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Legislazione  giurisprudenza                                                      Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


 

 

Consiglio Stato, sez. IV, 12 novembre 2002, n. 6279.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

sul ricorso in appello n. 5284 del 2001 proposto dalla Regione Basilicata, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica, rappresentata e difesa dagli avv.ti Mirella Viggiani e Maria Carmela Santoro con domicilio eletto presso l’ufficio di rappresentanza della Regione Basilicata, in Roma, via Nizza n. 56;

contro

i sig.ri Antonio Brando, Giuseppe Brando, Maria Rosa Brando e Giovanni Brando, appellati ed appellanti incidentali, rappresentati e difesi dall’avv. Vito Vincenzo Zaccagnino e con lo stesso elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. Gabriele Pafundi, in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 14;

per l'annullamento e/o la riforma

della sentenza n. 179 del 21 marzo 2000 resa inter partes dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata sul ricorso di cui al R.G. n. 32 del 1997;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio degli appellati;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visto l’appello incidentale proposto dai fratelli Brando;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 18 dicembre 2001 il Consigliere Dedi Rulli; nessuno è comparso per la Regione appellante; udito l'avv. Pafundi per delega dell'avv. Zaccagnino;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

F A T T O

Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata i fratelli Brando impugnavano il provvedimento della Giunta regionale (delibera n. 5542 del 13 settembre 1997) con il quale era stato loro ingiunto il pagamento della somma di £. 25.000.000 a titolo di sanzione pecuniaria ex art. 15 della L. 29 giugno 1939 n. 1497 per opere abusive realizzate in area sottoposta a vincolo.

Il T.A.R. adito, dopo una disamina delle normativa di settore e dopo aver precisato la natura interpretativa dell’art. 2, comma 46, della legge n. 662 del 23 dicembre 1996 (e ritenuta quindi applicabile al giudizio in corso) ha accolto il ricorso, ritenendo fondati il secondo e parte del terzo dei motivi di illegittimità denunciati in ordine alla insussistenza di un danno ambientale che solo avrebbe potuto legittimare la sanzione applicata; dichiara, poi, inammissibile, per difetto di giurisdizione, la censura relativa alla intervenuta prescrizione ed infine infondato il quarto motivo con il quale si denunciava la illegittimità del provvedimento regionale per omessa indicazione dell’autorità e del termine per proporre ricorso.

La Regione Basilicata, con atto notificato il 5 maggio 2001, impugna in questa sede la predetta decisione chiedendone l’annullamento per “violazione ed erronea applicazione dell’art. 15 L. 1497/39, dell’art. 2, comma 46, L. 662/96” sul rilievo della natura sanzionatoria e non risarcitoria della misura applicata che prescinde, quindi, dalla concreta esistenza del danno ambientale avendo ad unico presupposto l’abuso commesso.

Per resistere al giudizio si sono costituiti i fratelli Brando i quali, con atto notificato il 3 luglio 2001, ribadiscono la correttezza delle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado in ordine alla necessaria sussistenza di un danno ambientale per l’applicazione della sanzione di cui al richiamato art. 15 della legge del 1934. Propongono, poi, appello incidentale per la parte in cui ha ritenuto inammissibile il primo motivo di gravame ed infondati parte degli altri e concludono per la reiezione dell’appello principale, l’accoglimento del ricorso incidentale e la conferma, in parte qua, della decisione impugnata.

D I R I T T O

1. La controversia portata all’esame del Collegio trova la sua soluzione nella esatta individuazione della natura della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1934 nella ipotesi della violazione delle norme di tutela ambientale ivi previste.

In proposito gli originari ricorrenti sostenevano in primo grado (e ribadiscono in questa sede) che alla detta sanzione deve riconoscersi natura risarcitoria così che, per la sua applicazione, non può prescindersi dalla esistenza e dalla valutazione del danno ambientale che gli abusi contestati hanno in ipotesi arrecato; nella specie, la mancanza di siffatto presupposto per espressa ammissione dell’Amministrazione regionale rende illegittima la misura sanzionatoria irrogata. Ed il Tribunale adito ha accolto il ricorso ritenendo fondate tali argomentazioni.

2. Il Collegio ritiene che le tesi argomentative del primo giudice per siffatto profilo non siano condivisibili atteso che un attento esame della specifica disciplina della materia conduce, come esattamente rilevato dalla Regione appellante, a conclusioni affatto diverse.

Preliminarmente giova precisare che, ai fini che qui interessano, non ha alcuna rilevanza il fatto che gli interessati abbiano ottenuto, successivamente, il necessario nulla-osta ambientale; ciò significa soltanto che le opere realizzate, ad avviso dell’Amministrazione, erano compatibili con il contesto paesaggistico, ma non esclude, come si vedrà, che possa farsi luogo alla irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dalla normativa stessa.

3. Nel merito il Collegio non ha motivo in subiecta materia per discostarsi dall'orientamento recentemente espresso da questo Consiglio ( tra le altre, cfr., Sez. VI°, decisione 2 giugno 2000 n. 3184, in questa Rassegna 2000, I, 1368), con il quale si è precisato che la sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939, nonostante il riferimento al termine « indennità », non costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno ambientale ma rappresenta una sanzione amministrativa applicabile sia nel caso di illeciti sostanziali, cioè il caso di compromissione dell'integrità paesaggistica, sia nella ipotesi di illeciti formali, quale è da ritenersi, con riguardo al caso di specie, il caso di violazione dell'obbligo di conseguire l'autorizzazione preventiva a fronte di intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto di protezione. Ed infatti prendendo le mosse dal tenore letterale dell'art. 15, si è osservato che la norma in commento non distingue dunque tra violazioni sostanziali, cioè produttive di un concreto ed effettivo danno ambientale, e violazioni meramente formali, consistenti cioè nella mera inosservanza di obblighi o ordini, senza produzione di un danno ambientale. In sostanza, la previsione della misura dell'indennità pecuniaria per qualsivoglia tipo di violazione, sia sostanziale che formale, e dunque la funzione deterrente, oltre che ripristinatoria, della misura medesima, costituisce un primo indice della natura sanzionatoria e non risarcitoria della indennità in questione.

Siffatte conclusioni trovano conferma anche se si tiene presente il criterio legislativo di commisurazione della stessa. Secondo l'art. 15, l'indennità è pari “alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione". Il concetto di "danno arrecato" viene in rilievo, nella norma, solo al fine della quantificazione della sanzione, e dunque in sede del quantum debeatur e non dell’ an. Detto indice, inoltre, non è criterio esclusivo di commisurazione della indennità, essendo alternativo al profitto conseguito dalla violazione.

Ne consegue che in ipotesi di realizzazione di un'opera senza la prescritta autorizzazione paesistica, ove la stessa sia in concreto conforme alle prescrizioni ambientali, e dunque non sia produttiva di danno alcuno, l'indennità verrà commisurata al profitto conseguito dall'abuso sicchè sarà dovuta anche in mancanza di un danno ambientale, e commisurata al diverso criterio del profitto.

In sintesi, l'alternatività del criterio del danno rispetto al criterio del profitto, quale parametro di commisurazione della sanzione, denota che l'indennità è dovuta anche in mancanza di danno, e in tal caso sarà quantificata in relazione al profitto: di talché non può non concludersi che il danno ambientale, nella logica dell'art. 15 legge n. 1497 del 1939, non è l'oggetto della tutela, ma solo il criterio di commisurazione della sanzione pecuniaria.

D'altro canto, l'ordinamento appresta un diverso, specifico strumento per il risarcimento del danno ambientale: ed è l'azione di risarcimento del danno di cui all'art. 18 L. 8 luglio 1986 n. 349 » (conf. Cass., Sez. un. , 10 agosto 1996 n. 7403; Cass., Sez. un. , 18 maggio 1995 n. 5473; Cons. Stato, V Sez., 21 novembre 1985 n. 419; Cons. Stato, II Sez., 29 ottobre 1997 n. 2065; Cons. Stato, II Sez., 29 ottobre 1997 n. 2066; 4 giugno 1997 n. 2479/1996, in questa Rassegna 1997, II, 32; 1995, II, 1975; 1985, I, 1443).

Le considerazioni svolte nella decisione appena ricordata con riguardo alla disciplina originaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 risultano confermate (ancorchè non applicabile ratione temporis), e per certi versi rafforzate, dalla nuova disciplina dettata dall'art. 164 del D.Lg.vo 29 ottobre 1999 n. 490, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali ed ambientali che così dispone: “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti da questo Titolo, il trasgressore è tenuto, secondo che la Regione ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione dei beni indicati nell'art. 138, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata mediante perizia di stima ».

La nuova formulazione, sostitutiva dell'art. 15 della normativa del 1939, conferma gli indici dai quali si è ricavata la caratterizzazione sanzionatoria e non riparatoria della fattispecie (mancata specificazione del riferimento ad illeciti sostanziali, quantificazione dell'importo in relazione al profitto oltre che al danno); in più, avendo riguardo al semplice pagamento di una somma di denaro, la norma è spogliata dal riferimento al termine « indennità », che si è visto essere argomento, peraltro non decisivo, a conforto della matrice necessariamente sostanziale degli illeciti considerati.

Si è poi altresì concluso nel senso della applicabilità della sanzione anche in caso di condono edilizio di opere abusive che ricadono in zone paesaggisticamente vincolate, e per le quali l'Autorità preposta alla tutela del vincolo abbia espresso, ai sensi del citato art. 32 della legge n. 47 del 1985, parere favorevole alla condonabilità dell'abuso. L'assunto non è smentito dall'art. 2 comma 46 L. 23 dicembre 1996 n. 662, e successive modificazioni (richiamato nella decisione impugnata) a norma del quale: “Per le opere eseguite in aree sottoposte al vincolo di cui alla L. 29 giugno 1939 n. 1497, e al D.L. 27 giugno 1985 n. 312, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 1985 n. 431, il versamento dell'oblazione non esime dall'applicazione dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 15 della citata legge n. 1497 del 1939. Allo scopo di rendere celermente applicabile la disposizione di cui al presente comma ai soli fini del condono edilizio, con decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono determinati parametri e modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria prevista dall'art. 15 della L. 29 giugno 1939 n. 1497, con riferimento alle singole tipologie di abuso ed alle zone territoriali oggetto del vincolo".

L'art. 2 comma 46 L. n. 662 del 1996, chiarisce, infatti, ancora che la inapplicabilità, a seguito del condono edilizio, delle sanzioni amministrative, sancita in termini generali dall'art. 38 legge n. 47 del 1985, non si estende alle sanzioni in materia paesistica di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939, anche se l'abuso edilizio sia stato ritenuto condonabile dall'Autorità preposta alla tutela del vincolo.

La disposizione appena richiamata non va dunque intesa nel senso che la indennità di cui all'art. 15 legge n. 662 del 1996, è una forma di risarcimento del danno e non una sanzione amministrativa, ma nel senso che si tratta di una sanzione amministrativa che rimane applicabile nonostante il concesso condono edilizio.

Facendo applicazione al caso di che trattasi delle coordinate ermeneutiche appena indicate con riferimento al condono di cui all'art. 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985, si deve ritenere che, diversamente da quanto opinato dal primo giudice con la decisione di appellata, la sanzione pecuniaria amministrativa di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939 prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale. Ne consegue altresi che la verifica postuma di compatibilità ambientale e la conseguente favorevole definizione del procedimento di cui all'art. 13 della legge n. 47 del 1985, non ne escludono l'applicabilità; al contrario si può dire che in presenza di una valutazione in tal senso l'Amministrazione avrà il potere dovere di applicare la sanzione pecuniaria, rimanendo preclusa ovviamente, alla stregua di un elementare principio di non contraddizione, la possibilità di applicare la misura della demolizione e residuando il solo problema della quantificazione dell'importo alla luce dei criteri cristallizzati dall'art. 15.

La esposta soluzione garantisce appieno l'autonomia dei procedimenti di cui trattasi ed il rispetto della disciplina di cui alla legge n. 1497 del 1939 che, in relazione alle opere costruite abusivamente, impone l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 15 (Cons. Stato, VI Sez., n. 421/2000, cit.).

Ed il sistema non è in sé contraddittorio, perché se da un lato consente la sanatoria di abusi edilizi in zone protette, qualora compatibili con l'ambiente, dall'altro lato il condono edilizio riguarda, appunto e soltanto, gli abusi edilizi, e non quelli paesistici.

L'illecito paesistico che sia compatibile con l'ambiente, se consente la sanatoria dell'abuso edilizio, non viene in altri termini sanato integralmente dalla sanatoria edilizia, e deve perciò trovare sanzione con le misure di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939, e, segnatamente, con il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria.

4. Così definita la questione di merito prospettata con l’appello principale può passarsi all’esame dell’appello incidentale proposto dagli originari ricorrenti avverso quella parte della decisione impugnata che ha ritenuto infondate le altre censure di illegittimità pure sollevate.

Le doglianze stesse appaiono al Collegio tutte infondate.

a) Quanto al primo motivo prospettato con l’appello incidentale con il quale si ribadisce l’intervenuta prescrizione del credito vantato dall’Amministrazione e derivante dalla sanzione pecuniaria irrogata, ritiene il Collegio che la inammissibilità della specifica censura dichiarata dal giudice di primo grado sia da confermare atteso che, come è stato correttamente rilevato, nella specie non era in discussione la scelta discrezionale dell’Amministrazione in ordine alla scelta della sanzione da applicare, bensì la successiva fase di riscossione del credito a fronte della quale la posizione del privato, destinatario del provvedimento sanzionatorio, è posizione di diritto soggettivo. E la stessa decisione delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 94 del 4 aprile 2000) richiamata dagli appellanti incidentali a sostegno della doglianza, ribadisce quanto appena precisato quando afferma che “la controversia rivolta a contestare la validità e l’efficacia del provvedimento applicativo della sanzione pecuniaria è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo” atteso

che, in questa fattispecie, veniva in rilievo il precedente momento di scelta delle misure sanzionatorie alternative previste dall’ordinamento mentre, nella fattispecie in esame, la censura investe il successivo momento di esecuzione della sanzione già scelta.

Per mera completezza, comunque, il Collegio ricorda come l'esercizio del potere sanzionatorio amministrativo, in particolare in materia urbanistico edilizia e di tutela del paesaggio, non è soggetto a prescrizione o decadenza, per cui l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.

b) Appare, infine, irrituale e solamente ipotetica (e quindi inammissibile) la denunciata violazione dell’art. 3, comma 4, della L. n. 241 del 7 agosto 1990 perché l’eventuale rimessione in termini, conseguente alla detta violazione, potrà essere esaminata, ove necessario, dal giudice competente a conoscere della controversia, atteso che la valutazione della scusabilità dell'errore in cui è incorso il soggetto nell'adire un giudice non competente e l’ accertamento circa la sussistenza delle condizioni per la sua rimessione in termini non spettano al giudice irritualmente adito ma a quello al quale l'interessato

avrebbe dovuto rivolgersi nei termini decadenziali fissati dalla legge.

5. Dalle considerazioni che precedono consegue l’accoglimento dell’appello della Regione Basilicata, la reiezione dell’appello incidentale e l’annullamento della decisione impugnata secondo le considerazioni di cui in motivazione.

Le spese e gli onorari dei due gradi di giudizio, che si liquidano in dispositivo, seguono, come di regola, la soccombenza.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunciando, in ordine al ricorso indicato in epigrafe così dispone:

- accoglie l’appello principale;

- respinge l’appello incidentale, con annullamento della statuizione impugnata e reiezione del ricorso di primo grado;

- condanna la parte appellata al rimborso, a favore dell’Amministrazione regionale, delle spese e degli onorari dei due gradi di giudizio che liquida in complessivi 3.000 (tremila) Euro.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio del 18 e 20

dicembre 2001 con l'intervento dei signori:

Gaetano Trotta Presidente

Raffaele De Lipsis Consigliere

Cesare Lamberti Consigliere

Dedi Rulli Consigliere est.

Ermanno De Francisco Consigliere

 

M A S S I M E

1)  Vincoli paesaggistici - art. 164 del D.Lg.vo 29 ottobre 1999 n. 490 - quantificazione della sanzione - danno arrecato e profitto conseguito mediante la commessa trasgressione - realizzazione di un'opera senza la prescritta autorizzazione paesistica, ove la stessa sia in concreto conforme alle prescrizioni ambientali - l'alternatività del criterio del danno. Secondo l'art. 15, legge n. 1497 del 1939, l'indennità è pari “alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione". Il concetto di "danno arrecato" viene in rilievo, nella norma, solo al fine della quantificazione della sanzione, e dunque in sede del quantum debeatur e non dell’ an. Detto indice, inoltre, non è criterio esclusivo di commisurazione della indennità, essendo alternativo al profitto conseguito dalla violazione. Ne consegue che in ipotesi di realizzazione di un'opera senza la prescritta autorizzazione paesistica, ove la stessa sia in concreto conforme alle prescrizioni ambientali, e dunque non sia produttiva di danno alcuno, l'indennità verrà commisurata al profitto conseguito dall'abuso sicchè sarà dovuta anche in mancanza di un danno ambientale, e commisurata al diverso criterio del profitto. In sintesi, l'alternatività del criterio del danno rispetto al criterio del profitto, quale parametro di commisurazione della sanzione, denota che l'indennità è dovuta anche in mancanza di danno, e in tal caso sarà quantificata in relazione al profitto: di talché non può non concludersi che il danno ambientale, nella logica dell'art. 15 legge n. 1497 del 1939, non è l'oggetto della tutela, ma solo il criterio di commisurazione della sanzione pecuniaria. D'altro canto, l'ordinamento appresta un diverso, specifico strumento per il risarcimento del danno ambientale: ed è l'azione di risarcimento del danno di cui all'art. 18 L. 8 luglio 1986 n. 349 » (conf. Cass., Sez. un. , 10 agosto 1996 n. 7403; Cass., Sez. un. , 18 maggio 1995 n. 5473; Cons. Stato, V Sez., 21 novembre 1985 n. 419; Cons. Stato, II Sez., 29 ottobre 1997 n. 2065; Cons. Stato, II Sez., 29 ottobre 1997 n. 2066; 4 giugno 1997 n. 2479/1996, in questa Rassegna 1997, II, 32; 1995, II, 1975; 1985, I, 1443). Le considerazioni svolte nella decisione appena ricordata con riguardo alla disciplina originaria di cui all'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 risultano confermate (ancorchè non applicabile ratione temporis), e per certi versi rafforzate, dalla nuova disciplina dettata dall'art. 164 del D.Lg.vo 29 ottobre 1999 n. 490, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di beni culturali ed ambientali che così dispone: “In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti da questo Titolo, il trasgressore è tenuto, secondo che la Regione ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione dei beni indicati nell'art. 138, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata mediante perizia di stima ». Consiglio di Stato Sezione IV, 12 novembre 2002 n. 6279

2) L'illecito paesistico che sia compatibile con l'ambiente, se consente la sanatoria dell'abuso edilizio, non viene in altri termini sanato integralmente dalla sanatoria edilizia. L'illecito paesistico che sia compatibile con l'ambiente, se consente la sanatoria dell'abuso edilizio, non viene in altri termini sanato integralmente dalla sanatoria edilizia, e deve perciò trovare sanzione con le misure di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939, (ora art. 164 del D.Lg.vo 29 ottobre 1999 n. 490) e, segnatamente, con il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria. Consiglio di Stato Sezione IV, 12 novembre 2002 n. 6279

 

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