Bissa, in zona B, sottozona B1 del vigente P.R.G..

Alcuni proprietari di abitazioni confinanti impugnavano dinanzi al T.A.R. del Veneto la concessione edilizia predetta deducendo principalmente (1°, 2° e 3° motivo di ricorso):

che l’art.18, comma 7, delle Norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) del vigente P.R.G. sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art.9 punto 2 (in tema di distanze tra fabbricati) del D.M. 2 aprile 1968 n.1444, emanato in esecuzione dell’art.17 della legge 6 agosto 1967 n.765, il quale stabilisce che “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”;

che l’art.22 punto 3 delle N.T.A. del vigente P.R.G. sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art.8 punto 2 del citato D.M. n.1444/68, che fissa un limite inderogabile di altezza pari all’altezza degli “edifici preesistenti e circostanti”;

che, una volta annullate le menzionate norme di P.R.G., che consentirebbero una distanza tra edifici minore di m.10 ed una altezza massima di m.19,50, risulterebbe illegittima anche la concessione edilizia impugnata, in quanto non rispettosa delle prescrizioni anzidette.

Si costituivano il Comune di Venezia e la soc. controinteressata, titolare della concessione edilizia impugnata, eccependo, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza in fatto ed in diritto di tutte le censure avanzate, chiedendone l’integrale rigetto.

Il T.A.R. Veneto, alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare di sospensione, ritenuto di “poter decidere la causa con sentenza in forma semplificata” a norma dell’art.26 della L. 6 dicembre 1971 n.1034, come integrato dall’art.9 della L. 21 luglio 2000 n.205, ha accolto il ricorso ed ha annullato gli atti impugnati, ritenendo manifestamente fondate le censure di illegittimità degli artt.18, comma 7 e 22, comma 3 delle N.T.A. del P.R.G., (rispettivamente, per violazione dell’art.9 del D.M. n.1444/68, in punto di limiti inderogabili di distanza tra fabbricati e dell’art.8 del D.M. n.1444/68, in punto di altezza massima dei nuovi edifici), e, conseguentemente, della rilasciata concessione.

La predetta sentenza è stata impugnata in appello dinanzi a questo Consiglio di Stato con due distinti ricorsi dalla soc. controinteressata (n.9975/01 R.G.) e dal Comune di Venezia (n.10417/01 R.G.).

Si sono costituiti gli appellati, vittoriosi in primo grado e meglio indicati in epigrafe, eccependo, in via pregiudiziale, il sopravvenuto difetto di interesse all’appello, dal momento che la S.i.ve.c.i.s.s. S.r.l. avrebbe chiesto ed ottenuto una nuova concessione edilizia (n.2001/8483) per la realizzazione di un intervento edilizio differente da quello oggetto di causa ed autorizzato con la concessione annullata; nel merito, con analitiche controdeduzioni, hanno eccepito l’infondatezza dei motivi di appello avversari e riproposto i motivi, non esaminati in quanto dichiarati assorbiti, relativi: alla difformità con il parere negativo espresso dalla Commissione Tecnica Regionale (n.231 del 18 giugno 1997) e con la delibera G.R. n.4487 del 16 dicembre 1997, che, rispettivamente, avevano proposto e disposto lo stralcio dell’art.18 N.T.A. per contrasto con il D.M. n.1444/68 (5° motivo del ricorso di primo grado); all’eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione, mancando la relazione geotecnica e quella geologica di cui al D.M. 11 marzo 1988 (6° motivo del ricorso di primo grado) e all’eccesso di potere per difetto di presupposto, carenza di istruttoria e di motivazione e violazione dell’art.7 L. n.241/90, per mancanza della preventiva autorizzazione dell’Amministrazione dei beni culturali, con riferimento ai lavori riguardanti il muro di confine della “barchessa” della “Villa degli Uccelli”, vincolata ai sensi della legge n.1089/39 (oggi D.Lgs. n.490/99) e per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento al sig. Dimitri, proprietario della “Villa degli Uccelli” (7° motivo del ricorso di primo grado).

Nel corso del giudizio le parti hanno depositato memorie, con le quali hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive, replicato a quelle avversarie ed insistito per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate negli atti di costituzione.

Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2002, i ricorsi in esame, chiamati congiuntamente, sono stati spediti in decisione.

DIRITTO

Deve preliminarmente disporsi la riunione delle impugnazioni (di cui ai ricc. nn. 9975/01 e 10417/01 R.G.) proposte separatamente dalle parti soccombenti contro la stessa sentenza (del T.A.R. del Veneto, Sez. II, n.2291/01 del 26 luglio 2001, depositata il 30 luglio 2001), ai sensi dell’art.335 c.p.c., applicabile anche nel giudizio di impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., V, 15 maggio 1992, n.421).

Tanto premesso, deve dirsi che appare infondata l’eccezione relativa alla carenza di interesse dell’appellante S.i.ve.c.i.s.s. per avere essa chiesto ed ottenuto una nuova concessione, dal momento che, come dedotto dalla medesima in sede di memoria, tale nuova concessione è stata richiesta in via di “adeguamento” alla sentenza del T.A.R. Veneto, senza rinunzia all’impugnazione di quest’ultima e che anche tale nuova concessione è stata impugnata dinanzi al T.A.R. Veneto, con ricorso n.2317/01, di talché non può dirsi venuto meno l’interesse dell’appellante al mantenimento dell’originaria concessione.

Venendo, ora, ad esaminare il contenuto delle censure sollevate dagli appellanti, il Comune di Venezia deduce, preliminarmente, la violazione dell’art.26 L. n.1034/71 cit., come integrato dall’art.9 L. n.205/2000 cit., per mancanza del presupposto della manifesta fondatezza, a fronte della complessità della questione sottoposta al vaglio dei primi giudici, “avente ad oggetto disposizioni urbanistiche fondamentali, ed imperniato altresì su impegnative questioni interpretative”.

Ritiene il Collegio che l’art.9 debba essere letto in combinato disposto con l’art.3, comma 3, legge n.205/2000, il quale, ribadendo che la decisione in forma semplificata può essere adottata in sede di delibazione dell’istanza cautelare, dispone che il T.A.R., “accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria ed ove ne ricorrano i presupposti, sentite sul punto le parti costituite, può definire il giudizio nel merito a norma dell’art.26” (come modificato dall’art.9 cit.).

Dalla lettura del combinato disposto dell’art.9 e dell’art.3 discende la regola che il Collegio, oltre alla previa verifica dell’integrità del contraddittorio, dovrà anche previamente accertare la completezza dell’istruttoria e la sussistenza dei presupposti per la decisione in forma semplificata (manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità, infondatezza e fondatezza del ricorso), sentendo sul punto le parti costituite.

Premesso che la sentenza, ancorché succintamente motivata, è idonea a definire un giudizio a cognizione piena, non essendovi alcuna reciproca interdipendenza tra semplificazione della motivazione e sommarietà della cognizione (cfr. Corte Cost., 10 novembre 1999, n.427) e che la semplificazione della motivazione, nei casi speciali previsti dalla legge, è strumentale all’esigenza di garantire una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art.111, comma 2, Cost., essendo compatibile con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (cfr. Cons. St., V, 26 gennaio 2001, n.268), deve dirsi che, ad avviso del Collegio, diverse saranno le conseguenze in caso di decisione di primo grado in forma semplificata omissiva di alcuno dei suddetti adempimenti procedurali o che non abbia adeguatamente valutato la sussistenza dei medesimi, dal momento che: 1) in caso di incompletezza del contraddittorio o di violazione del diritto di difesa di una delle parti la decisione sarà senz’altro appellabile e, in applicazione dell’art.35 L. n.1034/71, il Consiglio di Stato potrà annullarla con rinvio al primo giudice per difetto di procedura (cfr., per il caso di mancanza di integrità del contraddittorio, Cons. St., VI, 19 luglio 1999, n.997; C.G.A., 14 marzo 2000, n.96; per il caso di violazione del diritto di difesa, Con. St., 20 luglio 2000, n.3860; C.G.A., 15 marzo 1999, n.27); 2) in caso di incompletezza dell’istruttoria, l’omissione di accertamenti istruttori da parte del T.A.R. non concreta un vizio di procedura e non richiede, pertanto, rinvio al tribunale medesimo, spettando al Consiglio di Stato, qualora l’omissione venga specificamente rilevata come vizio della sentenza, provvedere agli accertamenti non effettuati (cfr. Cons. St., V, 16 novembre 1976, n.1393; id., 14 marzo 1980, n.262; Cons. St., IV, 17 novembre 1981, n.885); 3) in caso di sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato (manifestamente) irricevibile, inammissibile o improcedibile il ricorso, il Consiglio di Stato trattiene la causa per l’esame del merito e non la rinvia al giudice di primo grado (cfr., per l’erronea declaratoria di irricevibilità e inammissibilità, Cons. St., VI, 17 ottobre 1988, n.1152; id., 24 febbraio 1981, n.84; id., 30 settembre 1980, n.794; per l’erronea declaratoria di improcedibilità, cfr. Cons. St., V, 8 febbraio 1988, n.54), dal momento che, come statuito dall’Adunanza Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 7 luglio 1978, n.22; id, 4 luglio 1978, n.4; id, 30 giugno 1978, n.18), occorre interpretare restrittivamente le espressioni contenute nel primo comma dell’art.35 della legge n.1034 del 1971, circa le ipotesi di rinvio al primo giudice della controversia, dovendosi rimettere la causa al primo giudice “non ogni volta che la pregressa fase del processo abbia dato luogo ad una pronunzia diversa da quella di merito, ma solo quando sia mancata del tutto, per esplicita statuizione del giudice, la risoluzione della lite (art.353 c.p.c.), oppure quando il giudizio svolto in prime cure presenti vizi o lacune tali da comportare la nullità dell’intero procedimento o di una parte di esso o della sentenza (art.354 c.p.c.)”; 4) nel caso, infine, di sentenza del T.A.R. che abbia erroneamente dichiarato (manifestamente) fondato oppure (manifestamente) infondato il ricorso, è sufficiente che il soccombente si dolga dell’erroneità della sentenza di primo grado, chiedendo un nuovo giudizio di merito sulla controversia, perché l’intera materia del contendere si devolva al giudice di secondo grado (c.d. effetto devolutivo), naturalmente nei limiti di quei soli capi che abbiano formato oggetto di appello (tantum devolutum quantum appellatum), e così anche nei casi di carenza di motivazione, che non comportano annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ma sono semplicemente causa di integrazione della motivazione da parte del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., IV, 17 giugno 1980, n.662; id., 22 febbraio 1980, n.114; id., 17 novembre 1981, n.877) ed in quelli di mancata pronuncia del giudice di primo grado su determinate censure, che non integrano il vizio di procedura di cui all’art.35 L. n.1034/71, ma solo un difetto di motivazione, sul quale può provvedere il giudice di secondo grado in forza dell’effetto devolutivo dell’appello (cfr. Cons. St., IV, 23 novembre 1995, n.952; Cons. St., VI, 6 luglio 1988, n.921).

Quanto esposto in premessa consente, a ben vedere, di poter meglio esaminare le censure sollevate con riferimento ai presupposti della sentenza in forma semplificata; e, infatti, deve dirsi che: a) per quanto riguarda la completezza del contraddittorio - questione non dedotta dagli appellanti, ma rilevabile d’ufficio dal giudice di appello (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 28 ottobre 1980, n.41; Cons. St., VI, 5 marzo 1986, n.244) - nel giudizio di primo grado vi è stata valida costituzione del medesimo, essendo state ritualmente intimate le parti necessarie, vale a dire l’Amministrazione emanante e la società controinteressata; b) per quanto riguarda la mancanza dell’ulteriore presupposto della pronuncia in forma semplificata, costituito dalla manifesta fondatezza del ricorso, mancanza specificamente dedotta dall’appellante Comune di Venezia, deve dirsi essa può sicuramente essere vagliata in sede di esame del merito, attenendo alla fondatezza o meno del motivo accolto dal giudice di prime cure e censurato con l’appello; c) per quanto, infine, riguarda la carenza di motivazione - censura non formalmente dedotta, ma desumibile dal contenuto sostanziale degli appelli in esame - essa è infondata, in quanto la decisione impugnata appare conforme al dettato legislativo, secondo cui nella sentenza succintamente motivata “la motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo” (art.26 legge n.1034/71 cit., come integrato dall’art.9 legge n.205/2000 cit.), essendo nella specie la motivazione idonea ad esprimere il contenuto essenziale della decisione. Questione diversa, naturalmente, è quella della fondatezza o meno delle argomentazioni poste dal giudice di prime cure a sostegno della propria decisione, argomentazioni che sono state espressamente censurate dagli odierni appellanti attraverso specifici motivi di censura, questione che, costituendo il merito del presente gravame, si passa ora ad esaminare.

Prima di fare ciò, occorre, tuttavia, analizzare la censura con cui l’appellante Comune di Venezia rileva la inammissibilità, per tardività, dell’impugnazione delle presupposte norme urbanistiche comunali (artt.18, co. 7 e 22, comma 2, delle N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma).

Secondo il Comune la norma era immediatamente lesiva e, pertanto, essa andava impugnata immediatamente nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della delibera di approvazione.

La censura è priva di pregio.

Le N.T.A., infatti, sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo (cfr. Cons. St., IV, 13 agosto 1997, n.845; Cons. St., V, 29 aprile 1991, n.699; Cons. St., IV, 6 ottobre 1983, n.700).

Con altro ordine di censure l’appellante soc. S.i.ve.c.i.s.s. si duole dell’erronea valutazione relativa alla legittimazione con riferimento alla situazione della proprietà Dimitri, dal momento che la parete della “barchessa”, ricadente in tale proprietà, non sarebbe finestrata, presentando solo fori di luce e non vedute e che anche la parete del progettato edificio, antistante la predetta “barchessa”, sarebbe priva di finestre in parte qua, per cui, con riferimento a tale situazione, non sarebbe applicabile la disposizione dell’art.9 del D.M. n.1444/68, che prescrive la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; non potrebbero, infatti, estendersi “ai rapporti con la proprietà Dimitri le eventuali illegittimità relative ai rapporti con la proprietà Casadei-Visentini”.

Ritiene il Collegio che tale censura sia priva di pregio, in quanto la legittimazione del terzo al ricorso contro il titolo edilizio, che si assume illegittimo, è data dallo stabile collegamento tra lo stesso terzo ricorrente e la zona interessata dall’attività edilizia assentita con la concessione di costruzione impugnata.

Nella specie, tale stabile collegamento sussiste, in quanto il terreno di proprietà del Dimitri è confinante e si trova nella stessa via (Bissa) ove è ubicato quello interessato dall’intervento edilizio controverso.

Tanto premesso, appare opportuno sottolineare che nella specie non si tratta di una controversia tra privati in cui vengono in rilievo solamente le norme edilizie comunali che prescrivono l’osservanza di un determinato distacco delle costruzioni su fondi finitimi calcolato rispetto al confine anziché tra le costruzioni stesse, norme dettate a tutela dei reciproci diritti soggettivi dei singoli e, quindi, derogabili mediante convenzioni fra privati (che concretano veri e propri atti costitutivi di servitù: cfr. Cass. civ., 16 dicembre 1980, n.6512; Cass. civ., 30 marzo 1983, n.2331).

Nella specie, invece, si tratta dell’impugnazione di un provvedimento dell’autorità amministrativa (concessione edilizia) che ha autorizzato una costruzione in deroga alle norme di cui al D.M. 2 aprile 1968, n.1444, aventi carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica, norme che si riferiscono alla distanza fra fabbricati e non alla distanza di questi dal confine (cfr. Cass. civ., II, 16 febbraio 1996, n.1201).

Il D.M. 2 aprile 1968 cit., infatti, emanato in forza dell’art.17 della <<legge ponte>> trae da questa la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima (cfr. Cass. civ., SS.UU., 21 febbraio 1994, n.1645), essendo consentita alla P.A. solo la fissazione di distanze superiori (cfr. Cons. St., IV, 13 maggio 1992, n.511; Cass. civ., 29 ottobre 1994, n.8944; id., 21 febbraio 1994, n.1645; id. 4 febbraio 1998, n.1132); non può, pertanto, escludersi la legittimazione e l’interesse del privato confinante ad impugnare le norme dello strumento urbanistico comunale ed i conseguenti atti applicativi nel momento in cui in base ad essi sia prevista a favore del vicino costruttore una consistente deroga alla rigida osservanza delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/68 cit., nella specie attuata, come dedotto dagli appellati, tramite la demolizione di un edificio preesistente - una villetta - e la ricostruzione al suo posto di un fabbricato di sei piani fuoriterra ad una distanza inferiore ai dieci metri prescritti; la deroga, infatti, viene ritenuta ammissibile unicamente nei casi di demolizione e ricostruzione in forma fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), non potendosi ritenere sussistente in tal caso una nuova costruzione, ma solo il suo recupero, con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria (cfr. Cass. civ., 25 agosto 1989, n.3762).

Secondo gli appellanti, poi, il T.A.R. avrebbe errato sia nel considerare come assolutamente inderogabile la norma di cui all’art.9 del D.M. 2 aprile 1968 n.1444, sia nel qualificare la norma regolamentare impugnata (art.18, comma 7, N.T.A.) come avente carattere generale, anziché puntuale, ritenendola non riconducibile alla previsione di cui all’ultimo comma dell’art.23 della L.R. Veneto 27 giugno 1985 n.61.

Tali censure sono infondate.

Premesso che nella specie non è contestato né il carattere derogatorio della norma impugnata (art.18, comma 7, N.T.A. del P.R.G. di Venezia-Terraferma) rispetto alla disciplina di cui all’art.9 D.M. n.1444/68 cit., né il fatto che la concessione edilizia impugnata preveda una distanza tra fabbricati inferiore a quella di 10 mt. prescritta dall’art.9 cit., deve dirsi che, come sopra ricordato, il D.M. 2.4.1968 n.1444 che, in applicazione dell’art.41 quinquies della legge urbanistica (come modificato dall’art.17 della legge ponte 6 agosto 1967, n.765) detta i limiti di densità, altezza e distanza tra i fabbricati, all’art.9, comma 1, n.2, dispone che negli edifici ricadenti in zone territoriali diverse dalla zona A (e nella specie trattasi di zona B), è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, con prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali (cfr. Cass. civ., II, 7 giugno 1993, n.6360) e ciò indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (cfr. Cass. civ., II, 3 agosto 1999, n.8383; id., 18 febbraio 1997, n.1486; id., 6 maggio 1993, n.5226; id., 5 novembre 1992, n.12001).

L’art.22, comma 1, della L.R. Veneto n.61/85 prevede, poi, che “nella formazione, modificazione o revisione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, devono essere assicurati ai sensi del D.M. LL.PP. 2 aprile 1968, n.1444, in quanto non modificato dalla presente legge: …. 2) … distanze minime tra costruzioni … nelle diverse zone territoriali omogenee, nonché limiti di altezza degli edifici”.

Il successivo art.23, dopo aver premesso che “le distanze minime tra fabbricati sono quelle di cui all’art.9 del D.M. LL.PP. 2 aprile 1968, n.1444”, afferma che “minori distanze tra fabbricati e dalle strade sono ammesse nei casi di gruppi di edifici che formino oggetto di piani urbanistici attuativi planivolumetrici o per interventi puntuali disciplinati dal Piano Regolatore Generale”.

Ora, nella specie, escluso che si trattasse di un gruppo di edifici oggetto di un piano urbanistico attuativo planivolumetrico, l’intervento in questione non era certamente qualificabile come intervento puntuale disciplinato dal P.R.G., dal momento che la norma urbanistica impugnata in primo grado integrava una disposizione di carattere generale, ossia ammetteva una deroga alla disciplina delle distanze tra fabbricati di cui al D.M. n.1444/68 cit., consentendo di edificare rispettando unicamente la prescritta distanza dai confini, in tutti i casi in cui sussistessero nel lotto limitrofo costruzioni realizzate “in data antecedente all’approvazione delle presenti norme” in violazione della distanza dal confine.

E’ evidente, dunque, che la norma in questione era stata dettata per la generalità dei casi riguardanti i lotti con abitazioni limitrofe poste in violazione delle distanze dai confini e che, anche se si fondava su un’analisi accurata dello stato di fatto e su precise previsioni di sviluppo urbanistico, non disciplinava in maniera puntuale e specifica l’intervento de quo (ad esempio, tramite un’apposita “scheda” ex art.9, comma 2, punto 3 della L.R. Veneto n.61/85 cit.), ma si limitava a stabilire delle prescrizioni di carattere generale applicabili anche a tale intervento.

E, del resto, anche la normativa statale ha circondato di particolari cautele la possibilità di derogare al limite minimo dei dieci metri, ammettendo tale possibilità solo per “gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche” (cfr. art.9, u.c., D.M. n.1444/68 cit.), e, cioè, ammettendo la deroga alle distanze in oggetto solamente in presenza di prescrizioni attuative che garantiscano la salvaguardia degli interessi tutelati dalla previsione generale.

La norma di cui all’art.23, u.c., della L.R. Veneto n.61/85 cit. appare ispirata alla medesima ratio, nel senso che la possibilità di deroga da parte del P.R.G. implica non solo che esso sia accompagnato da “un’analisi precisamente riferita alle zone B e ad una consistenza di 22.626 edifici, parte dei quali potenzialmente interessati dall’applicazione della norma stessa”, ma che contenga una disciplina altrettanto dettagliata per gli specifici interventi da eseguire, in modo da assicurare che nei singoli casi, attraverso la deroga alla disciplina delle distanze unitamente a quella delle altezze, non vengano compromesse quelle esigenze di rispetto del decoro edilizio, dell’igiene e della salubrità che, invece, le norme di cui al D.M. n.1444/68 cit. tendono a garantire in quanto indispensabili per l’ordinato sviluppo del territorio.

Con altro motivo di gravame l’appellante soc. Si.ve.c.i.s.s. sostiene che le norme di cui al D.M. n.1444/68 non sarebbero direttamente applicabili nei rapporti tra privati e che la variante al P.R.G. di Venezia-Terraferma non sarebbe una variante generale; il Comune di Venezia, inoltre, sostiene l’inapplicabilità delle disposizioni di cui al D.M. n.1444/68 al caso di specie, in quanto tali disposizioni si applicano in sede di adozione di nuovi strumenti urbanistici o di revisione di quelli esistenti; secondo il Comune, nell’ipotesi di revisione degli strumenti urbanistici esistenti rientrerebbero le revisioni degli strumenti urbanistici che riguardino l’intero territorio comunale o che contengano una nuova disciplina complessiva di tutta una parte del territorio comunale, mentre nella specie si tratterebbe di una semplice variante di settore.

Le censure sono infondate.

Anzitutto, come si è detto sopra, nella specie non si tratta di una controversia tra privati, ma di una controversia avente ad oggetto l’impugnazione di una concessione edilizia e delle norme urbanistiche sul cui presupposto essa è stata rilasciata, per cui è evidente che l’illegittimità di tali norme presupposte non può non riverberarsi in via derivata sull’illegittimità del provvedimento applicativo.

Inoltre, il D.M. n.1444/68, emanato in base all’art.41-quinquies L. 17 agosto 1942, n.1150, nel testo modificato dall’art.17 L. 6 agosto 1967, n.765, con lo stabilire, all’art.9, comma 1 n.2), il distacco di m.10 tra fabbricati con pareti finestrate, vincola non solo i Comuni, tenuti ad adeguarsi a tale norma nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma è immediatamente operante nei confronti dei proprietari frontisti (cfr. Cass. civ., 13 aprile 1999, n.3624; Cass. civ., 11 giugno 1994, n.5702).

Dalla delibera della Giunta Regionale di approvazione (n.531 del 23 febbraio 1998) risulta, poi, che la variante in esame è stata adottata “come variante generale al p.r.g. vigente pur se non investe l’intero territorio comunale”.

E dall’esame delle N.T.A. si evince chiaramente che la variante medesima introduce una nuova disciplina complessiva per tutta una parte del territorio comunale (la terraferma veneziana).

Infine, occorre dire che, se è vero che l’applicazione dell’art.17 della legge n.765 del 1967 e della disposizione del D.M. n.1444 del 1968, secondo cui le costruzioni debbono osservare una distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, sono subordinate all’inesistenza di strumenti urbanistici anteriori contenenti norme sulle distanze (cfr. Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1994, n.9871), tuttavia gli strumenti urbanistici (e le relative revisioni) approvati successivamente all’entrata in vigore del citato decreto non possono contrastare con le direttive del decreto stesso (cfr. Cass. civ., II, 24 luglio 2001, n.10062).

Quanto sopra detto in ordine alle distanze tra costruzioni vale, analogamente, anche per le altezze.

E, infatti, scopo delle norme regolamentari concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo urbanistico dell’abitato (cfr. Cons. St., V, 20 ottobre 1962, n.767).

Ne consegue che correttamente il giudice di prime cure ha ritenuto illegittima la norma dell’art.22.3 delle N.T.A. del P.R.G. di Venezia Terraferma che, per la zona in questione prevede un’altezza massima degli edifici pari a m.19,50; tale norma, infatti, di generale applicazione, si pone in contrasto (a prescindere, cioè, dalla situazione di fatto) con l’art.8 del D.M. n.1444/68, che, nelle Z.T.O. B prevede che “l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti …”, in quanto consente, come è avvenuto nel caso in esame, di realizzare edifici la cui altezza (nella specie m.18,80) supera quella degli edifici preesistenti e circostanti (nella specie m.14,20), dovendosi in tale ultima locuzione (circostanti) ricomprendere non, come vorrebbero gli appellanti, gli edifici esistenti nella stessa zona (B2.1), ma solo quelli limitrofi.

Alla stregua delle suesposte argomentazioni gli appelli in esame devono, quindi, essere respinti, con conseguente assorbimento dei motivi riproposti dagli appellati in sede di memoria.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

            Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – definitivamente pronunciando sugli appelli di cui in epigrafe, previamente riuniti, li respinge.

 Spese compensate.

 Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

 Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 febbraio 2002, con l’intervento dei seguenti signori:

Gaetano TROTTA                       Presidente

Domenico LA MEDICA               Consigliere

Dedi M. RULLI                           Consigliere

Aldo SCOLA                              Consigliere

Nicola RUSSO                           Consigliere est.

 

M A S S I M E

1) Il D.M. n.1444/68, emanato in base all’art.41-quinquies L. 17 agosto 1942, n.1150, nel testo modificato dall’art.17 L. 6 agosto 1967, n.765, con lo stabilire, all’art.9, comma 1 n.2), il distacco di m.10 tra fabbricati con pareti finestrate, vincola non solo i Comuni, tenuti ad adeguarsi a tale norma nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma è immediatamente operante nei confronti dei proprietari frontisti (cfr. Cass. civ., 13 aprile 1999, n.3624; Cass. civ., 11 giugno 1994, n.5702).

2) La legittimazione del terzo al ricorso contro il titolo edilizio, che si assume illegittimo, è data dallo stabile collegamento tra lo stesso terzo ricorrente e la zona interessata dall’attività edilizia assentita con la concessione di costruzione impugnata.

3) Le norme tecniche di attuazione (N.T.A.), sono atti a contenuto generale, recanti prescrizioni a carattere normativo e programmatico, destinate a regolare la futura attività edilizia e, in quanto tali, non sono di per sé immediatamente lesive di posizioni giuridiche soggettive di singoli, per cui la loro impugnazione può avvenire soltanto unitamente all’impugnazione del provvedimento che ne costituisca la concreta applicazione e il termine per la proposizione del relativo ricorso decorre non dalla data di pubblicazione della norma di piano, bensì dalla piena conoscenza del provvedimento esecutivo (cfr. Cons. St., IV, 13 agosto 1997, n.845; Cons. St., V, 29 aprile 1991, n.699; Cons. St., IV, 6 ottobre 1983, n.700).

 

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